Per
Via
Cabrera
si
arriva
in
piazza
Duomo,
di
forma
irregolare
e
in
leggera
pendenza,
dominata,
nella
parte
alta,
dalla
splendida
chiesa
di
San
Giorgio,
opera
fra
le
più
insigni
del
barocco
siciliano.
La
piazza,
ravvivata
da
palme
che
le
danno
un
esotico
tocco
di
colore,
è
circondata
da
palazzi
neoclassici
e
barocchi,
fra
i
quali
spicca
lo
spettacolare
palazzo
Arezzi
con
un
magnifico
arco
sotto
il
quale
passa
la
strada.
All'indomani
del
terremoto,
tra
i
morti
e
le
rovine,
Ibla
piangeva
il
crollo
del
Duomo
di
San
Giorgio,
meraviglioso
tempio
dedicato
al
Santo
cavaliere,
fatto
erigere
dalla
potente
famiglia Chiaramonte a
partire
dal
XIV
secolo.
Anche
se
la
vecchia
chiesa
non
era
crollata
completamente,
si
decise,
per
onorare
il
Santo,
di
edificare
la
nuova
chiesa
in
un'area
al
centro
della
città,
là
dove
c'era San
Nicola.
La
costruzione
della
nuova
chiesa
fu
ritardata
dalle contese fra
i
"Sangiovannari"
e
i
"Sangiorgiari".
Dopo
il
terremoto
i
"Sangiovannari"
avevano
deciso
di
abbandonare
Ibla,
fondare
una
nuova
città
al
Patro
ed
ivi
costruire
una
nuova
chiesa
per
il
loro
Patrono, San
Giovanni
Battista.
La
divisione
della
città
fu
ufficialmente
chiesta
al
Conte
Giovanni
Tommaso
Enriquez
Cabrera
che
la
concesse
nel
1695;
ma
nel
1703,
poiché
si
era
ribellata
a
Filippo
V
di
Borbone,
il
Conte
fu
condannato
a
morte
e
i
suoi
beni,
compresa
la
Contea
di
Modica,
furono
incorporati
al
Regio
Fisco.
I
nobili
di
Ibla
colsero
questa
favorevole
occasione
e
chiesero
al
re
la
revoca
del
decreto
di
divisione
della
città.
Dopo
questi
avvenimenti
in
un
primo
momento,
come
è
attestato
da
un
documento
stilato
dal
Notaio
Francalanza
il
25
marzo
1705,
si
tentò
una
conciliazione
fra
i
due
partiti:
costruire
una
nuova
chiesa
al
centro
del
paese
dedicata
ad
ambedue
i
Santi,
ognuno
con
la
propria
cappella.
Il
tentativo
fallì
e
i
Sangiovannari
ripresero
la
strada
del
Patro.
Quando
i
nobili
di
Ibla
si
resero
conto
che
i
lavori
per
la
nuova
chiesa
di
San
Giovanni
procedevano
alacremente,
per
recuperare
il
tempo
perduto
e
far
sì
che
la
chiesa
di
San
Giorgio
sorgesse
più
magnifica
di
quella
dei
rivali,
si
rivolsero
al
massimo
esponente
dell'architettura
siciliana
del
tempo,
Rosario
Gagliardi.
(Il
progetto
in
originale,
datato
27
settembre
1744
ed
acquistato
dal
parroco
del
tempo
Don
Filippo
Giampiccolo
ora
si
conserva
in
sagrestia).

Il
duomo
di
San
Giorgio,
uno
dei
gioielli
barocchi,
non
solo
di
Ibla,
ma
di
tutta
la
Sicilia,
si
può
ammirare
nella
parte
alta
dell'omonima
piazza.
Questo
stupendo
tempio
ha
l'asse
prospettico
divergente
rispetto
alla
direttrice
della
piazza
e
ciò
gli
conferisce
un
aspetto
scenografico
mirabile,
permettendo
di
vedere
dalla
parte
opposta
della
piazza
anche
la
cupola.
L'effetto
visivo
è
reso
ancor
più
suggestivo
dall' alta
gradinata (54
gradini),
anch'essa
divergente
rispetto
alla
piazza
e
in
linea
con
la
chiesa,
e
soprattutto,
dalla
spinta
ascensionale
del
corpo
centrale,
che
culmina
nella cella
campanaria che
svettando
in
alto,
conferisce
all'insieme
uno
slancio
quasi
inusitato
nelle
chiese
barocche.
Il
duomo
è
stato
edificato
sulla
preesistente
chiesa
di San
Nicola ,
dopo
il
terremoto
del
1693,
su
progetto
di
Rosario
Gagliardi,
architetto
siciliano
nativo
di
Siracusa
e
attivo
a
Noto.
Fu
lui
che
in
questo
lembo
di
Sicilia
(Val
di
Noto)
portò
fra
i
primi
le
nove
soluzioni
barocche
del
Bernini
e
del
Borromini
e,
adattandole
e
trasformandole,
le
ha
lasciate
come
traccia
indelebile
in
parecchi
monumenti
a
Ragusa
e
in
provincia
di
Siracusa.
I
lavori
iniziarono
nel
1744
e
furono
completati,
ad
esclusione
della
cupola,
nel
1775.
L'inaugurazione
avvenne
il
30
aprile
1767.
La
neoclassica cupola alta
43
metri
e
sostenuta
da
sedici
colonne
binate,
fu
portata
a
termine
nel
1820
dal
capomastro
Carmelo
Cutraro.
La
facciata
è
suddivisa
in
tre
ordini
con
la
sezione
centrale,
leggermente
convessa,
separata
dalle
altre
due
laterali
da
due
gruppi
di
tre
colonne
ciascuno.
Molto
ricchi
i
portali,
specie
quello
centrale,
con
festoni
e
scudo
araldico
sostenuto
da
putti.
La
facciata
è
completata
da
bellissime
statue
e
dalle
ante
del
probabile
portone
dell'antica
chiesa,
scampato
al
terremoto,
con
sculture
in
legno
rappresentanti
i
martiri
sofferti
da
S.
Giorgio.

La
cupola
neoclassica,
alta
43
m.,
è
sostenuta
da
16
colonne
binate
e
fu
realizzata
dal
capomastro
Carmelo
Cutraro
nel
1820.
Tutta
la
scalinata
è
circondata
da
una
ornatissima
cancellata,
opera
di
Angelo
Paradiso
di
Acireale.
Il
portone
centrale,
recuperato
dall'antica
chiesa,
ha
sei
formelle
in
legno
scolpito,
rappresentanti
il
martirio
di
San
Giorgio
(poiché
è
protetto
da
controporte,
si
può
ammirare
solo
nelle
principali
solennità).
Tutta
la
scalinata
è
circondata
da
una
ornatissima
cancellata
di
Angelo
Paradiso
di
Acireale
installata
tra
il
1889
e
il
1894.
L'interno
del
Duomo,
a
tre
navate
e
su
pilastri
culminanti
con
capitelli
corinzi,
ha
una
profonda
abside
e
vetrate
istoriate
nel
1926
su
disegni
di
Elena
Panigatti
e
rappresentanti
i
martiri
di
S.
Giorgio.
Nelle
navate
laterali
si
aprono
cappelle
decorate
con
pregevoli
tele.
Nella
navata
sinistra,
presso
il
transetto,
si
trova
murata
la
lapide
del
conte
Cabrerà,
trasportata
qui
dall'antica
chiesa.
Nella
sagrestia
è
da
ammirare
una
grandiosa
e
antica
pala
d'altare
in
pietra
locale
con
le
statue
di
S.
Giorgio,
S.
Ippolito
e
S.
Mercurio
vestiti
da
guerrieri
(scuola
gaginiana).
Nelle
navate
laterali
si
aprono
decorate
cappelle
(tredici)
con
pregevoli
tele:
nella
navata
destra
si
possono
ammirare
quella
del
"Riposo
in
Egitto"
dipinta
da
Dario
Guerci
nel
1864
e
quella
della
"Immacolata"
di
Vito
D'Anna.
A
seguire,
nella
nicchia
sovrastante
l'ingresso
laterale
sinistro,
vi
è
il
simulacro
di
San
Giorgio
che
uccide
il
drago,
opera
del
Banasco
del
1878.
Nella
navata
sinistra
si
può
ammirare
la
tela
dell'"Angelo
custode",
mentre
nella
nicchia
sovrastante
l'ingresso
laterale
si
vede
la
"Santa
Cassa",
un'urna
reliquario
in
argento
che
viene
portata
in
processione
durante
i
festeggiamenti
del
patrono.
Infine
nel
transetto
sinistro
si
può
ammirare
il
quadro
di
Dario
Guerci
del
1866,
raffigurante
San
Giorgio
nell'atto
di
uccidere
il
drago.
Altre
opere
degne
di
nota
sono
le lapide del
conte
Bernardo
Cabrera,
che
governò
Ragusa
dal
1392
al
1419,
trasportata
qui
dall'antica
chiesa,
e
il
magnifico
organo
dei
fratelli
Serassi,
fra
i
più
completi
e
magnifici
della
Sicilia.
Detto
organo
allocato
in
una
cantoria
con
una
artistica
cassa
di
risonanza
con
facciata
a
tre
campate
e
23
canne;
ha
tre
tastiere
da
61
tasti
(in
osso
ed
ebano),
registri
a
manette
e
registri
a
pomello
oltre
a
20
pedali.
Nella
sagrestia,
nella
quale
si
conservano
i
disegni
originali
del
Duomo
di
Gagliardi,
è
da
ammirare
una
grandiosa
e
antica pala
d'altare in
calcare
locale
di
scuola
gaginiana,
con
le
statue
di
San
Giorgio,
Sant'Ippolito
e
San
Mercurio,
con
vesti
di
guerrieri
e
con
un
piede
su
un
capo
reciso
e
vari
rilievi
su
basamento.
La
chiesa
possiede
inoltre
un
ricco
tesoro
composto
da
paramenti
sacri,
oggetti
in
oro
e
argento,
smalti
policromi
e
busti
di
santi
in
argento.
La
chiesa
possiede,
inoltre,
un
ricco
tesoro
composto
da
paramenti
sacri,
oggetti
in
oro
e
argento,
un
bellissimo
ostensorio
in
oro
e
smalti
policromi
e
la
"Santa
Cassa",
un'arca-reliquario
in
argento.

Vicino
all'abside
del
Duomo,
oltre
le
poderose
strutture
della
chiesa,
si
può
ammirare
l'armonioso
palazzo
barocco
della
famiglia
La
Rocca,
oggi
occupato
dagli
uffici
dell'Azienda
Provinciale
del
Turismo.
Il
palazzo
è
in
ottimo
stato
di
conservazione
e
presenta
modesti
rimaneggiamenti;
un
buon
restauro
lo
rende
pienamente
rispondente
alle
funzioni
a
cui
oggi
è
chiamato.
Sembra
che
le
fondamenta
del
muro
nord
siano
poggiate
sui
resti
di
parte
della
cinta
muraria
del
castello.
L'edificio
nell'impostazione
attuale
è
certamente
post
terremoto;
la
vecchia
base
si
può
vedere
al
di
sotto
dell'androne,
dove
si
notano
tre
porte
con
arco
a
sesto
acuto,
una
ad
Est
e
due
a
Nord.
Di
pianta
rettangolare,
ma
irregolare,
spicca
per
l'importante
e
lunga
facciata
barocca
delimitata
nella
parte
centrale
è
delimitata
da
due
paraste
ed
in
alto
da
un
cornicione
continuo.
Questa
zona
contiene
il
portone
principale
d'accesso
e
ben
quattro
balconi
degli
otto
presenti
in
prospetto;
questi
sono
sorretti
da
mensoloni
con
altorilievi
raffiguranti
diversi
temi.
Ogni
balcone
ha
così
preso
un
nome
a
secondo
del
tema
sviluppato:
procedendo
dal
Duomo
c'è
prima
il
balcone
dei
Cherubini,
poi
quello
del
Telamone,
degli
Amorini,
della
Fantesca,
del
Suonatore
di
mandola
e
del
Suonatore
di
flauto,
l'ultimo
è
quello
del
Cavaliere.
Proprio
i
personaggi
di
quest'ultimo
balcone
sono
lo
specchio
del
loro
tempo:
il
Cavaliere
è
attorniato
da
diversi
personaggi,
a
sinistra
un
uomo
mascherato
(forse
un
suo
sgherro)
e
a
destra
un
occhialuto
volto
ghignante,
che
rappresenta
l'astuzia;
sopra
un
grosso
uomo
baffuto
con
folta
capigliatura
pronto
a
tirar
di
spada
a
cui
si
affiancano
due
facchini
(uno
carica
un
barilotto,
l'altro
porta
in
una
mano
un'ampolla
e
nell'altra
mano
un
ombrello).
Tornando
indietro,
nel
secondo
e
nel
terzo
balcone
sono
rappresentati
alcuni
suonatori
di
mandola
e
di
flauto
che
ci
ricordano
come
a
quel
tempo
la
musica,
il
bel
canto
e
le
feste
occupassero
un
posto
primario
nella
società
gentilizia.
Il
quarto
balcone
è
una
vera
foto
in
pietra:
una
donna
si
prende
cura
di
un
bambino.
Espressivi
i
volti
del
bimbo
e
della
fantesca,
ricco
e
sapiente
il
panneggio;
proprio
per
la
cura
del
particolare
sembra
un
fotogramma
che
abbia
fissato,
grazie
alle
sapienti
mani
dello
scalpellino,
un
momento
di
vita.
Chiudono
la
delicata
scena
due
mascheroni
dalla
gioiosa
espressione.
Segue
il
balcone
sopra
il
portone
d'ingresso
all'A.P.T.,
molto
semplice
e
ornato
solo
da
una
conchiglia
centrale
e
da
motivi
foliacei.
Segue
il
sesto,
il
balcone
degli
Amorini;
tre
coppie
di
puttini
legati
in
un
tenero
abbraccio
evidente
espressione
di
ingenua
innocenza
infantile.
Il
settimo
balcone
ha
un
telamone
dalla
fronte
corrucciata
nello
spasimo
dello
sforzo
tanto
che
sembra
sostenga
veramente
il
peso
del
balcone.
Nell'ultimo
balcone,
verso
il
Duomo,
sono
rappresentati
angeli
in
tenere
espressioni.
Due
i
livelli
abitabili
anche
se
presenta
il
sottotetto
ed
un
piano
interrato.
Si
accede
al
piano
superiore
da
una
notevole
scalinata
principale
a
due
rampe
rigorosamente
in
pietra
pece
e
da
una
secondaria
ad
una
sola
rampa.
L'edificio,
dalla
semplice
struttura
di
muratura
calcarea
in
conci
squadrati
legati
da
malta
e
intonacato
ha
la
tradizionale
copertura
a
falde
ricoperte
da
coppi
siciliani.
All'interno
le
volte
sono
a
botte,
di
canne
e
gesso
ed
in
conci
di
calcare
mentre
i
pavimenti
sono
in
buona
parte
di
pece
e
pietra
calcarea
ragusana,
ma
in
parte
anche
di
ceramica
di
Caltagirone
del
XVIII
secolo
e
di
scuola
napoletana
(in
formelle
gialle
con
contorno
verde).
Le
pareti
presentano
stucchi
e
affreschi,
le
porte
sono
dipinte
e
dorate
in
stile
Pompeiano.
Negli
interni,
di
gusto
neoclassico,
spiccano
un
imponente
lampadario
in
vetro
di
Murano,
mobili
e
suppellettili
residue
del
XVII
secolo
per
i
saloni
di
rappresentanza;
gli
arredi
degli
uffici
A.P.T.
sono
moderni.
Conserva
integro
lo
stemma
nobiliare.
I
livelli
sotto
il
piano
stradale,
nella
parte
posteriore
del
palazzo,
danno
su
un
ampio
cortile.
Ritornati
in
piazza
Duomo,
si
notano,
alla
sua
estremità
più
bassa,
una
bella
fontana
e,
di
fronte,
il
neoclassico
Circolo
di
Conversazione,
fatto
costruire
in
stile
neoclassico
nella
prima
metà
del
secolo
scorso
affinché
i
nobili
ragusani
vi
potessero
conversare
e
trascorrere
il
tempo,
lontani
e
isolati
dalla
gente
comune.
All'interno
si
conserva
ancora
il
documento
con
i
nomi
dei
soci
fondatori
e
i
relativi
contributi
in
"onze";
fra
i
nomi
quelli
del
barone
Francesco
Arezzo
di
Donnafugata,
del
cavaliere
Giuseppe
Arezzi,
di
Pasquale
Di
Quattro,
del
barone
Carmelo
Arezzo
di
Trefiletti,
di
Vincenzo
Arestia
La
Rocca.
Il
prospetto
di
tipo
neoclassico,
ad
un
piano,
si
presenta
con
tre
entrate
divise
da
sei
paraste
scanalate
e
con
capitelli
in
stile
dorico
sormontati
da
un
cornicione
con
triglifi
e
da
tre
bassorilievi
rappresentanti
ai
lati
delle
sfingi
alate
e
al
centro
due
donne
alate
che
reggono
una
lampada.
In
alto
sul
cornicione
svetta
una
bella
scultura
rappresentante
in
un
ovale
l'aquila
ragusana
circondata
da
festoni
di
fiori
e
da
due
leoni
con
facce
umane
e
baffi:
sotto
la
scritta
"Circolo
di
Conversazione".
Davanti
al
prospetto
c'è
un
ballatoio
per
il
passeggio
dei
soci.
L'interno
costruito
da
sette
sale,
ancora
in
pieno
stile
ottocentesco,
conserva
la
tipica
atmosfera
ovattata
grazie
agli
arredi
originali.
Nella
Sala
di
conversazione
lunghi
divani
alle
pareti,
sormontati
da
grandi
specchiere
con
ricche
cornici
dorate,
mentre
al
centro
pende
un
lampadario
in
rame
rappresentante
una
pianta
di
zucca.
Il
soffitto,
realizzato
a
tempera
dal
ragusano
Tino
del
Campo,
recentemente
restaurata
nel
1955
dal
Flaccavento,
rappresenta
le
allegorie
delle
arti
e
delle
scienze
che
sgombrano
il
cielo
dalle
nubi
dell'ignoranza.
Nelle
figure
degli
angoli
sono
rappresentati
i
mezzi
busti
di
Galileo,
Dante,
Bellini
e
Michelangelo.
Le
altre
sale
sono
riservate
al
gioco
e
la
lettura;
per
il
relax
c'è
un
giardinetto
interno
con
palme
e
fiori.

Subito
dopo
si
erge
palazzo
Donnafugata
una
massiccia
costruzione
scandita
in
basso
da
umili
portoni.
Il
palazzo,
semplice
ma
al
contempo
magnifico,
non
poteva
altro
che
essere
di
proprietà
di
una
delle
più
prestigiose
famiglie
di
Ibla,
una
famiglia
dalle
antiche
tradizioni
e
dalle
nobili
origini,
gli
Arezzo
De
Spuches
baroni
di
Donnafugata,
località
dove
sorge
il
castello
di
loro
proprietà.
L'immenso
complesso,
che
si
estende
compreso
fra
la
via
XX
Aprile
e
le
vie
Pietro
Novelli
ed
Orfanotrofio,
e
racchiude
un'ampio
giardino
all'italiana
nasce
sul
finire
del
settecento
da
preesistenze
rase
al
suolo
dal
terremoto
del
1693,
ma
l'assetto
definitivo
è
della
prima
metà
dello
scorso
secolo
ad
opera
del
barone
Francesco,
padre
di
Corrado.
L'edificio
rientra
in
quella
"semplicità
ricca"
del
neoclassico
siciliano.
Alla
semplicità
del
pianterreno
si
contrappone
la
ricchezza
del
piano
nobile
che
fa
immaginare
i
ricchi
interni.
Sulla
facciata
che
culmina
con
un
bel
cornicione
nove
balconi
con
timpano
triangolare.
Interessante
è
l'ultimo
balcone
a
sinistra
sul
quale
è
stata
realizzata
una
loggetta
in
legno
ben
modellata,
una
"gelosia"
da
dove
si
poteva
guardare
senza
essere
visti.
Al
palazzo
si
accede
da
un
portone
centrale
ad
arco.
Subito
una
lapide
ci
ricorda
la
figlia
del
senatore,
Maria,
a
cui
si
deve
il
primo
ospedale
di
Ragusa.
Altri
cinque
ingressi
sono
disposti
sui
vari
lati
dell'isolato:
un
ultimo
maestoso
ingresso
dà
accesso
agli
appartamenti
di
proprietà
di
un
altro
ramo
della
famiglia
Arezzo.
Oltre
il
portone,
un
magnifico
androne
con
doppio
colonnato
(e
soffitto
a
cassettoni
con
stucchi
colorati
d'azzurro)
precede
un
cortile
da
cui
attingono
luce
alcuni
saloni
del
piano
nobile;
sull'arco
d'ingresso
è
presente
lo
stemma
di
famiglia
e,
poco
più
in
là
l'ampio
giardino
all'italiana
con
tre
vasche;
da
esse
emerge
un
Mosè
con
le
tavole.
Anche
qui,
come
nel
Castello,
vi
è
una
grotta,
dove
è
inserito
un
bel
presepe
intagliato
nel
calcare.
Dal
cortile
interno
si
ha
accesso
al
piccolo
e
pregevole
teatro,
un
tempo
luogo
di
intrattenimento
privato
per
il
barone
ed
i
suoi
ospiti.
Oggi
è
intitolato
a
Checco
Durante
ed
è
sede
della
Piccola
Accademia
di
Ragusa,
un
gruppo
teatrale
composto
da
attori
dilettanti;
l'ingresso
attuale
è
dall'esterno.
Sempre
dal
cortile
vi
è
l'accesso
ai
magazzini,
alla
legnaia,
alle
scuderie,
agli
alloggi
del
personale
contadino,
e
agli
importanti
depositi
dei
"carnaggi",
olio,
vino,
formaggi
e
frutta
che,
dalle
varie
contrade,
arrivavano
in
omaggio
rispettoso
al
Barone.
L'imponente
scalinata
marmorea,
a
tre
rampe
conduce
al
piano
nobile;
la
luce
è
garantita,
di
giorno
da
cinque
finestroni
a
vetri
colorati,
di
notte
da
un
grande
lampadario
bronzeo
che
pende
dal
soffitto
arricchito
di
stucchi.
Giunti
in
cima
alla
scala,
varcato
un
portone
in
legno
si
accede
ad
una
saletta
d'
ingresso
con
pavimenti
in
marmo
bianco
e
rosso
arredato
con
mobili
in
noce.
Dopo,
un'altra
saletta,
poi
un
biliardo
e
un
salottino
con
pavimenti
in
pece.
Seguono
altri
saloni
con
il
pavimento
di
calcare
e
pece
consunto
coperto
da
tappeti
a
disegni
floreali.
Le
pareti
sono
rivestite
da
carta
in
seta
damascata.
Ad
una
grande
sala
da
pranzo,
con
la
limitrofa
terrazza
abbellita
da
una
voliera
con
base
in
pietra
pece,
seguono
gli
ambienti
di
lavoro,
la
cucina,
ecc..
L'altra
ala
dell'edificio
è
destinato
alla
zona
notte
con
ampie
stanze
anche
per
gli
ospiti
che
un
tempo
erano
sempre
numerosi.
Più
distaccata,
la
zona
riservata
alla
servitù
e
l'appartamento
del
custode.
Rinomata
è
la
pinacoteca
creata
circa
alla
metà
dell'ottocento
da
Corrado
Arezzo
Spuches,
deputato
al
parlamento
siciliano
nel
1848
e
poi
senatore
del
Regno.
La
maggior
parte
dei
quadri
della
collezione
ha
soggetto
sacro,
tra
essi:
la
famosa
"Madonna
con
Bambino"
attribuita
da
alcuni
ad
Antonello
da
Messina
o
ad
un
elemento
della
sua
scuola;
un
"San
Paolo
eremita"
di
Josè
de
Ribera
detto
lo
Spagnoletto;
una
"Madonna
in
trono"
del
fiammingo
Hans
Memling;
un'
"Estasi
di
San
Francesco"
attribuita
a
Bartolomeo
Esteban
Murillo;
un
autoritratto
di
Salvator
Rosa
ed
una
tela
del
Guerci.
Il
vanto
della
raccolta
è
il
"Prometeo
incatenato"
di
scuola
caravaggesca.
Vi
sono,
inoltre,
porcellane
di
Sevres
e
maioliche
giapponesi,
una
collezione
di
ceramiche
di
Caltagirone
realizzate
da
Bongiovanni
Vaccaro
ed
numerosi
oggetti
di
notevole
valore
artistico.
In
piazza
Pola
si
trovano
il
palazzo
che
fino
al
1926
fu
sede
del
municipio
di
Ibla
e
la
chiesa
di
San
Giuseppe,
che
si
erge
là
dove
un
tempo,
prima
del
terremoto,
era
edificata
una
delle
due
chiese
dedicate
al
Santo.
Ad
essa
era
abbinato
un
monastero
di
suore
benedettine
voluto
dal
barone
di
Bussello
Don
Carlo
Giavanti
nativo
di
Noto,
ma
sposato
con
la
nobildonna
ragusana
Violante
Castilletti
la
quale,
morendo,
lasciava
la
sua
cospicua
dote
al
marito
con
l'obbligo
di
fondare
il
monastero
nelle
case
d'abitazione
che
confinavano
con
la
chiesa.
Pur
se
sorto
attorno
al
1590
non
se
ne
fa
menzione
nella
Sacra
Visita
del
1621
probabilmente
perché
dipendente
dal
monastero,
mentre
un
cenno
(che
forse
si
riferisce
all'altra)
è
riportato
in
quella
del
1654.
Alcuni
studiosi
locali
negano
che
ci
fossero
due
chiese
di
San
Giuseppe
e
formulano
l'ipotesi
che
una
chiesetta,
esistente
sin
dal
1543,
assumesse
rilievo
solo
dopo
che
veniva
aggregata
al
convento
sorto
con
il
donativo
del
1590.
Con
il
terremoto
la
chiesa
ed
il
convento
andarono
quasi
totalmente
distrutti
ed
il
complesso
si
iniziò
la
ricostruzione
con
pianta
probabilmente
rettangolare
sul
vecchio
sito.
I
primi
lavori
al
convento
sono
già
del
1701
e
proseguiranno
almeno
sino
al
1705.
Altri
lavori
poi
sono
documentati
per
il
convento
fra
il
1723
ed
il
1737,
ma
è
nel
1756
che
si
occupa
la
limitrofa
area
della
chiesa
di
San
Tommaso
oramai
spostata
altrove.
Tra
il
1756
ed
il
1760
dovette
avvenire
il
cambio
dal
progetto
barocco
a
quello
rococò.
Quei
quarant'anni
di
lavoro
produssero
una
chiesa
di
San
Giuseppe
di
nuova
concezione,
paragonabile
per
caratteri
a
San
Giorgio ,
ma
simile
alla
vicina
chiesa
della
Madonna
del
Carmine annessa
al
monastero
di
Valverde
con
cui
vanta
simili
origini
(sino
a
non
molti
anni
addietro
attribuita
a
qualche
allievo
diretto
del
Gagliardi,
ma
oggi
sicuramente
ascrivibile
a
frate
Alberto
Maria
di
San
Giovanni
Battista
come
i
più
recenti
studi
indicano).
La
facciata
convessa,
di
stile
composito,
è
ripartita
in
tre
ordini
e
presenta
coppie
di
colonne
che
si
innalzano
sino
al
secondo
ordine
e
delle
quali
due
fiancheggiano
l'entrata
principale
;
le
colonne
centrali
si
ripetono
al
livello
superiore
dove
delimitano
un
finestrone
con
grata
panciuta;
volute
decorate
raccordano
il
secondo
al
terzo
livello.
La
facciata
si
conclude
con
un
terzo
ordine
che
nasce
dal
timpano
spezzato
ad
arco
ribassato
dell'ordine
precedente
ed
è
arricchito
da
volute
e
decorazioni
che
delimitano
tre
cellette
campanarie
con
ringhiere
panciute.
Notevole
e
di
grande
effetto
l'impiego
di
statue
sui
due
livelli
inferiori;
fra
le
quattro
al
primo
ordine
si
riconoscono
Santa
Gertrude
e
Santa
Scolastica,
mentre
al
secondo
ordine
accanto
alle
volute
fanno
bella
mostra San
Mauro da
un
lato
e San
Benedetto dall'altro.
Tre
le
campane
sul
campanile.
Sulla
prima,
la
più
grande,
in
rilievo
un
San
Giuseppe,
datato
1857,
e
con
il
nome
del
fonditore;
le
altre
sono
del
1844.
L'interno
insolitamente
ovale,
è
scandito
da
paraste
con
capitelli
ionici.
Pregevoli
tribunette
in
legno
con
grate
permettevano
alle
suore
di
assistere
alle
funzioni
religiose.
La
luminosità
interna
è
garantita
da
finestroni
posti
sopra
il
cornicione
interno
dell'aula.
Cinque
gli
altari,
di
cui
uno
nell'abside
semicircolare,
realizzati
in
pietra
e
vetro dipinto
al
recto
di
grande
effetto
cromatico
tale
da
sembrare
marmo.
La volta
è
affrescata
da
Sebastiano
Lo
Monaco
(1793)
con
i
temi
della
Gloria
di
San
Giuseppe e
di
San
Benedetto.
Colpisce
poi
il
bel
disegno
della
pavimentazione
ottenuto
con
l'alternanza
di
lastre
di
pietra
asfaltica
e
calcarea
con
inserite
piastrelle
ceramiche
policrome
a
motivi
floreali.
Entrando
si
notano
sui
lati
teche
in
vetro
contenenti,
a
destra,
la
statua
in
cartapesta
di
San
Benedetto
ed
a
sinistra
una
statua
di
San
Giuseppe
con
Bambino
Gesù
circondato
da
Angeli
che
lodano
il
Signore
in
argento
lavorato
a
sbalzo.
Addentrandosi
sulla
parete
destra
si
notano
due
quadri
uno
con
Santa
Geltrude
monaca
e
l'altro
con
San
Benedetto,
entrambi
opere
del
Pollace
del
1802.
Sul
primo
altare
a
sinistra,
invece,
il
quadro
a
San
Mauro
abate,
sempre
del
Pollace
risalente
al
1805,
e
l'altro
a
sinistra
con
una
Santissima
Trinità
di
Giuseppe
Cristadoro
del
1801
(copia
analoga
a
quella
realizzata
dal
Conca
per
la
chiesa
palermitana
dell'Olivella).
Presso
l'altare
centrale,
affrescata
in
un
ovale,
la
Sacra
Famiglia
di
Matteo
Battaglia
del
1779;
da
alcuni
è
stata
chiamata
anche
la
Madonna
delle
ciliege
dato
che
la
Madre
offre
a
Gesù
delle
ciliege
contenute
nel
grembiule.
La
chiesa
è
ricca
in
argenterie
e
paramenti
sacri
di
cui
alcuni
veramente
pregevoli.
Notevole
il
baldacchino
in
velluto
cremisi
e
raso
bianco
con
ricami
in
oro
che
nelle
solennità
è
posto
sull'altare
maggiore,
opera
delle
suore
e
realizzato
nei
primi
dell'ottocento.
Pregevole
il
leggio
dell'altare
maggiore
e
l'altare
in
legno
bianco
e
rifiniture
in
oro.
Sembra,
infine,
che
con
il
terremoto
del
1693
sia
andato
distrutto
un
San
Giuseppe
del
Paladini
di
cui
ci
riferisce
un
antico
cronista.
La
ricchezza
della
chiesa
era
data
dai
notevoli
benefici
e
proprietà
tra
cui
il
feudo
Badia-Carnesale
conosciuto
anche
come
San
Giuseppe.
Con
l'avvento
del
Regno
e
la
demanializzazione
dei
beni
appartenenti
agli
ordini
monastici
parte
del
convento
fu
venduta,
parte
fu
ceduta
al
Comune
di
Ibla
che
in
seguito
vi
realizzerà
i
propri
uffici.
In
via
Torre
Nuova,
si
nota
la
barocca
chiesa
della
Madonna
del
Gesù
con
l'annesso
convento
retti
un
tempo
dai
frati
minori
osservanti
riformati che
ebbero
a
diffondersi
a
Ragusa
ancor
prima
del
1600.
I
frati
giunti
a
Ragusa
e
non
avendo
una
dimora
stabilita
si
erano
insediati
nel
quartiere
Pirrera,
in
una
serie
di
case
basse
utilizzate
a
mo'
di
ospizio
temporaneo,
dicendo
messa
presso
la
vicina
chiesa
di
San
Rocco. Nel
contempo
parte
dell'antica
cinta
muraria
esterna,
con
il
terremoto
del
1542,
era
crollata
definitivamente
e
nella
zona
dove
sorgeva
un'antica
torre
ed
una
delle
vecchie
porte
cittadine
(la
Porta
dei
Saccari,
oggi
Walter)
si
rendeva
disponibile
un
pezzo
di
versante
impervio.
Era
questo
un
luogo
abitato,
dove
esisteva
già
da
prima
del
periodo normanno un
luogo
di
culto
ancor
oggi
testimoniato
dalla
grotta
con
Santi
attigua
al
lato
orientale
del
complesso
e
dedicato
al
Santa
Domenica
che
da
il
nome
alla
cava.
Del
luogo
presero
possesso
i
frati
i
quali
lo
videro
come
la
sede
ideale
per
il
loro
convento,
dato
che
si
potevano
integrare
le
murature
rimaste
in
piedi,
e
costruire
così
un
poderoso
stabile.
Un
altro
punto
a
favore
era
la
presenza
di
un'antica
sorgente
che
seppur
di
modesta
portata
aveva
un
apporto
costante
durante
tutto
l'anno;
la
grotta
dov'è
la
sorgente
fu
man
mano
ingrandita
sino
alla
capienza
dell'attuale
cisterna,
approfondendola,
limitandola
con
muri
e
intonacandola
tanto
da
divenire
il
perno
centrale
del
convento.
Resti
della
cinta,
della
torre
e
della
vecchia
porta
della
città
furono
inglobate,
smontate,
rimontate
e
riutilizzate
nelle
nuove
fabbriche.
Si
iniziò
così
ad
erigere
dapprima
il
corpo
a
ridosso
del
versante,
poi
le
due
ali
in
modo
tale
che
il
chiostro
si
apriva
verso
Sud,
sulla
vallata
sottostante.
Nel
1609
le
fabbriche
erano
giunte
all'altezza
del
chiostro
e
i
frati
vi
si
trasferirono
definitivamente
abitando
la
parte
già
costruita.
La
loro
chiesa
era
l'attuale
cripta
a
cui
in
seguito
crollò
una
parte
della
volta.
Iniziava,
infine,
la
costruzione
della
chiesa
vera
e
propria
e
del
piano
superiore
dove
si
sarebbero
dovute
allocare
le
cellette
del
dormitorio.
Per
la
costruzione
furono
usati
le
pietre
del
poderoso
castello bizantino
ivi
rovinato
e
quelle
di
una
piccola
cava
attigua
aperta
per
l'occasione.
I
lavori
procedevano
a
rilento
per
le
difficoltà
economiche,
ma
un
mecenate
d'origine
veneta,
il
nobil
uomo
Vincenzo
Campulo
Barone
di
San
Biagio
e
del
Mastro
devoto
a
Santa
Maria
del
Gesù,
sostenne
con
grande
impegno
di
danaro
la
conclusione
dell'opera.
Allo
stesso
ed
al
fratello
Girolamo
per
riconoscenza
venivano
riservati
dai
frati
i
ricchi
mausolei
vicini
all'altare
centrale.
Nel
frattempo
anche
la
topografia
dei
luoghi
era
cambiata;
la
Porta
Walter
veniva
spostata
e
ricostruita
addossata
alla
chiesa
proprio
in
quegli
anni
nell'occasione
dell'arrivo
in
città
del
Conte
Giovanni
Alfonso
Enriquez
Cabrera
nominato
viceré
e
in
visita
nella
Contea
nell'anno
1643.
Gravi
dovettero
essere
i
danni
del
terremoto
tant'è
che
la
chiesa
risultava
demolita,
ma
essendo
il
maestoso
complesso
abbastanza
nuovo
si
preferì
restaurarlo
continuando
a
dimorarvi.
Così
fu
rinforzato
il
piede
Est
rendendolo
pieno
per
un
livello
mentre
la
muratura
fu
contenuta
da
un
paramento
esterno
con
scarpa.
Forse
nella
stessa
occasione
si
chiudeva
il
chiostro
creando
un
ulteriore
passaggio.
Questi
lavori
si
protrassero
per
tutto
il
XVIII
secolo,
anni
in
cui
fu
anche
addossato
al
lato
occidentale
un
ulteriore
corpo
di
quattro
livelli
tale
da
far
sembrare
un
tutt'uno
la
struttura
esterna;
questa
innovazione,
però
si
dimostrerà
nel
tempo
una
delle
cause
che
avrebbero
inevitabilmente
portato
alla
rovina
l'edificio.
Il
secolo
scorso
fu
tra
i
periodi
d'oro
del
complesso
che
vide
durante
la
rettoria
di
padre
Giovanni
Campo
i
restauri
e
gli
abbellimenti
interni
alla
chiesa.
Nel
frattempo
all'esterno,
dal
lato
orientale,
era
nata
una
piazza
e
per
accedere
a
questa,
ma
anche
a
chiesa
e
convento,
nel
1823
veniva
realizzata
l'ampia
scalinata.
Con
l'avvento
del
Regno
e
la
requisizione
dei
beni
ecclesiastici
il
complesso
fu
dato
in
concessione
al
Comune;
vi
si
trasferirono
uffici,
il
telegrafo
e
le
scuole
elementari,
mentre
nella
parte
inferiore
c'era
un
dormitorio
per
indigenti.
Il
convento
appesantito
in
particolare
sul
lato
Ovest
manifestava
continuamente
cedimenti
e
così
dopo
le
prime
minacce
di
crollo
degli
anni
venti,
si
passò
negli
anni
trenta
alla
creazione
di
contrafforti
interni
che
a
nulla
valsero
tant'è
che
negli
anni
cinquanta
la
metà
occidentale
del
convento
crollò
definitivamente.
La
sede
della
chiesa,
come
già
detto,
risulta
sottomessa
al
piano
stradale
della
via
Torrenuova
da
cui
vi
si
accede
per
mezzo
della
lunga
scalinata
realizzata
nel
1823
quando
era
fruibile
anche
l'adiacente
piazzetta
andata
oggi
irrimediabilmente
distrutta.
La
semplice
facciata
settecentesca
compresa
fra
paraste
bugnate
lisce
si
arricchisce
di
un
portale
delimitato
da
colonne
tortili
con
capitelli
corinzi
compositi,
su
cui
sovrasta
con
la
sua
presenza
nel
mezzo
del
timpano
triangolare
spezzato
lo
stemma
dell'ordine
conventuale;
al
livello
superiore
un
finestrone,
corrispondente
al
matroneo,
illumina
gli
interni
da
Est.
Il
tetto
è
sorretto
da
un
cornicione
dentellato.
A
sinistra
della
facciata
la
cella
campanaria
di
stile
manieristico
con
due
campane,
la
grande
del
1827
e
la
piccola
del
1804.
All'interno
nell'unica
navata
sette
altari
di
vecchia
fattura
fra
semicolonne
binate
in
stile
corinzio
e
volte
con
copertura
a
stucchi
recanti
per
lo
più
motivi
floreali
e
puttini
alati
più
volte
restaurati
e
rifatti,
così
pure
le
decorazioni
pittoriche
ritoccate
dal
pittore
Paolo
Flaccavento.
Al
primo
altare
della
parete
destra
v'era
un
quadro
raffigurante
Sant'Antonio
da
Padova
mentre
al
secondo
una
Sacra
Famiglia
con
San
Giacomo
e
Sant'Anna.
Sulla
parete
sinistra
un
primo
altare
con
quadro
a
San
Francesco,
segue
un
confessionale
con
sopra
il
quadro
di
San
Sebastiano
di
Giovanni
del
Prado;
ed
ancora
un
secondo
altare
in
cui
c'era
la
statua
al
Cuore
di
Gesù.
Interessante
l'area
dell'altare
maggiore,
oggi
scostato
dal
muro;
sul
catino
dell'abside
c'è
un
grande
affresco
(datato
1750)
attribuito
a
Matteo
Battaglia
perché
analogo
agli
affreschi
dello
stesso
autore
che
si
possono
osservare
nella
chiesa
di
San
Giacomo
(del
1755)
ed
in
quella
di
Santa
Lucia
(del
1773).
La
decorazione
raffigura
un
tempio
maestoso
a
tre
livelli
di
colonne.
In
occasione
dei
recenti
lavori
di
restauro
si
è
scoperto
all'interno
del
vecchio
altare
maggiore
dismesso
un
interessante
affresco
di
sconosciuta
mano
che
raffigura
una
scena
della
tradizione
dell'ordine.
In
questo
secolo
si
aggiunse
la
devozione
alla
Madonna
di
Lourdes
rappresentata
da
una
statua
che
domina
la
scena.
Oltre
alle
tombe
presenti
ai
piedi
di
un
confessionale
e
di
un
altare
minore
si
apprezzano
ai
fianchi
del
presbiteri
i
due
mausolei
con
i
mezzi
busti
dei
fratelli
Campolo.
La
tomba
del
benefattore
Vincenzo
(morto
nel
1682),
posto
a
sinistra
e
ricordato
anche
sulla
porta
d'accesso
al
convento,
è
riccamente
decorata
e
con
una
vasta
epigrafe
che
ne
descrive
la
vita,
mentre
quella
del
fratello
Girolamo
(morto
nel
1678)
risulta
abbastanza
spoglia
e
muta.
Al
di
sotto
della
chiesa,
oggi
accessibile
solo
dal
piano
chiostro
(mentre
un
tempo
lo
era
anche
da
una
scaletta
posta
proprio
accanto
al
portone
di
ingresso)
la
cripta-oratorio
con
pianta
a
croce
greca
che
racchiude
le
tombe
dei
frati.
Dal
retro
del
primo
confessionale
destro
l'accesso
allo
scannafosso
che
nascondeva
un
passaggio
segreto
oggi
murato
il
quale
collegava
la
chiesa
ed
il
convento
con
la
casa
Campulo.
Tutti
gli
arredi
superstiti
sono
stati
spostati
a
cura
della
chiesa
di
San
Giorgio;
tra
di
essi
un
Cristo
nell'urna,
scultura
in
legno
di
Corrado
Leone
padre
del
1880-1889
aiutato
da
Nunzio
Lissandrello
intagliatore
dell'urna
e
Michele
Leone
di
Corrado,
indoratore.
Il
convento
è
un
edificio
possente,
a
quattro
livelli,
di
cui
manca
un'ala
perché
crollata
in
due
fasi;
il
crollo
più
grave
avvenne
negli
anni
cinquanta.
Vi
si
accede
da
una
porticina
laterale
alla
chiesa
sulla
cui
architrave
campeggia
una
scritta
a
ricordo
del
benefattore
che
contribuì
al
suo
completamento
(Q.
PEZZO
FU
DATO
DAL
SIGNOR
VINCENZO
CAMPULO
ANNO
DOMINI
1652),
fatto
che
per
molto
tempo
ha
tratto
in
inganno
gli
studiosi
sull'effettiva
mole
dei
lavori
di
completamento
dell'opera
finanziati.
Al
livello
superiore
del
Convento
erano
le
celle
dei
frati
oltre
ad
un
accesso
al
coro
e
alla
cella
campanaria;
vi
si
giungeva
per
mezzo
di
una
larga
scala
che,
invece,
percorsa
verso
il
basso
portava
al
chiostro
al
cui
centro
si
erge
un
pozzo
a
base
ottagonale
e
collo
alto.
Il
pozzo,
che
si
sviluppa
in
profondità
con
due
livelli
accessibili
da
finestre,
è
posto
al
centro
di
disegni
geometrici
di
croci
ottagonali
realizzate
in
pietra
asfaltica
con
pavimentazione
di
ciotolame
di
fiume
misto
sia
calcareo
che
vulcanico,
esempio
unico
in
questa
parte
della
Sicilia.
Attorno
al
chiostro
l'oratorio
e
le
sale
dei
lavori
quotidiani,
quali
la
biblioteca
e
gli
altri
servizi.
Il
primo
piano
inferiore
aveva
le
cucine,
i
magazzini
e
la
mensa
sia
per
i
frati
che
per
i
poveri;
il
secondo
piano
sottoterra
era
destinato
ai
magazzini
e
solo
in
un
secondo
tempo
fu
aperta
una
porta
centrale
con
accesso
alla
"silva"
e
agli
orti.
Sul
finire
del
XVIII
secolo
fu
affiancato
l'altro
edificio
munito
di
propria
scaletta
interna
sempre
con
funzione
di
magazzino,
edificio
che
malcostruito
porterà
alla
rovina
della
porzione
occidentale
del
convento.
Per
tradizione
una
Via
Crucis
si
snodava
tutti
i
venerdì
con
stazioni
a
Porta
Walter,
alla
chiesetta
di
Santa
Maria
dei
Miracoli e
al
Pozzo
e
di
lì
risaliva
il
versante
sino
al
Romitorio
del
Bollarito,
sulla
collina
di
fronte,
dove
si
celebrava
la
messa.
Dietro
la
chiesa
si
può
ancora
ammirare
Porta
Walter,
inaugurata
nel
1644
in
occasione
della
visita
a
Ragusa
del
viceré
di
Sicilia
Alfonso
Henriquez,
che
venne
accolto
con
grandi
feste
e
onori,
e
risparmiata
dal
terremoto
del
1693.
Alla
fine
di
via
di
Porta
Modica,
in
un
angolo
recondito,
si
trova
la
chiesa
del
Signore
Trovato,
forse
tra
le
più
recenti
della
città
storica
essendo
sorta
fra
il
1801
ed
il
1807
per
contribuzione
spontanea
della
popolazione
lieta
perché
era
stata
ritrovata
in
quel
sito
(ora
primo
altare
a
destra)
la
sacra
pisside
con
ostie
consacrate
rubate
il
primo
marzo
del
1801
nella
chiesa
di
Sant'Antonino da
un
certo
Cassarà
forestiero
a
Ragusa
che
catturato
e
incarcerato
moriva
di
lì
a
poco
in
prigione
per
la
disperazione
(così
come
diceva
una
canzone
popolare).
Sorge
a
ridosso
del
"muro
bizantino" ed
è
di
semplice
fattura;
presenta
un
portale
delimitato
da
paraste
che
sostengono
un
frontone
triangolare
appoggiato
su
un
cornicione;
un
secondo
cornicione
di
poco
più
alto
è
la
base
di
un
finestrone
delimitato
anch'esso
da
paraste
e
volute.
Un
terzo
livello
conclusivo
contiene
un
campaniletto
non
raggiungibile.
Ad
unica
navata,
è
spoglia
all'interno;
tra
le
paraste
laterali
segni
di
pittura
con
decorazioni
a
motivi
analoghi
a
quelli
della
facciata.
Oggi
rimane
solo
la
Cappella
del
ritrovamento
che
conserva
le
decorazioni.
L'ultimo
restauro
risale
al
1988.
Tornando
in
piazza
Pola
e
prendendo
per
via
XXV
Aprile,
si
nota,
dopo
alcune
curve
a
sinistra,
la
chiesa
di
S.
Tommaso.
La
sua
fondazione
risale
probabilmente
al
XII
secolo,
cioè
al
periodo
normanno.
La
chiesa
faceva
parte
di
un
enorme
complesso
architettonico,
che
somigliava
a
una
vecchia
dimora
feudale,
ed
era
conosciuta
anche
come
Madonna
del
Carmine
perché
sede
dell'ex
monastero
carmelitano
femminile.
Il
convento,
molto
grande
e
prestigioso,
era
ricco
di
fondi
e
lasciti,
visto
che molte
delle
suore
erano
di
nobili
natali.
L’antica
chiesa
era
molto
più
piccola
di
quella
attuale
ed
occupava
l'attuale
parte
posteriore
dell'altare
maggiore
con
l'ingresso
posto
su
Corso
XXV
Aprile.
Il
terremoto
del
1693
la
distrusse
quasi
totalmente
e
danneggiò
seriamente
il
convento
che
però
fu
prontamente
riparato
con
la
creazione
di
contro
bastioni.
I
lavori
continuarono
per
tutto
il
settecento
e
furono
completati
nel
1828,
anno
in
cui
sembra
che
siano
state
realizzate
le
decorazioni
che
ancora
oggi
vediamo.
Con
l'avvento
del
regno,
chiesa
e
convento
passarono
al
demanio
e
le
monache
ricevettero
l'ordine
di
allontanamento
ad
altro
sito.
Solo
nel
1898
e
dopo
lavori
di
adeguamento,
la
chiesa
potè
riaprire con
la
denominazione
di
parrocchia
di
San
Tommaso.
Il
convento,
durante
il
fascismo,
venne
acquistato
da
Gianbattista
Marini
che
lo
fece
abbattere
e
ricostruire
integralmente
con
criteri
moderni
nel
1928.
Dal
1953
la
parrocchia
è
stata
assegnata
ai
frati
Minori
Conventuali.
Il
monumento
è
stato
oggetto
negli
anni
'90
di
alcuni
lavori
di
manutenzione.
La
chiesa
attuale,
ricostruita
a
pianta
ovale,
è
leggermente
spostata
rispetto
a
quella
originaria
e
ha
inglobato
parte
delle
costruzioni
relative
al
preesistente
fabbricato.
L'edificio
si
compone
di
due
corpi
di
fabbrica:
il
primo
è
costituito
dall'attuale
chiesa
di
San
Tommaso
il
cui
asse
longitudinale
è
parallelo
a
Corso
XXV
Aprile;
il
secondo,
che
contiene
l'ingresso,
prospetta
su
via
San
Domenico
e
comprende
gli
uffici
parrocchiali
e
gli
alloggi
dei
frati.
A
sinistra
un
campanile
con
tre
archi
di
cui
il
centrale
sormontato
da
una
testina
d'angelo.
Il
cornicione
in
cima
al
campanile
viene
attribuito
alla
scuola
del
Gagliardi. Il
portale
d'ingresso,
proveniente
dall'antica
chiesa,
è cinquecentesco così
come
il fonte
battesimale in
pietra
pece
datato 1545.
La
prima
parte (vestibolo), a
pianta
rettangolare,
è
chiusa
nei
suoi
lati
minori
da
due
absidi
di
cui
una
contenente
una
fonte
battesimale
e
l'altra
aperta
su
dei
gradini
che
collegano
la
chiesa
con
gli
uffici
parrocchiali
e
gli
alloggi.
I
lati
minori
confinano
uno
con
via
San
Domenico,
e
comprende
l'attuale
ingresso
principale
della
chiesa
costituito
da
un
semplice
portale
sormontato
da
una
trabeazione
dorica,
l'altro
è
confinante
con
la
scuola
materna
G.B.
Marini.
La
seconda
parte
(la
navata), presenta
una
planimetria
a
forma
poligonale
inscrivibile
in
un'ellisse.
L'intera
navata
è
coperta
da
una
grande
volta
a
padiglione
in
canne
e
gesso.
La
terza
parte
(presbiterio), è
caratterizzata
da
una
quota
di
pavimento
più
alta
rispetto
a
quello
della
navata.
Contiene
l'altare
maggiore
ed
è
strutturata
in
due
parti:
il
transetto,
coperto
da
una
volta
a
botte,
e
l'abside
coperta
da
una
volta
a
cupola
con
lesene.
Dietro
l'altare
maggiore
si
trova
un
ampio
locale
parrocchiale
che
da
un
lato
si
affaccia
su
Corso
XXV
Aprile
e
dall'altro
su
di
un
cortile
interno
da
cui,
tramite
una
scala
esterna
in
muratura,
si
accede
ad
un
corridoio
che
si
estende
lungo
l'asse
longitudinale
della
chiesa
e
conduce
al
coro
soprastante
al
vestibolo,
quest’ultimo,
coperto
da
una
volta
a
botte,
è
dotato
di
un'ampia
finestra
che
completa,
con
il
portale
sottostante,
la
facciata
d'ingresso
principale.
Dal
coro,
attraverso
una
botola
in
legno
ubicata
in
prossimità
del
campanile,
si
accede
alla
cella
campanaria
ed
al
sottotetto.
All'interno
si
possono
ammirare
la
fonte
battesimale
in
pietra
asfaltica
del
1545
e
più
avanti
due
quadri
raffiguranti
la
Natività
e
il
Rapimento
in
cielo
del
profeta
Elia.
Entrando,
sulla
destra,
c'è
quadro
di
Santa
Maria
Maddalena
dei
Pazzi
e
un
settecentesco
quadro
della
Pietà.
Sulle
pareti
di
entrambi
i
lati
si
notano
balconcini
e
finestrelle
con
grate
monacali.
Sull'altare
centrale
un
quadro
rappresentante
la
"Madonna
del
Carmelo",
attribuita
a
Vito
d'Anna, seduta
su
un
trono
di
nuvole
mentre
consegna
l'abito
carmelitano
a
San
Simone
Stock.
In
tempi
antichi
le
suore
carmelitane
venivano
seppellite
nei
sotterranei
della
chiesa,
a
testimonianza
di
ciò,
sul
pavimento
vicino
all'uscita,
si
nota
una
scritta
in
latino
che,
tradotta,
recita:
"le
prudenti
vergini
del
Carmelo,
abbandonando
qui
le
mortali
spoglie,
volavano
allo
Sposo
Padre
Celeste".

Pag.
3
Pag.
5
Agosto
2019
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