Ragusa
  
  

 

Per Via Cabrera si arriva in piazza Duomo, di forma irregolare e in leggera pendenza, dominata, nella parte alta, dalla splendida chiesa di San Giorgio, opera fra le più insigni del barocco siciliano. La piazza, ravvivata da palme che le danno un esotico tocco di colore, è circondata da palazzi neoclassici e barocchi, fra i quali spicca lo spettacolare palazzo Arezzi con un magnifico arco sotto il quale passa la strada.

All'indomani del terremoto, tra i morti e le rovine, Ibla piangeva il crollo del Duomo di San Giorgio, meraviglioso tempio dedicato al Santo cavaliere, fatto erigere dalla potente famiglia Chiaramonte a partire dal XIV secolo.

Anche se la vecchia chiesa non era crollata completamente, si decise, per onorare il Santo, di edificare la nuova chiesa in un'area al centro della città, là dove c'era San Nicola

La costruzione della nuova chiesa fu ritardata dalle contese fra i "Sangiovannari" e i "Sangiorgiari". Dopo il terremoto i "Sangiovannari" avevano deciso di abbandonare Ibla, fondare una nuova città al Patro ed ivi costruire una nuova chiesa per il loro Patrono, San Giovanni Battista.

La divisione della città fu ufficialmente chiesta al Conte Giovanni Tommaso Enriquez Cabrera che la concesse nel 1695; ma nel 1703, poiché si era ribellata a Filippo V di Borbone, il Conte fu condannato a morte e i suoi beni, compresa la Contea di Modica, furono incorporati al Regio Fisco. I nobili di Ibla colsero questa favorevole occasione e chiesero al re la revoca del decreto di divisione della città.

Dopo questi avvenimenti in un primo momento, come è attestato da un documento stilato dal Notaio Francalanza il 25 marzo 1705, si tentò una conciliazione fra i due partiti: costruire una nuova chiesa al centro del paese dedicata ad ambedue i Santi, ognuno con la propria cappella. Il tentativo fallì e i Sangiovannari ripresero la strada del Patro.

Quando i nobili di Ibla si resero conto che i lavori per la nuova chiesa di San Giovanni procedevano alacremente, per recuperare il tempo perduto e far sì che la chiesa di San Giorgio sorgesse più magnifica di quella dei rivali, si rivolsero al massimo esponente dell'architettura siciliana del tempo, Rosario Gagliardi. (Il progetto in originale, datato 27 settembre 1744 ed acquistato dal parroco del tempo Don Filippo Giampiccolo ora si conserva in sagrestia).

Il duomo di San Giorgio, uno dei gioielli barocchi, non solo di Ibla, ma di tutta la Sicilia, si può ammirare nella parte alta dell'omonima piazza. Questo stupendo tempio ha l'asse prospettico divergente rispetto alla direttrice della piazza e ciò gli conferisce un aspetto scenografico mirabile, permettendo di vedere dalla parte opposta della piazza anche la cupola.

L'effetto visivo è reso ancor più suggestivo dall' alta gradinata (54 gradini), anch'essa divergente rispetto alla piazza e in linea con la chiesa, e soprattutto, dalla spinta ascensionale del corpo centrale, che culmina nella cella campanaria che svettando in alto, conferisce all'insieme uno slancio quasi inusitato nelle chiese barocche.

Il duomo è stato edificato sulla preesistente chiesa di San Nicola , dopo il terremoto del 1693, su progetto di Rosario Gagliardi, architetto siciliano nativo di Siracusa e attivo a Noto. Fu lui che in questo lembo di Sicilia (Val di Noto) portò fra i primi le nove soluzioni barocche del Bernini e del Borromini e, adattandole e trasformandole, le ha lasciate come traccia indelebile in parecchi monumenti a Ragusa e in provincia di Siracusa. I lavori iniziarono nel 1744 e furono completati, ad esclusione della cupola, nel 1775. 

L'inaugurazione avvenne il 30 aprile 1767. La neoclassica cupola alta 43 metri e sostenuta da sedici colonne binate, fu portata a termine nel 1820 dal capomastro Carmelo Cutraro.

La facciata è suddivisa in tre ordini con la sezione cen­trale, leggermente convessa, separata dalle altre due laterali da due gruppi di tre colonne ciascuno. Molto ricchi i portali, specie quello centrale, con festoni e scudo araldico sostenuto da putti. La facciata è completata da bellissime statue e dalle ante del probabile portone dell'antica chiesa, scampato al terremoto, con sculture in legno rappresentanti i martiri sofferti da S. Giorgio. 

La cupola neoclassica, alta 43 m., è sostenuta da 16 colonne binate e fu realizzata dal capomastro Carmelo Cutraro nel 1820. Tutta la scalinata è circondata da una ornatissima cancellata, opera di Angelo Paradiso di Acireale.

Il portone centrale, recuperato dall'antica chiesa, ha sei formelle in legno scolpito, rappresentanti il martirio di San Giorgio (poiché è protetto da controporte, si può ammirare solo nelle principali solennità).

Tutta la scalinata è circondata da una ornatissima cancellata di Angelo Paradiso di Acireale installata tra il 1889 e il 1894.

L'interno del Duomo, a tre navate e su pilastri culminanti con capitelli corinzi, ha una profonda abside e vetrate istoriate nel 1926 su disegni di Elena Panigatti e rappresentanti i martiri di S. Giorgio. Nelle navate laterali si aprono cappelle decorate con pregevoli tele. 

Nella navata sinistra, presso il transetto, si trova murata la lapide del conte Cabrerà, trasportata qui dall'antica chiesa. Nella sagrestia è da ammirare una grandiosa e antica pala d'altare in pietra locale con le statue di S. Giorgio, S. Ippolito e S. Mercurio vestiti da guerrieri (scuola gaginiana).

Nelle navate laterali si aprono decorate cappelle (tredici) con pregevoli tele: nella navata destra si possono ammirare quella del "Riposo in Egitto" dipinta da Dario Guerci nel 1864 e quella della "Immacolata" di Vito D'Anna.

A seguire, nella nicchia sovrastante l'ingresso laterale sinistro, vi è il simulacro di San Giorgio che uccide il drago, opera del Banasco del 1878.

Nella navata sinistra si può ammirare la tela dell'"Angelo custode", mentre nella nicchia sovrastante l'ingresso laterale si vede la "Santa Cassa", un'urna reliquario in argento che viene portata in processione durante i festeggiamenti del patrono. Infine nel transetto sinistro si può ammirare il quadro di Dario Guerci del 1866, raffigurante San Giorgio nell'atto di uccidere il drago.

Altre opere degne di nota sono le lapide del conte Bernardo Cabrera, che governò Ragusa dal 1392 al 1419, trasportata qui dall'antica chiesa, e il magnifico organo dei fratelli Serassi, fra i più completi e magnifici della Sicilia.

Detto organo allocato in una cantoria con una artistica cassa di risonanza con facciata a tre campate e 23 canne; ha tre tastiere da 61 tasti (in osso ed ebano), registri a manette e registri a pomello oltre a 20 pedali.

Nella sagrestia, nella quale si conservano i disegni originali del Duomo di Gagliardi, è da ammirare una grandiosa e antica pala d'altare in calcare locale di scuola gaginiana, con le statue di San Giorgio, Sant'Ippolito e San Mercurio, con vesti di guerrieri e con un piede su un capo reciso e vari rilievi su basamento. La chiesa possiede inoltre un ricco tesoro composto da paramenti sacri, oggetti in oro e argento, smalti policromi e busti di santi in argento.

La chiesa possiede, inoltre, un ricco tesoro composto da paramenti sacri, oggetti in oro e argento, un bellissimo ostensorio in oro e smalti policromi e la "Santa Cassa", un'arca-reliquario in argento. 

Vicino all'abside del Duomo, oltre le poderose strutture della chiesa, si può ammirare l'armonioso palazzo barocco della famiglia La Rocca, oggi occupato dagli uffici dell'Azienda Provinciale del Turismo. Il palazzo è in ottimo stato di conservazione e presenta modesti rimaneggiamenti; un buon restauro lo rende pienamente rispondente alle funzioni a cui oggi è chiamato. 

Sembra che le fondamenta del muro nord siano poggiate sui resti di parte della cinta muraria del castello. L'edificio nell'impostazione attuale è certamente post terremoto; la vecchia base si può vedere al di sotto dell'androne, dove si notano tre porte con arco a sesto acuto, una ad Est e due a Nord.

Di pianta rettangolare, ma irregolare, spicca per l'importante e lunga facciata barocca delimitata nella parte centrale è delimitata da due paraste ed in alto da un cornicione continuo. Questa zona contiene il portone principale d'accesso e ben quattro balconi degli otto presenti in prospetto; questi sono sorretti da mensoloni con altorilievi raffiguranti diversi temi. 

Ogni balcone ha così preso un nome a secondo del tema sviluppato: procedendo dal Duomo c'è prima il balcone dei Cherubini, poi quello del Telamone, degli Amorini, della Fantesca, del Suonatore di mandola e del Suonatore di flauto, l'ultimo è quello del Cavaliere. Proprio i personaggi di quest'ultimo balcone sono lo specchio del loro tempo: il Cavaliere è attorniato da diversi personaggi, a sinistra un uomo mascherato (forse un suo sgherro) e a destra un occhialuto volto ghignante, che rappresenta l'astuzia; sopra un grosso uomo baffuto con folta capigliatura pronto a tirar di spada a cui si affiancano due facchini (uno carica un barilotto, l'altro porta in una mano un'ampolla e nell'altra mano un ombrello). 

Tornando indietro, nel secondo e nel terzo balcone sono rappresentati alcuni suonatori di mandola e di flauto che ci ricordano come a quel tempo la musica, il bel canto e le feste occupassero un posto primario nella società gentilizia. Il quarto balcone è una vera foto in pietra: una donna si prende cura di un bambino. Espressivi i volti del bimbo e della fantesca, ricco e sapiente il panneggio; proprio per la cura del particolare sembra un fotogramma che abbia fissato, grazie alle sapienti mani dello scalpellino, un momento di vita. Chiudono la delicata scena due mascheroni dalla gioiosa espressione. 

Segue il balcone sopra il portone d'ingresso all'A.P.T., molto semplice e ornato solo da una conchiglia centrale e da motivi foliacei. Segue il sesto, il balcone degli Amorini; tre coppie di puttini legati in un tenero abbraccio evidente espressione di ingenua innocenza infantile. Il settimo balcone ha un telamone dalla fronte corrucciata nello spasimo dello sforzo tanto che sembra sostenga veramente il peso del balcone. Nell'ultimo balcone, verso il Duomo, sono rappresentati angeli in tenere espressioni.

Due i livelli abitabili anche se presenta il sottotetto ed un piano interrato. Si accede al piano superiore da una notevole scalinata principale a due rampe rigorosamente in pietra pece e da una secondaria ad una sola rampa.

L'edificio, dalla semplice struttura di muratura calcarea in conci squadrati legati da malta e intonacato ha la tradizionale copertura a falde ricoperte da coppi siciliani. All'interno le volte sono a botte, di canne e gesso ed in conci di calcare mentre i pavimenti sono in buona parte di pece e pietra calcarea ragusana, ma in parte anche di ceramica di Caltagirone del XVIII secolo e di scuola napoletana (in formelle gialle con contorno verde). Le pareti presentano stucchi e affreschi, le porte sono dipinte e dorate in stile Pompeiano.

Negli interni, di gusto neoclassico, spiccano un imponente lampadario in vetro di Murano, mobili e suppellettili residue del XVII secolo per i saloni di rappresentanza; gli arredi degli uffici A.P.T. sono moderni. Conserva integro lo stemma nobiliare. I livelli sotto il piano stradale, nella parte posteriore del palazzo, danno su un ampio cortile. 

Ritornati in piazza Duomo, si notano, alla sua estremità più bassa, una bella fontana e, di fronte, il neoclassico Circolo di Conversazione, fatto costruire in stile neoclassico nella prima metà del secolo scorso affinché i nobili ragusani vi potessero conversare e trascorrere il tempo, lontani e isolati dalla gente comune. All'interno si conserva ancora il documento con i nomi dei soci fondatori e i relativi contributi in "onze"; fra i nomi quelli del barone Francesco Arezzo di Donnafugata, del cavaliere Giuseppe Arezzi, di Pasquale Di Quattro, del barone Carmelo Arezzo di Trefiletti, di Vincenzo Arestia La Rocca.

Il prospetto di tipo neoclassico, ad un piano, si presenta con tre entrate divise da sei paraste scanalate e con capitelli in stile dorico sormontati da un cornicione con triglifi e da tre bassorilievi rappresentanti ai lati delle sfingi alate e al centro due donne alate che reggono una lampada. In alto sul cornicione svetta una bella scultura rappresentante in un ovale l'aquila ragusana circondata da festoni di fiori e da due leoni con facce umane e baffi: sotto la scritta "Circolo di Conversazione". Davanti al prospetto c'è un ballatoio per il passeggio dei soci.

L'interno costruito da sette sale, ancora in pieno stile ottocentesco, conserva la tipica atmosfera ovattata grazie agli arredi originali. Nella Sala di conversazione lunghi divani alle pareti, sormontati da grandi specchiere con ricche cornici dorate, mentre al centro pende un lampadario in rame rappresentante una pianta di zucca.

Il soffitto, realizzato a tempera dal ragusano Tino del Campo, recentemente restaurata nel 1955 dal Flaccavento, rappresenta le allegorie delle arti e delle scienze che sgombrano il cielo dalle nubi dell'ignoranza. Nelle figure degli angoli sono rappresentati i mezzi busti di Galileo, Dante, Bellini e Michelangelo.

Le altre sale sono riservate al gioco e la lettura; per il relax c'è un giardinetto interno con palme e fiori.

Subito dopo si erge palazzo Donnafugata una massiccia costruzione scandita in basso da umili portoni. Il palazzo, semplice ma al contempo magnifico, non poteva altro che essere di proprietà di una delle più prestigiose famiglie di Ibla, una famiglia dalle antiche tradizioni e dalle nobili origini, gli Arezzo De Spuches baroni di Donnafugata, località dove sorge il castello di loro proprietà.

L'immenso complesso, che si estende compreso fra la via XX Aprile e le vie Pietro Novelli ed Orfanotrofio, e racchiude un'ampio giardino all'italiana nasce sul finire del settecento da preesistenze rase al suolo dal terremoto del 1693, ma l'assetto definitivo è della prima metà dello scorso secolo ad opera del barone Francesco, padre di Corrado.

L'edificio rientra in quella "semplicità ricca" del neoclassico siciliano. Alla semplicità del pianterreno si contrappone la ricchezza del piano nobile che fa immaginare i ricchi interni. Sulla facciata che culmina con un bel cornicione nove balconi con timpano triangolare. Interessante è l'ultimo balcone a sinistra sul quale è stata realizzata una loggetta in legno ben modellata, una "gelosia" da dove si poteva guardare senza essere visti.

Al palazzo si accede da un portone centrale ad arco. Subito una lapide ci ricorda la figlia del senatore, Maria, a cui si deve il primo ospedale di Ragusa. Altri cinque ingressi sono disposti sui vari lati dell'isolato: un ultimo maestoso ingresso dà accesso agli appartamenti di proprietà di un altro ramo della famiglia Arezzo.

Oltre il portone, un magnifico androne con doppio colonnato (e soffitto a cassettoni con stucchi colorati d'azzurro) precede un cortile da cui attingono luce alcuni saloni del piano nobile; sull'arco d'ingresso è presente lo stemma di famiglia e, poco più in là l'ampio giardino all'italiana con tre vasche; da esse emerge un Mosè con le tavole. Anche qui, come nel Castello, vi è una grotta, dove è inserito un bel presepe intagliato nel calcare.

Dal cortile interno si ha accesso al piccolo e pregevole teatro, un tempo luogo di intrattenimento privato per il barone ed i suoi ospiti. Oggi è intitolato a Checco Durante ed è sede della Piccola Accademia di Ragusa, un gruppo teatrale composto da attori dilettanti; l'ingresso attuale è dall'esterno.

Sempre dal cortile vi è l'accesso ai magazzini, alla legnaia, alle scuderie, agli alloggi del personale contadino, e agli importanti depositi dei "carnaggi", olio, vino, formaggi e frutta che, dalle varie contrade, arrivavano in omaggio rispettoso al Barone.

L'imponente scalinata marmorea, a tre rampe conduce al piano nobile; la luce è garantita, di giorno da cinque finestroni a vetri colorati, di notte da un grande lampadario bronzeo che pende dal soffitto arricchito di stucchi.

Giunti in cima alla scala, varcato un portone in legno si accede ad una saletta d' ingresso con pavimenti in marmo bianco e rosso arredato con mobili in noce. Dopo, un'altra saletta, poi un biliardo e un salottino con pavimenti in pece.

Seguono altri saloni con il pavimento di calcare e pece consunto coperto da tappeti a disegni floreali. Le pareti sono rivestite da carta in seta damascata. Ad una grande sala da pranzo, con la limitrofa terrazza abbellita da una voliera con base in pietra pece, seguono gli ambienti di lavoro, la cucina, ecc..

L'altra ala dell'edificio è destinato alla zona notte con ampie stanze anche per gli ospiti che un tempo erano sempre numerosi. Più distaccata, la zona riservata alla servitù e l'appartamento del custode.

Rinomata è la pinacoteca creata circa alla metà dell'ottocento da Corrado Arezzo Spuches, deputato al parlamento siciliano nel 1848 e poi senatore del Regno.

La maggior parte dei quadri della collezione ha soggetto sacro, tra essi: la famosa "Madonna con Bambino" attribuita da alcuni ad Antonello da Messina o ad un elemento della sua scuola; un "San Paolo eremita" di Josè de Ribera detto lo Spagnoletto; una "Madonna in trono" del fiammingo Hans Memling; un' "Estasi di San Francesco" attribuita a Bartolomeo Esteban Murillo; un autoritratto di Salvator Rosa ed una tela del Guerci. Il vanto della raccolta è il "Prometeo incatenato" di scuola caravaggesca.

Vi sono, inoltre, porcellane di Sevres e maioliche giapponesi, una collezione di ceramiche di Caltagirone realizzate da Bongiovanni Vaccaro ed numerosi oggetti di notevole valore artistico.

In piazza Pola si trovano il palazzo che fino al 1926 fu sede del municipio di Ibla e la chiesa di San Giuseppe, che si erge là dove un tempo, prima del terremoto, era edificata una delle due chiese dedicate al Santo.

Ad essa era abbinato un monastero di suore benedettine voluto dal barone di Bussello Don Carlo Giavanti nativo di Noto, ma sposato con la nobildonna ragusana Violante Castilletti la quale, morendo, lasciava la sua cospicua dote al marito con l'obbligo di fondare il monastero nelle case d'abitazione che confinavano con la chiesa.

Pur se sorto attorno al 1590 non se ne fa menzione nella Sacra Visita del 1621 probabilmente perché dipendente dal monastero, mentre un cenno (che forse si riferisce all'altra) è riportato in quella del 1654. Alcuni studiosi locali negano che ci fossero due chiese di San Giuseppe e formulano l'ipotesi che una chiesetta, esistente sin dal 1543, assumesse rilievo solo dopo che veniva aggregata al convento sorto con il donativo del 1590.

Con il terremoto la chiesa ed il convento andarono quasi totalmente distrutti ed il complesso si iniziò la ricostruzione con pianta probabilmente rettangolare sul vecchio sito. I primi lavori al convento sono già del 1701 e proseguiranno almeno sino al 1705. Altri lavori poi sono documentati per il convento fra il 1723 ed il 1737, ma è nel 1756 che si occupa la limitrofa area della chiesa di San Tommaso oramai spostata altrove.

Tra il 1756 ed il 1760 dovette avvenire il cambio dal progetto barocco a quello rococò. Quei quarant'anni di lavoro produssero una chiesa di San Giuseppe di nuova concezione, paragonabile per caratteri a San Giorgio , ma simile alla vicina chiesa della Madonna del Carmine annessa al monastero di Valverde con cui vanta simili origini (sino a non molti anni addietro attribuita a qualche allievo diretto del Gagliardi, ma oggi sicuramente ascrivibile a frate Alberto Maria di San Giovanni Battista come i più recenti studi indicano).

La facciata convessa, di stile composito, è ripartita in tre ordini e presenta coppie di colonne che si innalzano sino al secondo ordine e delle quali due fiancheggiano l'entrata principale ; le colonne centrali si ripetono al livello superiore dove delimitano un finestrone con grata panciuta; volute decorate raccordano il secondo al terzo livello. La facciata si conclude con un terzo ordine che nasce dal timpano spezzato ad arco ribassato dell'ordine precedente ed è arricchito da volute e decorazioni che delimitano tre cellette campanarie con ringhiere panciute. Notevole e di grande effetto l'impiego di statue sui due livelli inferiori; fra le quattro al primo ordine si riconoscono Santa Gertrude e Santa Scolastica, mentre al secondo ordine accanto alle volute fanno bella mostra San Mauro da un lato e San Benedetto dall'altro. Tre le campane sul campanile. Sulla prima, la più grande, in rilievo un San Giuseppe, datato 1857, e con il nome del fonditore; le altre sono del 1844.

L'interno insolitamente ovale, è scandito da paraste con capitelli ionici. Pregevoli tribunette in legno con grate permettevano alle suore di assistere alle funzioni religiose. La luminosità interna è garantita da finestroni posti sopra il cornicione interno dell'aula. Cinque gli altari, di cui uno nell'abside semicircolare, realizzati in pietra e vetro dipinto al recto di grande effetto cromatico tale da sembrare marmo.

La volta è affrescata da Sebastiano Lo Monaco (1793) con i temi della Gloria di San Giuseppe e di San Benedetto.

Colpisce poi il bel disegno della pavimentazione ottenuto con l'alternanza di lastre di pietra asfaltica e calcarea con inserite piastrelle ceramiche policrome a motivi floreali.

Entrando si notano sui lati teche in vetro contenenti, a destra, la statua in cartapesta di San Benedetto ed a sinistra una statua di San Giuseppe con Bambino Gesù circondato da Angeli che lodano il Signore in argento lavorato a sbalzo. Addentrandosi sulla parete destra si notano due quadri uno con Santa Geltrude monaca e l'altro con San Benedetto, entrambi opere del Pollace del 1802. Sul primo altare a sinistra, invece, il quadro a San Mauro abate, sempre del Pollace risalente al 1805, e l'altro a sinistra con una Santissima Trinità di Giuseppe Cristadoro del 1801 (copia analoga a quella realizzata dal Conca per la chiesa palermitana dell'Olivella).

Presso l'altare centrale, affrescata in un ovale, la Sacra Famiglia di Matteo Battaglia del 1779; da alcuni è stata chiamata anche la Madonna delle ciliege dato che la Madre offre a Gesù delle ciliege contenute nel grembiule.

La chiesa è ricca in argenterie e paramenti sacri di cui alcuni veramente pregevoli. Notevole il baldacchino in velluto cremisi e raso bianco con ricami in oro che nelle solennità è posto sull'altare maggiore, opera delle suore e realizzato nei primi dell'ottocento. Pregevole il leggio dell'altare maggiore e l'altare in legno bianco e rifiniture in oro.

Sembra, infine, che con il terremoto del 1693 sia andato distrutto un San Giuseppe del Paladini di cui ci riferisce un antico cronista.

La ricchezza della chiesa era data dai notevoli benefici e proprietà tra cui il feudo Badia-Carnesale conosciuto anche come San Giuseppe. Con l'avvento del Regno e la demanializzazione dei beni appartenenti agli ordini monastici parte del convento fu venduta, parte fu ceduta al Comune di Ibla che in seguito vi realizzerà i propri uffici.

In via Torre Nuova, si nota la barocca chiesa della Madonna del Gesù con l'annesso convento retti un tempo dai frati minori osservanti riformati che ebbero a diffondersi a Ragusa ancor prima del 1600.

I frati giunti a Ragusa e non avendo una dimora stabilita si erano insediati nel quartiere Pirrera, in una serie di case basse utilizzate a mo' di ospizio temporaneo, dicendo messa presso la vicina chiesa di San Rocco. Nel contempo parte dell'antica cinta muraria esterna, con il terremoto del 1542, era crollata definitivamente e nella zona dove sorgeva un'antica torre ed una delle vecchie porte cittadine (la Porta dei Saccari, oggi Walter) si rendeva disponibile un pezzo di versante impervio. Era questo un luogo abitato, dove esisteva già da prima del periodo normanno un luogo di culto ancor oggi testimoniato dalla grotta con Santi attigua al lato orientale del complesso e dedicato al Santa Domenica che da il nome alla cava.

Del luogo presero possesso i frati i quali lo videro come la sede ideale per il loro convento, dato che si potevano integrare le murature rimaste in piedi, e costruire così un poderoso stabile. Un altro punto a favore era la presenza di un'antica sorgente che seppur di modesta portata aveva un apporto costante durante tutto l'anno; la grotta dov'è la sorgente fu man mano ingrandita sino alla capienza dell'attuale cisterna, approfondendola, limitandola con muri e intonacandola tanto da divenire il perno centrale del convento. Resti della cinta, della torre e della vecchia porta della città furono inglobate, smontate, rimontate e riutilizzate nelle nuove fabbriche.

Si iniziò così ad erigere dapprima il corpo a ridosso del versante, poi le due ali in modo tale che il chiostro si apriva verso Sud, sulla vallata sottostante. Nel 1609 le fabbriche erano giunte all'altezza del chiostro e i frati vi si trasferirono definitivamente abitando la parte già costruita. La loro chiesa era l'attuale cripta a cui in seguito crollò una parte della volta. Iniziava, infine, la costruzione della chiesa vera e propria e del piano superiore dove si sarebbero dovute allocare le cellette del dormitorio.

Per la costruzione furono usati le pietre del poderoso castello bizantino ivi rovinato e quelle di una piccola cava attigua aperta per l'occasione. I lavori procedevano a rilento per le difficoltà economiche, ma un mecenate d'origine veneta, il nobil uomo Vincenzo Campulo Barone di San Biagio e del Mastro devoto a Santa Maria del Gesù, sostenne con grande impegno di danaro la conclusione dell'opera. Allo stesso ed al fratello Girolamo per riconoscenza venivano riservati dai frati i ricchi mausolei vicini all'altare centrale.

Nel frattempo anche la topografia dei luoghi era cambiata; la Porta Walter veniva spostata e ricostruita addossata alla chiesa proprio in quegli anni nell'occasione dell'arrivo in città del Conte Giovanni Alfonso Enriquez Cabrera nominato viceré e in visita nella Contea nell'anno 1643.

Gravi dovettero essere i danni del terremoto tant'è che la chiesa risultava demolita, ma essendo il maestoso complesso abbastanza nuovo si preferì restaurarlo continuando a dimorarvi. Così fu rinforzato il piede Est rendendolo pieno per un livello mentre la muratura fu contenuta da un paramento esterno con scarpa. Forse nella stessa occasione si chiudeva il chiostro creando un ulteriore passaggio. 

Questi lavori si protrassero per tutto il XVIII secolo, anni in cui fu anche addossato al lato occidentale un ulteriore corpo di quattro livelli tale da far sembrare un tutt'uno la struttura esterna; questa innovazione, però si dimostrerà nel tempo una delle cause che avrebbero inevitabilmente portato alla rovina l'edificio. Il secolo scorso fu tra i periodi d'oro del complesso che vide durante la rettoria di padre Giovanni Campo i restauri e gli abbellimenti interni alla chiesa.

Nel frattempo all'esterno, dal lato orientale, era nata una piazza e per accedere a questa, ma anche a chiesa e convento, nel 1823 veniva realizzata l'ampia scalinata. Con l'avvento del Regno e la requisizione dei beni ecclesiastici il complesso fu dato in concessione al Comune; vi si trasferirono uffici, il telegrafo e le scuole elementari, mentre nella parte inferiore c'era un dormitorio per indigenti.

Il convento appesantito in particolare sul lato Ovest manifestava continuamente cedimenti e così dopo le prime minacce di crollo degli anni venti, si passò negli anni trenta alla creazione di contrafforti interni che a nulla valsero tant'è che negli anni cinquanta la metà occidentale del convento crollò definitivamente.

La sede della chiesa, come già detto, risulta sottomessa al piano stradale della via Torrenuova da cui vi si accede per mezzo della lunga scalinata realizzata nel 1823 quando era fruibile anche l'adiacente piazzetta andata oggi irrimediabilmente distrutta.

La semplice facciata settecentesca compresa fra paraste bugnate lisce si arricchisce di un portale delimitato da colonne tortili con capitelli corinzi compositi, su cui sovrasta con la sua presenza nel mezzo del timpano triangolare spezzato lo stemma dell'ordine conventuale; al livello superiore un finestrone, corrispondente al matroneo, illumina gli interni da Est. Il tetto è sorretto da un cornicione dentellato. A sinistra della facciata la cella campanaria di stile manieristico con due campane, la grande del 1827 e la piccola del 1804.

All'interno nell'unica navata sette altari di vecchia fattura fra semicolonne binate in stile corinzio e volte con copertura a stucchi recanti per lo più motivi floreali e puttini alati più volte restaurati e rifatti, così pure le decorazioni pittoriche ritoccate dal pittore Paolo Flaccavento. Al primo altare della parete destra v'era un quadro raffigurante Sant'Antonio da Padova mentre al secondo una Sacra Famiglia con San Giacomo e Sant'Anna. Sulla parete sinistra un primo altare con quadro a San Francesco, segue un confessionale con sopra il quadro di San Sebastiano di Giovanni del Prado; ed ancora un secondo altare in cui c'era la statua al Cuore di Gesù.

Interessante l'area dell'altare maggiore, oggi scostato dal muro; sul catino dell'abside c'è un grande affresco (datato 1750) attribuito a Matteo Battaglia perché analogo agli affreschi dello stesso autore che si possono osservare nella chiesa di San Giacomo (del 1755) ed in quella di Santa Lucia (del 1773). La decorazione raffigura un tempio maestoso a tre livelli di colonne. In occasione dei recenti lavori di restauro si è scoperto all'interno del vecchio altare maggiore dismesso un interessante affresco di sconosciuta mano che raffigura una scena della tradizione dell'ordine. In questo secolo si aggiunse la devozione alla Madonna di Lourdes rappresentata da una statua che domina la scena.

Oltre alle tombe presenti ai piedi di un confessionale e di un altare minore si apprezzano ai fianchi del presbiteri i due mausolei con i mezzi busti dei fratelli Campolo. La tomba del benefattore Vincenzo (morto nel 1682), posto a sinistra e ricordato anche sulla porta d'accesso al convento, è riccamente decorata e con una vasta epigrafe che ne descrive la vita, mentre quella del fratello Girolamo (morto nel 1678) risulta abbastanza spoglia e muta.

Al di sotto della chiesa, oggi accessibile solo dal piano chiostro (mentre un tempo lo era anche da una scaletta posta proprio accanto al portone di ingresso) la cripta-oratorio con pianta a croce greca che racchiude le tombe dei frati.

Dal retro del primo confessionale destro l'accesso allo scannafosso che nascondeva un passaggio segreto oggi murato il quale collegava la chiesa ed il convento con la casa Campulo.

Tutti gli arredi superstiti sono stati spostati a cura della chiesa di San Giorgio; tra di essi un Cristo nell'urna, scultura in legno di Corrado Leone padre del 1880-1889 aiutato da Nunzio Lissandrello intagliatore dell'urna e Michele Leone di Corrado, indoratore.

Il convento è un edificio possente, a quattro livelli, di cui manca un'ala perché crollata in due fasi; il crollo più grave avvenne negli anni cinquanta. Vi si accede da una porticina laterale alla chiesa sulla cui architrave campeggia una scritta a ricordo del benefattore che contribuì al suo completamento (Q. PEZZO FU DATO DAL SIGNOR VINCENZO CAMPULO ANNO DOMINI 1652), fatto che per molto tempo ha tratto in inganno gli studiosi sull'effettiva mole dei lavori di completamento dell'opera finanziati.

Al livello superiore del Convento erano le celle dei frati oltre ad un accesso al coro e alla cella campanaria; vi si giungeva per mezzo di una larga scala che, invece, percorsa verso il basso portava al chiostro al cui centro si erge un pozzo a base ottagonale e collo alto. Il pozzo, che si sviluppa in profondità con due livelli accessibili da finestre, è posto al centro di disegni geometrici di croci ottagonali realizzate in pietra asfaltica con pavimentazione di ciotolame di fiume misto sia calcareo che vulcanico, esempio unico in questa parte della Sicilia.

Attorno al chiostro l'oratorio e le sale dei lavori quotidiani, quali la biblioteca e gli altri servizi. Il primo piano inferiore aveva le cucine, i magazzini e la mensa sia per i frati che per i poveri; il secondo piano sottoterra era destinato ai magazzini e solo in un secondo tempo fu aperta una porta centrale con accesso alla "silva" e agli orti. Sul finire del XVIII secolo fu affiancato l'altro edificio munito di propria scaletta interna sempre con funzione di magazzino, edificio che malcostruito porterà alla rovina della porzione occidentale del convento.

Per tradizione una Via Crucis si snodava tutti i venerdì con stazioni a Porta Walter, alla chiesetta di Santa Maria dei Miracoli e al Pozzo e di lì risaliva il versante sino al Romitorio del Bollarito, sulla collina di fronte, dove si celebrava la messa.

Dietro la chiesa si può ancora ammirare Porta Walter, inaugurata nel 1644 in occasione della visita a Ragusa del viceré di Sicilia Alfonso Henriquez, che venne accolto con grandi feste e onori, e risparmiata dal terremoto del 1693.  

Alla fine di via di Porta Modica, in un angolo recondito, si trova la chiesa del Signore Trovato, forse tra le più recenti della città storica essendo sorta fra il 1801 ed il 1807 per contribuzione spontanea della popolazione lieta perché era stata ritrovata in quel sito (ora primo altare a destra) la sacra pisside con ostie consacrate rubate il primo marzo del 1801 nella chiesa di Sant'Antonino da un certo Cassarà forestiero a Ragusa che catturato e incarcerato moriva di lì a poco in prigione per la disperazione (così come diceva una canzone popolare).

Sorge a ridosso del "muro bizantino" ed è di semplice fattura; presenta un portale delimitato da paraste che sostengono un frontone triangolare appoggiato su un cornicione; un secondo cornicione di poco più alto è la base di un finestrone delimitato anch'esso da paraste e volute. Un terzo livello conclusivo contiene un campaniletto non raggiungibile.

Ad unica navata, è spoglia all'interno; tra le paraste laterali segni di pittura con decorazioni a motivi analoghi a quelli della facciata. Oggi rimane solo la Cappella del ritrovamento che conserva le decorazioni. L'ultimo restauro risale al 1988.

Tornando in piazza Pola e prendendo per via XXV Aprile, si nota, dopo alcune curve a sinistra, la chiesa di S. Tommaso. La sua fondazione risale probabilmente al XII secolo, cioè al periodo normanno. La chiesa faceva parte di un enorme complesso architettonico, che somigliava a una vecchia dimora feudale, ed era conosciuta anche come Madonna del Carmine perché sede dell'ex monastero carmelitano femminile. Il convento, molto grande e prestigioso, era ricco di fondi e lasciti, visto che molte delle suore erano di nobili natali. 

L’antica chiesa era molto più piccola di quella attuale ed occupava l'attuale parte posteriore dell'altare maggiore con l'ingresso posto su Corso XXV Aprile. Il terremoto del 1693 la distrusse quasi totalmente e danneggiò seriamente il convento che però fu prontamente riparato con la creazione di contro bastioni. I lavori continuarono per tutto il settecento e furono completati nel 1828, anno in cui sembra che siano state realizzate le decorazioni che ancora oggi vediamo. Con l'avvento del regno, chiesa e convento passarono al demanio e le monache ricevettero l'ordine di allontanamento ad altro sito. Solo nel 1898 e dopo lavori di adeguamento, la chiesa potè riaprire con la denominazione di parrocchia di San Tommaso. Il convento, durante il fascismo, venne acquistato da Gianbattista Marini che lo fece abbattere e ricostruire integralmente con criteri moderni nel 1928. Dal 1953 la parrocchia è stata assegnata ai frati Minori Conventuali. Il monumento è stato oggetto negli anni '90 di alcuni lavori di manutenzione.

La chiesa attuale, ricostruita a pianta ovale, è leggermente spostata rispetto a quella originaria e ha inglobato parte delle costruzioni relative al preesistente fabbricato. L'edificio si compone di due corpi di fabbrica: il primo è costituito dall'attuale chiesa di San Tommaso il cui asse longitudinale è parallelo a Corso XXV Aprile; il secondo, che contiene l'ingresso, prospetta su via San Domenico e comprende gli uffici parrocchiali e gli alloggi dei frati. A sinistra un campanile con tre archi di cui il centrale sormontato da una testina d'angelo. Il cornicione in cima al campanile viene attribuito alla scuola del Gagliardi. Il portale d'ingresso, proveniente dall'antica chiesa, è cinquecentesco così come il fonte battesimale in pietra pece datato 1545.

La prima parte (vestibolo), a pianta rettangolare, è chiusa nei suoi lati minori da due absidi di cui una contenente una fonte battesimale e l'altra aperta su dei gradini che collegano la chiesa con gli uffici parrocchiali e gli alloggi. I lati minori confinano uno con via San Domenico, e comprende l'attuale ingresso principale della chiesa costituito da un semplice portale sormontato da una trabeazione dorica, l'altro è confinante con la scuola materna G.B. Marini.

La seconda parte (la navata), presenta una planimetria a forma poligonale inscrivibile in un'ellisse. L'intera navata è coperta da una grande volta a padiglione in canne e gesso.

La terza parte (presbiterio), è caratterizzata da una quota di pavimento più alta rispetto a quello della navata. Contiene l'altare maggiore ed è strutturata in due parti: il transetto, coperto da una volta a botte, e l'abside coperta da una volta a cupola con lesene.

Dietro l'altare maggiore si trova un ampio locale parrocchiale che da un lato si affaccia su Corso XXV Aprile e dall'altro su di un cortile interno da cui, tramite una scala esterna in muratura, si accede ad un corridoio che si estende lungo l'asse longitudinale della chiesa e conduce al coro soprastante al vestibolo, quest’ultimo, coperto da una volta a botte, è dotato di un'ampia finestra che completa, con il portale sottostante, la facciata d'ingresso principale. Dal coro, attraverso una botola in legno ubicata in prossimità del campanile, si accede alla cella campanaria ed al sottotetto.

All'interno si possono ammirare la fonte battesimale in pietra asfaltica del 1545 e più avanti due quadri raffiguranti la Natività e il Rapimento in cielo del profeta Elia. Entrando, sulla destra, c'è quadro di Santa Maria Maddalena dei Pazzi e un settecentesco quadro della Pietà. Sulle pareti di entrambi i lati si notano balconcini e finestrelle con grate monacali. Sull'altare centrale un quadro rappresentante la "Madonna del Carmelo", attribuita a Vito d'Anna, seduta su un trono di nuvole mentre consegna l'abito carmelitano a San Simone Stock. In tempi antichi le suore carmelitane venivano seppellite nei sotterranei della chiesa, a testimonianza di ciò, sul pavimento vicino all'uscita, si nota una scritta in latino che, tradotta, recita: "le prudenti vergini del Carmelo, abbandonando qui le mortali spoglie, volavano allo Sposo Padre Celeste".

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Agosto 2019