Ragusa
  
  

 

Subito dopo la chiesa di San Tommaso si apre il cancello del Giardino Ibleo, ben curato, ampio e panoramico. Sulla storia del Giardino Ibleo si dispone oggi di una scarsa documentazione (AREZZO, 1994; COSENTINI, 1991) e molti dei dati qui riportati sono stati raccolti grazie alle dichiarazioni di anziani cittadini. 

Fino ai primi dell'800, come risulta da una pianta di S. Puglisi del 1837, l'area della villa era un recinto inedificato in cui si riconoscono i resti dei pilastri della cattedrale di San Giorgio, crollata in seguito al terremoto del 1693, la chiesa e il convento di San Domenico e il convento dei Cappuccini. 

Il primo impianto del giardino risale al 1858 grazie all'iniziativa privata di tre facoltosi cittadini iblei: Carmelo Arezzo di Trifiletti, Emanuele La Rocca Impillizzeri di San Filippo e Giuseppe Maggiore marchese di Santa Barbara, come testimonia una lapide situata sul muro perimetrale esterno del convento dei Cappuccini; esso si sviluppava intorno al Viale delle Colonnine così denominato da una serie di colonnine tortili che reggono vasi di terracotta decorati. Inizialmente il giardino era privo di ogni chiusura; la recinzione fu deliberata solo nel Giugno del 1907, affidando il progetto al geometra Giuseppe Pinelli (CULTRERA, 1997; ZAGO, 1986). 

In tale occasione l'ingresso della villa, che si trovava in direzione del Viale delle Colonnine, fu spostato nell'attuale posizione. Il viale principale, chiamato Viale delle Palme per il doppio filare di Phoenix canariensis che lo affianca, prese il posto di una strada carrabile, Via Giarratana, che, parallela al Viale delle Colonnine, risaliva alla città lambendo le rovine del portale e della chiesa di San Giorgio.

Il Giardino Ibleo si trova ad un'altitudine di 383 m s. l. m. e si estende nella parte più bassa di Ibla, da dove si affaccia sulla valle del fiume Irminio. Presenta una forma piuttosto regolare, costituita da una grande L alla quale si aggiunge lo spazio rettangolare del Parco della Rimembranza e occupa in totale una superficie di 15.800 mq, con un perimetro di circa 600 m. Nel giardino si possono distinguere approssimativamente tre parti corrispondenti alle diverse fasi della sua realizzazione. 

La prima, dall'ingresso principale alla chiesa dei Cappuccini, costituisce il nucleo originario del giardino ed è certamente la più pregevole sia nella componente architettonica che in quella vegetale, oltre ad essere la più omogenea dal punto di vista floristico per la presenza di esemplari appartenenti tutti alla flora mediterranea, come Laurus nobilisCercis siliquastrumNerium oleander, o, comunque, di uguale valenza ecologica, quali Bouganvillea spectabilis e B. glabraLigustrum japonicumLantana camara, Pittosporum tobira, ecc. Caratterizzano quest'area il maestoso esemplare di Ulmus minor all'ingresso, il lungo Viale delle Palme, fiancheggiato da 50 esemplari di Phoenix canariensis, il Viale delle Colonnine, con diversi annosi individui di Cercis siliquastrum. Dalla chiesa dei Cappuccini ci si inoltra nella seconda parte del giardino, realizzata in stile più rigorosamente formale, secondo un gusto tipico degli inizi del Novecento, con aiuole di forma geometrica disposte intorno ad una vasca circolare. Un elemento di raccordo è rappresentato dalla collinetta, tipica componente del giardino tardo-romantico, con una piccola rotonda a cui si accede da due tortuose scalette in pietra delimitate da arbusti di Medicago arborea, altra essenza mediterranea. 

La terza e più recente parte è costituita dalla zona informale della pineta, il cosiddetto Boschetto della Rimembranza. Tipologicamente esso si presenta come l'area più estranea al resto del giardino, con il quale non è assolutamente integrato sia dal punto di vista stilistico che botanico, forse per la mancanza di una effettiva progettazione.  

La componente floristica è estremamente povera, essendo presenti solo numerosi Pinus pinea, disposti in modo irregolare, alcuni Ligustrum japonicum ed Eucalyptus camaldulensis.Nel suo complesso, quindi, il Giardino Ibleo si presenta per la maggior parte realizzato in stile formale con la sola eccezione della pineta. La flora è costituita essenzialmente da Fanerofite; le specie esotiche sono presenti in percentuale leggermente maggiore rispetto alle autoctone mediterranee, ma comunque esse sono tutte ecologicamente compatibili con le condizioni climatiche della zona iblea.  

Il Giardino Ibleo rappresenta ancora oggi per la città di Ragusa, soprattutto per la sua parte più antica, Ibla, un elemento caratterizzante del patrimonio monumentale, perfettamente inserito nel contesto urbano e, unitamente a chiese e palazzi del centro storico, costituisce un insieme architettonico e paesaggistico unico e irripetibile. Oggi come ieri, esso continua a svolgere un importante ruolo di socializzazione e di incontro per utenti di tutte le età.

All'interno della villa sorgono tre chiese: quella dei Cappuccini con convento, quella di San Giacomo e quella di San Domenico o del Rosario, dal campanile con maioliche colorate.

La chiesa di S. Giacomo, che nasce a partire dal XIII secolo e si arricchisce delle spoglie della chiesa di San Teodoro crollata con il terremoto del 1693.

Nel XIII secolo con l'avvento dei Chiaramonte si ebbe un incremento delle costruzioni religiose a Ibla, per questo, probabilmente fra il 1283 ed il 1392 sorgeva questa chiesa (l'aquila aragonese sopra l'altare maggiore starebbe ad indicare quel periodo). Alla chiesa fu associata una Confraternita con compito di curare il servizio alle funzioni.

E' fra le chiese visitate dal Monsignor Platamone nel 1542. A quei tempi era a tre navate, ma il terremoto ibleo la rovinava così come la limitrofa chiesa di San Teodoro tanto che si decideva di ricostruirne una sola ad unica navata e ricavare la sacrestia dalla seconda che veniva cancellata. Già dai primi anni del dopo terremoto si iniziano i lavori e nei primi del settecento si provvede alla copertura lignea.

Nel 1770 per le valenti opere prestate il vescovo di Siracusa promuoveva la Confraternita in Arciconfraternita.

La facciata attuale è un'ulteriore ricostruzione visto che nel 1901 la precedente era andata distrutta. Su disegni dell'ingegner Giuseppe Pinelli i lavori furono completati da Antonio Ingallina nel marzo 1902. L'originale presentava quindici mensoloni riccamente scolpiti (da alcuni giudicati cinquecenteschi e di scuola gagginesca) che essendo posizionati sul prospetto al secondo ordine dovevano servire a reggere le gallerie laterali non più realizzate dopo il terremoto e quindi tolti nell'ultimo restauro.

Oggi la facciata si presenta suddivisa in tre ordini: quello inferiore con ingresso principale fra due colonnine con capitelli corinzi, il secondo con una finestra con lunetta da cui prende luce l'interno, l'ultimo con il campanile circondato da una balaustra interrotta da una scultura con San Giorgio Cavaliere fiancheggiato da due statue rappresentanti S. Anna e Maria SS. Bambina a destra e San Giovanni Evangelista a sinistra.

Due le campane: una, la più grande, recante i nomi dei procuratori della chiesa risale al 1703; sulla piccola la data è illeggibile.

All'interno, nell'unica navata, ben undici altari (cinque per lato) di cui tre, nell'area della cappella maggiore, riccamente decorati da Giuseppe Calvo nel 1888. La luce è assicurata da modeste finestre rettangolari poste fra un cornicione e quello che resta di un controsoffitto ligneo.

Entrando a destra sopra il primo altare c'è un quadro dedicato a San Cristoforo che lo rappresenta sia da giovane che da vecchio, con il Bambino sulle spalle, opera del 1720 del reverendo don Filippo De Stefano da Ferla; sul secondo altare un quadro che rappresenta la Morte del giusto attribuibile a don Giuseppe Pugliarello da Siracusa. Segue un confessionale con pulpito mentre il terzo altare è adornato da una tela dedicata alla Madonna della Luce opera di Ignazio Scacco del 1719; segue, infine, l'ultimo altare laterale che contiene un quadro con San Giovanni Evangelista dello stesso autore.

Nell'area absidale si osservano tre altari: quello destro presenta un quadro della Madonna che appare a San Francesco di Paola dipinto da don Giuseppe Pugliarello da Siracusa nel 1719, a cui si affianca un piccolo gruppo statuario con Dio padre circondato dagli angeli. A sinistra, invece, fra colonne dorate che reggono un tempietto ad arco spezzato in cui troneggia il Dio Padre circondato dagli angeli il Crocifisso fra la Maddalena e l'Addolorata. Sull'altare maggiore un'aquila aragonese scolpita in pietra asfaltica e in una nicchia la bella statua di San Giacomo (di autore ignoto, recuperata intatta dopo il terremoto ed oggi in una teca) con mantello a fiori dorati su sfondo rosso e blu. In basso una recente urna con Cristo deposto.

Procedendo ora verso l'uscita un primo altare con quadro di San Sebastiano con Madonna e Bambino a cui segue un altro altare con un quadro raffigurante San Giacomo che combatte contro i Mori, realizzato a due mani da Vincenzo Fazello e Ignazio Scacco nel 1682 con rifacimenti del 1708. Il penultimo altare contiene una Madonna del Piliero (da Pilar, dalla tradizionale apparizione mariana predetta dall'Apostolo su una colonna in terra spagnola) con Gloria e Cherubini opera del reverendo De Stefano. Conclude un ultimo altare con quadro dedicato a Sant'Ignazio.

Il soffitto ligneo fu decorato forse da Matteo Battaglia nel 1754 e indorato da Giovanni Cannì nel 1786; essendo fortemente danneggiato durante i restauri del 1902 fu parzialmente ricomposto. Il catino riproduce una finta cupola (lavoro simile a quello osservabile sia a Santa Maria del Gesù che a Santa Maria dello Spasimo) con disegnate finestre semicircolari; al centro una SS. Trinità e Maria Santissima Coronata, con intorno putti alati e foglie, mentre agli angoli sono i Quattro Evangelisti. Tre tele, che erano collocate in riquadri del soffitto ligneo, riproducevano scene della vita di Cristo (Natività, i re Magi e la Fuga in Egitto); le opere erano di Simone Ventura su disegni di un Frate Ginepro per incaricato avuto nella prima metà del settecento, ma sono andate perdute nonostante il restauro che era stato approntato nel 1939 da Francesco Flaccavento.

Di grande effetto il pulpito collocato su un confessionale, opera in stile neogotico realizzato dallo scultore ragusano del legno Nunzio Lissandrello nel 1888. L'organo, sulla parte opposta, datato 1885 è opera di Casimiro Alleri.

In sacrestia oltre ad un altare di pietra scolpita del 1724 si trova una lastra in pietra pece molto antica con la Madonna della Luce analoga a quell'edicola sacra presente sul lato destro della chiesa (sul muro della sacrestia) opera del pittore ragusano Lo Presti del 1892 (la tradizione proviene dalla preesistente chiesa di San Teodoro sembra edificata sul tempio pagano dedicato alla dea Lucina). Una leggenda dice che se si tenta di spostarla si scatenano terremoti.

Sempre accanto alla parete destra esterna sono allocate due statue provenienti da altre chiese dismesse: sono una Sant'Anna che tiene in braccio la Madonna bambina proveniente dalla chiesa di Santa Maria dei Miracoli e un San Giovanni Evangelista.

Nel periodo pasquale la chiesa e il presbiterio sono ripieni di ceri per i caratteristici "Sepolcri" che le conferiscono un'atmosfera altamente suggestiva.

La chiesa dei Cappuccini con l'annesso convento si trova  in posizione panoramica. Il convento, in avanzato stato di restauro, è destinato sin dal 1979 quale sede del Museo Diocesano di arte sacra ed ospita frequentemente interessanti mostre; per la bellezza degli interni, invece, la chiesa è fortemente richiesta per la celebrazione dei matrimoni. Nell'ala destra del convento ha sede una biblioteca civica fondata nel seicento dall'abate De Gaspano in cui si conservano rari testi e manoscritti di epoca precedente, ancora non definitivamente catalogati (si parla di circa quattromila volumi oltre gli annali).

Anche in questo caso gli insediamenti nel sito sono di antichissima origine. All'attuale complesso preesisteva la chiesa di Sant'Agata che era stata eretta nel 1519. I Padri Cappuccini (giunti a Ragusa nel 1537 subito dopo la formazione dell'ordine dei riformati, avvenuta nel 1525) si erano stabiliti in un convento sito in un'area lungo il Torrente San Leonardo e non lontana dalla sorgente del Propenso e si dedicavano alla cura degli orti grazie alla concessione delle acque di quella sorgente; ma per l'insalubrità dei luoghi e l'imperversare della malaria chiesero una nuova sede. Vista la richiesta, dal 1603 il parroco di San Tommaso offrì i luoghi per costruire la nuova sede, ma solo in seguito alla decisione del Capitolo ordinario dell'Ordine tenutosi a Piazza Armerina nel 1607, si potè fare il trasferimento.

Notevoli dovettero essere i danni alle strutture a seguito del terremoto del 1693 se nonostante le nuove murature nell'evento perivano almeno tre frati. Il convento e la chiesa furono ricostituiti. Alcune date sono testimoniate sull'edificio: 1714 è scolpito su un trave del soffitto, 1715 è sulla porta del coro, 1742 sul pavimento del corridoio di entrata al convento. Il convento, come si può vedere ancor oggi, era abbastanza grande essendo stato costruito per ospitare quaranta frati; per le sue caratteristiche si prestò allo svolgimento di vari Capitoli ordinari dal XVI al secolo scorso (l'ultimo fu del 1858). Con l'avvento del regno, nel 1866, chiesa e convento furono incamerati al demanio e il fisco li rivendette al Padre Provinciale del tempo che per riacquistarli aveva organizzato una colletta; le opere d'arte, anch'esse incamerate, rischiavano di essere disperse se non fosse intervenuto l'allora sindaco barone La Rocca Impellizzeri che istituiva una Pinacoteca comunale con sede presso il nuovo Municipio.

Chiesa e convento sono semplici ma spaziosi; quest'ultimo presenta ben tre livelli. La chiesa al semplice portone somma un finestrone e un piccolo frontone triangolare in cui è allocato anche lo stemma dell'ordine sormontato da una croce e da un piccolo campanile a destra con unica campana.

L'interno è ad una sola navata e con cinque altari in legno. Il visitatore all'ingresso è colpito subito dall'altare maggiore dove spicca il famoso trittico - di Pietro Novelli, detto il monrealese, della metà del XVII secolo. Si narra che l'autore, definito il Caravaggio siciliano, qui si trovava ospite e rifugiato perché scappato da Palermo in seguito ad una furiosa lite con un amico del re; trovato asilo presso i frati per sottrarsi alle ritorsioni, si disobbligava dell'ospitalità, dipingendo per essi la bella pala. Secondo altre fonti l'opera, forse, era stata già commissionata prima, quando l'Autore era venuto al seguito di Don Giovanni Alfonso Enriquez conte di Modica e in quegli anni viceré, nella qualità di Architetto militare del regno. Queste magnifiche tele, incorniciate da una lavoratissima cornice in legno intarsiato e scolpito, rappresenta nella parte centrale l'Assunta che circondata da Angeli e Santi sale al cielo su una nuvola bianca mente a terra i discepoli guardano estasiati la scena (la tradizione dice che a sinistra fra i discepoli con barba e baffi ci sia lo stesso Novelli). La tela alla sua sinistra raffigura San Pietro che riattacca il seno tagliato da un soldato romano a Sant'Agata, mentre a destra c'è il martirio di Santa Barbara.

Ma procedendo dall'ingresso al primo altare a sinistra vi è un Crocifisso ed un quadretto all'Addolorata, mentre sul secondo altare si apprezza una statua della Madonna delle Grazie; fra questi una teca contiene la statuetta con Gesù bambino benedicente.

Sulla parete dell'altare maggiore, dove è ubicato il famoso trittico, si osserva più in basso un Sant'Antonio da Padova da un lato e un San Francesco dall'altro, Sempre a sinistra del trittico, inoltre, una tempera antica, attribuita da alcuni a Deodato Giuinaccia, ma sicuramente opera di qualche frate riformato, datata al 1520 che rappresenta un presepe collocato in un paesaggio che arieggia la collina di Ibla e chiamata da tutti "la Natività", salvata dal terremoto e qui trasportata dalla prima sede conventuale che sorgeva vicina al torrente. Semplici, ma di bell'effetto il pulpito e una cattedra in legno per il coro presenti nei pressi dell'altare maggiore.

Ritornando ora verso l'uscita, a destra, un altare con quadro a San Francesco pregante alla Porziuncola, opera di G. Calabrò del 1904, mentre l'altro altare presenta una statua di Sant'Antonio da Padova; fra di essi il confessionale.

Nei pressi dell'uscita altri tre quadri, il primo a sinistra dedicato a Santa Lucia di Antonio Manoli del 1725 ed il secondo ad una Sacra Famiglia di epoca recente (1904), opera del Calabrò, mentre sul lato opposto, quello destro, una Madonna degli infermi.

Sui due lati dell'altare maggiore da due porticine l'accesso alla sagrestia dov'è conservata una pregevole cassettiera; sembra sia questa la sede dell'ex chiesa di Sant'Agata; in ricordo di ciò la Santa è ancora oggi oggetto di particolare devozione.

Ma il capolavoro assurto quasi a simbolo di Ragusa è il portale laterale della chiesa di S. Giorgio, distrutta dal terremoto, che si trova a destra dell'ingresso della villa. Si tratta di un magnifico por­tale in stile gotico-catalano con "San Giorgio che uccide il drago" nella lunetta e le aquile aragonesi nei due rombi laterali. 

La chiesa di San Giorgio, che molti oggi chiamano "vecchio", e di cui resta in via Normanni un portale (che era la porta laterale destra), fu costruita probabilmente sin dal 1349 per volontà della famiglia Chiaramonte (ed in particolare del conte Simone) che non ritenevano la primitiva chiesa edificata presso il Castello degna del Santo protettore.

La chiesa era a tre navate. All'interno c'erano quattordici pilastri e dodici altari laterali oltre quello principale ed i due delle cappelle laterali ed un fonte battesimale. Antistante il tempio un cortiletto delimitato da un muretto di pietra locale e tre cancelletti d'accesso posti di fronte ad ogni apertura. Sulla facciata cinque statue rappresentavano il Salvatore al centro, i Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista da un lato, Pietro e Paolo dall'altro. Sul lato sinistro c'era un campanile, ideato dall'architetto ragusano di scuola romana Antonino Di Marco, completato nel 1550. Nel corso della lunga realizzazione i nobili locali avevano fatto a gara per arricchire la chiesa di arredi; sono un esempio le quattro statue dedicate alle Sante Barbara, Rosalia, Agata e Lucia donate dai Fratelli Castilletti. Oltre alle numerose statue (alcune salvate al terremoto che ancora oggi si possono ammirare dentro il Duomo di Ibla, probabili opere di Giandomenico Gagini figlio del più celebre Antonello autore della tribuna d'altare che oggi è nella sagrestia di San Giorgio) la cappella maggiore, distaccata dalla navata da un cancello in ferro, era adorna degli stucchi del Paparella, un artista romano che in quest'area operò. 

L'altare maggiore dedicato al Santo titolare era attorniato dal coro a cui erano appoggiate diciassette statue in pietra calcarea e dodici medaglioni raffiguranti i dodici Apostoli opera di Filippo Paladini da Firenze, mentre chiudeva il coro un quadro di grandi dimensioni con raffigurata la SS. Trinità adorata da quindici Santi ausiliatori opera di Domenico Capizzi. 

La navata di destra era detta del Sacramento o dell'Assunzione di Maria Vergine, mentre quella di sinistra era dedicata al Crocifisso; contenevano l'una gli altari dedicati all'Immacolata, all'Angelo Custode, a Santa Maria degli Angeli, alla Madonna del Carmine e a San Giuseppe l'altra quelli dell'Ascensione, di Santa Elisabetta e San Giovanni, Santo Stefano, l'altare delle Anime Purganti e poi quello di San Crispino e Crispiniano, tutti con quadri dedicati (in una cappella laterale affreschi del Novelli che gli contribuirono al titolo datogli dal Vicerè Giovanni Alfonso Enriquez Cabrera di "architetto del regno sia civile che militare").

Per la bellezza della chiesa scelsero di farvisi seppellire il Visconte Bernardo Cabrera Conte di Modica (con testamento del 1419) e suo figlio Conte Giovanni Bernardo (morto prematuramente e sepolto di fronte al Battistero) e la moglie Contessa Violante Prades. Durante il terremoto si salvò solo la lapide del Visconte che con imponente manifestazione nel 1737 fu traslata con le ossa di tutti e tre i familiari nel transetto del Duomo. V'era, infine, un gran battistero in pietra pece con iscrizioni in latino e greco.

Subì qualche danno dal terremoto del 1542 (e forse proprio per questo motivo si sa di lavori eseguiti in quel periodo); si sa del completamento del campanile nel 1550, delle decorazioni del catino compiute dal pittore fiorentino Filippo Palladini giunto qui al seguito dei Colonna tra il 1600 e il 1614, mentre nel 1633 si restaurava la volta tanto che il conte Giovanni Alfonso, nella visita del 1643, la poteva ammirare al massimo dello splendore. In quello stesso anno, accogliendo una petizione popolare, papa Urbano VIII elevava San Giorgio a patrono cittadino e alla sua chiesa tutte le altre dovevano sottomettersi.

Nel 1692 un fulmine aveva abbattuto il campanile e con il terremoto del 1693 la chiesa crollò quasi interamente. Si decise di ricostruire un nuovo tempio, nel frattempo per le funzioni veniva approntata una tettoia, abbastanza vasta da contenere tremila fedeli, addossandola alla parte residua. Nel 1744 fu deciso di "adeguare al suolo" quanto non era crollato visto che si era realizzata la base dell'attuale Duomo; i muri furono abbattuti, gli altari e le statue smontate la stessa pietra riutilizzata. Una delle tre navate resistette sino ai primi dell'Ottocento quando si vendette il sito con la clausola di lasciarne il ricordo, oggi monumento nazionale.

Quello che rimane è, quindi, solo una minima parte della chiesa danneggiata; un portale gotico catalano compreso fra due abitazioni private ottocentesche che prospetta su un piccolo e sguarnito giardino separato dalla via pubblica da una cancellata. Decorano il portale solo un fascio di sei colonnine su base rialzata con capitelli multipli fogliati su cui si impostano ghiere di anelli sfalsati ad arco acuto che affondano a gradoni. Sugli archi decorazioni a traforo con immagini di foglie e animali, mentre alla base della ghiera sono rappresentati i mestieri Iblei di antica tradizione tra cui riconosciamo il mielaro. 

All'interno della lunetta un tradizionale San Giorgio a cavallo che uccide il drago liberando la principessa di Berito; ai lati dell'arco ogivale, all'interno di due losanghe le aquile aragonesi segno di riconoscimento del tempo in cui fu eretto e della famiglia devota. Al centro dell'arco acuto una croce lavorata anch'essa a traforo con decorazioni floreali. La porticina realizzata al posto del vecchio portone con una lastra di ferro è chiusa ed il muro di fondo intonacato. Una lapide in marmo inserita sotto la lunetta ha la seguente iscrizione: "Qui dove sorgeva il maggior tempio che il terremoto del 1693 rovinava in parte e l'eroica fede dei padri restaurava l'insigne Collegiata di San Giorgio ebbe sua prima sede XXVI Agosto MDCCXXVI I cittadini questo cancello che scopre agli occhi dei passanti il prezioso avanzo del superbo lavoro quattrocentesco in memoria posero XXII Aprile MCMXXVI".

Ritornando in piazza Pola e proseguendo per via Orfanotrofio, ci si trova davanti la chiesa di S. Antonio, già Santa Maria La Nuova, dal bel portale ogivale laterale, residuo dell'antica struttura in stile gotico, e dal portaletto barocco. 

Ben poco oggi si sa di come dovesse esser prima del tragico terremoto del 1693 il complesso chiesa-convento di Sant'Antonino che oggi vediamo ridotto alla sola struttura della chiesa trasformata in auditorium.

La chiesa sorse sulle vecchie fabbriche della chiesa di S. Maria la Nova intorno al 1610. Non si conoscono i reali motivi che porvarono a cedere la chiesa ai minori francescani del Terzo Ordine sul finire del cinquecento, frati che a quell'epoca risiedevano in altro sito. Essi intorno al 1610 la adattarono a convento allargandolo grazie all'offerta di case vicine e ricostruita la chiesa la dedicarono a Sant'Antonino. Nella visita vescovile del 1621 si sa che è ancora conosciuta per un altare a Santa Maria la Nova, mentre nella visita del 1654 è già dedicata al Santo. Il terremoto la fece crollare tanto da venir totalmente ricostruita come buona parte dell'annesso convento.

Con la soppressione dei beni ecclesiastici il Demanio procedette alla vendita; la chiesa fu acquistata da cittadini e da un canonico intenzionati al ripristino, il convento da un'altro privato. Tutti gli arredi furono invece acquistati dal Cavalier Emanuele Schininà Cosentini che li portò nella costruenda chiesa dell' Angelo Custode di Ragusa superiore.

L'allargamento della limitrofa via Monti Erei nel 1917 distrusse in parte il convento e il campanile che era probabilmente del XV secolo con due campane; oggi rimane la maggiore con iscrizione e data del 1888.

Delle nobili preesistenze rimane un bellissimo portale in stile gotico dalle linee essenziali ed eleganti consistente in un arco a sesto acuto sostenuto da due pilastrini e da coppie di colonnine; sul pilastro sinistro si nota un pinnacolo con capitello.

 Anche all'interno della chiesa nel portale della sagrestia si notano altri resti dell'antica struttura, in particolare un arco ricorda lo stile arabo-normanno. Anche della successiva chiesa resta un piccolo portale . di stile barocco, datato 1761, adiacente a quello gotico ravvivato da girali di foglie scolpite. La vicinanza dei due stili crea un angolo suggestivo dato che in così poco spazio sono testimoniati diversi secoli di storia.

La chiesa, dalla semplice struttura, presenta una facciata principale definita fra paraste; anche il portone d'ingresso è limitato da paraste ornate e sopra presenta una finestra rettangolare.

L'interno è ad unica navata e un tempo conteneva cinque altari scomparsi dopo il passaggio al demanio.

Di questa chiesa si ricorda solo un quadro raffigurante l'Addolorata.

Vicino alla chiesa si erge il gentilizio palazzo Di Quattro con un lungo balcone nella facciata, forse il più lungo di Ragusa, ed un arioso cortile dal magnifico scalone neoclassico a doppia rampa e splendida balaustra.

Lungo la via Orfanotrofio, con accesso dal civico 43, confinante con la chiesa di Sant'Antonino , il palazzo Di Quattro oggi si presenta in buono stato di conservazione, ma con rifacimenti che lo hanno allontanato dal vecchio stile tardo barocco con cui era nato a favore di un gusto neoclassico.

Sull'area di un edificio preesistente al terremoto fu fatto costruire nel settecento dal duca Arezzi di San Filippo e solo in seguito ceduto alla famiglia Di Quattro dalla quale oggi prende il nome.

L'edificio, dalla mole imponente ma dalla struttura semplice e tradizionale, è caratterizzato dalla lunga facciata che presenta aperture principali e secondarie in stile tardo barocco; al livello superiore su una lunga e inconsueta unica balconata, sostenuta da quarantanove mensole, sette porte-finestre con frontoni triangolari. Aste porta lampade in ferro battuto sono ubicate all'esterno.
La pianta rettangolare si sviluppa attorno ad un cortile interno. 

L'ampio atrio, caratterizzato da tre archi a tutto sesto, immette nel cortile in fondo al quale c'è una scenografica scalinata a più rampe che conduce ad un portico con colonne dorico-romane e da cui si accede agli appartamenti. Su questa facciata interna in stile neoclassico spicca lo stemma della famiglia. All'interno le volte sono a botte di canne e gesso ed i pavimenti in pece e calcare ed in alcune stanze in ceramica di Caltagirone policroma del XVIII secolo. Le pareti presentano stucchi e affreschi e risultano dipinti anche le sopraporte. L'arredo consiste in tendaggi e tappeti francesi dell'ottocento, specchi e suppellettili antiche di varie epoche e stili. 

Per una piccola traversa a destra si può arrivare all'antica chiesa di S. Francesco all'Immacolata che sorge in un'incantevole posizione che domina la valle di San Leonardo.

Ben poco si sa sull'effettiva origine del sito. Per alcuni ricercatori del secolo scorso l'area rimase inedificata sino al XIV secolo quando la potente famiglia dei Chiaramonte, preso possesso della Contea, si rese conto dell'inadeguatezza dei locali del vecchio castello e preferendo Ragusa a Modica quale sede domestica iniziarono la costruzione di un fastoso palazzo residenziale simile alla loro sede palermitana, lo Steri. 

Ai Chiaramonte seguirono i Cabrera tant'è che si dice come nel 1471 vi morisse la contessa Violante Prades, vedova di Giovanni Bernardo, l'ultima nobile dei Conti che risiedette negli Iblei.

Così, a partire dalla fine del XV secolo l'area e le superstiti murature vennero richieste e cedute ai frati che rovinando parti di muratura ne adattarono il resto alla vita conventuale. 

Per la tesi del palazzo nobiliare trasformato si sostiene quindi che quello che rimane oggi è quanto salvato da distruzioni e terremoti e con ciò ci si riferisce alla possente torre campanaria e al portale conservato sul lato occidentale dell'attuale chiesa.

Ma la tesi più valida è quella proposta da uno stesso padre Conventuale, lo storico Filippo Rotolo, che consultando gli archivi e da sapiente conoscitore delle architetture del proprio Ordine ha abbozzato una storia dell'immobile sin dalle origini, da quegli anni in cui si diffuse il francescanesimo negli Iblei. Secondo il ricercatore la presenza dei Minori risale agli anni della morte del Santo e già alla fine del XIII secolo si contavano molti frati ragusani.

Dagli alloggi di fortuna provvisori in un primo tempo occupati si passò all'edificazione di un vero convento con chiesa che i frati dedicarono all'Immacolata. Il complesso doveva già esistere nel 1334 se era nominato fra i cinque conventi della "custodia" di Siracusa.

Forse l'unico elemento costruttivo residuo resistito è la parte inferiore della torre campanaria. Se la si osserva oggi non sfuggirà come essa sia rifinita bene sul lato occidentale; il lato meridionale, pur se pensato per esser a vista, non è ornato mentre quello settentrionale per quasi un metro è rifinito e realizzato per esser in parte osservato ma nel restante è grezzo, come se dovesse esser immerso nella muratura. Infine il lato orientale è totalmente sguarnito segno che era tutto nascosto alla vista. Questo fa ipotizzare come il campanile fosse agganciato in modo diverso alla vecchia chiesa.

La sua notevole altezza e potenza è interrotta a vari livelli da quattro fasce marcapiano che lo rendono snello. Le prime due sono molto semplici, caratterizzate da una cornice da cui pende una fila di dentelli a coda di rondine la prima, mentre l'altra è semplice. Il terzo marcapiano presenta figurine più complesse quali archetti pensili con all'estremità foglioline e crocette scolpite, mentre la successiva, nel riprendere il motivo della seconda, ne risulta più semplice. Si aprono qui le quattro finestre da cui emergono le tre campane. Conclude la serie un quinto cornicione che sorregge una balaustra ornata con candelabri e avente ai quattro lati resti di statue. 

Superiormente a questo motivo settecentesco si erge una loggetta-cupoletta con oculi superiori e a sezione ottagonale, dal chiaro stile barocco e sicuramente realizzata nel post terremoto abbellita da quattro archi stretti e alti che si alternano a quattro nicchie con semplice conchiglia. Tra le altre ipotesi addotte e contrarie al palazzo nobiliare l'assenza di stemmi dei Conti e il fatto che l'uso del tempo era quello di realizzare palazzi centrali e non periferici alla cittadina. 

Bello il portale superstite caratterizzato dai grossi fasci cordonati della strombatura, da semplici capitelli con foglie appena accennate dai fasci che chiudono il classico arco gotico; fu ricostruito dopo il crollo di parte dell'edificio e qualche ricercatore lo associa all'epoca federiciana.

Si sa che nel XVI secolo furono fatti notevoli lavori, forse per i disastrosi effetti del terremoto del 1542. Fu fatta ad esempio la sacrestia che era stata dimenticata e nel 1580 era completa. La ricostruzione, in stile tardo manieristico, nel 1644 era completa tant'è che il convento ospitò il seguito della visita del Conte-Vicerè Giovanni Alfonso Enriquez Cabrera. Si deve inoltre ricordare che al 1608 risale la cappella che Agata Gallo donò alla sorella Maria ed alla nipote Mattea morta a soli 22 giorni di vita, così come ricordato nella commovente epigrafe.

Quando il terremoto del 1693 ne rase al suolo una parte oltre ai tetti quella fu ricostruita in stile barocco. L'ingresso fu spostato a Sud, con l'apertura di un portale barocco nell'attuale piazza Chiaramonte, la facciata fu arretrata spostandola dal campanile e si rimontò il portale duecentesco crollato. Oltre la data conosciuta per dimostrare la torre campanaria così completata del 1713 si sa che furono operate modifiche murarie nel 1751 e alle volte della navata destra nel 1753 come si legge nella prima volta.

La chiesa, la più grande di Ibla dopo San Giorgio, si presenta a tre navate e senza transetto, divise da due fila di sette pilastri cruciformi di cui gli estremi annegati nelle murature con capitelli ionici scolpiti nel calcare ragusano. Sei finestre per lato rendono luminoso l'interno. Le navate laterali sono divise in cappelline quadrate ognuna delle quali sormontata da una cupoletta schiacciata a quattro vele non visibile all'esterno. Ci sono nove altari di cui tre di magnifica fattura sono allocati nell'area absidale. I pavimenti tradizionali di calcare e pece con motivi geometrici sono in parte sostituiti.

Entrando dall'attuale ingresso che da sulla piazza Chiaramonte si accede alla navata destra dove, dopo aver ammirato l'acquasantiera in pietra asfaltica di forgia cinquecentesca, si può percorrerla osservando sia gli altari, ma sopratutto i quadri e le belle opere d'arte che li arricchiscono.

Subito a sinistra, oltre l'ingresso, un primo altare è adorno del quadro riferibile ad Antonino Manoli (un pittore locale del settecento) con il Beato Andrea in estasi che riceve da un angelo una stola e visita gli ammalati da curare (nelle mani di un angelo un libro con lo stemma dei Conti di Segni a cui apparteneva Andrea), del 1724 anno della Beatificazione. A destra, oltre l'acquasantiera, il secondo altare della navata destra con il quadro a San Giuseppe da Copertino che adora la Croce, del 1816, opera di Elia Interguglielmini; allietano la scena due preti in ginocchio, mentre alle spalle un ricco paesaggio con chiesa, castello turrito e contadini che ammirano la scena mentre gli animali bevono alla sorgente. Superata la cappellina con la statua lignea di San Francesco il terzo altare che presenta un Crocifisso accompagnato da due quadri, il primo a destra con San Giovanni, mentre a sinistra l'Addolorata, entrambi di ignoti.

Si giunge così nella cappella destra dove, oltre all'altare in marmo policromo adorno con una coppia di angeli reggilume, si ammira un San Francesco pregante alla Porziuncola; in alto a destra un Cristo che regge la croce affiancato dalla Madonna mentre a sinistra il Santo è in preghiera con vicino un Angelo che regge un cesto di rose. Allieta la cappella a destra Santa Chiara ed a sinistra "La comunione della Vergine" in posizione genuflessa che riceve l'ostia da San Giovanni; Gesù' la guarda da destra mentre al centro troneggia la Colomba ed a sinistra un Angelo tiene sul capo della Madonna la corona con dodici stelle. Ai piedi dell'altare una tomba della famiglia La Rocca Impellizzeri.

Si passa poi nell'area absidale della navata centrale dove si ammira l'altare maggiore a marmi policromi, arricchito anch'esso da due angeli reggicandela in marmo bianco (tutti gli angeli presenti negli altari absidali sono opera del palermitano Valerio Villareale, sembra allievo del Canova). Abbellisce quest'angolo, una Immacolata intagliata in legno con le tombe di Maria Gallo e della figlia Mattea dentro l'arcosolio a destra.

Infine la cappella sinistra dedicata all'Immacolata con altare in marmi policromi, cornici e volute con sopra angeli reggicandela che adornano e mettono in risalto il quadro del Manno del 1796.

A sinistra la cappella degli Arezzo di Donnafugata, coloro che fecero l'epopea dell'omonimo castello, con i tre sarcofagi ed i mezzibusti di Concetta A. di Trifiletti, della figlia Vincenzina morta prematuramente e dello stesso barone Corrado De Spuches che dapprima era sepolto al castello, ma che nel 1908 qui fu deposto. Questa cappella di famiglia è racchiusa da un alto cancello in ferro battuto del messinese Giuseppe Cilesti mentre le opere marmoree, in marmo di Carrara, furono realizzati a Messina da Scarfi ad eccezione di quello del barone che è più recente, opera di Zappalà, noto scultore messinese; le decorazioni, infine, sono del pittore locale Agostino del Campo.

Il giro della chiesa si completa con la navata sinistra in cui abbiamo un altare adorno di una Risurrezione di Cristo del XVIII secolo; segue la cappellina con la statua a Sant'Antonio con in braccio Gesù' ed ancora un'altro altare su cui è un quadro con l'Adorazione a Maria e Gesù' di ignoto autore e con a lato la statua di Santa Teresa; segue un'altro altare, il penultimo, con un quadro recente (1991) realizzato dal ragusano Di Natale in memoria del sacrificio di padre Massimiliano Kolbe. Infine l'ultimo altare con il Riposo della Sacra Famiglia di Antonio Manoli a cui si riferisce anche un San Lorenzo martire sulla graticola del 1724 posto sulla parete opposta all'altare maggiore. In quest'area si trovano inoltre altri due quadri provenienti da chiese dismesse al tempo del terremoto; al centro una seicentesca Madonna dell'Idria, recentemente restaurata, in cui la Vergine fra le nuvole tiene in braccio un Gesù' benedicente fra i Calogeri inginocchiati è ed un'altro quadro, sicuramente più recente, con l'Angelo Custode che indica la retta via ad un bimbo, ambedue naturalmente di autori ignoti.

Allieta la chiesa la presenza di un organo funzionante posto a destra guardando l'altare maggiore mentre a sinistra c'è un bel pulpito ai cui piedi, in mezzo ad un pavimento di calcare e pece, è una lastra tombale in pietra asfaltica con pregevole bassorilievo raffigurante un cavaliere in costume spagnolo che giace su un letto, con una mano sotto la guancia e l'altra che indica il castello; la lapide reca la data 1577.

La chiesa possedeva un tempo un piccolo "tesoro"; tra quegli oggetti conservati, oramai scomparsa perché venduta agli inizi del secolo con la dismissione del patrimonio del convento, una scatola ottagonale in avorio con bassorilievi raffiguranti scene della vita di Cristo. Si pensa che sia la stessa conservata al Louvre, acquistata dal museo parigino dai privati nel 1913. Ed inoltre un incensiere, pezzo d'oreficeria siciliana del XV secolo e le reliquie del legno della Croce, un po' del velo della Vergine e un lembo del mantello di San Giorgio. Nella sagrestia un'Immacolata del 1767.

Nel convento, ricostruito perché completamente distrutto con il terremoto del 1693, costituito da un livello oltre quello al piano terra, oggi c'è la casa di riposo di mendicità . All'interno uno dei più bei lavori in pietra asfaltica degli iblei, una meravigliosa scala d'accesso in stile tardo barocco. Lo scalone d'accesso presenta due grifi dal lungo muso che sostengono assieme alle colonnine un largo passamano. Sul primo pianerottolo quattro cariatidi di cui due sorreggono putti con clipeo con motti che inneggiano la Madonna, e gli altri due sorreggono vasi di fiori. Nella parete dove si apre la porta d'accesso alla chiesa vi è lo stemma francescano, in quella a lato una composizione di tre croci dipinte ed una Pietà di Ignazio Guarrella del 1923.

Proseguendo lungo la stretta e caratteristica via, si arriva ad uno slargo dove si erge palazzo Battaglia, certamente fra i più interessanti esempi di architettura civile del barocco ibleo.
Ha l'inconsueta caratteristica di presentare ben due facciata principali, una nella piazzetta lungo la via Orfanotrofio e l'altra su uno slargo lungo la via Chiaramonte, al numero 40. Una cavalcavia lo collega alla vicina chiesa della SS.
Annunziata sulla quale la famiglia Battaglia esercitava lo jus patronatus. Si conosce anche come palazzo Giampiccolo per i proprietari che vi si sono avvicendati nel tempo.
Sull'area dell'attuale edificio, prima del terremoto c'erano il palazzo del barone di Calamenzana, don Vincenzo Arezzo, e la chiesa della Concezione di Maria; Blandano Grimaldi, erede del barone, poiché risiedeva a Modica la vendeva in parte al barone Grandonio Battaglia ed in parte a don Giacinto Nicita.

Il barone Battaglia di Torrevecchia nel 1724 affidò la costruzione della sua residenza ad un capomastro acese (di cui si riconosce la mano nella facciata principale ed in particolare nel bugnato manieristico tipico etneo presente nel portale di via Orfanotrofio). Nel 1727 subentrarono i Cultraro, abili capimastri locali emergenti, a cui fu affidato il compito di rifinire la facciata secondo le indicazioni del grande Rosario Gagliardi che era stato chiamato ad Ibla per progettare la chiesa di San Giorgio.

Nel 1730 la parte prospiciente la via Orfanotrofio era stata completata; nel 1748 il figlio Giovanni Paolo, volendo ampliare il palazzo iniziò la costruzione dell'ala settentrionale, quella di via Chiaramonte, affidandone i lavori ad un altro Cultraro. Giovanni Paolo Battaglia moriva senza eredi e quindi la proprietà passava alla sorella Vincenza che nel frattempo aveva sposato il barone Giampiccolo di Cammarana.

Il palazzo è oggi ancora in buono stato di conservazione grazie ai lavori di manutenzione che vi sono stati effettuati nel corso degli anni, tanto che presenta rimaneggiamenti un po' ovunque, tranne che al piano ammezzato.

L'imponente edificio ha pianta quadrangolare ed anche se rimaneggiato all'interno conserva integre le due facciate. Sulla facciata di via Orfanotrofio, sulla quale sono assenti per i motivi sopra accennati gli elementi più tipici del barocco ibleo, risaltano grazie anche all'insolita collocazione delle aperture laterali, il portale ed il soprastante balcone.

Sopra il balcone, sul finire del settecento fu collocato uno stemma su cui campeggiano un leone rampante e un cavallo inalberato, simboli araldici delle due famiglie: Battaglia di Torrevecchia e Giampiccolo di Cammarana.

Anche nella facciata di via Chiaramonte risalta la parte centrale dove si raccolgono quasi tutti gli elementi architettonici che la ornano: l'imponente portale si raccorda grazie ad un insolito motivo su cui si apre un oculo riccamente decorato con festoni di foglie, un ampio balcone sorretto da eleganti mensole a voluta; sul balcone si aprono due porte finestre dalle ricche modanature in mezzo alle quali c'è una finestra dall'insolita forma a cuore.

I tre livelli sono messi in contatto da una scalinata in pietra pece che si sviluppa intorno al cortile interno. In basso i magazzini e le scuderie quindi l'ammezzato e il piano nobile. Come si può ben notare ognuno di questi ordini risponde alle esigenze signorili del tempo.

Alcuni interni presentano ancora le tradizionali volte a botte e a crociera in calcare o di canne e gesso. Negli appartamenti i pavimenti sono in calcare con inserti in pece o in ceramica di Caltagirone del secolo scorso; in qualche stanza con lavori d'inizio secolo si è passati allo stile liberty. Le pareti interne presentano stucchi e affreschi. Al primo piano un vano centrale di forma ottagonale presenta quattro porte a scomparsa. Si conservano ancora gli arredi d'epoca.

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Agosto 2019