Subito
dopo
la
chiesa
di
San
Tommaso
si
apre
il
cancello
del
Giardino
Ibleo,
ben
curato,
ampio
e
panoramico.
Sulla
storia
del
Giardino
Ibleo
si
dispone
oggi
di
una
scarsa
documentazione
(AREZZO,
1994;
COSENTINI,
1991)
e
molti
dei
dati
qui
riportati
sono
stati
raccolti
grazie
alle
dichiarazioni
di
anziani
cittadini.
Fino
ai
primi
dell'800,
come
risulta
da
una
pianta
di
S.
Puglisi
del
1837,
l'area
della
villa
era
un
recinto
inedificato
in
cui
si
riconoscono
i
resti
dei
pilastri
della
cattedrale
di
San
Giorgio,
crollata
in
seguito
al
terremoto
del
1693,
la
chiesa
e
il
convento
di
San
Domenico
e
il
convento
dei
Cappuccini.
Il
primo
impianto
del
giardino
risale
al
1858
grazie
all'iniziativa
privata
di
tre
facoltosi
cittadini
iblei:
Carmelo
Arezzo
di
Trifiletti,
Emanuele
La
Rocca
Impillizzeri
di
San
Filippo
e
Giuseppe
Maggiore
marchese
di
Santa
Barbara,
come
testimonia
una
lapide
situata
sul
muro
perimetrale
esterno
del
convento
dei
Cappuccini;
esso
si
sviluppava
intorno
al
Viale
delle
Colonnine
così
denominato
da
una
serie
di
colonnine
tortili
che
reggono
vasi
di
terracotta
decorati.
Inizialmente
il
giardino
era
privo
di
ogni
chiusura;
la
recinzione
fu
deliberata
solo
nel
Giugno
del
1907,
affidando
il
progetto
al
geometra
Giuseppe
Pinelli
(CULTRERA,
1997;
ZAGO,
1986).
In
tale
occasione
l'ingresso
della
villa,
che
si
trovava
in
direzione
del
Viale
delle
Colonnine,
fu
spostato
nell'attuale
posizione.
Il
viale
principale,
chiamato
Viale
delle
Palme
per
il
doppio
filare
di
Phoenix
canariensis
che
lo
affianca,
prese
il
posto
di
una
strada
carrabile,
Via
Giarratana,
che,
parallela
al
Viale
delle
Colonnine,
risaliva
alla
città
lambendo
le
rovine
del
portale
e
della
chiesa
di
San
Giorgio.
Il
Giardino
Ibleo
si
trova
ad
un'altitudine
di
383
m
s.
l.
m.
e
si
estende
nella
parte
più
bassa
di
Ibla,
da
dove
si
affaccia
sulla
valle
del
fiume
Irminio.
Presenta
una
forma
piuttosto
regolare,
costituita
da
una
grande
L
alla
quale
si
aggiunge
lo
spazio
rettangolare
del
Parco
della
Rimembranza
e
occupa
in
totale
una
superficie
di
15.800
mq,
con
un
perimetro
di
circa
600
m.
Nel
giardino
si
possono
distinguere
approssimativamente
tre
parti
corrispondenti
alle
diverse
fasi
della
sua
realizzazione.
La
prima,
dall'ingresso
principale
alla
chiesa
dei
Cappuccini,
costituisce
il
nucleo
originario
del
giardino
ed
è
certamente
la
più
pregevole
sia
nella
componente
architettonica
che
in
quella
vegetale,
oltre
ad
essere
la
più
omogenea
dal
punto
di
vista
floristico
per
la
presenza
di
esemplari
appartenenti
tutti
alla
flora
mediterranea,
come Laurus
nobilis, Cercis
siliquastrum, Nerium
oleander,
o,
comunque,
di
uguale
valenza
ecologica,
quali Bouganvillea
spectabilis e B.
glabra, Ligustrum
japonicum, Lantana
camara,
Pittosporum
tobira,
ecc.
Caratterizzano
quest'area
il
maestoso
esemplare
di Ulmus
minor all'ingresso,
il
lungo
Viale
delle
Palme,
fiancheggiato
da
50
esemplari
di Phoenix
canariensis,
il
Viale
delle
Colonnine,
con
diversi
annosi
individui
di Cercis
siliquastrum.
Dalla
chiesa
dei
Cappuccini
ci
si
inoltra
nella
seconda
parte
del
giardino,
realizzata
in
stile
più
rigorosamente
formale,
secondo
un
gusto
tipico
degli
inizi
del
Novecento,
con
aiuole
di
forma
geometrica
disposte
intorno
ad
una
vasca
circolare.
Un
elemento
di
raccordo
è
rappresentato
dalla
collinetta,
tipica
componente
del
giardino
tardo-romantico,
con
una
piccola
rotonda
a
cui
si
accede
da
due
tortuose
scalette
in
pietra
delimitate
da
arbusti
di Medicago
arborea,
altra
essenza
mediterranea.
La
terza
e
più
recente
parte
è
costituita
dalla
zona
informale
della
pineta,
il
cosiddetto
Boschetto
della
Rimembranza.
Tipologicamente
esso
si
presenta
come
l'area
più
estranea
al
resto
del
giardino,
con
il
quale
non
è
assolutamente
integrato
sia
dal
punto
di
vista
stilistico
che
botanico,
forse
per
la
mancanza
di
una
effettiva
progettazione.
La
componente
floristica
è
estremamente
povera,
essendo
presenti
solo
numerosi Pinus
pinea,
disposti
in
modo
irregolare,
alcuni
Ligustrum
japonicum
ed Eucalyptus
camaldulensis.Nel
suo
complesso,
quindi,
il
Giardino
Ibleo
si
presenta
per
la
maggior
parte
realizzato
in
stile
formale
con
la
sola
eccezione
della
pineta.
La
flora
è
costituita
essenzialmente
da
Fanerofite;
le
specie
esotiche
sono
presenti
in
percentuale
leggermente
maggiore
rispetto
alle
autoctone
mediterranee,
ma
comunque
esse
sono
tutte
ecologicamente
compatibili
con
le
condizioni
climatiche
della
zona
iblea.
Il
Giardino
Ibleo
rappresenta
ancora
oggi
per
la
città
di
Ragusa,
soprattutto
per
la
sua
parte
più
antica,
Ibla,
un
elemento
caratterizzante
del
patrimonio
monumentale,
perfettamente
inserito
nel
contesto
urbano
e,
unitamente
a
chiese
e
palazzi
del
centro
storico,
costituisce
un
insieme
architettonico
e
paesaggistico
unico
e
irripetibile.
Oggi
come
ieri,
esso
continua
a
svolgere
un
importante
ruolo
di
socializzazione
e
di
incontro
per
utenti
di
tutte
le
età.

All'interno
della
villa
sorgono
tre
chiese:
quella
dei
Cappuccini
con
convento,
quella
di
San
Giacomo
e
quella
di
San
Domenico
o
del
Rosario,
dal
campanile
con
maioliche
colorate.
La
chiesa
di
S.
Giacomo,
che
nasce
a
partire
dal
XIII
secolo
e
si
arricchisce
delle
spoglie
della
chiesa
di San
Teodoro crollata
con
il
terremoto
del
1693.
Nel
XIII
secolo
con
l'avvento
dei
Chiaramonte
si
ebbe
un
incremento
delle
costruzioni
religiose
a
Ibla,
per
questo,
probabilmente
fra
il
1283
ed
il
1392
sorgeva
questa
chiesa
(l'aquila
aragonese
sopra
l'altare
maggiore
starebbe
ad
indicare
quel
periodo).
Alla
chiesa
fu
associata
una
Confraternita
con
compito
di
curare
il
servizio
alle
funzioni.
E'
fra
le
chiese
visitate
dal
Monsignor
Platamone
nel
1542.
A
quei
tempi
era
a
tre
navate,
ma
il
terremoto
ibleo
la
rovinava
così
come
la
limitrofa
chiesa
di
San
Teodoro
tanto
che
si
decideva
di
ricostruirne
una
sola
ad
unica
navata
e
ricavare
la
sacrestia
dalla
seconda
che
veniva
cancellata.
Già
dai
primi
anni
del
dopo
terremoto
si
iniziano
i
lavori
e
nei
primi
del
settecento
si
provvede
alla
copertura
lignea.
Nel
1770
per
le
valenti
opere
prestate
il
vescovo
di
Siracusa
promuoveva
la
Confraternita
in
Arciconfraternita.
La
facciata
attuale
è
un'ulteriore
ricostruzione
visto
che
nel
1901
la
precedente
era
andata
distrutta.
Su
disegni
dell'ingegner
Giuseppe
Pinelli
i
lavori
furono
completati
da
Antonio
Ingallina
nel
marzo
1902.
L'originale
presentava
quindici
mensoloni
riccamente
scolpiti
(da
alcuni
giudicati
cinquecenteschi
e
di
scuola
gagginesca)
che
essendo
posizionati
sul
prospetto
al
secondo
ordine
dovevano
servire
a
reggere
le
gallerie
laterali
non
più
realizzate
dopo
il
terremoto
e
quindi
tolti
nell'ultimo
restauro.
Oggi
la
facciata si
presenta
suddivisa
in
tre
ordini:
quello
inferiore
con
ingresso
principale
fra
due
colonnine
con
capitelli
corinzi,
il
secondo
con
una
finestra
con
lunetta
da
cui
prende
luce
l'interno,
l'ultimo
con
il
campanile
circondato
da
una
balaustra
interrotta
da
una
scultura
con
San
Giorgio
Cavaliere
fiancheggiato
da
due
statue
rappresentanti
S.
Anna
e
Maria
SS.
Bambina
a
destra
e
San
Giovanni
Evangelista a
sinistra.

Due
le
campane:
una,
la
più
grande,
recante
i
nomi
dei
procuratori
della
chiesa
risale
al
1703;
sulla
piccola
la
data
è
illeggibile.
All'interno,
nell'unica
navata,
ben
undici
altari
(cinque
per
lato)
di
cui
tre,
nell'area
della
cappella
maggiore,
riccamente
decorati
da
Giuseppe
Calvo
nel
1888.
La
luce
è
assicurata
da
modeste
finestre
rettangolari
poste
fra
un
cornicione
e
quello
che
resta
di
un
controsoffitto
ligneo.
Entrando
a
destra
sopra
il
primo
altare
c'è
un
quadro
dedicato
a
San
Cristoforo
che
lo
rappresenta
sia
da
giovane
che
da
vecchio,
con
il
Bambino
sulle
spalle,
opera
del
1720
del
reverendo
don
Filippo
De
Stefano
da
Ferla;
sul
secondo
altare
un
quadro
che
rappresenta
la
Morte
del
giusto
attribuibile
a
don
Giuseppe
Pugliarello
da
Siracusa.
Segue
un
confessionale
con
pulpito
mentre
il
terzo
altare
è
adornato
da
una
tela
dedicata
alla
Madonna
della
Luce
opera
di
Ignazio
Scacco
del
1719;
segue,
infine,
l'ultimo
altare
laterale
che
contiene
un
quadro
con
San
Giovanni
Evangelista
dello
stesso
autore.
Nell'area
absidale
si
osservano
tre
altari:
quello
destro
presenta
un
quadro
della
Madonna
che
appare
a
San
Francesco
di
Paola
dipinto
da
don
Giuseppe
Pugliarello
da
Siracusa
nel
1719,
a
cui
si
affianca
un
piccolo
gruppo
statuario
con
Dio
padre
circondato
dagli
angeli.
A
sinistra,
invece,
fra
colonne
dorate
che
reggono
un
tempietto
ad
arco
spezzato
in
cui
troneggia
il
Dio
Padre
circondato
dagli
angeli
il
Crocifisso
fra
la
Maddalena
e
l'Addolorata.
Sull'altare
maggiore
un'aquila
aragonese
scolpita
in
pietra
asfaltica
e
in
una
nicchia
la
bella
statua
di
San
Giacomo (di
autore
ignoto,
recuperata
intatta
dopo
il
terremoto
ed
oggi
in
una
teca)
con
mantello
a
fiori
dorati
su
sfondo
rosso
e
blu.
In
basso
una
recente
urna
con
Cristo
deposto.
Procedendo
ora
verso
l'uscita
un
primo
altare
con
quadro
di
San
Sebastiano
con
Madonna
e
Bambino
a
cui
segue
un
altro
altare
con
un
quadro
raffigurante
San
Giacomo
che
combatte
contro
i
Mori,
realizzato
a
due
mani
da
Vincenzo
Fazello
e
Ignazio
Scacco
nel
1682
con
rifacimenti
del
1708.
Il
penultimo
altare
contiene
una
Madonna
del
Piliero
(da
Pilar,
dalla
tradizionale
apparizione
mariana
predetta
dall'Apostolo
su
una
colonna
in
terra
spagnola)
con
Gloria
e
Cherubini
opera
del
reverendo
De
Stefano.
Conclude
un
ultimo
altare
con
quadro
dedicato
a
Sant'Ignazio.
Il
soffitto
ligneo
fu
decorato
forse
da
Matteo
Battaglia
nel
1754
e
indorato
da
Giovanni
Cannì
nel
1786;
essendo
fortemente
danneggiato
durante
i
restauri
del
1902
fu
parzialmente
ricomposto.
Il
catino
riproduce
una
finta
cupola (lavoro
simile
a
quello
osservabile
sia
a
Santa
Maria
del
Gesù
che
a
Santa
Maria
dello
Spasimo)
con
disegnate
finestre
semicircolari;
al
centro
una
SS.
Trinità
e
Maria
Santissima
Coronata,
con
intorno
putti
alati
e
foglie,
mentre
agli
angoli
sono
i
Quattro
Evangelisti.
Tre
tele,
che
erano
collocate
in
riquadri
del
soffitto
ligneo,
riproducevano
scene
della
vita
di
Cristo
(Natività,
i
re
Magi
e
la
Fuga
in
Egitto);
le
opere
erano
di
Simone
Ventura
su
disegni
di
un
Frate
Ginepro
per
incaricato
avuto
nella
prima
metà
del
settecento,
ma
sono
andate
perdute
nonostante
il
restauro
che
era
stato
approntato
nel
1939
da
Francesco
Flaccavento.
Di
grande
effetto
il
pulpito
collocato
su
un
confessionale,
opera
in
stile
neogotico
realizzato
dallo
scultore
ragusano
del
legno
Nunzio
Lissandrello
nel
1888.
L'organo,
sulla
parte
opposta,
datato
1885
è
opera
di
Casimiro
Alleri.
In
sacrestia
oltre
ad
un
altare
di
pietra
scolpita
del
1724
si
trova
una
lastra
in
pietra
pece
molto
antica
con
la
Madonna
della
Luce
analoga
a
quell'edicola
sacra
presente
sul
lato
destro
della
chiesa
(sul
muro
della
sacrestia)
opera
del
pittore
ragusano
Lo
Presti
del
1892
(la
tradizione
proviene
dalla
preesistente
chiesa
di San
Teodoro sembra
edificata
sul
tempio
pagano
dedicato
alla
dea
Lucina).
Una
leggenda
dice
che
se
si
tenta
di
spostarla
si
scatenano
terremoti.
Sempre
accanto
alla
parete
destra
esterna
sono
allocate
due
statue
provenienti
da
altre
chiese
dismesse:
sono
una
Sant'Anna
che
tiene
in
braccio
la
Madonna
bambina
proveniente
dalla
chiesa
di Santa
Maria
dei
Miracoli e
un
San
Giovanni
Evangelista.
Nel
periodo
pasquale
la
chiesa
e
il
presbiterio
sono
ripieni
di
ceri
per
i
caratteristici
"Sepolcri"
che
le
conferiscono
un'atmosfera
altamente
suggestiva.

La
chiesa
dei
Cappuccini
con
l'annesso
convento
si
trova
in
posizione
panoramica.
Il
convento,
in
avanzato
stato
di
restauro,
è
destinato
sin
dal
1979
quale
sede
del
Museo
Diocesano
di
arte
sacra
ed
ospita
frequentemente
interessanti
mostre;
per
la
bellezza
degli
interni,
invece,
la
chiesa
è
fortemente
richiesta
per
la
celebrazione
dei
matrimoni.
Nell'ala
destra
del
convento
ha
sede
una
biblioteca
civica
fondata
nel
seicento
dall'abate
De
Gaspano
in
cui
si
conservano
rari
testi
e
manoscritti
di
epoca
precedente,
ancora
non
definitivamente
catalogati
(si
parla
di
circa
quattromila
volumi
oltre
gli
annali).
Anche
in
questo
caso
gli
insediamenti
nel
sito
sono
di
antichissima
origine.
All'attuale
complesso
preesisteva
la
chiesa
di Sant'Agata che
era
stata
eretta
nel
1519.
I
Padri
Cappuccini
(giunti
a
Ragusa
nel
1537
subito
dopo
la
formazione
dell'ordine
dei
riformati,
avvenuta
nel
1525)
si
erano
stabiliti
in
un
convento
sito
in
un'area
lungo
il Torrente
San
Leonardo e
non
lontana
dalla
sorgente
del
Propenso
e
si
dedicavano
alla
cura
degli
orti
grazie
alla
concessione
delle
acque
di
quella
sorgente;
ma
per
l'insalubrità
dei
luoghi
e
l'imperversare
della
malaria
chiesero
una
nuova
sede.
Vista
la
richiesta,
dal
1603
il
parroco
di
San
Tommaso
offrì
i
luoghi
per
costruire
la
nuova
sede,
ma
solo
in
seguito
alla
decisione
del
Capitolo
ordinario
dell'Ordine
tenutosi
a
Piazza
Armerina
nel
1607,
si
potè
fare
il
trasferimento.
Notevoli
dovettero
essere
i
danni
alle
strutture
a
seguito
del
terremoto
del
1693
se
nonostante
le
nuove
murature
nell'evento
perivano
almeno
tre
frati.
Il
convento
e
la
chiesa
furono
ricostituiti.
Alcune
date
sono
testimoniate
sull'edificio:
1714
è
scolpito
su
un
trave
del
soffitto,
1715
è
sulla
porta
del
coro,
1742
sul
pavimento
del
corridoio
di
entrata
al
convento.
Il
convento,
come
si
può
vedere
ancor
oggi,
era
abbastanza
grande
essendo
stato
costruito
per
ospitare
quaranta
frati;
per
le
sue
caratteristiche
si
prestò
allo
svolgimento
di
vari
Capitoli
ordinari
dal
XVI
al
secolo
scorso
(l'ultimo
fu
del
1858).
Con
l'avvento
del
regno,
nel
1866,
chiesa
e
convento
furono
incamerati
al
demanio
e
il
fisco
li
rivendette
al
Padre
Provinciale
del
tempo
che
per
riacquistarli
aveva
organizzato
una
colletta;
le
opere
d'arte,
anch'esse
incamerate,
rischiavano
di
essere
disperse
se
non
fosse
intervenuto
l'allora
sindaco
barone
La
Rocca
Impellizzeri
che
istituiva
una
Pinacoteca
comunale
con
sede
presso
il
nuovo
Municipio.
Chiesa
e
convento
sono
semplici
ma
spaziosi;
quest'ultimo
presenta
ben
tre
livelli.
La
chiesa
al
semplice
portone
somma
un
finestrone
e
un
piccolo
frontone
triangolare
in
cui
è
allocato
anche
lo
stemma
dell'ordine
sormontato
da
una
croce
e
da
un
piccolo
campanile
a
destra
con
unica
campana.
L'interno
è
ad
una
sola
navata
e
con
cinque
altari
in
legno.
Il
visitatore
all'ingresso
è
colpito
subito
dall'altare
maggiore
dove
spicca
il
famoso trittico
- di
Pietro
Novelli,
detto
il
monrealese,
della
metà
del
XVII
secolo.
Si
narra
che
l'autore,
definito
il
Caravaggio
siciliano,
qui
si
trovava
ospite
e
rifugiato
perché
scappato
da
Palermo
in
seguito
ad
una
furiosa
lite
con
un
amico
del
re;
trovato
asilo
presso
i
frati
per
sottrarsi
alle
ritorsioni,
si
disobbligava
dell'ospitalità,
dipingendo
per
essi
la
bella
pala.
Secondo
altre
fonti
l'opera,
forse,
era
stata
già
commissionata
prima,
quando
l'Autore
era
venuto
al
seguito
di
Don
Giovanni
Alfonso
Enriquez
conte
di
Modica
e
in
quegli
anni
viceré,
nella
qualità
di
Architetto
militare
del
regno.
Queste
magnifiche
tele,
incorniciate
da
una
lavoratissima
cornice
in
legno
intarsiato
e
scolpito,
rappresenta
nella
parte
centrale
l'Assunta
che
circondata
da
Angeli
e
Santi
sale
al
cielo
su
una
nuvola
bianca
mente
a
terra
i
discepoli
guardano
estasiati
la
scena
(la
tradizione
dice
che
a
sinistra
fra
i
discepoli
con
barba
e
baffi
ci
sia
lo
stesso
Novelli).
La
tela
alla
sua
sinistra
raffigura
San
Pietro
che
riattacca
il
seno
tagliato
da
un
soldato
romano
a
Sant'Agata,
mentre
a
destra
c'è
il
martirio
di
Santa
Barbara.
Ma
procedendo
dall'ingresso
al
primo
altare
a
sinistra
vi
è
un
Crocifisso
ed
un
quadretto
all'Addolorata,
mentre
sul
secondo
altare
si
apprezza
una
statua
della
Madonna
delle
Grazie;
fra
questi
una
teca
contiene
la
statuetta
con
Gesù
bambino
benedicente.
Sulla
parete
dell'altare
maggiore,
dove
è
ubicato
il
famoso
trittico,
si
osserva
più
in
basso
un
Sant'Antonio
da
Padova
da
un
lato
e
un
San
Francesco
dall'altro,
Sempre
a
sinistra
del
trittico,
inoltre,
una
tempera
antica,
attribuita
da
alcuni
a
Deodato
Giuinaccia,
ma
sicuramente
opera
di
qualche
frate
riformato,
datata
al
1520
che
rappresenta
un
presepe
collocato
in
un
paesaggio
che
arieggia
la
collina
di
Ibla
e
chiamata
da
tutti
"la
Natività",
salvata
dal
terremoto
e
qui
trasportata
dalla
prima
sede
conventuale
che
sorgeva
vicina
al
torrente.
Semplici,
ma
di
bell'effetto
il
pulpito
e
una
cattedra
in
legno
per
il
coro
presenti
nei
pressi
dell'altare
maggiore.
Ritornando
ora
verso
l'uscita,
a
destra,
un
altare
con
quadro
a
San
Francesco
pregante
alla
Porziuncola,
opera
di
G.
Calabrò
del
1904,
mentre
l'altro
altare
presenta
una
statua
di
Sant'Antonio
da
Padova;
fra
di
essi
il
confessionale.
Nei
pressi
dell'uscita
altri
tre
quadri,
il
primo
a
sinistra
dedicato
a
Santa
Lucia
di
Antonio
Manoli
del
1725
ed
il
secondo
ad
una
Sacra
Famiglia
di
epoca
recente
(1904),
opera
del
Calabrò,
mentre
sul
lato
opposto,
quello
destro,
una
Madonna
degli
infermi.
Sui
due
lati
dell'altare
maggiore
da
due
porticine
l'accesso
alla
sagrestia
dov'è
conservata
una
pregevole
cassettiera;
sembra
sia
questa
la
sede
dell'ex
chiesa
di Sant'Agata;
in
ricordo
di
ciò
la
Santa
è
ancora
oggi
oggetto
di
particolare
devozione.

Ma
il
capolavoro
assurto
quasi
a
simbolo
di
Ragusa
è
il
portale
laterale
della
chiesa
di
S.
Giorgio,
distrutta
dal
terremoto,
che
si
trova
a
destra
dell'ingresso
della
villa.
Si
tratta
di
un
magnifico
portale
in
stile
gotico-catalano
con
"San
Giorgio
che
uccide
il
drago"
nella
lunetta
e
le
aquile
aragonesi
nei
due
rombi
laterali.
La
chiesa
di
San
Giorgio,
che
molti
oggi
chiamano
"vecchio",
e
di
cui
resta
in
via
Normanni
un portale (che
era
la
porta
laterale
destra),
fu
costruita
probabilmente
sin
dal
1349
per
volontà
della
famiglia
Chiaramonte
(ed
in
particolare
del
conte
Simone)
che
non
ritenevano
la
primitiva
chiesa
edificata
presso
il Castello degna
del
Santo
protettore.
La
chiesa
era
a
tre
navate.
All'interno
c'erano
quattordici
pilastri
e
dodici
altari
laterali
oltre
quello
principale
ed
i
due
delle
cappelle
laterali
ed
un
fonte
battesimale.
Antistante
il
tempio
un
cortiletto
delimitato
da
un
muretto
di
pietra
locale
e
tre
cancelletti
d'accesso
posti
di
fronte
ad
ogni
apertura.
Sulla
facciata
cinque
statue
rappresentavano
il
Salvatore
al
centro,
i
Santi
Giovanni
Battista
e
Giovanni
Evangelista
da
un
lato,
Pietro
e
Paolo
dall'altro.
Sul
lato
sinistro
c'era
un
campanile,
ideato
dall'architetto
ragusano
di
scuola
romana
Antonino
Di
Marco,
completato
nel
1550.
Nel
corso
della
lunga
realizzazione
i
nobili
locali
avevano
fatto
a
gara
per
arricchire
la
chiesa
di
arredi;
sono
un
esempio
le
quattro
statue
dedicate
alle
Sante
Barbara,
Rosalia,
Agata
e
Lucia
donate
dai
Fratelli
Castilletti.
Oltre
alle
numerose
statue
(alcune
salvate
al
terremoto
che
ancora
oggi
si
possono
ammirare
dentro
il Duomo di
Ibla,
probabili
opere
di
Giandomenico
Gagini
figlio
del
più
celebre
Antonello
autore
della
tribuna
d'altare
che
oggi
è
nella
sagrestia
di
San
Giorgio)
la
cappella
maggiore,
distaccata
dalla
navata
da
un
cancello
in
ferro,
era
adorna
degli
stucchi
del
Paparella,
un
artista
romano
che
in
quest'area
operò.
L'altare
maggiore
dedicato
al
Santo
titolare
era
attorniato
dal
coro
a
cui
erano
appoggiate
diciassette
statue
in
pietra
calcarea
e
dodici
medaglioni
raffiguranti
i
dodici
Apostoli
opera
di
Filippo
Paladini
da
Firenze,
mentre
chiudeva
il
coro
un
quadro
di
grandi
dimensioni
con
raffigurata
la
SS.
Trinità
adorata
da
quindici
Santi
ausiliatori
opera
di
Domenico
Capizzi.
La
navata
di
destra
era
detta
del
Sacramento
o
dell'Assunzione
di
Maria
Vergine,
mentre
quella
di
sinistra
era
dedicata
al
Crocifisso;
contenevano
l'una
gli
altari
dedicati
all'Immacolata,
all'Angelo
Custode,
a
Santa
Maria
degli
Angeli,
alla
Madonna
del
Carmine
e
a
San
Giuseppe
l'altra
quelli
dell'Ascensione,
di
Santa
Elisabetta
e
San
Giovanni,
Santo
Stefano,
l'altare
delle
Anime
Purganti
e
poi
quello
di
San
Crispino
e
Crispiniano,
tutti
con
quadri
dedicati
(in
una
cappella
laterale
affreschi
del
Novelli
che
gli
contribuirono
al
titolo
datogli
dal
Vicerè
Giovanni
Alfonso
Enriquez
Cabrera
di
"architetto
del
regno
sia
civile
che
militare").
Per
la
bellezza
della
chiesa
scelsero
di
farvisi
seppellire
il
Visconte
Bernardo
Cabrera
Conte
di
Modica
(con
testamento
del
1419)
e
suo
figlio
Conte
Giovanni
Bernardo
(morto
prematuramente
e
sepolto
di
fronte
al
Battistero)
e
la
moglie
Contessa
Violante
Prades.
Durante
il
terremoto
si
salvò
solo
la lapide del
Visconte
che
con
imponente
manifestazione
nel
1737
fu
traslata
con
le
ossa
di
tutti
e
tre
i
familiari
nel
transetto
del
Duomo.
V'era,
infine,
un
gran
battistero
in
pietra
pece
con
iscrizioni
in
latino
e
greco.
Subì
qualche
danno
dal
terremoto
del
1542
(e
forse
proprio
per
questo
motivo
si
sa
di
lavori
eseguiti
in
quel
periodo);
si
sa
del
completamento
del
campanile
nel
1550,
delle
decorazioni
del
catino
compiute
dal
pittore
fiorentino
Filippo
Palladini
giunto
qui
al
seguito
dei
Colonna
tra
il
1600
e
il
1614,
mentre
nel
1633
si
restaurava
la
volta
tanto
che
il
conte
Giovanni
Alfonso,
nella
visita
del
1643,
la
poteva
ammirare
al
massimo
dello
splendore.
In
quello
stesso
anno,
accogliendo
una
petizione
popolare,
papa
Urbano
VIII
elevava
San
Giorgio
a
patrono
cittadino
e
alla
sua
chiesa
tutte
le
altre
dovevano
sottomettersi.
Nel
1692
un
fulmine
aveva
abbattuto
il
campanile
e
con
il
terremoto
del
1693
la
chiesa
crollò
quasi
interamente.
Si
decise
di
ricostruire
un
nuovo
tempio,
nel
frattempo
per
le
funzioni
veniva
approntata
una
tettoia,
abbastanza
vasta
da
contenere
tremila
fedeli,
addossandola
alla
parte
residua.
Nel
1744
fu
deciso
di
"adeguare
al
suolo"
quanto
non
era
crollato
visto
che
si
era
realizzata
la
base
dell'attuale
Duomo;
i
muri
furono
abbattuti,
gli
altari
e
le
statue
smontate
la
stessa
pietra
riutilizzata.
Una
delle
tre
navate
resistette
sino
ai
primi
dell'Ottocento
quando
si
vendette
il
sito
con
la
clausola
di
lasciarne
il
ricordo,
oggi
monumento
nazionale.
Quello
che
rimane
è,
quindi,
solo
una
minima
parte
della
chiesa
danneggiata;
un
portale
gotico
catalano
compreso
fra
due
abitazioni
private
ottocentesche
che
prospetta
su
un
piccolo
e
sguarnito
giardino
separato
dalla
via
pubblica
da
una
cancellata.
Decorano
il
portale
solo
un
fascio
di
sei
colonnine
su
base
rialzata
con
capitelli
multipli
fogliati
su
cui
si
impostano
ghiere
di
anelli
sfalsati
ad
arco
acuto
che
affondano
a
gradoni.
Sugli
archi
decorazioni
a
traforo
con
immagini
di
foglie
e
animali,
mentre
alla
base
della
ghiera
sono
rappresentati
i
mestieri
Iblei
di
antica
tradizione
tra
cui
riconosciamo
il
mielaro.
All'interno
della
lunetta
un
tradizionale
San
Giorgio
a
cavallo
che
uccide
il
drago
liberando
la
principessa
di
Berito;
ai
lati
dell'arco
ogivale,
all'interno
di
due
losanghe
le
aquile
aragonesi
segno
di
riconoscimento
del
tempo
in
cui
fu
eretto
e
della
famiglia
devota.
Al
centro
dell'arco
acuto
una
croce
lavorata
anch'essa
a
traforo
con
decorazioni
floreali.
La
porticina
realizzata
al
posto
del
vecchio
portone
con
una
lastra
di
ferro
è
chiusa
ed
il
muro
di
fondo
intonacato.
Una
lapide
in
marmo
inserita
sotto
la
lunetta
ha
la
seguente
iscrizione:
"Qui
dove
sorgeva
il
maggior
tempio
che
il
terremoto
del
1693
rovinava
in
parte
e
l'eroica
fede
dei
padri
restaurava
l'insigne
Collegiata
di
San
Giorgio
ebbe
sua
prima
sede
XXVI
Agosto
MDCCXXVI
I
cittadini
questo
cancello
che
scopre
agli
occhi
dei
passanti
il
prezioso
avanzo
del
superbo
lavoro
quattrocentesco
in
memoria
posero
XXII
Aprile
MCMXXVI".

Ritornando
in
piazza
Pola
e
proseguendo
per
via
Orfanotrofio,
ci
si
trova
davanti
la
chiesa
di
S.
Antonio,
già
Santa
Maria
La
Nuova,
dal
bel
portale
ogivale
laterale,
residuo
dell'antica
struttura
in
stile
gotico,
e
dal
portaletto
barocco.
Ben
poco
oggi
si
sa
di
come
dovesse
esser
prima
del
tragico
terremoto
del
1693
il
complesso
chiesa-convento
di
Sant'Antonino
che
oggi
vediamo
ridotto
alla
sola
struttura
della
chiesa
trasformata
in
auditorium.
La
chiesa
sorse
sulle
vecchie
fabbriche
della
chiesa
di
S.
Maria
la
Nova intorno
al
1610.
Non
si
conoscono
i
reali
motivi
che
porvarono
a
cedere
la
chiesa
ai
minori
francescani
del
Terzo
Ordine
sul
finire
del
cinquecento,
frati
che
a
quell'epoca
risiedevano
in
altro
sito.
Essi
intorno
al
1610
la
adattarono
a
convento
allargandolo
grazie
all'offerta
di
case
vicine
e
ricostruita
la
chiesa
la
dedicarono
a
Sant'Antonino.
Nella
visita
vescovile
del
1621
si
sa
che
è
ancora
conosciuta
per
un
altare
a
Santa
Maria
la
Nova,
mentre
nella
visita
del
1654
è
già
dedicata
al
Santo.
Il
terremoto
la
fece
crollare
tanto
da
venir
totalmente
ricostruita
come
buona
parte
dell'annesso
convento.
Con
la
soppressione
dei
beni
ecclesiastici
il
Demanio
procedette
alla
vendita;
la
chiesa
fu
acquistata
da
cittadini
e
da
un
canonico
intenzionati
al
ripristino,
il
convento
da
un'altro
privato.
Tutti
gli
arredi
furono
invece
acquistati
dal
Cavalier
Emanuele
Schininà
Cosentini
che
li
portò
nella
costruenda
chiesa
dell' Angelo
Custode di
Ragusa
superiore.
L'allargamento
della
limitrofa
via
Monti
Erei
nel
1917
distrusse
in
parte
il
convento
e
il
campanile
che
era
probabilmente
del
XV
secolo
con
due
campane;
oggi
rimane
la
maggiore
con
iscrizione
e
data
del
1888.
Delle
nobili
preesistenze
rimane
un
bellissimo
portale
in
stile
gotico
dalle
linee
essenziali
ed
eleganti
consistente
in
un
arco
a
sesto
acuto
sostenuto
da
due
pilastrini
e
da
coppie
di
colonnine;
sul
pilastro
sinistro
si
nota
un
pinnacolo
con
capitello.
Anche
all'interno
della
chiesa
nel
portale
della
sagrestia
si
notano
altri
resti
dell'antica
struttura,
in
particolare
un
arco
ricorda
lo
stile
arabo-normanno.
Anche
della
successiva
chiesa
resta
un
piccolo
portale
.
di
stile
barocco,
datato
1761,
adiacente
a
quello
gotico
ravvivato
da
girali
di
foglie
scolpite.
La
vicinanza
dei
due
stili
crea
un
angolo
suggestivo
dato
che
in
così
poco
spazio
sono
testimoniati
diversi
secoli
di
storia.
La
chiesa,
dalla
semplice
struttura,
presenta
una
facciata
principale definita
fra
paraste;
anche
il
portone
d'ingresso
è
limitato
da
paraste
ornate
e
sopra
presenta
una
finestra
rettangolare.
L'interno
è
ad
unica
navata
e
un
tempo
conteneva
cinque
altari
scomparsi
dopo
il
passaggio
al
demanio.
Di
questa
chiesa
si
ricorda
solo
un
quadro
raffigurante
l'Addolorata.
Vicino
alla
chiesa
si
erge
il
gentilizio
palazzo
Di
Quattro
con
un
lungo
balcone
nella
facciata,
forse
il
più
lungo
di
Ragusa,
ed
un
arioso
cortile
dal
magnifico
scalone
neoclassico
a
doppia
rampa
e
splendida
balaustra.
Lungo
la
via
Orfanotrofio,
con
accesso
dal
civico
43,
confinante
con
la
chiesa
di
Sant'Antonino
,
il
palazzo
Di
Quattro
oggi
si
presenta
in
buono
stato
di
conservazione,
ma
con
rifacimenti
che
lo
hanno
allontanato
dal
vecchio
stile
tardo
barocco
con
cui
era
nato
a
favore
di
un
gusto
neoclassico.
Sull'area
di
un
edificio
preesistente
al
terremoto
fu
fatto
costruire
nel
settecento
dal
duca
Arezzi
di
San
Filippo
e
solo
in
seguito
ceduto
alla
famiglia
Di
Quattro
dalla
quale
oggi
prende
il
nome.
L'edificio,
dalla
mole
imponente
ma
dalla
struttura
semplice
e
tradizionale,
è
caratterizzato
dalla
lunga
facciata
che
presenta
aperture
principali
e
secondarie
in
stile
tardo
barocco;
al
livello
superiore
su
una
lunga
e
inconsueta
unica
balconata,
sostenuta
da
quarantanove
mensole,
sette
porte-finestre
con
frontoni
triangolari.
Aste
porta
lampade
in
ferro
battuto
sono
ubicate
all'esterno.
La
pianta
rettangolare
si
sviluppa
attorno
ad
un
cortile
interno.
L'ampio
atrio,
caratterizzato
da
tre
archi
a
tutto
sesto,
immette
nel
cortile
in
fondo
al
quale
c'è
una
scenografica
scalinata
a
più
rampe
che
conduce
ad
un
portico
con
colonne
dorico-romane
e
da
cui
si
accede
agli
appartamenti.
Su
questa
facciata
interna
in
stile
neoclassico
spicca
lo
stemma
della
famiglia.
All'interno
le
volte
sono
a
botte
di
canne
e
gesso
ed
i
pavimenti
in
pece
e
calcare
ed
in
alcune
stanze
in
ceramica
di
Caltagirone
policroma
del
XVIII
secolo.
Le
pareti
presentano
stucchi
e
affreschi
e
risultano
dipinti
anche
le
sopraporte.
L'arredo
consiste
in
tendaggi
e
tappeti
francesi
dell'ottocento,
specchi
e
suppellettili
antiche
di
varie
epoche
e
stili.
Per
una
piccola
traversa
a
destra
si
può
arrivare
all'antica
chiesa
di
S.
Francesco
all'Immacolata
che
sorge
in
un'incantevole
posizione
che
domina
la
valle
di
San
Leonardo.
Ben
poco
si
sa
sull'effettiva
origine
del
sito.
Per
alcuni
ricercatori
del
secolo
scorso
l'area
rimase
inedificata
sino
al
XIV
secolo
quando
la
potente
famiglia
dei Chiaramonte,
preso
possesso
della Contea,
si
rese
conto
dell'inadeguatezza
dei
locali
del
vecchio
castello
e
preferendo
Ragusa
a
Modica
quale
sede
domestica
iniziarono
la
costruzione
di
un
fastoso
palazzo
residenziale
simile
alla
loro
sede
palermitana,
lo
Steri.
Ai
Chiaramonte
seguirono
i Cabrera tant'è
che
si
dice
come
nel
1471
vi
morisse
la
contessa
Violante
Prades,
vedova
di
Giovanni
Bernardo,
l'ultima
nobile
dei
Conti
che
risiedette
negli
Iblei.
Così,
a
partire
dalla
fine
del
XV
secolo
l'area
e
le
superstiti
murature
vennero
richieste
e
cedute
ai frati che
rovinando
parti
di
muratura
ne
adattarono
il
resto
alla
vita
conventuale.
Per
la
tesi
del
palazzo
nobiliare
trasformato
si
sostiene
quindi
che
quello
che
rimane
oggi
è
quanto
salvato
da
distruzioni
e
terremoti
e
con
ciò
ci
si
riferisce
alla possente
torre
campanaria
e
al
portale
conservato
sul
lato
occidentale
dell'attuale
chiesa.
Ma
la
tesi
più
valida
è
quella
proposta
da
uno
stesso
padre
Conventuale,
lo
storico
Filippo
Rotolo,
che
consultando
gli
archivi
e
da
sapiente
conoscitore
delle
architetture
del
proprio
Ordine
ha
abbozzato
una
storia
dell'immobile
sin
dalle
origini,
da
quegli
anni
in
cui
si
diffuse
il francescanesimo negli
Iblei.
Secondo
il
ricercatore
la
presenza
dei
Minori
risale
agli
anni
della
morte
del
Santo
e
già
alla
fine
del
XIII
secolo
si
contavano
molti
frati
ragusani.
Dagli
alloggi
di
fortuna
provvisori
in
un
primo
tempo
occupati
si
passò
all'edificazione
di
un
vero
convento
con
chiesa
che
i
frati
dedicarono
all'Immacolata.
Il
complesso
doveva
già
esistere
nel
1334
se
era
nominato
fra
i
cinque
conventi
della
"custodia"
di
Siracusa.
Forse
l'unico
elemento
costruttivo
residuo
resistito
è
la
parte
inferiore
della
torre
campanaria.
Se
la
si
osserva
oggi
non
sfuggirà
come
essa
sia
rifinita
bene
sul
lato
occidentale;
il
lato
meridionale,
pur
se
pensato
per
esser
a
vista,
non
è
ornato
mentre
quello
settentrionale
per
quasi
un
metro
è
rifinito
e
realizzato
per
esser
in
parte
osservato
ma
nel
restante
è
grezzo,
come
se
dovesse
esser
immerso
nella
muratura.
Infine
il
lato
orientale
è
totalmente
sguarnito
segno
che
era
tutto
nascosto
alla
vista.
Questo
fa
ipotizzare
come
il
campanile
fosse
agganciato
in
modo
diverso
alla
vecchia
chiesa.
La
sua
notevole
altezza
e
potenza
è
interrotta
a
vari
livelli
da
quattro
fasce
marcapiano
che
lo
rendono
snello.
Le
prime
due
sono
molto
semplici,
caratterizzate
da
una
cornice
da
cui
pende
una
fila
di
dentelli
a
coda
di
rondine
la
prima,
mentre
l'altra
è
semplice.
Il
terzo
marcapiano
presenta
figurine
più
complesse
quali
archetti
pensili
con
all'estremità
foglioline
e
crocette
scolpite,
mentre
la
successiva,
nel
riprendere
il
motivo
della
seconda,
ne
risulta
più
semplice.
Si
aprono
qui
le
quattro
finestre
da
cui
emergono
le
tre
campane.
Conclude
la
serie
un
quinto
cornicione
che
sorregge
una
balaustra
ornata
con
candelabri
e
avente
ai
quattro
lati
resti
di
statue.
Superiormente
a
questo
motivo
settecentesco
si
erge
una
loggetta-cupoletta
con
oculi
superiori
e
a
sezione
ottagonale,
dal
chiaro
stile
barocco
e
sicuramente
realizzata
nel
post
terremoto
abbellita
da
quattro
archi
stretti
e
alti
che
si
alternano
a
quattro
nicchie
con
semplice
conchiglia.
Tra
le
altre
ipotesi
addotte
e
contrarie
al
palazzo
nobiliare
l'assenza
di
stemmi
dei
Conti
e
il
fatto
che
l'uso
del
tempo
era
quello
di
realizzare
palazzi
centrali
e
non
periferici
alla
cittadina.
Bello
il portale superstite
caratterizzato
dai
grossi
fasci
cordonati
della
strombatura,
da
semplici
capitelli
con
foglie
appena
accennate
dai
fasci
che
chiudono
il
classico
arco
gotico;
fu
ricostruito
dopo
il
crollo
di
parte
dell'edificio
e
qualche
ricercatore
lo
associa
all'epoca
federiciana.
Si
sa
che
nel
XVI
secolo
furono
fatti
notevoli
lavori,
forse
per
i
disastrosi
effetti
del
terremoto
del
1542.
Fu
fatta
ad
esempio
la
sacrestia
che
era
stata
dimenticata
e
nel
1580
era
completa.
La
ricostruzione,
in
stile
tardo
manieristico,
nel
1644
era
completa
tant'è
che
il
convento
ospitò
il
seguito
della
visita
del
Conte-Vicerè
Giovanni
Alfonso
Enriquez
Cabrera.
Si
deve
inoltre
ricordare
che
al
1608
risale
la
cappella
che
Agata
Gallo
donò
alla
sorella
Maria
ed
alla
nipote
Mattea
morta
a
soli
22
giorni
di
vita,
così
come
ricordato
nella
commovente
epigrafe.
Quando
il
terremoto
del
1693
ne
rase
al
suolo
una
parte
oltre
ai
tetti
quella
fu
ricostruita
in
stile
barocco.
L'ingresso
fu
spostato
a
Sud,
con
l'apertura
di
un
portale
barocco
nell'attuale
piazza
Chiaramonte,
la
facciata
fu
arretrata
spostandola
dal
campanile
e
si
rimontò
il
portale
duecentesco
crollato.
Oltre
la
data
conosciuta
per
dimostrare
la
torre
campanaria
così
completata
del
1713
si
sa
che
furono
operate
modifiche
murarie
nel
1751
e
alle
volte
della
navata
destra
nel
1753
come
si
legge
nella
prima
volta.
La
chiesa,
la
più
grande
di
Ibla
dopo San
Giorgio,
si
presenta
a
tre
navate
e
senza
transetto,
divise
da
due
fila
di
sette
pilastri
cruciformi
di
cui
gli
estremi
annegati
nelle
murature
con
capitelli
ionici
scolpiti
nel
calcare
ragusano.
Sei
finestre
per
lato
rendono
luminoso
l'interno.
Le
navate
laterali
sono
divise
in
cappelline
quadrate
ognuna
delle
quali
sormontata
da
una
cupoletta
schiacciata
a
quattro
vele
non
visibile
all'esterno.
Ci
sono
nove
altari
di
cui
tre
di
magnifica
fattura
sono
allocati
nell'area
absidale.
I
pavimenti
tradizionali
di
calcare
e
pece
con
motivi
geometrici
sono
in
parte
sostituiti.
Entrando
dall'attuale
ingresso
che
da
sulla
piazza
Chiaramonte
si
accede
alla
navata
destra
dove,
dopo
aver
ammirato
l'acquasantiera
in
pietra
asfaltica
di
forgia
cinquecentesca,
si
può
percorrerla
osservando
sia
gli
altari,
ma
sopratutto
i
quadri
e
le
belle
opere
d'arte
che
li
arricchiscono.
Subito
a
sinistra,
oltre
l'ingresso,
un
primo
altare
è
adorno
del
quadro
riferibile
ad
Antonino
Manoli
(un
pittore
locale
del
settecento)
con
il
Beato
Andrea
in
estasi
che
riceve
da
un
angelo
una
stola
e
visita
gli
ammalati
da
curare
(nelle
mani
di
un
angelo
un
libro
con
lo
stemma
dei
Conti
di
Segni
a
cui
apparteneva
Andrea),
del
1724
anno
della
Beatificazione.
A
destra,
oltre
l'acquasantiera,
il
secondo
altare
della
navata
destra
con
il
quadro
a
San
Giuseppe
da
Copertino
che
adora
la
Croce,
del
1816,
opera
di
Elia
Interguglielmini;
allietano
la
scena
due
preti
in
ginocchio,
mentre
alle
spalle
un
ricco
paesaggio
con
chiesa,
castello
turrito
e
contadini
che
ammirano
la
scena
mentre
gli
animali
bevono
alla
sorgente.
Superata
la
cappellina
con
la
statua
lignea
di
San
Francesco
il
terzo
altare
che
presenta
un
Crocifisso
accompagnato
da
due
quadri,
il
primo
a
destra
con
San
Giovanni,
mentre
a
sinistra
l'Addolorata,
entrambi
di
ignoti.
Si
giunge
così
nella
cappella
destra
dove,
oltre
all'altare
in
marmo
policromo
adorno
con
una
coppia
di
angeli
reggilume,
si
ammira
un
San
Francesco
pregante
alla
Porziuncola;
in
alto
a
destra
un
Cristo
che
regge
la
croce
affiancato
dalla
Madonna
mentre
a
sinistra
il
Santo
è
in
preghiera
con
vicino
un
Angelo
che
regge
un
cesto
di
rose.
Allieta
la
cappella
a
destra
Santa
Chiara
ed
a
sinistra
"La
comunione
della
Vergine"
in
posizione
genuflessa
che
riceve
l'ostia
da
San
Giovanni;
Gesù'
la
guarda
da
destra
mentre
al
centro
troneggia
la
Colomba
ed
a
sinistra
un
Angelo
tiene
sul
capo
della
Madonna
la
corona
con
dodici
stelle.
Ai
piedi
dell'altare
una
tomba
della
famiglia
La
Rocca
Impellizzeri.
Si
passa
poi
nell'area
absidale
della
navata
centrale
dove
si
ammira
l'altare
maggiore
a
marmi
policromi,
arricchito
anch'esso
da
due
angeli
reggicandela
in
marmo
bianco
(tutti
gli
angeli
presenti
negli
altari
absidali
sono
opera
del
palermitano
Valerio
Villareale,
sembra
allievo
del
Canova).
Abbellisce
quest'angolo,
una
Immacolata
intagliata
in
legno
con
le
tombe
di
Maria
Gallo
e
della
figlia
Mattea
dentro
l'arcosolio
a
destra.
Infine
la
cappella
sinistra
dedicata
all'Immacolata
con
altare
in
marmi
policromi,
cornici
e
volute
con
sopra
angeli
reggicandela
che
adornano
e
mettono
in
risalto
il
quadro
del
Manno
del
1796.
A
sinistra
la
cappella
degli
Arezzo
di
Donnafugata,
coloro
che
fecero
l'epopea
dell'omonimo castello,
con
i
tre
sarcofagi
ed
i
mezzibusti
di
Concetta
A.
di
Trifiletti,
della
figlia
Vincenzina
morta
prematuramente
e
dello
stesso
barone
Corrado
De
Spuches
che
dapprima
era
sepolto
al
castello,
ma
che
nel
1908
qui
fu
deposto.
Questa
cappella
di
famiglia
è
racchiusa
da
un
alto
cancello
in
ferro
battuto
del
messinese
Giuseppe
Cilesti
mentre
le
opere
marmoree,
in
marmo
di
Carrara,
furono
realizzati
a
Messina
da
Scarfi
ad
eccezione
di
quello
del
barone
che
è
più
recente,
opera
di
Zappalà,
noto
scultore
messinese;
le
decorazioni,
infine,
sono
del
pittore
locale
Agostino
del
Campo.
Il
giro
della
chiesa
si
completa
con
la
navata
sinistra
in
cui
abbiamo
un
altare
adorno
di
una
Risurrezione
di
Cristo
del
XVIII
secolo;
segue
la
cappellina
con
la
statua
a
Sant'Antonio
con
in
braccio
Gesù'
ed
ancora
un'altro
altare
su
cui
è
un
quadro
con
l'Adorazione
a
Maria
e
Gesù'
di
ignoto
autore
e
con
a
lato
la
statua
di
Santa
Teresa;
segue
un'altro
altare,
il
penultimo,
con
un
quadro
recente
(1991)
realizzato
dal
ragusano
Di
Natale
in
memoria
del
sacrificio
di
padre
Massimiliano
Kolbe.
Infine
l'ultimo
altare
con
il
Riposo
della
Sacra
Famiglia
di
Antonio
Manoli
a
cui
si
riferisce
anche
un
San
Lorenzo
martire
sulla
graticola
del
1724
posto
sulla
parete
opposta
all'altare
maggiore.
In
quest'area
si
trovano
inoltre
altri
due
quadri
provenienti
da
chiese
dismesse
al
tempo
del
terremoto;
al
centro
una
seicentesca
Madonna
dell'Idria,
recentemente
restaurata,
in
cui
la
Vergine
fra
le
nuvole
tiene
in
braccio
un
Gesù'
benedicente
fra
i
Calogeri
inginocchiati
è
ed
un'altro
quadro,
sicuramente
più
recente,
con
l'Angelo
Custode
che
indica
la
retta
via
ad
un
bimbo,
ambedue
naturalmente
di
autori
ignoti.
Allieta
la
chiesa
la
presenza
di
un
organo
funzionante
posto
a
destra
guardando
l'altare
maggiore
mentre
a
sinistra
c'è
un
bel
pulpito
ai
cui
piedi,
in
mezzo
ad
un
pavimento
di
calcare
e
pece,
è
una
lastra
tombale
in
pietra
asfaltica
con
pregevole
bassorilievo
raffigurante
un
cavaliere
in
costume
spagnolo
che
giace
su
un
letto,
con
una
mano
sotto
la
guancia
e
l'altra
che
indica
il
castello;
la
lapide
reca
la
data
1577.
La
chiesa
possedeva
un
tempo
un
piccolo
"tesoro";
tra
quegli
oggetti
conservati,
oramai
scomparsa
perché
venduta
agli
inizi
del
secolo
con
la
dismissione
del
patrimonio
del
convento,
una
scatola
ottagonale
in
avorio
con
bassorilievi
raffiguranti
scene
della
vita
di
Cristo.
Si
pensa
che
sia
la
stessa
conservata
al
Louvre,
acquistata
dal
museo
parigino
dai
privati
nel
1913.
Ed
inoltre
un
incensiere,
pezzo
d'oreficeria
siciliana
del
XV
secolo
e
le
reliquie
del
legno
della
Croce,
un
po'
del
velo
della
Vergine
e
un
lembo
del
mantello
di
San
Giorgio.
Nella
sagrestia
un'Immacolata
del
1767.
Nel
convento,
ricostruito
perché
completamente
distrutto
con
il
terremoto
del
1693,
costituito
da
un
livello
oltre
quello
al
piano
terra,
oggi
c'è
la casa
di
riposo
di
mendicità .
All'interno
uno
dei
più
bei
lavori
in
pietra
asfaltica
degli
iblei,
una
meravigliosa
scala
d'accesso
in
stile
tardo
barocco.
Lo
scalone
d'accesso
presenta
due
grifi
dal
lungo
muso
che
sostengono
assieme
alle
colonnine
un
largo
passamano.
Sul
primo
pianerottolo
quattro
cariatidi
di
cui
due
sorreggono
putti
con
clipeo
con
motti
che
inneggiano
la
Madonna,
e
gli
altri
due
sorreggono
vasi
di
fiori.
Nella
parete
dove
si
apre
la
porta
d'accesso
alla
chiesa
vi
è
lo
stemma
francescano,
in
quella
a
lato
una
composizione
di
tre
croci
dipinte
ed
una
Pietà
di
Ignazio
Guarrella
del
1923.

Proseguendo
lungo
la
stretta
e
caratteristica
via,
si
arriva
ad
uno
slargo
dove
si
erge
palazzo
Battaglia,
certamente
fra
i
più
interessanti
esempi
di
architettura
civile
del
barocco
ibleo.
Ha
l'inconsueta
caratteristica
di
presentare
ben
due
facciata
principali,
una
nella
piazzetta
lungo
la
via
Orfanotrofio
e
l'altra
su
uno
slargo
lungo
la
via
Chiaramonte,
al
numero
40.
Una
cavalcavia
lo
collega
alla
vicina
chiesa
della
SS.
Annunziata
sulla
quale
la
famiglia
Battaglia
esercitava
lo
jus
patronatus.
Si
conosce
anche
come
palazzo
Giampiccolo
per
i
proprietari
che
vi
si
sono
avvicendati
nel
tempo.
Sull'area
dell'attuale
edificio,
prima
del
terremoto
c'erano
il
palazzo
del
barone
di
Calamenzana,
don
Vincenzo
Arezzo,
e
la
chiesa
della
Concezione
di
Maria;
Blandano
Grimaldi,
erede
del
barone,
poiché
risiedeva
a
Modica
la
vendeva
in
parte
al
barone
Grandonio
Battaglia
ed
in
parte
a
don
Giacinto
Nicita.
Il
barone
Battaglia
di
Torrevecchia
nel
1724
affidò
la
costruzione
della
sua
residenza
ad
un
capomastro
acese
(di
cui
si
riconosce
la
mano
nella
facciata
principale
ed
in
particolare
nel
bugnato
manieristico
tipico
etneo
presente
nel
portale
di
via
Orfanotrofio).
Nel
1727
subentrarono
i
Cultraro,
abili
capimastri
locali
emergenti,
a
cui
fu
affidato
il
compito
di
rifinire
la
facciata
secondo
le
indicazioni
del
grande
Rosario
Gagliardi
che
era
stato
chiamato
ad
Ibla
per
progettare
la
chiesa
di
San
Giorgio.
Nel
1730
la
parte
prospiciente
la
via
Orfanotrofio
era
stata
completata;
nel
1748
il
figlio
Giovanni
Paolo,
volendo
ampliare
il
palazzo
iniziò
la
costruzione
dell'ala
settentrionale,
quella
di
via
Chiaramonte,
affidandone
i
lavori
ad
un
altro
Cultraro.
Giovanni
Paolo
Battaglia
moriva
senza
eredi
e
quindi
la
proprietà
passava
alla
sorella
Vincenza
che
nel
frattempo
aveva
sposato
il
barone
Giampiccolo
di
Cammarana.

Il
palazzo
è
oggi
ancora
in
buono
stato
di
conservazione
grazie
ai
lavori
di
manutenzione
che
vi
sono
stati
effettuati
nel
corso
degli
anni,
tanto
che
presenta
rimaneggiamenti
un
po'
ovunque,
tranne
che
al
piano
ammezzato.
L'imponente
edificio
ha
pianta
quadrangolare
ed
anche
se
rimaneggiato
all'interno
conserva
integre
le
due
facciate.
Sulla
facciata
di
via
Orfanotrofio,
sulla
quale
sono
assenti
per
i
motivi
sopra
accennati
gli
elementi
più
tipici
del
barocco
ibleo,
risaltano
grazie
anche
all'insolita
collocazione
delle
aperture
laterali,
il
portale
ed
il
soprastante
balcone.
Sopra
il
balcone,
sul
finire
del
settecento
fu
collocato
uno
stemma
su
cui
campeggiano
un
leone
rampante
e
un
cavallo
inalberato,
simboli
araldici
delle
due
famiglie:
Battaglia
di
Torrevecchia
e
Giampiccolo
di
Cammarana.
Anche
nella
facciata
di
via
Chiaramonte
risalta
la
parte
centrale
dove
si
raccolgono
quasi
tutti
gli
elementi
architettonici
che
la
ornano:
l'imponente
portale
si
raccorda
grazie
ad
un
insolito
motivo
su
cui
si
apre
un
oculo
riccamente
decorato
con
festoni
di
foglie,
un
ampio
balcone
sorretto
da
eleganti
mensole
a
voluta;
sul
balcone
si
aprono
due
porte
finestre
dalle
ricche
modanature
in
mezzo
alle
quali
c'è
una
finestra
dall'insolita
forma
a
cuore.
I
tre
livelli
sono
messi
in
contatto
da
una
scalinata
in
pietra
pece
che
si
sviluppa
intorno
al
cortile
interno.
In
basso
i
magazzini
e
le
scuderie
quindi
l'ammezzato
e
il
piano
nobile.
Come
si
può
ben
notare
ognuno
di
questi
ordini
risponde
alle
esigenze
signorili
del
tempo.
Alcuni
interni
presentano
ancora
le
tradizionali
volte
a
botte
e
a
crociera
in
calcare
o
di
canne
e
gesso.
Negli
appartamenti
i
pavimenti
sono
in
calcare
con
inserti
in
pece
o
in
ceramica
di
Caltagirone
del
secolo
scorso;
in
qualche
stanza
con
lavori
d'inizio
secolo
si
è
passati
allo
stile
liberty.
Le
pareti
interne
presentano
stucchi
e
affreschi.
Al
primo
piano
un
vano
centrale
di
forma
ottagonale
presenta
quattro
porte
a
scomparsa.
Si
conservano
ancora
gli
arredi
d'epoca.
Pag.
4

Agosto
2019
|