- Palazzo
Mirto
Donna Maria
Concetta Lanza Filangeri, ultima erede di una delle più antiche famiglie
aristocratiche della Sicilia, adempiendo alle volontà testamentarie
espresse dal defunto fratello Stefano, dona nel 1982 il suo antico palazzo
sito tra via Merlo e via Lungarini, con tutti i suoi arredi e le svariate
collezioni di oggetti d’arte, alla Regione Siciliana, per destinarlo alla
pubblica fruizione.
Palazzo
Mirto ingloba nelle sue originarie strutture, un nucleo di antiche case
appartenute un tempo ad una nobile e ricca famiglia di origini pisane,
i Resolmini, e ancor prima alla famiglia Omodei.
A partire
dal 1594 diventa la residenza dei Filangeri, conti di San Marco e
principi di Mirto, quando don Pietro Filangeri esponente di uno dei casati
più prestigiosi della nobiltà siciliana sposa Francesca De Spuches, unica
figlia di don Vincenzo, giudice della Gran Corte, presidente del tribunale
del Real Concistoro, barone di Amorosa e della Mendola e proprietario del
palazzo. Da questo momento la storia di questa dimora si identifica con
quella della famiglia Filangeri, il cui arrivo in Italia si fa risalire al
periodo normanno.
Il
leggendario capostipite del casato era Angerio D’Arnes, un nobile
cavaliere normanno venuto in Italia al seguito di Roberto il Guiscardo. Egli
ebbe quattro figli che in onore delle glorie paterne, si fregiarono
dell’appellativo di “Filii Angerii”. La tradizione vuole che
l’ultimo di questi, Tancredi Filangeri, fosse presente all’incoronazione
di Re Ruggero II nel 1129.
L’attuale
configurazione del palazzo rispecchia per grandi linee quella voluta dal
principe Bernando Filangeri nel 1793, quando la dimora patrizia assunse
quella forma che si è tramandata fino ai nostri giorni, con due facciate
prospicienti in via Lungarini e in Via Merlo, e un grande portale di
ingresso sormontato da due vasotti ornamentali e da un magnifico stemma in
pietra recante le armi dei Filangeri.
E’ probabile che in questa occasione sia stato annesso al palazzo il
piccolo vicolo che separava le case dei Resolmini con quella dei Campo,
baroni di Campofranco, dove vennero realizzate delle costruzioni che
occultarono due magnifiche bifore di stile Chiaramontano. Altre
trasformazioni ebbe a subire il palazzo nel corso dell’800 soprattutto in
occasione del matrimonio di Donna Vittoria Filangeri con Don Ignazio Lanza e
Branciforte conte di Sommatino e Pretore della città, avvenuto nel 1830, in
seguito al quale il Lanza ottenne di portare per sé e per i suoi eredi i
titoli della moglie, ultima erede del prestigioso casato.

Oggi
palazzo Mirto è un meraviglioso museo, e si offre ai visitatori come un
prezioso informatore sul “modus vivendi” cioè le abitudini e lo stile
di vita della nobiltà del tempo.
Il percorso
inizia dai corpi bassi dell’edificio, usati solitamente come servizi, dove
erano allocate le scuderie, le rimesse per le carrozze, le cucine, i
magazzini per le derrate alimentari ed altri locali destinati a depositi per
la conservazione di paglia e fieno. Ma la parte più affascinante del piano
terra è sicuramente la “cavallerizza” (così
venivano chiamate le scuderie più importanti dei palazzi nobiliari) che
consiste in un grande ambiente coperto da volte a crociera, percorso da un
doppio colonnato in pietra grigia che forma un lungo corridoio centrale che
si conclude con una grande vasca di pietra, che fungeva da abbeveratoio,
ultimo residuo dell’antica casa dei De Spuches. Ai lati, ancora in
perfetto stato di conservazione, si trovano gli eleganti box per i cavalli,
forniti di mangiatoie in ferro battuto e di conca in pietra scolpita. Su
ciascuno dei box è ancora leggibile la targhetta con il nome del cavallo.
L’accesso
al primo piano avviene da una porta sormontata da una pensilina ottocentesca
in ferro dipinto e uno scalone in marmo rosso conduce al pianerottolo di
accesso ai locali del piano nobile, dove una loggetta con serliana chiusa da
una vetrata, funziona da vestibolo. Da qui si passa all’ingresso vero e
proprio, di piccole dimensioni, tappezzato di raso rosso, con una pregevole
tela sulla volta raffigurante “Diana
che rimprovera la ninfa Callisto”, della fine del secolo XVII.
Proseguendo
a sinistra troviamo la prima sala di rappresentanza, chiamata “sala
del Novelli” (così detta per un presunto autoritratto
dell’artista monrealese) con una bizzarra pittura di fine ottocento sul
soffitto che rappresenta “Eros
e Anteros”; magnifici arredi in stile Luigi XVI, ritratti di
antenati dei Lanza e vetrinette con pregiate e rare porcellane di Sassonia.
Il salotto
che segue, detto del “Salvator
Rosa” (per quattro piccole tele con vedute paesaggistiche
alla maniera del pittore napoletano), presenta il soffitto dipinto con scene
dell’Orlando furioso dentro finte cornici dorate, vetrine con delle
collezioni settecentesche di vetri di Murano e statuette in porcellana, e
delle consolle settecentesche in legno dorato che sostengono piccoli vasi
impero e porcellane cinesi.
All’interno
del salotto si aprono due piccoli ambienti, a destra la
stanza del teatrino e a sinistra la
saletta dei reperti, dove sono esposti vari reperti
archeologici.
Nella terza
sala chiamata “salotto
rosa” troviamo sulla volta un grande lampadario
ottocentesco in bronzo e cristallo con stemma dei Lanza Filangeri; in bella
mostra un dipinto con scena di battaglia del pittore fiammingo Jean
Breughel; pregevoli e raffinati arredi e preziosi orologi d’epoca.
L’ambiente
che segue detto “salotto
giallo e verde” è un ambiente di passaggio, cui
nella volta si può ammirare una grande tela raffigurante “L’Allegoria
dell’immortalità“. Ai lati vi sono due vetrine con
originalissime collezioni di piatti firmate, da Francesco Nardone, un
decoratore napoletano del XIX secolo, mentre a sinistra si trova il “salottino
cinese”, un piccolo ambiente che testimonia la
passione per le cineserie, da parte dell’aristocrazia siciliana.

Il locale
successivo, detto “salotto
giallo” con una grande tela sul soffitto che
raffigura ”l’allegoria
del tempo” è un piccolo ambiente di riposo dove si
aprono due intimi boudoirs, quello a sinistra riservato alle signore con una
bella toletta Luigi XV, corredato di servizio in argento, e l’altro sulla
destra è un gabinetto da fumo per signori, con pareti in cuoio di Cordova.
Attraverso
un passaggio centrale arriviamo al “salone
degli arazzi” che assieme al successivo “salone
del baldacchino”, sono i più rappresentativi
della casa.
Il salone
degli arazzi, sontuoso, raffinato ed elegante con le
tappezzerie in seta ricamata e dal mobilio in stile impero, con decorazioni
pittoriche del Velasco è sicuramente una delle più belle sale del palazzo
e un tempo era la stanza da letto dei principi Filangeri. Ma il salone in
assoluto più ricco e sfarzoso, sontuosamente arredato, adorno di
decorazioni, tappezzerie, e preziosi oggetti d’arte è il “salone
del baldacchino” con le pareti interamente
rivestite da pannelli ricamati a “pittoresco”, con scene della
Gerusalemme liberata, molto rari e di fattura siciliana. Al centro della
volta campeggia il grande affresco firmato e datato da Elia Interguglielmi
nel 1795, che illustra “la
gloria del Principe Virtuoso”. Al centro del salone
il grande arazzo con baldacchino, raffigurante la presa della città
persiana di Arimaze da parte di Alessandro Magno, costituisce il fondale del
tronetto principesco dove solitamente sedeva il principe nei ricevimenti
ufficiali.
Questo salone apre le finestre sopra un terrazzo dove si trova una
suggestiva fontana barocca, di grande effetto scenografico, formata da
una grotticina artificiale di rocce spugnose decorata da conchiglie,
(le cosiddette “rocailles” da
cui è probabilmente derivato il nome rococò) fiancheggiata da due voliere.
A seguire
entriamo nel “salotto
Pompadour” dove al centro della volta risalta una “Allegoria
delle Arti” personificata da bambini in atteggiamenti
da adulti, databili al XIX secolo, e sulle consolle oltre a vasi cinesi e
giapponesi, le foto degli ultimi abitanti della casa: il principe e la
principessa di Mirto.
Proseguendo
entriamo in una piccola saletta ovale con decorazioni pittoriche a soggetto
mitologico dove a sinistra si apre il “salottino
Diana” qui una nicchia girevole con la statua di
Apollo, recentemente restaurata, nasconde un passaggio segreto, dove pare si
nascondesse un servitore del principe per origliare i discorsi dei
commensali.
L’ultimo
ambiente del primo piano è la stanza da pranzo ufficiale, arredata con
mobili ottocenteschi in noce, che custodiscono il prezioso servizio in
porcellana di Meissen, prodotto a suo tempo esclusivamente per i principi
Filangeri.
Il
secondo piano del
palazzo, quasi completamente visitabile, era destinato alla vita quotidiana
della famiglia, si compone di stanze più intime, ma comunque arredate
con eleganza e gusto. Vi troviamo, la sala da pranzo con soffitto ligneo; la
stanza di compagnia, una magnifica stanza da letto finemente arredata, con
letto a gondola; due biblioteche, che conservano volumi antichi e rari di
diverse epoche e altre straordinarie collezioni di oggetti d’arte,
testimonianza del gusto e dell’interesse dei Filangeri per l’arte ed il
collezionismo.
Completano
il secondo piano altri ambienti, un tempo riservati ai cadetti della
famiglia ed alla servitù, oggi sono adibiti a uffici ed archivi per
l’amministrazione del museo.

Palazzo
Abatellis (Galleria Regionale della Sicilia)
Palazzo
Abatellis (anche detto Palazzo Patella) è sede dal 1954 della Galleria
Regionale della Sicilia.
Il
palazzo del 1495, opera di Matteo Carnilivari all'epoca attivo a
Palermo in cui attendeva ai lavori di palazzo Aiutamicristo, e
splendido esempio d'architettura gotico-catalana, era la residenza di
Francesco Abatellis (Patella o Albatelli o Abbatelli, corrotto in
Abatellis), maestro Portolano del Regno.
Di
origini lucchesi l'Abatellis, al servizio di Ferdinando II d'Aragona,
fu nominato Prode Capitano indi trasferito a Palermo ove ricoprì la carica
di Gran Siniscalco e di Pretore per tre successivi
incarichi nel periodo a cavallo il 1486 e il 1495. In città, coi
proventi accumulati in terra iberica, edificò un palazzo vicino al convento
di Santa Maria degli Angeli detto la Gancia. Vedovo di una
nobile spagnola, sposò una cittadina palermitana, ma nessuna delle due
consorti diede alla luce un erede, pertanto l'Abatellis, dispose che il
palazzo rimanesse alla seconda moglie, e che alla morte di essa, le
strutture ospitassero un monastero di donne sotto il titolo di «Santa Maria
della Pietà» retto secondo la regola dell'Ordine benedettino.
Delle
disposizioni testamentarie fu disattesa la tipologia dell'ordine atto a
governare l'istituzione, infatti il 19 maggio 1526 un gruppo di
religiose dell'Ordine domenicano, provenienti dal monastero di Santa
Caterina, si trasferì nel palazzo. Furono necessari numerosi adattamenti
per renderlo adeguato alle esigenze della vita monastica, e come si può
vedere da una pianta pubblicata dal Filippo Meli in Matteo
Carnelivari e l'architettura del quattro e cinquecento in Palermo, le
diverse ali furono frazionate per realizzare celle e corridoi. All'esterno
le finestre furono modificate e furono tolte le colonnine intermedie e, a
volte, anche alcuni elementi decorativi. Nel 1553 il palazzo fu denominato monastero
del Portolano.
Per
le esigenze della comunità religiosa fu necessaria l'edificazione di una
cappella costruita sul lato sinistro del palazzo occultando uno dei
prospetti. Questa cappella fu eretta negli anni 1535 - 1541 dall'architetto Antonio
Belguardo e prese il nome di chiesa di Santa Maria della Pietà.
Il luogo di culto presentava il prospetto rivolto a settentrione e l'altare
a mezzogiorno in un'area adiacente la porta antica del Palazzo.
Nel XVII
secolo con la costruzione di una chiesa più grande (l'odierna chiesa
di Santa Maria della Pietà) con ingresso principale su via Butera, la
cappella fu abolita e suddivisa in diversi vani, la parte anteriore con
l'ingresso su via Alloro fu adibita a parlatorio mentre nella parte
retrostante fu realizzata una porta di accesso nel muro dell'abside, tolto
l'altare e tramutata in magazzini. Con l'emanazione delle leggi
eversive il monastero fu tuttavia mantenuto, in via straordinaria, alle
religiose domenicane.
Durante
la notte tra il 16 e il 17 aprile 1943, il palazzo fu colpito durante
un bombardamento aereo del secondo conflitto mondiale, evento che
determinò il crollo parziale dell'ala sud - occidentale e della parete
della torre ovest.
Finita
la guerra si decise di provvedere al suo restauro e di trasformare il
palazzo in "Galleria d'Arte per le collezioni d'arte medievale".
Prima di questa sede le opere facevano parte della Pinacoteca della Regia
Università e, dal 1866 in poi, delle collezioni del museo archeologico
regionale «Antonio Salinas».
La
Soprintendenza ai Monumenti affidò quindi all'architetto Mario Guiotto e
successivamente all'architetto Armando Dillon i lavori di consolidamento e
di restauro. Furono tolte le superfetazioni e furono ricostruiti il portico,
la loggia e il salone centrale di cui era crollato il soffitto. Questi
lavori furono ultimati a metà 1953 e fu allora chiamato Carlo Scarpa per
curare l'allestimento e l'arredamento della Galleria che venne aperta al
pubblico il 23 giugno del 1954. Scarpa realizzò anche diversi
adattamenti di questi restauri per le necessità dell'allestimento.
Nel
1977 le competenze dei beni culturali passarono alla Regione Siciliana e la
Galleria divenne regionale.
Il
4 febbraio 2008 il museo è stato temporaneamente chiuso per
effettuare lavori di restauro, e il 12 novembre 2009 è stato
riaperto. Conservando il lavoro di Scarpa, sono state riviste e create nuove
ali (le nuove sale verde e rossa) ai piani superiori compresa una terrazza
sul tetto.
Edificio
a pianta rettangolare con cortile interno, costruito con pietre d'intaglio e
torre angolare, si sviluppa su due livelli raccordato da due scale
scoperte che si fronteggiano e da un magnifico loggiato a due ordini con
archi a sesto ribassato al piano terra e archi a tutto sesto al piano
superiore.
Il portale d'ingresso,
sebbene maestoso e lineare, incastonato tra le due torri merlate che
spiccano dalla rigorosa costruzione, è delimitato da una cornice in pietra
sormontata al centro da stemmi recanti le armi della famiglia Patella- Abatellis. Il
prospetto principale al piano nobile è decorato da raffinate trifore.
Nelle
sale della galleria hanno trovato posto le opere provenienti da
acquisizioni, donazioni e anche degli incameramenti dei beni degli enti
religiosi soppressi nel 1866.
Al
piano terra si trovano, fra i tanti manufatti tutti d'altissimo livello
qualitativo: le opere lignee ad intaglio del XII secolo e le
sculture del Trecento e del Quattrocento fra cui alcune di Antonello
Gagini come l'Annunciazione e Ritratto di giovinetto, di Domenico
Gagini come la Madonna del latte, le maioliche dipinte a lustro
metallico dei secoli XIV e XVII, il Busto di gentildonna di Francesco
Laurana (XV secolo) conosciuta come Eleonora d'Aragona, di forme
elette e di plastica sodezza e le tavole dipinte di soffitti lignei.
Nella
sala II, si trova lo straordinario grande affresco del Trionfo della
Morte (databile con ogni probabilità agli anni 1445 e seguenti),
proveniente da Palazzo Sclafani è esposto nella ex-cappella con
una illuminazione dall'alto di grande impatto visivo. La morte, su un
cavallo scheletrico, irrompe in un giardino e semina scompiglio con frecce
letali tra giovani gaudenti e nobili donzelle, dopo aver seminato le
gerarchie terrene, laici e religiosi, papi e imperatori, i cui corpi ormai
giacciono esanimi, risparmiando quasi per beffa il gruppo di miserabili e
derelitti che pure la invoca.
Al
primo piano l'opera di maggior rilievo è, senza dubbio, l'Annunziata di Antonello
da Messina (XV secolo). Opera di assolutezza formale, considerata una
autentica "icona" del rinascimento italiano, è collocata nella
sala X conosciuta come sala dell'Antonello. La Vergine è colta nell'istante
supremo dell'Annunciazione (l'angelo le sta di fronte ma è
invisibile). Il gesto della mano, il trapezio del manto, la politezza delle
forme e lo sguardo magnetico, esaltano la figura restituendole una astratta
bellezza. Nella stessa sala, a fianco ad essa sono collocate altre opere di
Antonello: le tavole con le immagini di tre Dottori della Chiesa che
costituivano le cuspidi di un polittico andato disperso.
Prima
di accedere alla sala dedicata ad Antonello, nel percorso espositivo del
piano nobile della Galleria Regionale si possono ammirare l'"Ultima
Cena" del pittore catalano Jaume Serra, il "Salone
delle croci", dove trovano posto la croce dipinta da Pietro
Ruzzolone e quella del Maestro di Galatina e la collezione della
pinacoteca di provenienza per la maggior parte da chiese e dai conventi
della città, con opere quali la Madonna dell'Umiltà di Bartolomeo
Camulio (sala VII) l'Incoronazione della Vergine di Riccardo
Quartararo (sala XI) e i dipinti cinquecenteschi di Antonello
Crescenzio.
La
Sala XIII accoglie una serie pregevolissima di dipinti fiamminghi databili
fra il XV e XVI secolo, la perla della raccolta è sicuramente il Trittico
Malvagna di Jan Gossaert. Si tratta di un'opera miniaturista dove
sono rappresentate una Madonna col bambino tra angeli, Santa Caterina
d'Alessandria e Santa Dorotea, mentre sul retro del pannello si trova lo
stemma della famiglia dei Lanza. Altro capolavoro della sala fiamminga
è la Deposizione di Jan Provost.
Nelle
ultime sale (XV, XVI e XVII) di questo piano sono esposti dipinti di Vincenzo
da Pavia, Jacopo Palma il vecchio, le tele a carattere mitologico quali Andromeda
liberata da Perseo del Cavalier d'Arpino e Venere ed
Adone di Francesco Albani e le opere più significative del
Manierismo di marca Michelangiolesca, con dipinti di Giorgio Vasari (La
caduta della manna, in due parti), Girolamo Muziano e Marco Pino.
I
nuovi spazi museali (sala verde e sala rossa) si snodano su due piani,
presentano una significativa raccolta del tardo manierismo siciliano, della
pittura seicentesca e del realismo. La sala verde illustra opere del tardo
manierismo di impronta controriformista, attraverso la produzione di artisti
siciliani attivi a cavallo fra il cinquecento e il seicento: Giuseppe
d'Alvino, Gaspare Bazzano e Pietro D'Asaro. Fra le altre
opere più significative vanno citate San Francesco e l'Estasi di
Santa Caterina di Filippo Paladini.
A
concludere il percorso espositivo della sala verde, un capolavoro
dell'oreficeria Palermitana del '600, la Sfera d'Oro, grande ostensorio
in oro, argento dorato, smalti e diamanti, proveniente dalla Casa dei padri
Filippini all'Olivella.
Nella
sala rossa, al termine del percorso museale, assume grande rilevanza la
componente Caravaggesca, con il francese Simon Vouet autore
di Sant'Agata in carcere visitata da san Pietro, e con Amore
dormiente del napoletano Battistello Caracciolo, ma anche una
buona copia di ignoto, autore della Cena in Emmaus del Caravaggio,
versione National Gallery di Londra.
Le
opere principali di questa sala sono le tele di Antoon Van Dyck: "Santa
Rosalia incoronata dagli angeli", la "Madonna col
bambino" e il "Compianto" a lui attribuito. Il
pittore fiammingo che trovandosi a Palermo nei giorni terribili della
pestilenza del 1624, propose una nuova iconografia e sicuramente influenzò
nei decenni successivi l'opera di Pietro Novelli di cui citiamo i
pregevolissimi Mosè, l'Incoronazione di San Casimiro, San Pietro
liberato dal carcere e la splendida pala d'altare denominata Comunione
di Santa Maria Maddalena.
A
seguire nella stessa sala, gli sviluppi della cultura figurativa del
Seicento, fra le opere più importanti annoveriamo: tra gli stranieri, le
tele del fiammingo Mathias Stomer e dello spagnolo Josepe
Ribera detto lo "Spagnoletto", mentre fra gli italiani tele di
rara bellezza sono La Maddalena di Andrea Vaccaro, il Tormento
di Tycius di Cesare Fracanzano. La chiusura del percorso
espositivo, è dedicata alla linea più marcatamente barocca che si dipana
attraverso i dipinti di Mattia Preti, Agostino Scilla e Luca
Giordano.
Le
opere principali
esposte sono:
- Annunziata, Antonello
da Messina
- Sant'Agostino, Antonello
da Messina
- San
Gregorio Magno, Antonello da Messina
- San
Girolamo, Antonello da Messina
- Trionfo
della morte, autore ignoto, conosciuto come il maestro del trionfo della
morte
- Madonna
col Bambino tra i santi Vito e Castrense, autore ignoto
- Madonna
col Bambino e san Giovannino, Agnolo Bronzino
- Annunciazione, Pietro
Novelli
- Madonna
delle Grazie con i santi Rosalia e Giovanni Battista, Pietro
Novelli
- Comunione
di S. Maria Maddalena, Pietro Novelli
- Mosè, Pietro
Novelli
- Incoronazione
di San Casimiro, Pietro Novelli
- San
Pietro liberato dal carcere, Pietro Novelli
- Busto
di gentildonna detto di Eleonora d'Aragona, scultura di Francesco
Laurana
- Sant'Andrea, Girolamo
Muziano
- Trasfigurazione, Marco
Pino
- Incoronazione
della vergine, Riccardo Quartararo
- Assunta
fra i Cherubini ed angeli musicanti, Antonello Crescenzio
- Santa
Rosalia incoronata dagli angeli, Antoon Van Dyck
- Madonna
con il bambino, copia attribuita ad Antoon Van Dyck
- Madonna
del Rosario, Antoon Van Dyck
- Cristo
e la cananea, Mattia Preti
- Cristo
e l'adultera, Mattia Preti
- I
quattro evangelisti, Mattia Preti
- Ratto
di Deianira, Luca Giordano
- San
Paolo Eremita, Jusepe Ribera
- Sant'Agostino
che sfoglia un libro, Jusepe Ribera
- Madonna
del latte, scultura di Domenico Gagini
- Madonna
con il bambino, scultura di Antonello Gagini
- Annunciazione,
gruppo scultoreo di Antonello Gagini
- Sant'Agata
visitata in carcere da San Pietro, Simon Vouet
- Ultima
Cena, Jaume Serra
- Deposizione, Jan
Provoost
- Madonna
dell'umiltà, Bartolomeo Camulio
- Trittico
Malvagna, Jan Gossaert, conosciuto anche come Mabuse
- Il
tormento di Tycius, Cesare Fracanzano
- Compianto
del Cristo morto, Vincenzo degli Azani detto Vincenzo da Pavia
- Fuga
in Egitto, Vincenzo degli Azani detto Vincenzo da Pavia
- Madonna
del riposo, scultura di Antonello Gagini
- Maddalena, Andrea
Vaccaro
- Andromeda
liberata da Perseo, Giuseppe Cesari detto Cavalier d'Arpino
- Uomo
che soffia su un tizzone, Matthias Stomer
- San
Francesco, Filippo Paladini
- Estasi
di Santa Caterina, Filippo Paladini
- San
Michele Arcangelo, Filippo Paladini
- Venere
ed Adone, Francesco Albani
- Trinità, Vito
D'Anna
Il
capolavoro - Antonello
da Messina dipinge Maria - Annunciata,
1475 circa
Antonello
da Messina (1430-1479) non viaggiò fin nelle Fiandre, come un tempo si
credeva, eppure sapeva utilizzare perfettamente il colore a olio. Al
contrario, non avrebbe potuto rendere meglio la trasparenza di quel volto
di fanciulla, un ovale perfetto incastonato in una piramide altrettanto
perfetta, ritagliata da uno sfondo scurissimo. Anche se ha perduto
l’azzurro vivo, il
manto
genera ancora un volume solido e compatto di cui la Vergine si premura di
definire le forme tirandolo con la mano sinistra, un pezzo straordinario
di maestria pittorica, non meno della destra, che fende coraggiosamente
l’aria e misura lo spazio. Anche il leggio, su cui è posato il libro,
fa di tutto per farsi notare: non è parallelo all’osservatore, ma di
sguincio, così come il tavolo d’appoggio. Il corpo in leggera
rotazione, il gesto della mano sorpreso e al tempo stesso spaventato, lo
sguardo basso, calmo e assertivo, le pagine rimaste a mezz’aria: tutto
fa pensare che la volontà si sta compiendo, che il messaggio è in
consegna al mittente. “Ave Maria, grafia piena, Dominus tecum”: la
Vergine sta ricevendo l’annuncio da un angelo invisibile, che il
pittore, con una trovata rivoluzionaria, ha tenuto nascosto. Siamo noi,
ammirando il quadro, a collocarci nella stessa posizione dell’angelo
annunciante e divenendo perciò partecipi del mistero divino o,
quantomeno, di quello artistico. L’Annunciata, uno dei simboli
del Quattrocento italiano, risale quasi certamente al periodo veneziano di
Antonello da Messina: nella luce lagunare l’artista siciliano avrebbe
trovato un ulteriore ingrediente alle sue già straordinarie doti
coloristiche e compositive.

Porta
Felice
La nascita
di Porta Felice risale al 6 luglio del 1582, ai tempi in cui il viceré
spagnolo Marcantonio Colonna, duca di Tagliacozzo, decise di dare un monumentale
ingresso al Cassaro (l’attuale Corso Vittorio Emanuele), che
l’anno prima era stato prolungato fino al mare, raggiungendo così
l’altra bellissima strada che costeggiava le mura e la spiaggia, quella
che il senato palermitano chiamò “strada Colonna”, l’attuale Foro
Italico.
Il nome
“Felice” fu dato in onore della moglie del vicerè, donna Felice
Orsini. Dell’ episodio parlano Paruta e
Palmerino che scrivono così di quel 6 luglio del 1582.
Ma
i lavori, per l’edificazione della Porta andarono per le lunghe, iniziati
nei primi mesi del 1584, furono bloccati alla partenza del vicerè Colonna
che avvenne nel Maggio dello stesso anno.
I
successori non si curarono di continuare i lavori, tutto rimase fermo fino
al 1602, fino a quando il vicerè, il duca di Ferla, decise di continuare la
costruzione della Porta, incaricando l’architetto del Senato Mariano
Smiriglio. Ma l’opera venne realizzata solo parzialmente nel rispetto
al progetto. Questo prevedeva infatti che i piloni laterali venissero
sormontati da elementi piramidali che non vennero poi realizzati.
Nel
1636, alla morte di Smiriglio, venne nominato architetto della Porta Pietro
Novelli, che ne modificò ancora il progetto iniziale, specialmente nella
parte superiore, che rimase aperta.
Nella
direzione dell’opera subentrò anche Vincenzo Tedeschi, rivale del
Novelli, che tentò di evidenziare alcuni errori tecnici, ma in realtà
quasi nulla fu cambiato.
La
costruzione della Porta si concluse nel 1637. Le due fontane monumentali ai
piedi dei piloni, invece, con alcuni elementi decorativi furono
aggiunti nel 1642.
Grande
protagonista della vita palermitana, Porta Felice vide passare, attraverso i
suoi piloni, sovrani, vicerè, nobiltà, processioni, il carro del Festino
di Santa Rosalia e le carrozze con gli equipaggi per la celebre passeggiata
alla Marina della Belle Epoque.
Ma durante la seconda guerra mondiale, una bomba distrusse un pilone
riducendolo in macerie.

Al
termine della guerra, il pilone fu ricostruito, ma si persero molti elementi
decorativi che lo componevano in origine.
Questa
è la storia, in breve, della costruzione di “Porta Felice”, che è il
primo esemplare di porta a piloni della nostra città, la cui facciata
esterna, quella che guarda il mare ha un rivestimento marmoreo chiaro di
impronta classica, quella interna subisce l’influsso dello stile romano
tardo-manieristico.
Ma
andiamo a spulciare le dicerie che nel tempo i palermitani hanno avuto
riguardo a questa Porta mancante della parte superiore. Molti pensarono che
la mancanza della parte superiore della Porta era stata una necessità, per
consentire il passaggio del trionfale carro di Santa Rosalia, ma ciò non
risponde a realtà, perché il carro apparve per la prima volta nel 1686,
quindi molto dopo la costruzione della porta.
Altra
ipotesi, molto briosa è quella osservata da Patrik Brydone, scrittore,
scienziato, militare e viaggiatore scozzese venuto a
Palermo nel 1770. A Brydone piacque molto la passeggiata alla Marina, ma lo
sorpresero alcune abitudini dell’aristocrazia palermitana, scrive infatti:
“La
passeggiata ribocca di vetture e di pedoni.
A fine di meglio favorire gli intrighi amorosi
è espressamente vietato a chicchessia di portar lume.
Tutte le torce si spengono a Porta Felice,
ove i lacchè attendono il ritorno dei loro padroni
e la intera adunanza resta per un’ora o due nelle tenebre,
a meno che le caste corna della luna,mostrandosi ad intervalli,
non vengano a dissiparle”.
Cogliendo
al volo questa simpatica osservazione dello scrittore scozzese, i
palermitani cominciarono a dire che, oltre a quelle della casta luna, di
corna ce ne erano altre: quelle dei mariti delle nobili dame che
frequentavano la passeggiata notturna alla Marina e che quindi era stato
necessario non costruire l’arco della porta, per dar modo ai poveri mariti
di passare tranquillamente senza il rischio di rimanervi intrappolati con le
loro lunghe corna.
E’
questa una storiella che per lungo tempo ha fatto parlare i palermitani, che
vedevano nelle passeggiate notturne, nei pressi di Porta Felice, una
discendenza delle nobili donne che furono.
L'intervallo
di tempo trascorso permise la differenziazione delle facciate dei piloni:
così abbiamo il prospetto interno (affacciato sulla città) con
caratteristiche più tendenti agli stilemi rinascimentali, mentre il secondo
(successivo al primo, terminato dagli architetti Pietro Novelli,
Smiriglio e Vincenzo Tedeschi, prospiciente al mare), realizzato con
rivestimenti e sculture in marmo grigio dai caratteri e dalle connotazioni
tipicamente barocchi.
I
piloni rivestiti di marmi, decorati con colonne, balconi, logge, architravi,
balaustre, capitelli, cornici, fasce, festoni, ghirlande, mascheroni,
piedistalli, plinti, gradini, fregi, riccioli, volute e pigne sommitali,
furono ulteriormente arricchiti sul prospetto alla Marina, da due fonti dal viceré
di Sicilia Giovanni Alfonso Enriquez de Cabrera, conte di Modica e
grande ammiraglio di Castiglia nel 1644. Due ulteriori vasconi
sormontati da iscrizioni marmoree fanno ala nei contrafforti laterali.
Due
nicchie delimitate da colonne e architravi, custodiscono altrettante statue
canefore elevate su piedistalli e sormontate da epigrafi magnificanti Filippo
IV di Spagna.
In
corrispondenza delle balaustre delle terrazze, tra riccioli e volute di
raccordo, si stagliano imperiose le aquile coronate che reggono le insegne
reali e l'acronimo SPQP (Senatus Populus Que
Panormitanus). Ai lati sono incastonati i doppi scudi con le armi
del viceré e della città. Sui contrafforti esterni delle logge sono
collocate le statue raffiguranti Santa Ninfa e Santa
Cristina.
Il
prospetto interno affacciato su Piazza Santo Spirito, realizzato in conci
intagliati, per mancanza di particolari scultorei e marmorei (ad eccezione
del rivestimento alla base e della balaustra del terrazzo), presenta
chiaramente la ripartizione su tre ordini. Al piano terra le porte d'accesso
ai piloni. Nel secondo ordine un balcone e una finestra incorniciati da
dettami in stile rinascimentale. Al terzo la balconata belvedere con
contrafforte a ricciolo. I vani costituivano appartamenti ad uso dei pretori
cittadini. Affreschi realizzati da Pietro Novelli decoravano
le volte degli ambienti interni.
Il
varco interno nella sua profondità non presenta alcun rilievo se non i
cornicioni marcapiano fra il secondo e il terzo ordine sui quale si
sviluppano i balconi con porte sormontate da timpani.
Il
manufatto misurava 92 palmi d'altezza per 54 di larghezza, con un
vano di passaggio largo 32 palmi.
Fino
al terremoto di Pollina del 5 marzo 1823 sulla Piazza
Santo Spirito prospettava la chiesa di San Nicolò alla Kalsa o «dei
Latini». Le macerie ingombrarono la spianata per decenni. Abbattuti i
ruderi, al suo posto fu riassemblata una scultura di Ignazio
Marabitti: la Fontana del Cavallo Marino, manufatto proveniente
dal giardino di palazzo Ajutamicristo.
In
seguito ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, il pilone
destro venne quasi interamente distrutto, ma un attento restauro ha
riportato la porta al suo antico splendore, seppur perdendo alcuni degli
elementi decorativi originali.
Villa
Giulia

“Villa
Giulia” nasce, nel periodo che va dal 1775 al 1778, fuori dalle mura della
città, dove anticamente vi era l’aristocratico giardino della famiglia
Chiaramonte, conti di Modica, quasi in riva al mare, sulla pianura di
Sant’Erasmo. Ampliata intorno al 1866, divenne il primo parco
pubblico di Palermo.
Realizzata
su progetto dell’architetto palermitano Nicolò Palma e per volere del
pretore e governatore della città, Antonio La Grua, marchese di Regalmici e
principe di Carini, prende il nome da quello della moglie del viceré
spagnolo Marcantonio Colonna, la viceregina Donna “Giulia” d’Avalos
Guevara.
Johann
Wolfgang Goethe lo definì un giorno “il più meraviglioso
angolo della terra” ed è qui che – durante le sue visite a Palermo –
si fermava per leggere Omero.
Concepita
secondo un rigoroso e classico disegno geometrico, la villa ha una pianta
quadrata ed è tutta recintata da una cancellata in ferro, posta su di un muretto.
La
villa è fornita di due entrate: una lato mare, di fronte al Foro
Italico, che è quella principale e non più attiva, e una da Via Lincoln,
chiamata “Porta Carolina” o “Porta Reale” a pochi passi dall’Orto
Botanico, che oggi resta l’unico accesso alla Villa.
L’ingresso
principale, oggi rovinato e in disuso, si affaccia sulla “Passeggiata a
mare” ovvero sul “Foro Italico” ed è composto da un portico,
sostenuto da quattro colonne di marmo di ordine dorico con ai lati due leoni
posti sopra piedistalli. Sull’architrave, tre scudi con gli stemmi di
Palermo, della famiglia La Grua e della famiglia Colonna.
La
villa è divisa da due strade che intersecandosi formano una piazza dove al
centro è posta una fontana circolare, opera di Ignazio
Marabitti, con
uno scoglio artificiale su cui è collocato un piccolo “Atlante” in
marmo che ha sul capo un dodecaedro con 12 orologi solari (oggi gli orologi
originali non esistono più), opera del matematico palermitano, Lorenzo
Federici.
Nel
corso dell’Ottocento, numerosi interventi hanno mutato l’aspetto della
Villa: sono stati costruiti teatrini della musica, quattro esedre (incavi
semicircolari, sovrastati da una semi-cupola), progettate da Giuseppe
Damiani Almeyda.
Sono
stati costruiti ponti, collinette, laghetti artificiali e collocate
statue e busti di, De Spuches, Pacini, Petrella, Leopardi, Donizetti,
Bellini, Novelli, ad opera del Marabitti e da sottolineare per una visita più
accurata: uno dei sette "Geni di Palermo".
Un’opera d’arte, attorno alla quale sono disposti una serpe, un cane e
una cornucopia: simboli della Prudenza, della Fedeltà e dell’Abbondanza
della città, opera anch’essa di Ignazio Marabitti.
Un
tempo “Villa Giulia” era la villa più frequentata dai bambini, si
affittavano piccole biciclette, si vendevano gelati e si poteva godere
dell’affascinante vista di un vecchio “Leone” soprannominato
“Ciccio” la cui dimora era una piccola e triste gabbia che si trovava
dal lato opposto all’ingresso di via Lincoln.
Il
ricordo del vecchio “Ciccio” resta nei cuori di tutti i palermitani che
lo abbiamo conosciuto, quasi sempre dormiente e a parer mio triste e
depresso per la solitudine.
Al
confine laterale della “Villa Giulia” l’Orto Botanico di Palermo
a cui consigliamo vivamente una visita.

Orto
botanico
“Dovetti
pizzicarmi per credere che non si trattasse di un sogno quel giardino
tropicale” questo
scriveva entusiasta la “Pigra” viaggiatrice inglese lady Frances Elliot
nel 1885, dopo aver visitato l’Orto botanico di Palermo. Altri illustri
visitatori apprezzano le bellezze dell’orto: Massimiliano d’Austria lo
cita nel suo “Tagesbuecher” pubblicato nel 1856; Riccardo Wagner,
secondo la testimonianza del diario della moglie Cosima, “nel
pomeriggio dell’ultimo giorno del 1881 si recò nell’Orto ed estasiato
dalla sua bellezza, dopo la visita rientrò subito in albergo per comporre
di getto due nuove pagine di partitura del Parsifal”. La regina
Maria Carolina lo apprezza particolarmente, e durante la permanenza della
corte in Sicilia, a causa della rivoluzione napoletana, arricchisce le
collezioni dell’Orto di magnifiche e rare piante esotiche.
Negli
oltre due secoli della sua esistenza l’Orto botanico di Palermo ha
esercitato la sua suggestiva influenza su tanti personaggi illustri, non vi
fu letterato, viaggiatore colto, naturalista che trovandosi a Palermo
mancasse di visitare l’Orto senza risparmiare i complimenti.
La
nascita dell’Orto botanico di Palermo risale agli ultimi anni del XVIII
secolo, e fu un evento emblematico di uno dei momenti più fecondi non
solo della storia della Sicilia ma di tutto il Regno meridionale. Per una
serie di circostanze ben note agli studiosi, gli ultimi due
decenni del secolo, ed in particolare i due viceregni di Domenico
Caracciolo, marchese di Villamaina e Francesco D’Aquino, principe di
Caramanico, rappresentano momenti gloriosi della storia siciliana.
Molte
furono le riforme, le trasformazioni istituzionali, gli interscambi
culturali e artistici con la cultura napoletana e straniera che innescarono
grandi aperture nel segno della cultura illuministica.
La
realizzazione dell’Orto botanico di Palermo, si pone all’interno di
questo fervore istituzionale, e catalizza attorno al progetto, intelligenze,
energie e grandi entusiasmi.
Piccoli
Orti erano stati precedentemente organizzati da privati, tra il 600 e il
700, da Nicolò Gervasi, a Melchiorre Plaja. Il più famoso “l’hortus
Catholicus” fu costituito a Misilmeri nel 1696 dal principe della
Cattolica. Altri Orti furono quelli del marchese Ingastone, fuori Porta
D’Ossuna, quello del gesuita padre La Lumia, quello dei fratelli Gazzara
nel convento di S. Antonino, quello del principe di Galati. Ma nonostante
queste iniziative individuali, ”gli studi botanici erano in
decadenza verso la metà del secolo XVIII e per lunghi anni quella scienza
rimase tra noi in abbandono” (L. Sampolo, 1888).

Evento
determinante fu, la nascita della Regia Accademia degli Studi di Palermo
(l’attuale Università), e l’istituzione della cattedra di “botanica e
materia medica”. L’accademia ottenne dal senato cittadino di usufruire
di un appezzamento di terra sul baluardo di Porta Carini, dove prima si
conservava la polveriera pubblica per destinarlo ad Orto botanico. Ma ben
presto lo spazio a disposizione si rivelò insufficiente e inadeguato alle
esigenze didattiche, allora si decise il trasferimento in una sede più
grande che fu individuata nel piano di S. Erasmo in località “Vigna del
Gallo”, un’area adiacente la Villa Giulia, da poco impiantata dal senato
della città, di proprietà del duca di Archirafi.
Così
nel 1789 il senato obbligò Ignazio Vanni d’Archirafi a cedere
“dieci tumuli della Vigna del Gallo, e il pretore Bernardo Filangeri,
conte di S. Marco, affidò al presidente del Tribunale G. Battista Asmundo
Paternò il ruolo di deputato curatore.
All’impianto
dell’Orto il viceré Caramanico destina la somma di 13.644 once, una parte
della quale proviene dalle rendite dell’abolito Tribunale del S. Uffizio,
oltre che da contributi personali di Re Ferdinando, dello stesso viceré,
del Paternò Asmundo, del duca di Monteleone Ettore Pignatelli, e
dell’Arcivescovo di Palermo Filippo Lopez y Royo.
L’Orto
è, insomma, il risultato della capacità di creare sinergie tra iniziativa
pubblica e privati cittadini. Molti furono i personaggi coinvolti a
vario titolo, che ricoprivano alte cariche istituzionali, quali Tommaso
Natale marchese di Monterosato, Francesco Carelli, monsignor Ajroldi, il
cavaliere Lioy e tanti altri, frequentemente legati tra loro dalla comune
appartenenza alla Massoneria, e quasi tutti appartenenti all’entourage del
viceré.
Il
primo di febbraio 1789 comincia a piantarsi l’Orto, secondo la
testimonianza di Asmundo Paternò,”dopo avere spiantato i fichidindia”
di cui era ricca la “Vigna del Gallo” ed avervi trasportato le piante
dal bastione di Porta Carini.
Nell’autunno
dello stesso anno fu dato l’incarico di progettare il Gimnasium ad
un architetto francese di particolare talento, Leon Dufourny che dopo un
mese, ne propose il disegno al viceré. Sono dell’architetto francese,
infatti tutti i disegni degli edifici monumentali oggi esistenti, escluso
l’acquario, mentre all’esecuzione dei lavori attesero gli architetti
Venanzio Marvuglia, Pietro Trombetta e Domenico Marabitti, sempre del
Dufourny è, pure l’impostazione del giardino nella sua originaria
configurazione.
La
costruzione del complesso architettonico dell’Orto, in stile
neoclassico (primo esempio di architettura neoclassica in Sicilia) comprende
l’edificio centrale il Ginnasio, sede della Regia Scuola di Botanica,
destinato alle lezioni di botanica, l’erbario, l’alloggio del direttore,
e i due corpi laterali del Callidarium e del Tiepidarium.
Le
decorazioni pittoriche del Ginnasio vengono affidate al grande
pittore Giuseppe Velasco (gli affreschi della volta, della cupola e del
tetrastilo), gli scultori Gaspare Firriolo e Vitale Tuccio, sono gli autori
rispettivamente delle statue raffiguranti le quattro stagioni che adornano
il frontone del Ginnasio, e delle due sfingi poste alla base della scalinata
posteriore, mentre i prospetti del Callidarium e del Tiepidarium, sono
abbelliti da bassorilievi dello stuccatore Domenico Danè.
Contemporaneamente
si divide il giardino a quartini, si impianta il boschetto esotico e negli
ultimi anni del secolo si costruisce l’acquario per le piante acquatiche,
dono di Filippo Lopez de Royo arcivescovo di Palermo e Presidente del Regno.
Nel
1795 finalmente l’Orto fu solennemente inaugurato: la grande opera
è compiuta! Un’era si chiude e se ne apre una nuova. Il primo direttore
è il professore Giuseppe Tineo, ma si deve ai suoi successori, il figlio
Vincenzo e Agostino Todaro, l’ ampliamento dell’orto sempre su
terre di casa Archirafi, e sopratutto nuovi allestimenti che porteranno
l’Orto palermitano, per la ricchezza di specie ospitate, e per la
vastità del suo impianto, ad essere uno degli orti botanici più importanti
d’ Europa.
Da
allora è iniziata una attività di carattere agronomico e divulgativo a
fianco degli studi più propriamente botanici, che per oltre due
secoli ha consentito la diffusione in Sicilia, e in tutto il bacino
del Mediterraneo, di innumerevoli specie vegetali originarie delle zone
tropicali e subtropicali, alla quale si sono uniti specie da frutto come il
mandarino e il nespolo, che hanno assunto un ruolo significativo nella
produzione e nel paesaggio agricolo siciliano.
Furono
incentivate le coltivazioni di piante utili, come per esempio il cotone, la
soia, il raimiè, il sorgo zuccherino e altre specie di interesse officinale
e decorativo.
Negli
oltre 10 ettari della sua attuale estensione, l’Orto botanico di Palermo
accoglie una collezione scientifica di oltre 12000 specie differenti di
piante viventi coltivate in piena terra, tutte disposte secondo criteri
sistematici (il sistema sessuale di Linneo e quello filogenetico di Engler),
si possono ammirare stupendi esemplari di Ficus Magnolioides, di
Dracene, di Aloe, di Araucarie Columnares (la più alta pianta dell’orto),
moltissime collezioni di piante esotiche perfettamente ambientatesi, e tante
specie di palme, definite da Linneo” Principes Plantae “,
provenienti da tutti i continenti. Inoltre nel suo “herbarium
mediterraneum” sono conservate diverse decine di migliaia di
“exsiccata” (piante essiccate) che costituiscono un grande patrimonio di
interesse scientifico e culturale.
L’Orto
botanico è dotato di una considerevole biblioteca che comprende migliaia di
opere rare e di grande pregio, la più antica delle quali risale al 1537.
Anche se, ovviamente sono le parti monumentali dell’Orto ad attirare
l’attenzione dei visitatori, il Gimnasium primo fra tutti, una passeggiata
per i suoi viali, suscita ancora oggi un senso di serenità, non solo piante
si incontrano, ma statue, busti di grandi
naturalisti, bassorilievi, perfettamente amalgamati con la natura che
li circonda, il tutto filtrato da un’atmosfera di silenziosa calma.

Mercati
di Palermo
I
mercati di Palermo sono una vera istituzione cittadina, luoghi in cui la
tradizione rimane viva ma allo stesso tempo in cui la città si evolve al
passo con i tempi. Retaggio del passaggio degli arabi, il mercato
palermitano assomiglia più a un bazar perché non è solo un luogo di
commercio, ma anche di relazione, comunicazione e scambio. Aperti ogni
giorno dal mattino fino al pomeriggio, e alcuni anche fino a sera inoltrata,
i mercati più affollati vengono frequentati giornalmente da centinaia di
persone. Non potere non visitare almeno un mercato durante la vostra vacanza
a Palermo, è questo il modo migliore per entrare in contatto con l’anima
profonda di questa città storicamente multietnica. Un altro motivo per
visitare i mercati di Palermo è che sono questi i posti migliori per
assaggiare lo street food palermitano, considerato uno dei più gustosi
d’Italia. Il cibo di strada è una soluzione economica per assaggiare
prelibatezze locali, come le tradizionali focacce con la meusa o le panelle
ma anche nuovi piatti importati dai venditori immigrati: un nuovo trend che
in realtà ricalca la storia millenaria di Palermo, città da sempre aperta
alle influenze di popoli diversi.
La
visita ai mercati storici di Palermo è un’esperienza che coinvolge tutti
i cinque sensi. Ci sono, naturalmente, i profumi, gli aromi e i sapori delle
merce in vendita, che si può anche toccare per testarne la qualità. Ma un
altro elemento caratterizzante della vivacità dei mercati sono i suoni, tra
cui il più tipico è sicuramente costituito dalle grida dei venditori che
con la potenza della loro voce e il colorito accento locale attirano i
clienti, riuscendo a sovrastare ogni altro rumore. Di sottofondo rimane il
chiacchiericcio dei clienti nell’atto dell’acquisto o mentre scambiano
due parole con amici e passanti; di tanto in tanto verrete disturbati dal
fracasso di un motorino che riesce a sfrecciare per le strette vie del
mercato.
Mercato
Ballaró - Se avete tempo per visitare un solo mercato vi consigliamo
Ballarò, il più famoso tra i mercati storici di Palermo, quello più amato
dai palermitani e quello meno frequentato dai turisti. Viene considerato il
mercato popolare per eccellenza: questo dedalo di viuzze è sempre animato e
vivacissimo.
Per
molti palermitani fare la spesa a Ballarò è un rito irrinunciabile nonché
una tradizione tramandata di padre in figlio: osservate come scelgono con
cura la mercanzia, trattano il prezzo, concludono l’affare. Ballarò viene
talvolta chiamato il mercato del pesce, ma in realtà, anche se il pesce
fresco la fa da padrone, qui potrete acquistare anche carne, frutta,
verdura, formaggi, salumi e persino casalinghi e articoli per la pulizia
della casa. Non manca lo street food, grande protagonista dei mercati
storici di Palermo. Tra i cibi cotti che potete mangiare al mercato di
Ballarò o acquistare per asporto potete trovare carne, pesce e verdure: le
specialità tipiche sono verdure lesse, cipolle al forno o bollite, panelle
(frittelle di farina di ceci), cazzilli (crocchette di patate), quarume
(interiora di vitello) e polipo.
Secondo
alcune testimonianze scritte già nel X secolo esisteva un mercato nella
zona in cui oggi troviamo il mercato di Ballarò. In questo antico mercato
pare venissero vendute anche merci provenienti dall’India e per questo
motivo fu chiamato dagli arabi Balhara, nome di un principe che all’epoca
viveva in India. Da qui l’origine del nome Ballarò.
Mercato
della Vucciria - Il Mercato della Vucciria è uno dei più antichi di
Palermo ma anche quello che maggiormente ha risentito del passare del tempo
e ha saputo reinventarsi.
Il
nome di questo mercato deriva dalla parola Bucceria, simile al volgare beccheria o
al francese boucherie, che significa macelleria, da
"becco", il caprone che rappresentava l'animale macellato per
eccellenza. Il mercato era infatti inizialmente destinato al macello (e in epoca
angioina ne sorgeva uno) ed alla vendita delle carni. Successivamente
divenne un mercato per la vendita del pesce, della frutta e della verdura.
Anticamente era chiamato "la Bucciria grande" per distinguerlo dai
mercati minori. "Vuccirìa" in palermitano significa
"Confusione". Oggi, la confusione delle voci che si accavallano e
delle grida dei venditori (le abbanniati) è uno degli elementi
che, maggiormente, caratterizza questo mercato palermitano.
La
vicinanza al porto cittadino stimolò l'insediamento di mercanti e
commercianti genovesi, pisani, veneziani, etc. sin dal XII secolo. La
presenza di numerosi artigiani è ancora leggibile dai nomi di alcune strade
(via Chiavettieri, via Materassai, via dei Tintori, etc.)
Nel
corso dei secoli la Vucciria subì diverse modifiche. Il viceré Caracciolo
nel 1783 decise di cambiarne l'aspetto, in particolare della sua
piazza principale, che fu chiamata col suo nome in suo onore. Intorno alla
piazza si costruirono dei portici che ospitavano i banchi di vendita ed al
centro fu sistemata una fontana. È impossibile descrivere tutti gli odori
caratteristici che pervadono il posto, anche se il tipico odore di pesce
risulta certamente il più intenso.
All'interno
della zona del mercato si trovano palazzi nobiliari ed opere d'arte quali il
Palazzo Mazzarino, appartenuto alla famiglia del celebre cardinale, la
fontana del Garraffello, palazzo Gravina Filangeri di Rammacca al
Garraffello.

Di
giorno questo mercato appare spesso tristemente vuoto, ma è comunque
piacevole fare una passeggiata nel fitto intreccio di vie intorno a Piazza
Caracciolo, cuore del mercato, e magari acquistare alcuni ingredienti tipici
della cucina siciliana come sarde, olive, pomodori, limoni e erbe
aromatiche. Durante la vostra passeggiata in questo storico mercato
all’aperto cercate di immaginarlo ancora gremito di gente, con abbondanza
di merci in vendita e animato dalle voci assordanti dei venditori, proprio
come l’ha immortalato in un suo celebre dipinto del 1974 il pittore Renato
Guttuso. Ritornate poi al calar del sole per vedere questo mercato storico
popolarsi di gente e animarsi. Molte delle sue antiche botteghe artigiane
sono state infatti convertite in pub e caffetterie e la Vucciria è
diventato un popolare luogo di ritrovo per i giovani palermitani, che si
danno appuntamento qui per organizzarsi la serata bevendo un drink.
Muovendosi
all'interno del fitto intreccio di vicoli e piazzette del mercato della
Vucciria si possono ritrovare tutti gli ingredienti della cucina siciliana;
le coloratissime bancarelle traboccano di cassette di legno che, grazie ai
colori della mercanzia, si trasformano in scrigni ricolmi dell'oro dei
limoni, dell'argento delle sarde fresche e salate, del bronzo delle olive e
del corallo dei pomodori essiccati. Spettacolari le piramidi di cuccuzzedde,
di broccoli verdi, di mazzi di tenerumi. In estate la scena di
questo grande teatro di strada vede trionfare come assoluti protagonisti i muluni
d'acqua e le grandi angurie con il ventre affettato e messo a nudo.
Il
variegato mondo dei pesci, poggiato su letti di ghiaccio tritato, è
rappresentato da gamberi, orate, scorfani, tonni, pescespada, polpi,
seppie e grossi calamari. Nelle pentole bollenti vengono tuffati i polpi
bolliti, conditi a fine cottura con soltanto una spruzzata di limone. Le
sarde salate vengono pulite davanti agli occhi dei clienti. Caratteristiche
sono anche le stigghiole cotte alla brace e le panelle.
A partire dagli anni 2000 la Vucciria è diventata una delle sedi della movida palermitana,
dal tardo pomeriggio e fino a notte inoltrata. È possibile trovare
tanti locali che vendono bevande a costo inferiore rispetto ai locali di
altre zone, e angoli in cui si vende cibo da strada, dal panino con
panelle e crocchè al panino con la milza, dalle stigghiola
al polpo. Tutto ciò ha determinato una trasformazione della Vucciria, che
ha perso quasi del tutto la funzione tradizionale di mercato.

Mercato
del Capo - Il Capo è, assieme a Ballarò, il mercato più frequentato
di Palermo. Vi si accede dalla monumentale Porta Carini, facendosi largo tra
la folla e insinuandosi negli stretti spazi lasciati liberi dalle
bancarelle.
La
zona in cui sorge il quartiere del Capo insiste sul letto dell'antico fiume Papireto,
che dai Danisinni attraversava le attuali piazza Peranni, via Gioiamia,
piazza Ss. Cosma e Damiano, piazza Monte di Pietà, piazza S. Onofrio, via
Venezia e piazza Caracciolo, dove fino al XVI secolo arrivava la linea della
costa e il porto. La zona del Papireto fino al Basso Medioevo era
lussureggiante, adatta alla coltivazione del papiro e della canna da
zucchero, ma malsana a causa della presenza di terreni paludosi.
È
qui che, al di fuori delle antiche mura punico-romane, gli Arabi creano il
quartiere "degli Schiavoni", al-Harat-as-Saqalibah,
destinato alle truppe mercenarie dalmate. Qui venne edificata la Strada del qadi,
sari-al-qadì, il Seralcadio, che attraversava tutta la città per tutta la
sua lunghezza dalla campagna fino al mare. Ancora oggi il quartiere è
conosciuto anche con il nome di Seralcaldio, uno dei quattro
mandamenti della città antica. A partire dall'XII secolo nella zona vennero
edificate numerose chiese, tra cui la Sant'Agostino e sant'Agata alla
Guilla, chiamata così dall'arabo wadi, che indicava il letto del fiume
Papireto.
La
parte alta del quartiere venne chiamata Caput Seralcadi: è da
quest'uso che deriva il nome Capo. Fino al XVI secolo il
quartiere resta caratterizzato dalla presenza del fiume, e consiste
soprattutto di giardini, orti urbani, chiese, botteghe artigiane, il macello
e la conceria. Nel 1581 il Papireto viene interrato a circa 8 metri di
profondità, e inizia la bonifica della zona e la conseguente
urbanizzazione. La cinta muraria viene ingrandita, mentre nel 1600 inizia la
costruzione di via Maqueda, uno dei due principali assi viari della
città per i prossimi secoli: il Capo viene profondamente trasformato, e
diventa uno dei quattro quartieri (Mandamenti) in cui è divisa la
città, popolato soprattutto dalla piccola e media borghesia, da artigiani e
mercanti, le cui case vengono costruite accanto a chiese e case di
confraternite.
Tra
il XVI e il XVIII secolo vengono costruiti gli edifici che caratterizzano il
quartiere ancora oggi, come la Panneria (Monte dei Pegni), la chiesa di
sant'Onofrio, la chiesa di san Paolino dei Guarnieri, ovvero l'attuale
moschea, il Noviziato dei Gesuiti, la chiesa e convento dell’Immacolata
Concezione in via Porta Carini, la chiesa dei SS. 40 Martiri Pisani, il
Monastero di San Vito (adesso sede di una caserma di carabinieri, il
Collegio di S. Maria del Giusino, ecc.
Il
quartiere fu al centro dei moti del 1860, e l'annessione all'Italia,
con la conseguente soppressione degli ordini religiosi, provocò sia una
crisi economica, dovuta alla fine delle tante attività economiche legate ai
conventi e alle confraternite qui presenti in gran numero, sia la
riorganizzazione degli spazi divenuti pubblici (caserme, ospedali, ecc.).
Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo il Capo fu interessato dalle
grandi opere urbanistiche che cambiarono il volto della città:
l'edificazione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele, il taglio della via
Roma, la costruzione del palazzo di Giustizia, interessato alla fine
dalla costruzione del Nuovo palazzo di Giustizia e dalla sistemazione delle
vie adiacenti.

È
un animatissimo e caratteristico mercato alimentare: i colori, le urla (i
vuci) dei venditori, l'animazione delle bancarelle ne fanno un elemento
essenziale del carattere della città di Palermo. È un mercato attivo tutti
i giorni, compreso la domenica mattina, dando la possibilità di acquistare
a buon prezzo sia generi alimentari, sia altre mercanzie: frutta, verdura,
spezie, carne, pesce, ecc., oltre a taverne e luoghi di ritrovo. Si estende
lungo la via Carini e via Beati Paoli, la via di Sant'Agostino e la via
Cappuccinelle. L'accesso principale del mercato è Porta Carini e
via omonima, che porta a piazza Capo. Tradizionalmente, è nei sotterranei
di quest'area che i Beati Paoli avrebbero avuto il loro tribunale
segreto, come indicato anche nei romanzi di Luigi Natoli.
Il
Capo è un vero labirinto di stradine e vicoli, dove si può acquistare
carne, pesce, verdura e frutta al riparo dal sole cocente grazie ai
caratteristici tendoni colorati. Dal mercato potete facilmente raggiungere
la magnifica Cattedrale di Palermo e altri punti di interesse nel centro
storico. Altri mercati storici Ballarò, Vucciria e Il Capo sono certamente
i più famosi mercati storici di Palermo, ma non gli unici. In città
fiorivano molti altri poli commerciali, alcuni di questi attivi ancora oggi.
Tra
i mercati storici ancora attivi di Palermo possiamo ricordare:
Borgo
Vecchio: più piccolo dei tre mercati storici, ma ugualmente antico e
caratteristico, si trova nel centro di Palermo, tra piazza Sturzo e piazza
Ucciardone. Rimane aperto fino a tarda notte ed è un popolarissimo luogo di
ritrovo.
Sant'Agostino:
tra le vie Sant’Agostino e Bandiera, in una zona attigua al quartiere del
Capo, si trova questo mercato storico che si differenzia dagli altri perché
la mercanzia qui in vendita è costituita principalmente da vestiti,
biancheria e scarpe.
Mercato
delle Pulci: più recente dei tre storici mercati, si trova alle spalle
della Cattedrale in zona Papireto. È piacevole gironzolare tra le sue
bancarelle a caccia di oggetti d’antiquariato preziosi o semplicemente
curiosi.
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Pag. 9
Agosto
2018
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