Chiesa
della Magione
La chiesa
della SS. Trinità, comunemente conosciuta come “ Magione”, si erge sul
lato meridionale di un vasto spiazzo nella omonima piazza Magione. Una
spianata formatosi in seguito ai bombardamenti aerei del 1943
(particolarmente devastanti in questa zona) le cui ferite ancora aperte si
potevano vedere ancora non molti anni addietro.
Questa
chiesa insieme all’annessa abbazia fu fondata sul finire del XII secolo da
Matteo D’Aiello, cancelliere di Tancredi, l’ultimo Re normanno, che
proprio da Matteo, nel 1190, aveva ricevuto la corona regia, secondo la
testimonianza di Riccardo di San Germano “est
per ipsum Cancellarium coronatus Rege”.
Il
complesso chiesa-monastero occupò un settore urbano “infra
moenia in civitate panormi”, (dentro le mura della città di
Palermo) con edilizia rada, dove risultava l’unica emergenza
architettonica del posto, ed era circondato da un grande giardino (“viridarium
magnum”) cosi vasto, che nei periodi di carestia, veniva
piantato a grano per sfamare la popolazione.
Matteo
D’Aiello la volle intitolare alla SS. Trinità, una scelta non casuale,
come una forma di risposta a quelle dottrine considerate ereticali, che in
quei tempi, sotto forma di correnti teologiche e filosofiche, tendevano ad
alterare il concetto di “Trinità”. Per lo stesso motivo chiesa e
convento furono donati ai monaci Cistercensi che S. Bernardo di Chiaravalle,
per istanza dell’amico Re Ruggero, aveva mandato in Sicilia anni prima.
Infatti
questo ordine monastico, in quei tempi il più influente all’interno della
chiesa cattolica, rappresentava un vero baluardo a difesa del Dogma
cattolico della SS. Trinità contro tutte le dottrine ereticali del tempo.
I frati
Cistercensi mantennero il possesso della chiesa e dell’abbazia per pochi
anni, nel 1197 infatti l’Imperatore svevo Enrico VI, cacciava i
cistercensi, che gli erano stati ostili, concedendo gli edifici all’ordine
dei cavalieri teutonici (“ordo
hospitalis Sanctae Mariae theutonicorum Jerusalem”) che
annoverava lo stesso Imperatore tra i suoi confratelli.
Da questo
momento la chiesa assunse il titolo “Mansio
Sanctae Trinitatis“, divenendo la casa dei Cavalieri
Teutonici, cioè la “mansio
theutonicorum”, da cui il nome Magione.
I cavalieri
manomisero pesantemente chiesa e convento, ne stravolsero l’assetto
architettonico originario, crearono nuove cappelle all’interno della
chiesa, ingrandirono il convento e costruirono un ospedale destinato ai
pellegrini di etnia germanica provenienti o diretti in Terra Santa.

Essi
possedettero il complesso religioso fino al 1492 quando la Magione fu eretta
in commenda (cioè data in affidamento) e governata per quasi due secoli da
Abbati commendatari (primo fra i quali il Cardinale Rodrigo Borgia, il
futuro Papa Alessandro VI) e anche loro vi apportarono nuove modifiche
occultando preesistenti strutture medievali. Infine nel 1787, Ferdinando III
di Borbone aggregò la chiesa con tutti i suoi beni all’ordine
Costantiniano di San Giorgio.
La chiesa,
realizzata da maestranze e da artisti di origini islamiche, che è stata
costruita probabilmente inglobando una struttura religiosa preesistente
(moschea), rappresenta uno degli ultimi prodotti dell’architettura
medievale siciliana d’impronta fatimita ( che fu una dinastia
musulmana sciita che si impose tra il X e il XII secolo in alcune regioni
mediterranee, tra cui la Sicilia) e mostra in chiave ridotta, lo stesso
schema iconografico delle cattedrali di Palermo e Monreale.
L’esterno
presenta una ricca varietà di motivi decorativi e possiede i caratteri
inconfondibili della cultura architettonica del mondo arabo che si
riscontrano in quasi tutte le architetture ecclesiali costruite in Sicilia
tra XI e XII secolo.
La facciata
è formata da tre portali ogivali con ghiere a rincasso, uno più grande al
centro, che è anche l’ingresso alla chiesa, e due laterali più piccoli.
Più sopra si trovano cinque finestre, di cui tre cieche al centro e due
lucifere ai lati, inoltre, nell’ordine più alto, vi è una finestra posta
in asse con il portale principale.
La parte
posteriore dell’edificio termina in tre absidi, di cui quella centrale è
disegnata da archi intrecciati ben sporgenti mentre nelle minori questi sono
appena accennati e nei fianchi viene riproposto il motivo delle finestre
cieche con ghiere a rincasso.

L’interno
della chiesa, ampio e arioso, unisce il tipo di pianta longitudinale a croce
latina, con un corpo centrico a tre absidi. L’impianto che ne risulta è
quello tradizionale di tipo basilicale a tre navate separate da grandi archi
ogivali sostenuti da colonne monolitiche di spoglio di diversa altezza, con
capitelli a motivi vegetali stilizzati diversi nella forma e nella
decorazione. Il motivo delle colonnine si ripresenta nella zona del
presbiterio che appare soprelevato, come la navata centrale con soffitto
ligneo, un tempo magnificamente dipinto.
Nei tempi
passati la chiesa, che doveva essere ricca di preziosi manufatti e opere
d’arte (dipinti su tavole, icone dipinte e rivestimenti marmorei
parietali), oggi la troviamo quasi spoglia, vi sono poche opere ma
certamente di grande valore artistico.
Entrando
sul lato destro troviamo una Pietà di Archimede Campini del 1953. Accanto
all’ingresso, sempre a destra, una bella acquasantiera del XVI secolo; di
seguito, addossato alla parete, un Cristo benedicente della bottega dei
Gagini e ancora un trittico marmoreo tardo gotico, con al centro una Madonna
col bambino e S. Caterina.
Nella
parete della navata sinistra vi è una Croce in pietra con l’emblema dei
Cavalieri Teutonici, sotto si trova il sarcofago funerario di F.sco
Perdicaro, Maestro Razionale del Regno, opera di V.zo Gagini. A seguire,
attaccata alla parete, una Madonna col Bambino, sempre della bottega dei
Gagini, e più avanti un elegante portale rinascimentale attribuito a F.sco
Laurana, introduce alla sacrestia.
Negli oltre
otto secoli della sua vita, la chiesa è stata sottoposta a numerosissimi
restauri, i più rilevanti quelli di Giuseppe Patricolo e di Francesco
Valenti che riportarono la chiesa, per quanto è stato possibile, al suo
aspetto originario.
Infine,
dopo i rovinosi bombardamenti dell’ultima guerra, è stata ancora una
volta restaurata e parzialmente ricostruita.
Questo
monumento, che si trova ai margini dei circuiti turistici tradizionali, ha
sempre un suo fascino particolare, quasi spirituale: la nuda pietra, le
linee semplici delle sue strutture, lo scarno apparato ornamentale, sembrano
voler non farci dimenticare che la religione prima di ogni altra cosa, deve
essere “povertà”.
Ponte
dell'Ammiraglio

Imboccando
il lunghissimo corso dei Mille, una volta giunti in piazza Scaffa, ci si
imbatte in una struttura molto particolare, carica di riferimenti storici
molto importanti e simbolo di un passato perduto (sotto di esso un tempo
scorreva anche il fiume Oreto). Si tratta del Ponte dell’Ammiraglio,
anch’esso ascrivibile al periodo normanno, così chiamato poiché colui
che ne ordinò la costruzione era quello stesso Giorgio d’Antiochia,
grande ammiraglio del re Ruggero II, che aveva già fatto edificare la
chiesa della Martorana.
Fu
completato intorno al 1131 per
volere di Giorgio
d'Antiochia, ammiraglio del
re Ruggero
II di Sicilia, un anno dopo la nascita del Regno
di Sicilia, per collegare la città (divenuta capitale) ai giardini
posti al di là del fiume Oreto.
Oggi, pur avendo conservato le sue sembianze originali, sotto il Ponte
dell’Ammiraglio non scorre più alcun fiume. Il fiume cittadino infatti
qualche tempo fa ha subito una deviazione del suo corso, lasciando
praticamente sospeso il ponte, che così smise di avere una funzione
pratica.
Il Ponte
dell’Ammiraglio è costituito da sette arcate a ghiere rientranti, che
diventano sempre più piccole mentre si avvicinano ai lati; tali arcate sono
alternate da alcune arcatelle minori poste nei piloni. La composizione della
struttura vede una muratura in conci di tufo squadrati, un’ossatura che ha
permesso al ponte di resistere molto bene all’usura dei secoli. Una
struttura talmente solida permetteva al ponte di sopportare dei carichi
pesantissimi, senza subire alcun danno.
Ben pochi
furono gli interventi effettuati su quello che oggi consideriamo un vero e
proprio monumento della Palermo arabo normanna: soltanto il Senato
palermitano promosse nel XVII e nel XVIII secolo delle opere per consolidare
la struttura, poiché il fiume Oreto, che oggi ci appare più come un
fiumiciattolo che altro, un tempo straripava spesso e non aveva certo nulla
da invidiare ad altri importanti corsi d’acqua d’Italia (e pensare che
sino al XIX secolo nell’Oreto si riuscivano a pescare persino i salmoni).
Nel 1931
Palermo subì una tremenda alluvione ed anche in quel caso l’Oreto straripò,
ma sorprendentemente il Ponte dell’Ammiraglio, vecchio di quasi 1000 anni,
resistette a quell’evento senza riportare alcun danno, a dimostrazione
della sua indiscutibile solidità.
Il 27
maggio dell'anno 1860,
nel corso della spedizione
dei Mille, Garibaldi proprio
su questo ponte e nella vicina via di Porta
Termini si scontrò con le truppe dei Borboni,
lì schierate perché il ponte era un ingresso nella città per chi veniva
da mezzogiorno: Garibaldi proveniva infatti dal Monte
Grifone, e precisamente dalla frazione di Gibilrossa.
Lo scontro al ponte dell'Ammiraglio provocò l'insurrezione
di Palermo.
Il Ponte
dell’Ammiraglio è carico di riferimenti storici. Nei suoi pressi venne
combattuta un’importante battaglia che vide scontrarsi gli uomini al
seguito di Giuseppe Garibaldi contro i soldati borbonici. Ad avere la meglio
furono i primi che si apprestavano a liberare la Sicilia e il Meridione dai
Borboni per restituirla finalmente al resto d’Italia. Quella battaglia
lasciò un’ eco profonda nella memoria della nostra città, tant’è che
la strada che comprende anche il Ponte dell’Ammiraglio prese appunto il
nome di corso dei Mille, in omaggio ai ‘picciotti’ garibaldini. Il
grande pittore Renato Guttuso dedicò una delle sue opere proprio alla
rappresentazione di quell’epico scontro.
Lo
scrittore Gaspare Palermo descrisse positivamente il Ponte
dell’Ammiraglio, definendolo “di amplissima larghezza, potendovi al di
sopra camminare quattro carrozze del paro”. Ed anche il Villabianca
(XVIII-XIX secolo), nella sua opera ‘Diario’, parlò del Ponte in
termini lusinghieri, sostenendo che ancora ai suoi tempi facesse ‘onore
alla città felice’.
Chiesa
di San Giovanni dei Lebbrosi

La piccola
chiesa, dedicata a San Giovanni Battista, prende il suo toponimo
dall’annesso lebbrosario, del quale oggi più nulla esiste, che Ruggero II
fece edificare, verosimilmente in memoria del fratello Goffredo, che secondo
il cronista Goffredo Malaterra era morto di lebbra.
La chiesa
fu edificata sulle rovine del castello di Yahya (Giovanni in
lingua araba) nel 1071,
durante la riconquista da
parte dei Normanni,
per mano delle truppe di Roberto
il Guiscardo e Ruggero
I di Sicilia. La costruzione sorge a poca distanza dal fiume Oreto,
località in epoca
araba ricoperta da un rigoglioso dattereto,
alcuni decenni dopo Giorgio
d'Antiochia edificò il cosiddetto Ponte
dell'Ammiraglio per scavalcare il corso d'acqua quindi
permettere l'accesso e il transito delle merci. Le ricerche condotte
dall'arabista Michele
Amari in "Storia dei Musulmani di Sicilia", portano
all'esistenza di un castello saraceno denominato Yahya, ipotesi
suffragata dall'esistenza di resti nel giardino retrostante la chiesa
consistenti in tratti di muro e frammenti di pavimentazione.
In effetti
si trattava di una pianura alluvionale adibita a piantagione ove le truppe
normanne si erano accampate in stato d'assedio prima di sferrare l'attacco
alla conquista dei due quartieri strategici posti a settentrione del fiume:
la Kalsa e
il fortificato Cassaro,
rispettivamente il primo "eletto" e deputato a dimora degli Emiri
e centro amministrativo dell'isola, il secondo a polo commerciale e fulcro
religioso cittadino. Nei mesi dell'accerchiamento accanto al maniero
rinominato di San
Giovanni Battista fu edificato il tempio, verosimilmente in esso
fu celebrata la prima vittoria con la consacrazione e dedicazione al Precursore,
area prossima al Castello
di Maredolce nel Parco
della Favara.
Ruggero
II di Sicilia dotò la
chiesa di casali, beni e privilegi, prerogative confermate dal figlio Guglielmo.
Quest'ultimo vi fece trasferire i lebbrosi ospitati presso le strutture
della chiesa
di San Leonardo, luogo di culto documentato sull'area dell'attuale convento dell'Ordine
dei frati minori cappuccini, già adibito al ricovero e
all'assistenza dei lebbrosi. Da qui deriva l'appellativo di San Giovanni de'
Lebbrosi. Una pergamena proveniente dal tabulario della Commenda
della Magione rivela una concessione di Guglielmo I, datata
maggio 1155, ove si evince che l'istituzione e l'edificazione dell'ospedale
e delle strutture annesse fu opera del padre, senza tuttavia indicare l'anno
di avvio lavori.
Nel 1219 Federico
II di Svevia pone l'amministrazione e la gestione dell'ospedale
all'attenzione del precettore della Magione e
nel 1221 lo
unì in perpetuo all'Ordine
teutonico. Nel 1324 è appellato ospedale de infectis, ovvero
struttura preposta alla cura e al trattamento delle malattie infettive.
Risalgono a questo periodo gli affreschi documentati nel cortile, in
particolare una scena raffigurante la Madonna Annunziata ritratta
con un cavaliere
teutonico genuflesso e orante.

In una
missiva datata 23 novembre 1434, re Alfonso
V d'Aragona fa riferimento alla chiesa con ospedale adibito a
lebbrosario, appellandola chiesa di San Giovanni de' Lebbrosi. Il
sovrano per l'istituzione ospedaliera decretò l'esenzione di tasse e
gabelle, rivolse ai Teutonici l'invito ad abbandonarne la gestione pur
consentendo tuttavia alla chiesa di restare canonicamente unita alla chiesa
della Santissima Trinità del Cancelliere. Nel 1442 circa, il
lebbrosario assieme all'Ospedale
di San Bartolomeo l'Incurabili, figura come gancia dell'Ospedale
Grande e Nuovo.
Nel 1495 il
lebbrosario fu amministrato dal Senato Palermitano e in seguito trasformato
in lazzaretto per le varie epidemie di peste scoppiate a Palermo a partire
dal giugno 1575. Questa particolare ondata infettiva fu provocata dai
traffici marittimi, attacchi di pirati e corsari nel meridione; per converso
le regioni settentrionali della penisola furono soggette alle frequenti
incursioni di barbari e gruppi nomadi che provocarono la diffusione del
flagello, in Lombardia nella
fattispecie contagio noto come Peste
di San Carlo (1576 - 1577).
Il Collegio
dei Notari costituito per la gestione del polo
di San Nicolò di Tolentino trasferì nel 1596 parte
degli eremitani
di Sant'Agostino appena insediatisi e dei vecchi membri
dell'ordine preesistente ancora presenti nella struttura, presso il convento
di Santa Maria la Sanità aggregato alla chiesa di San Giovanni
dei Lebbrosi. Col fiorire di nuovi stili e correnti le strutture
subirono sovrapposizioni che nel XVII
secolo. Gli interni del tempio furono appesantiti con l'inserimento
di volte in muratura e il rivestimento con decori in stucco che occultarono
le finestre delle navate laterali.
La regina Maria
Carolina d'Austria durante una visita compiuta nel 1802,
constatando i vetusti e fatiscenti impianti, le condizioni pietose in cui
versavano i ricoverati, fece trasferire degenti e l'istituzione presso le
strutture dell'Ospedale dei pazzi o tisici ubicato nell'ex noviziato dei Padri
teresiani scalzi.
L'attuale
aspetto della chiesa è dovuto al restauro condotto nei primi anni del XX
secolo dall'architetto Francesco
Valenti, soprintendente ai monumenti dell'epoca che ha rimosso le
sovrapposizioni accumulatisi in secoli d'interventi, dotando il campanile di
cupoletta rossa analoga a quella della crociera.
Il
castello era
circondato da un palmeto dove le truppe normanne si accamparono in attesa di
sferrare l’attacco risolutivo per espugnare la città (che avvenne dopo
cinque mesi di assedio). Sembra però più probabile che durante
l’assedio, i normanni abbiano solo iniziato l’edificazione della chiesa,
provvedendo al completamento dell’edificio religioso soltanto dopo
l’avvenuta conquista, come per adempimento di un voto e presumibilmente
prima della morte di Roberto avvenuta nel 1085. Infatti è verosimile
pensare che la chiesa non poteva essere costruita in forme così definite,
in un periodo di operazioni militari.
Successivamente,
nel febbraio del 1219, l’imperatore Federico II di Svevia donò la chiesa
e l’ospedale per lebbrosi all’Ordine dei Cavalieri Teutonici della
Magione, che lo detenne fino alla fine del XV secolo. Nel 1495
infatti, “l’ospedale di San Giovanni” fu incorporato, con tutti i suoi
ricoverati ( lebbrosi, tisici e matti), “all’Ospedale Grande e Nuovo”
fondato dal frate benedettino Giuliano Majali, che aveva sede all’interno
di palazzo Sclafani.
La
chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi, forse
la più antica chiesa latina della città, presenta delle affinità con le
prime chiese costruite dai normanni in territorio messinese durante il
periodo della Contea (1060- 1130), e si contraddistingue per alcuni
caratteri singolari della costruzione, come l’uso dei pilastri per
dividere le navate.
L’edificio
religioso, tipico prodotto dell’architettura siciliana di epoca normanna,
fu pesantemente rimaneggiato nel XVII secolo, in occasione di un
rinnovamento che ne aveva snaturato i caratteri originari. Gli interni erano
stati appesantiti con l’inserimento di voltoni in muratura e
l’applicazione di una veste decorativa in stucco che aveva occultato le
finestre delle navate laterali.
I drastici restauri diretti dall’architetto Francesco Valenti tra il 1920
e il 1934 hanno restituito alla costruzione il suo austero e spoglio
splendore originario, liberandola da tutte le sovrastrutture di epoca
barocca. Fu allora abbattuta la pesante “volta portante a botte con teste
di padiglione” della navata centrale, e si demolirono le volte a crociera
delle navate laterali. Inoltre furono scrostati gli intonaci e gli stucchi,
si ricostruì l’altare marmoreo della tribuna ” conforme al tipo
esistente nella chiesa di San Cataldo” e si abbassò il pavimento,
riportandolo all’antico livello.
La chiesa
risponde ai canoni dell'architettura romanica siculo-normanna a croce latina
con transetto sporgente e tripla abside; è considerata uno degli edifici
medievali in stile
normanno più antichi della città, e in particolare è forse la
chiesa a croce latina più antica di Palermo. Il
periodo di fondazione, le cupolette a semicalotta e lo stile architettonico
sono comuni alla chiesa
di San Giovanni degli Eremiti, alla chiesa
di Santa Maria dell'Ammiraglio detta la "Martorana" e
alla chiesa
di San Cataldo. Pur non essendo inserita negli affollati
itinerari turistici, tantomeno contemplata nel recente elenco del Patrimonio
dell'Umanità dell'Unesco e
nell'Itinerario
della Palermo arabo - normanna e le cattedrali di Cefalù e Monreale,
per storia, stile e contesto ambientale, evoca fascino e interesse al pari
dei monumenti del centro
storico cittadino.
All'interno
si ammira un bel crocifisso ligneo dipinto,
risalente al Quattrocento sull'arco
della crociera. Colonnine angolari incassate e sormontate da capitelli
decorati recanti iscrizioni arabe in caratteri cufici di tipo omayyade - andaluso.
L'esterno
dell'edificio si presenta spoglio perché privo di decorazioni, tranne i
rilievi in conci delle monofore che
garantiscono l'illuminazione interna. L'ingresso è semplice, preceduto da
un piccolo porticato sorretto
da un unico pilastro angolare, su cui poggia il campanile.
L'interno ha impianto basilicale ripartito in tre navate da pilastri,
copertura lignea, presbiterio cupolato sovrastante
l'altare che prevedeva una primitiva tribuna.
La facciata
dell’edificio si presenta leggermente sbilanciata verso sinistra per la
presenza della scala che permette l’accesso al portico-campanile che segna
l’ingresso alla chiesa, ricostruito dal Valenti in modo “arbitrario”,
in sostituzione di quello preesistente.
La chiesa
ha orientamento sud-ovest nord-est ed è una limpida costruzione
eseguita con piccoli conci di tufo calcareo ben squadrati messi in opera a
corsi regolari.
Cuba

Situata
all’interno di quello che un tempo era l’esteso parco di caccia dei re
normanni chiamato il “Genoard ” (paradiso della terra), la Cuba
(dall’arabo qubba) che vuol dire arco, volta, sorge poco lontano da Porta
Nuova nell’attuale corso
Calatafimi. Si chiama anche "Cuba sottana" per
distinguerla dalla Cuba
soprana, oggi inglobata nella settecentesca villa Di Napoli e dalla Piccola
Cuba, situate nell'antico parco reale del Genoardo.
Questo
sontuoso palazzo, che presenta tutti i caratteri peculiari dell’
architettura d’età normanna, fu voluto da Guglielmo II il Buono, come
testimonia una iscrizione araba in caratteri cufici che decora la cornice
d’attico della fabbrica decifrata da Michele Amari nel 1849, “Nel nome
di Dio, clemente e misericordioso Bada qui, ferma qui la tua attenzione,
fermati e guarda! Vedrai Egregia stanza dell’Egregi tra i re della terra,
Guglielmo Secondo, non v’ha castello che sia degno di lui, né bastano le
sue sale… né quali notansi i momenti più avventurati e i tempi più
prosperi. E di nostro Signore il Messia mille e cento aggiuntovi ottanta che
son corsi tanto lieti”.
La
dinastia degli Altavilla,
aveva definitivamente conquistato la Sicilia nel 1070 con
la presa di Palermo da
parte di Roberto
il Guiscardo. La Sicilia era fin dal 948 un Emirato fatimide.
Gli
Emiri, portatori di una cultura evolutissima resero la loro capitale,
Palermo, una delle più belle città del Mediterraneo, arricchendola di
palazzi, giardini e moschee. Resero floridi i commerci, crearono un apparato
statale molto efficiente, e si circondarono di poeti, architetti, filosofi,
e matematici. I re normanni, provenendo da una regione sino ad allora
culturalmente ai margini dell'Europa, ebbero l'apertura e l'intelligenza di
assorbire, quanto più possibile i costumi ed il sapere della civiltà araba
di Sicilia, depositaria del sapere cumulatosi grazie al contatto con le
civiltà asiatiche e africane sottomesse fin da VII
secolo.
Nasce
allora uno splendido stile architettonico, l'Arabo-Normanno,
che coniuga elementi del romanico nord-europeo, con elementi bizantini, e la
tradizione costruttiva ed ornamentale di una civiltà, quella araba,
insuperata per le costruzioni nei paesi caldi.

La
Cuba (dall'arabo Qubba, "cupola") fu costruita nel 1180 per
il re Guglielmo
II, al centro di un ampio parco che si chiamava Jannat al-ard ("il
Giardino - o Paradiso - in terra"), il Genoardo.
Il Genoardo comprendeva anche la Cuba
soprana e la Cubula,
e faceva parte dei solatia o Sollazzi
Regi, un circuito di splendidi palazzi della corte normanna situati
intorno a Palermo.
L'uso
originale della Cuba era di padiglione di delizie, ossia di un luogo in cui
il Re e la sua Corte potevano trascorrere ore piacevoli al fresco delle
fontane e dei giardini di agrumi, riposandosi nelle ore diurne o assistendo
a feste e cerimonie alla sera.
La
Cuba Sottana, appare oggi di proporzioni turriformi abbastanza sgraziate. La
spiegazione è semplice. Era circondata da un bacino artificiale profondo
quasi due metri e mezzo. L'apertura più grande, sul fronte settentrionale,
si affacciava sull'acqua ad un'altezza oggi inspiegabile.
Le
notizie sul committente e sulla data sono esatte grazie all'epigrafe posta
sul muretto d'attico dell'edificio. La parte più importante, quella sul
committente, era dispersa e fu ritrovata nel XIX secolo, scavando ai piedi
della Cuba, da Michele
Amari, massimo studioso della Sicilia araba e normanna. La parte
dell'epigrafe ritrovata dall'Amari, esposta in una sala a lato, dice così:
"Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Bada qui, fermati e mira!
Vedrai l'egregia stanza dell'egregio tra i re di tutta la terra Guglielmo II
re cristiano. Non v'ha castello che sia degno di lui ... Sia lode perenne a
Dio. Lo mantenga ricolmo e gli dia benefici per tutta la vita".
Il
fatto straordinario per oggi di questa epigrafe, che dimostra la tolleranza
e l'apertura della corte normanna, è la lingue: arabo in caratteri cufici.
Dunque pur riferendosi ad un Re cristiano, fondatore del Duomo
di Monreale e vassallo del
Pontefice, l'iscrizione è in arabo. È noto che molti componenti delle
varie corti normanne in Sicilia fossero arabi, celeberrimo è il caso di Idrisi,
massimo geografo del suo tempo, maghrebino alla
corte cristiana di Ruggero
II re di Sicilia.
Nei
secoli successivi, la Cuba fu destinata agli usi più vari. Il lago fu
prosciugato e sulle rive furono costruiti dei padiglioni, usati come
lazzaretto dalla peste
del 1576 al 1621.
Poi fu alloggio per una compagnia di mercenari borgognoni ed infine proprietà
dello Stato nel 1921. Negli anni '80 comincia il restauro che riporta alla
luce le strutture del XII secolo.

Dall'esterno,
l'edificio si presenta in forma rettangolare, lungo 31,15 metri e largo
16,80. Al centro di ogni lato sporgono quattro corpi a forma di torre. Il
corpo più sporgente costituiva l'unico accesso al palazzo dalla terraferma.
I muri esterni sono ornati con arcate ogivali. Nella parte inferiore si
aprono alcune finestre separate da pilastrini in muratura.
I
muri spessi e le poche finestre erano dovuti ad esigenze climatiche,
offrendo maggiore resistenza al calore del sole. Inoltre, la maggior
superficie di finestre aperte era sul lato nord-orientale, perché meglio
disposta a ricevere i venti freschi provenienti dal mare, temperati ed anche
umidificati dalle acque del bacino circostante.
L'interno
della Cuba era divisa in tre ambienti allineati e comunicanti tra loro. Al
centro dell'ambiente interno si vedono i resti di una splendida fontana in
marmo, tipico elemento delle costruzioni arabe necessario per rinfrescare
l'aria. La sala centrale era abbellita da muqarnas,
soluzione architettonica ed ornamentale simile ad una mezza cupola.
Proprio
alla Cuba, tra le acque e gli alberi che la circondavano, Boccaccio ambientò
una delle novelle del suo Decameron.
La sesta della quinta giornata. È la vicenda d'amore tra Gian di Procida -
nipote dell'omonimo grande eroe del Vespero Siciliano - e Restituta, una
ragazza bellissima di Ischia rapita da «giovani ciciliani» per offrirla in
dono al allora re di Sicilia: Federico II d'Aragona.
Quando
Giovanni Boccaccio scrisse il Decameron, era già cominciato il declino dei
parchi reali che erano l'orgoglio della città ormai in mani angioine. Era
finita l'epoca di Palermo "felicissima" che secondo Idrisi era
allora «la più grande e la più bella metropoli del mondo» con la sua
vasta verdeggiante pianura e con i suoi luoghi di delizie (mustanaza). Ma la
traccia che aveva lasciato quel periodo di splendore era così luminosa da
impressionare Boccaccio ancora diversi secoli dopo.

La Cubula (detta
anche Piccola Cuba) è un piccolo edificio arabo-normanno di Palermo.
Si trova dove un tempo scorrevano le acque che alimentavano il lago
Alberira ed è situato all'interno dell'immenso giardino del Parco
del Genoardovoluto dal re Guglielmo
II di Sicilia, detto il Buono.
È
di pianta quadrata con archi
a sesto acuto su ogni lato decorati con fasce bugnate e
sormontato da una cupola emisferica in stile
arabo-normanno nel tipico colore rosso.
Il padiglione,
fu realizzato nel 1184 da
architetti fatimidi.
All'interno del parco reale normanno era possibile ammirare numerosi chioschetti,
come la Cuba
soprana poi inglobata nel Settecento in Villa Napoli, dimore
nobiliari, fontane, laghetti, alberi di ogni specie (soprattutto di agrumi e
magnolie), nonché la Cuba.
Ecco perché il re aveva scelto per esso il nome di Genoardo che deriva
dall'arabo Gennai al ard, ovvero: Paradiso della Terra.
Per
la sua particolare ubicazione, così immersa nel verde, la Cubula veniva
spesso usata come luogo di riposo dal sovrano e dai suoi ospiti.
Il
particolare edificio in pietra tagliata a conci regolari, con i suoi ogivali a
tre ghiere leggermente
incassate, di cui quella centrale con un caratteristico motivo a rilievo,
ricorda nell'aspetto altre chiese del capoluogo siciliano, come ad esempio
la Basilica
La Magione e la Chiesa
di Santo Spirito. Lo stesso motivo lo si ritrova nel frontone della Cattedrale e
nel campanile della Chiesa
di Santa Maria dell'Ammiraglio.
Convento
e catacombe dei Cappuccini

Il convento
dei Cappuccini a Palermo,
nel quartiere Cuba,
è annesso alla chiesa
di Santa Maria della Pace. Chiesa e convento risalgono al XVI
secolo, benché edificati su strutture precedenti. Nel sotterraneo si
trovano le famose catacombe dei Cappuccini in stile gotico, così chiamate
ma in realtà cimitero e
non catacomba,
cioè luogo di culto e riunione paleocristiana.
Il
Convento è conosciuto in tutto il mondo per la presenza nei suoi
sotterranei di un vasto cimitero, che attira la curiosità di numerosi
turisti, fin dai secoli scorsi tappa obbligata del Grand
Tour (fu visitato anche da Guy
de Maupassant). Lo spettacolo macabro degli innumerevoli cadaveri
esposti è spunto di riflessione sulla caducità della vita, sulle vanità
terrene e sull'inutilità dell'attaccamento degli uomini alle loro fattezze
esteriori. Le gallerie furono scavate alla fine del '500 in
stile gotico con sottotitoli a volte a crociera ogivali costolonate e a
volta ogivale; queste formano un ampio cimitero di forma rettangolare. Non
sono mai state inventariate le salme ivi presenti, ma si è calcolato che
debbano raggiungere la cifra di circa 8.000.
Le
mummie, in piedi o coricate, vestite di tutto punto, sono divise per sesso e
categoria sociale, anche se la maggior parte di esse appartengono ai ceti
alti, poiché il processo di imbalsamazione era costoso. Nei vari settori si
riconoscono: prelati; commercianti e borghesi nei loro vestiti "della
domenica"; ufficiali dell'esercito in uniforme di gala; giovani donne
vergini, decedute prima di potersi maritare, vestite con il loro abito da
sposa; gruppi familiari disposti in piedi su alte mensole, delimitate da
sottili ringhiere simili a balconate; bambini; ecc.
Un
immenso patrimonio unico al mondo di memorie storiche e dati scientifici si
conserva nel sottosuolo di Palermo. Chi visita il cimitero sotterraneo dei
Cappuccini si appresta a compiere un viaggio a ritroso nel tempo e nello
spazio, certo, ma soprattutto in un mondo che, nonostante l’attuale
degrado in cui è immerso, è assolutamente suggestivo, misterioso e
affascinante (anche se non è per tutti).
Insieme ad una incredibile collezione di scheletri e mummie le
“catacombe” dei frati Cappuccini conservano una massa imponente di
documenti e di preziose informazioni grazie alle quali è possibile
ricostruire la vita, la storia e anche i costumi della società cittadina
dei tempi passati. Un autentico scrigno di memorie, una vera e propria
archeologia delle emozioni che si schiude agli occhi dei visitatori e che
purtroppo oggi rischia di andare perduta per sempre.
Nel
1534 i frati minori Cappuccini si stabilirono a Palermo e in quello stesso
anno il senato palermitano concesse ai religiosi il privilegio di edificare
il proprio convento accanto alla preesistente chiesa di Santa Maria della
Pace.

A
quel tempo, i frati defunti venivano deposti in una grande fossa comune
posta nel lato meridionale della chiesa, mai al suo interno: la presenza del
corpo di Cristo rendeva impossibile che nello stesso luogo venissero
conservati anche resti umani, naturalmente soggetti alla putrefazione.
Tuttavia alla fine del XVI secolo, una casuale scoperta determinò una
svolta decisiva nel modo di concepire la morte da parte di quei religiosi.
La
necessità di svuotare la fossa divenuta insufficiente, portò alla
riesumazione di quarantacinque salme che tra lo stupore generale risultarono
miracolosamente indenni dalle usure del tempo. Il fatto venne subito
interpretato come segno di intervento divino, per cui nel 1599, quaranta di
quei corpi furono trasferiti in una sepoltura scavata appositamente dietro
l’altare maggiore della chiesa, e sistemati in nicchie poste tutte intorno
alle pareti del primo corridoio.
Ma
presto vi furono conservate altre salme di frati che vivevano e morivano a
Palermo, così che si rese necessaria la costruzione di un’altra stanza e
di una cappella: gli ampliamenti continuarono negli anni successivi per
soddisfare le sempre più numerose richieste di seppellimento da parte di
estranei, fino ad allora accettati in via del tutto eccezionale.
Dal
Seicento all’Ottocento furono migliaia le persone, soprattutto
notabili siciliani e personaggi illustri, che decisero di affidare ai Frati
i corpi dei loro defunti: in cambio di ricche donazioni, questi ed i loro
parenti potevano permettersi l’efficace processo di mummificazione
naturale che i Frati Cappuccini con il tempo perfezionarono, e di
essere esposti all’interno del cimitero.
Al desiderio di preservare
il corpo a tutti i costi anche
dopo la morte, si aggiungeva la possibilità per le famiglie dei
defunti non solo di piangere la tomba del proprio caro ma anche di vederlo,
di parlargli, di ‘fargli visita’ come se ancora facesse parte del mondo
dei vivi.
L’apprezzamento generale verso il metodo utilizzato da Frati Cappuccini
per la conservazione dei corpi, fece del cimitero una specie di zona
franca, esclusa da tutte le leggi civili che negli anni vennero emanate in
materia di sepolcri, come il decreto regio del 1710 con il quale si
ordinava di seppellire i cadaveri ad un miglio di distanza dall’ambito
urbano e non più dentro le chiese.
Numerose
salme appartengono comunque a frati dell'ordine dei Cappuccini stessi: il
primo a essere stato inumato all'interno delle catacombe fu infatti frate
Silvestro da Gubbio il
16 ottobre del 1599.
La sua salma è la prima sulla sinistra subito dopo l'ingresso.
La
sepoltura all’interno delle Catacombe dei Cappuccini il più delle volte
si articolava in un percorso scandito da fasi precise. In un primo tempo i
cadaveri venivano adagiati nei cosiddetti “colatoi”, dove rimanevano per
il tempo necessario (circa un anno) a drenare quei liquidi organici che ne
avrebbero reso impossibile una corretta conservazione. Quindi le salme
venivano portate in un luogo ventilato pronte per essere lavate e ripulite
con acqua e aceto, dopo di che rivestite, venivano collocate nei loculi
posti nei corridoi.
Quello dell’essiccazione naturale, tuttavia, non era l’unica metodica
adoperata per la preparazione delle salme. Altri sistemi si adottarono in
casi particolari, ad esempio in casi di epidemie i corpi venivano
disinfettati con un bagno di arsenico, altre volte con latte e calce;
quest’ultimo metodo divenne poi consueto in aggiunta al metodo di
essiccazione naturale.
Con
il passare del tempo vennero affinate specifiche tecniche di imbalsamazione
che prevedevano oltre che l’eviscerazione, speciali trattamenti a base di
iniezioni di sostanze chimiche che avrebbero dato al defunto un aspetto il
più realistico possibile.
Questi
sistemi però destavano non poche preoccupazioni negli operatori, spesso a
stretto contatto con sostanze altamente tossiche come arsenico e mercurio;
per la loro dismissione si dovette attendere il XX secolo, quando si
cominciarono ad impiegare fluidi a base di formaldeide.
A
questi elementi , il famoso tassidermista palermitano Alfredo Salafia,
aggiungerà altre sostanze tra cui paraffina disciolta in etere per meglio
preservare i tratti facciali.
Il
cimitero venne chiuso nel 1880, salvo accogliere in via eccezionale
ancora due salme nei primi anni del Novecento: la prima, nel 1911, fu
quella di Giovanni
Paterniti, viceconsole degli Stati Uniti; la seconda, nel 1920,
fu quella della piccola Rosalia Lombardo, morta alla tenera età di due
anni e oggi nota come la “mummia
più bella del mondo”.

Nelle
Catacombe dei Cappuccini si conservano oltre ottomila scheletri e corpi
mummificati, di tantissimi personaggi più o meno illustri, che qui
trovarono riposo. Tra questi il garibaldino Giovanni Corrao (1863),
il vescovo di rito greco Agostino Franco (1877), il pittore Giuseppe
Velasquez ( 1827), lo scultore Filippo Pennino (1794), il
presidente del regno Giuseppe Grimau (1755), il viceconsole
americano Giovanni Paterniti (1911), fino ad arrivare al caso più
emblematico, la mummia di Rosalia Lombardo, una bambina morta di
broncopolmonite il 6 dicembre del 1920 (una settimana prima di compiere due
anni).
“La
Bella Addormentata”, cosi viene chiamata la dolcissima bambina dai capelli
biondi, da molti studiosi considerata a ragione, la più bella mummia del
mondo.
Nata
a Palermo il 13 dicembre 1918 e
ivi morta di polmonite il
6 dicembre 1920,
la bambina è stata una delle ultime persone a essere ammesse alla sepoltura
nella cripta. L'imbalsamazione, fortemente voluta dal padre affranto, fu
curata dal professor Alfredo
Salafia, lo stesso che imbalsamò Francesco
Crispi.
Come
si è scoperto solo nel 2009 grazie
a studi compiuti sugli appunti di Salafia, per l'operazione fu
utilizzata una miscela composta da formalina,
per uccidere i batteri, alcool,
che avrebbe contribuito alla disidratazione, glicerina,
per impedire l'eccessivo inaridimento, acido
salicilico, che avrebbe impedito la crescita dei funghi, e sali di zinco,
che conferiscono rigidità. La bambina appare intatta (infatti attraverso
una radiografia accurata si può notare che anche l'intero corpo della
piccola è perfettamente integro, si possono vedere chiaramente sia
l'emisfero cerebrale e l'organo del fegato) tanto da destare l'impressione
che stia dormendo, e da meritare il soprannome di Bella addormentata.
Nonostante
il processo di mummificazione sia uno dei migliori, se non il migliore, il
corpo presenta piccoli segni di decomposizione. È stato quindi necessario
collocare la storica bara all'interno di una teca ermetica di acciaio e
vetro, satura di azoto,
che impedisce la crescita di microrganismi, tenuta alla temperatura costante
di 20 °C e con umidità del 65%.
Oggi
l’inestimabile patrimonio delle Catacombe dei Cappuccini rischia di andare
perduto, e sarebbe un danno incalcolabile. Trattandosi quasi interamente di
reperti organici, senza adeguati interventi, tutto si avvia verso la
dissoluzione.
Sono
auspicabili rapidi interventi per preservare questo luogo eccezionale, ed
evitare la fine di questo straordinario “museo dei defunti”, che ha
oltre quattrocento anni di storia da raccontare ai vivi.
Sempre che questi siano disposti ad ascoltare.
Zisa
La
Zisa bisognerebbe immaginarsela immersa in un parco talmente rigoglioso e
ricco di specie da meritarsi l’appellativo di Genoardo, ovvero
“paradiso sulla terra”.
La
volle re Guglielmo I verso il 1165 come “castello” di delizie appena
fuori le mura di Palermo, cercando di superare in magnificenza il padre
Ruggero II. Al-Aziz: lo conferma il nome stesso, poi diventato Zisa,
che tradisce l’impronta araba onnipresente e mai cancellata dai Normanni.
Il palazzo è un inno alle tecniche costruttive più avanzate disponibili
all’epoca: per questo luogo di svago furono ingaggiate maestranze
nordafricane che idearono un grande padiglione dotato di innovative opere di
aerazione e canalizzazione delle acque. Di quei prodigi d’ingegneria oggi
restano solo volumi simmetrici, nudi e rigorosi, una purezza che è solo il
frutto dello scorrere del tempo. Dell’epoca più sfarzosa della Zisa resta
soprattutto la Sala della Fontana, una sinfonia di marmi, mosaici e muqarnas
accarezzati dal musicale scorrere dell’acqua.
Anche
la peschiera antistante il palazzo della Ziza aveva un compito preciso:
quello di rinfrescare l’aria proveniente dal mare.

Riconosciuti
come i protagonisti di una delle corti più ammirate del Medioevo, i sovrani
normanni di Sicilia, accanto alla tradizionale fama di guerrieri, uniscono
anche quella di committenti di prestigiosi e raffinati edifici civili e
religiosi.
Il
gran conte Ruggero e i suoi discendenti nell’intento di creare “un
paesaggio ideale”, realizzarono nella grande Piana di Palermo un immenso
Parco Reale. All’interno di questa vasta area, che si estendeva intorno
alla città e comprendeva il territorio di Monreale e di Parco (l’odierna Altofonte)
denominata poi “Genoardo” cioè Paradiso della terra, gli Altavilla promossero
l’edificazione dei loro “Sollazzi Regi” (luoghi di delizie) splendide
dimore di svago e di riposo circondate da magnifici giardini dalla
vegetazione lussureggiante, padiglioni di caccia, laghi artificiali e
peschiere.
Tra
il 1165 e il 1180 viene portata a compimento da maestranze musulmane
provenienti probabilmente da Sousse e da Kairouan, la più significativa
espressione di tale tipologia di edifici, “la Zisa” , così detta dal
termine arabo “El-Aziz” cioè la “Splendida”.
Le
prime notizie, indicanti il 1165 come data
d'inizio della costruzione della Zisa, sotto il regno di Guglielmo I (detto
"Il Malo"), ci sono state tramandate da Ugo
Falcando nel Liber de Regno Siciliae. Sappiamo da questa
fonte che nel 1166,
anno della morte di Guglielmo I, la maggior parte del palazzo era stata
costruita “mira celeritate, non sine magnis sumptibus” (lett. "con
straordinaria velocità, non senza ingenti spese) e che l'opera fu portata a
termine dal suo successore Guglielmo II (detto
"Il Buono") (1172-1184), subito dopo
la sua maggiore età.
L'appellativo
Mustaʿizz è riferito,
secondo Michele
Amari, a Guglielmo II, anche in un'iscrizione in caratteri naskhī nell'intradosso
dell'arcata d'accesso alla Sala della Fontana.
Un'altra
iscrizione, invece, ben più famosa – in caratteri cufici –
è tutt'oggi conservata nel muretto d'attico del palazzo, tagliata ad
intervalli regolari nel tardo medioevo, quando la struttura fu trasformata
in fortezza. Alla luce di queste fonti, la maggior parte degli studiosi sono
concordi nel fissare al 1175 la
data di completamento dei lavori del solatium reale.
Fino
al XVII
secolo il palatium non venne sostanzialmente
modificato, come ci testimonia la descrizione del 1526 fatta dal
monaco bolognese Leandro
Alberti, che visitò la Zisa in quell'anno. Significativi interventi
di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni
de Sandoval e Platamone, cavaliere dell'Alcantara, marchese di San
Giovanni la Mendola, príncipe di Castelreale, signore della Mezzagrana e
della Zisa, acquistò la Zisa, adattandola alle nuove esigenze abitative. In
occasione di questi lavori fu aggiunto un altro piano, chiudendo il
terrazzo, e si costruì, nell'ala destra del palazzo, secondo la moda dei
tempi, un grande scalone, resecando i muri portanti e distruggendo le
originarie scale d'accesso.
Successivamente,
nel 1806, la Zisa
pervenne ai Principi Notarbartolo, rappresentanti della più antica
nobiltà siciliana ed eredi della Casa Ducale dei Sandoval de Leon, che ne
fecero propria residenza effettuando diverse opere di consolidamento, quali
il risarcimento di lesioni sui muri e l'incatenamento degli stessi per
contenere le spinte delle volte. Venne trasformata la distribuzione degli
ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e
nel 1860 fu
ricoperta la volta del secondo piano per costruire il pavimento del
padiglione ricavato sulla terrazza.
Nel 1955 il palazzo
fu espropriato dallo Stato, ed i lavori di restauro, iniziati
immediatamente, vennero poco dopo sospesi. Dopo un quindicennio d'incuria ed
abbandono nel 1971 l'ala
destra, compromessa strutturalmente dai lavori del Sandoval e dagli
interventi di restauro, crollò.
Il
progetto per la ricostruzione strutturale, il restauro filologico e la
fruizione, venne affidato al Prof. Giuseppe Caronia, il quale, dopo circa
vent'anni di appassionato lavoro e rilettura integrale, nel giugno del 1991,
restituì alla storia, uno dei monumenti più belli e suggestivi della
civiltà siculo normanna. Durante l'opera di restauro il Prof. Caronia invitò
più volte a visitare il cantiere il direttore editoriale della casa
editrice Laterza, Enrico
Mistretta, che al termine dei lavori fece raccogliere un ampio
materiale illustrativo a documentazione delle varie fasi del restauro,
materiale adeguatamente commentato dallo stesso Caronia, pubblicando quindi
nel 1982 uno splendido volume di grande formato.
Dal
1991 la Zisa ospita il Museo d'arte islamica.
La Zisa, edificata con conci di pietra ben squadrati presenta un impianto a
forma di parallelepipedo di semplice geometria, interrotta ai fianchi da
leggeri avancorpi turriti (le torri del vento).
Distribuito
orizzontalmente in tre elevazioni, ha il paramento murario esterno
decorato da grandi arcate cieche ogivali a più incassi. Nel fronte
principale, rivolto a nord-ovest, si aprono i tre grandi fornici ogivali di
accesso al palazzo, di cui quello centrale, più ampio, è sottolineato da
una doppia ghiera ed è sormontato dall’elegante stemma marmoreo della famiglia
Sandoval.
I
due ordini superiori che interessano il fronte principale e i due fronti
laterali erano dotati di finestre bifore con colonnina centrale e oculo nel
pennacchio degli archi (oggi modificati). Una cornice d’attico trasformata
in merlatura presumibilmente tra il XIV e il XV secolo chiude in alto la
costruzione, conferendogli l’aspetto di un castello.
Il
palazzo della Zisa, concepito come dimora estiva dei re, rappresenta uno dei
migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna con ambienti
tipici della casa normanna(compresa la doppia torre cuspidata) e decorazioni
e ingegnerie arabe per il ricambio d'aria negli ambienti. Si tratta,
infatti, di un edificio rivolto a nord-est, cioè verso il mare per meglio
godere delle brezze più temperate, specialmente notturne, che venivano
captate dentro il palazzo attraverso i tre grandi fornici della
facciata e la grande finestra belvedere del piano alto. Questi venti,
inoltre, venivano inumiditi dal passaggio sopra la grande peschiera
antistante il palazzo e la presenza di acqua corrente all'interno della Sala
della Fontana dava una grande sensazione di frescura.
L'ubicazione
del bacino davanti al fornice d'accesso, infatti, è tutt'altro che casuale:
esso costituiva una fonte d'umidità al servizio del palazzo e le sue
dimensioni erano perfettamente calibrate rispetto a quelle della Zisa. Anche
la dislocazione interna degli ambienti era stata condizionata da un sistema
abbastanza complesso di circolazione dell'aria che attraverso canne di
ventilazione, finestre esterne ed altri posti in riscontro stabilivano un
flusso continuo di aria.
La
stereometria e la simmetria del palazzo sono assolute. Esso è
orizzontalmente distribuito in tre ordini, il primo dei quali al piano terra
è completamente chiuso all'esterno, fatta eccezione per i tre grandi
fornici d'accesso. Il secondo ordine è segnato da una cornice marcapiano
che delinea anche i vani delle finestre, mentre il terzo, quello più alto,
presenta una serie continua di arcate cieche. Una cornice con l'iscrizione
dedicatoria chiudeva in alto la costruzione con una linea continua. Si
tratta di un'iscrizione in caratteri cufici,
molto lacunosa e priva del nome del re e della data, che è tuttora visibile
nel muretto d'attico del palazzo. Questa iscrizione venne, infatti, tagliata
ad intervalli regolari per ricavarne merli nel momento in cui il palazzo fu
trasformato in fortezza.

Al
piano terra oltrepassando il lungo vestibolo voltato si giunge alla
suggestiva Sala della Fontana, esempio mirabile di morbida
architettura orientale. La Sala è un ambiente quadrato, le cui pareti,
scandite da nicchie e colonnine, sono rivestite di marmi e mosaici.
La
parete di fondo presenta un raffinato pannello musivo racchiuso da una
cornice costituita da piccoli motivi floreali stilizzati, pure in mosaico
sono tre medaglioni dal fondo d’oro, quello centrale con arcieri e i due
laterali con animali disposti ai lati di palme stilizzate. Rilievo
particolare rivestono i magnifici soffitti che presentano decorazioni
tipicamente arabe con volte a stalattiti (muqarnas).
La
seconda elevazione, per la smisurata altezza della sala della fontana e del
vestibolo, risulta limitata alle due ali laterali comunicanti attraverso un
lungo corridoio. Nella terza elevazione si ripropone lo stesso schema
planimetrico del piano sottostante. Esso è costituito da un grande salone
centrale con una contigua sala che si affaccia nel prospetto principale.
Ai
lati dell’edificio, le due torri del vento, svolgevano la funzione di
incanalare le correnti costringendoli ad attraversare il palazzo e a creare
un effetto camino che insieme alla presenza dell’acqua, assicurava nelle
afose notti dell’estate palermitana il massimo confort bioclimatico.
Il
primo piano si presenta di dimensioni più piccole, poiché buona parte
della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal
vestibolo d'ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del
piano superiore. Esso è costituito a destra e a sinistra della Sala
della Fontana dalle due scale d'accesso che si aprono su due vestiboli.
Questi si affacciano con delle piccole finestre sulla parte alta della Sala,
affinché, anche dal piano superiore, si potesse osservare quanto accadeva
nel salone di ricevimento. Questo piano costituiva una delle zone
residenziali del palazzo ed era destinato molto probabilmente alle donne.

Il
complesso del “Sollazzo” comprende una cappella dedicata alla Santissima
Trinità. Nel 1803, all’originaria cappella del palazzo venne affiancata
la piccola chiesa di Gesù, Maria e Santo Stefano. Rimasto possedimento del
regio demanio per molti anni, a partire dal XIV secolo il palazzo e le terre
ad esso connesse furono di volta in volta concessi a privati, in genere
personalità di alto rango, che lo usarono come dimora di tenuta agricola.
Nel
1624 in occasione della grande epidemia di peste che colpì la città,
l’edificio venne utilizzato come deposito di materiale sospetto sottoposto
a quarantena. Soltanto un decennio dopo, nel 1635, il palazzo era ridotto
così male che fu ceduto gratuitamente a don Giovanni de Sandoval,
compratore all’asta dei terreni circostanti, che per ciò ottiene il
titolo di principe di Castel Reale.
La
famiglia de Sandoval ne promuove subito diversi interventi di restauro che
salvano il palazzo dalla completa rovina ma ne stravolgono l’originario
assetto architettonico. Il palazzo subisce profonde trasformazioni, e
vengono realizzate delle aggiunte che conferiscono all’edificio le
caratteristiche tipologiche del palazzo signorile seicentesco.
Tuttavia
anche se quantitativamente rilevanti gli interventi dei Sandoval non
inficiano del tutto le peculiarità dell’antico edificio normanno, facendo
si che la straordinaria Sala della Fontana, venga lasciata pressoché
inalterata con i suoi elementi scultorei, architettonici e musivi
originari. Mentre il giardino circostante non perde le sue connotazioni
originarie conservando gran parte del suo carattere lussureggiante.
Agli
inizi del XIX secolo l’intero complesso monumentale pervenne per via
ereditaria ai Notarbartolo principi di Sciara che vi apportarono
ulteriori rimaneggiamenti per farne la loro residenza.
Nel
1951 la Zisa viene espropriata e acquisita dal demanio regionale, e nel
corso degli anni Cinquanta si svolgono le prime opere di rimozione delle
strutture realizzate in epoca barocca.
L’ala
destra, già compromessa dagli interventi dei Sandoval, è stata ricostruita
negli ultimi decenni, dopo il crollo delle strutture e del paramento
murario, verificatosi nel 1971. Dopo i recenti (e discutibili) interventi di
restauro e di ricostruzione patrocinati dalla Soprintendenza regionale ai
beni culturali di Palermo, l’antico palazzo e i suoi giardini (anche se il
verde superstite è veramente modesto) sono stati finalmene restituiti alla
pubblica fruizione.
Palazzina
Cinese

Nel 1799
don Giuseppe Riggio principe di Aci, con delega di sua Maestà re
Ferdinando, richiede la concessione della casina
dei Lombardo baroni della Scala, sita nella Piana dei Colli e
contestualmente, diede mandato all’architetto regio Giuseppe Venanzio
Marvuglia di valutare la fabbrica al fine di stabilire il giusto censo
annuale.
Ma la
Casina dei Colli, che aveva subito incantato il re e la regina, mal si
adattava ad una residenza reale, perciò re
Ferdinando, riparato in Sicilia nel dicembre del 1798 dopo
l’occupazione napoleonica, ne dispose una riconfigurazione strutturale che
doveva comunque lasciare invariato il carattere esotico e lo stile
orientaleggiante voluto dal primo ideatore e committente, il barone
Benedetto Lombardo della Scala.
La
Palazzina - I
lavori vengono affidati allo stesso architetto Venanzio
Marvuglia, che vi realizza una delle costruzioni più originali e
raffinate che si possono ammirare oggi in Sicilia.
La fabbrica
originaria, edificata in stile prettamente orientale, si presentava in
muratura con ballatoi lignei in due ordini, delle ringhiere dipinte e
coperta da tetti a padiglione. Le opere di abbellimento e gli interventi
strutturali operati dal noto architetto fino al 1802 e successivamente dal
figlio Alessandro Emanuele, conferirono all’intera costruzione originalità
e grande pregio architettonico. Furono modificate le coperture sostituendo i
tetti laterali con due terrazze simmetriche che presentano delle colonne che
sorreggono architravi lignee traforate, mentre nella parte centrale viene
eretta una costruzione con grande copertura a padiglione su tamburo
ottagonale sormontata da pinnacolo a doppio calice rovesciato, detta “Specola
o Stanza dei Venti”.
Nei
prospetti nord e sud viene aggiunto un portico sorretto da sei colonne in
marmo disposte a semicerchio, coronato da tetto a pagoda; ai fianchi della
casina, su progetto di Giuseppe
Patricolo, vengono agganciate due torrette con scale elicoidali
collegate attraverso passaggi aerei ai ballatoi del piano rialzato e del
piano nobile.
L’edificio
oggi appare come un originale ibrido stilistico con prevalenza di
riferimenti al gusto orientale, ma con diversi elementi in stile
neoclassico, espressione della sensibilità eclettica e del gusto dei tempi:
inoltre decorazioni policrome con ocre gialle, rosse e grigie conferiscono
ai prospetti della palazzina un’originalità estetica di ineguagliata
bellezza.

Gli
interni - Si
compone di cinque
livelli: al seminterrato troviamo
la grande sala da ballo in stile Luigi XVI, alcuni disimpegni, la sala da
bagno di re Ferdinando, una sala da buffet chiamata “sala delle codine”
stranamente decorata, e l’ambiente che contiene l’originale meccanismo
ligneo a saliscendi della superiore sala da pranzo, “la tavola
matematica”, progettata dallo stesso Marvuglia.
Al piano
rialzato si trova il salone di rappresentanza alla cinese, detta
anche sala delle udienze, con ai lati gli ambienti privati del re (la sala
da gioco, la sala da pranzo e la camera da letto).
Al primo
piano gli alloggi dei cavalieri e delle dame, e mezzanini per il
numeroso personale di servizio; al secondo
piano vi troviamo le stanze più belle, gli alloggi della regina
Maria Carolina, con il “salotto turco”, la saletta “ercolana” in
stile impero, e la camera da letto con alcova in stile neoclassico con il
magnifico bagno chiamato “gabinetto delle pietre dure”. Infine l’ultimo
livello, cui si accede attraverso quattro scale a chiocciola in ferro
poste sulle terrazze laterali, è la già citata “Stanza dei Venti”,
l’ambiente posto al termine dell’intera costruzione, originariamente
destinato ad osservatorio.
Decorazioni
pittoriche e arredi - Ma
sono le magnifiche decorazioni pittoriche degli interni che destano
l’ammirazione dei visitatori. Tutto è improntato al gusto per l’esotico
che va dallo stile “cinesizzante”, al turco, ma anche a quello pompeiano
e neoclassico.
Lo splendido ed eclettico apparato decorativo interno della residenza vide
la partecipazione dei maggiori pittori palermitani del periodo e di artisti
napoletani: dai famosi Giuseppe Velasco ed Elia Interguglielmi, a Vincenzo
Riolo, Rosario Silvestri, Raimondo Gioia, Giuseppe Patania e Benedetto
Cotardi pittore adornista di origini napoletane molto attivo a Palermo
nell’ultimo trentennio del Settecento.

I
meravigliosi arredi della palazzina sono di una ricchezza e di un fascino
straordinario, lo stile che li connota è fantasioso ed eclettico, molti si
ispirano alla maniera cinese, una moda che aveva contagiato tutta
l’aristocrazia siciliana; infatti non c’era casa patrizia dell’isola
dove non si trovava almeno un angolo alla “cinese”. Altri splendidi
esemplari di arredi testimoniano invece il gusto per l’antichità classica
legato alle scoperte degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei promossi
dal Sovrano.
La
Palazzina Cinese nel corso degli anni è stata oggetto di diversi interventi
di restauro, sia strutturali,
che nelle decorazioni interne ed esterne; gli ultimi sono stati completati
nel 2008 ed hanno consentito di recuperare non soltanto i raffinati elementi
architettonici della Casina, ma soprattutto gli splendidi elementi
decorativi (tappezzerie, affreschi, pavimenti), nonché gli arredi, il
mobilio, e tanti manufatti che caratterizzavano i diversi ambienti della
magnifica residenza.
Il
Giardino - Sul
retro della Casina si trova un delizioso giardino all’italiana molto
curato, con delle siepi che formano dei labirinti, suggestive fontane e
alberi secolari.
Nelle
dipendenze della palazzina, antica sede delle cucine e delle stalle, trova
posto il museo
etnografico Pitrè, un museo interamente dedicato alle arti e alle
tradizioni popolari siciliane fondato nel 1909 dal professore Giuseppe
Pitrè.
Castello
Utveggio

Il Castello
Utveggio è ormai parte integrante e caratterizzante del "più bel
promontorio del mondo" come Goethe definì Monte Pellegrino nel suo
celebre "Viaggio in Italia".
Dal Primo
Pizzo,a quota 346 metri, il Castello domina la città di Palermo e dalle sue
finestre la vista spazia dalla Conca d'Oroai monti che la racchiudono, al
Golfo che va da Capo Zafferano sino alla punta di Sferracavallo a, talvolta,
, la sommità dell'Etna e le isole Eolie.
Il Castello
nasce dall’idea del Cavaliere Michele Utveggio di costruire un grande
albergo esclusivo. Il Grand Hotel Utveggio fu inaugurato nel 1934, ma non
ebbe una grande fortuna– nonostante l’innovatività di una struttura
ricettiva “completa”, dotata perfino di un sistema autonomo per
l’approvvigionamento idrico.
L'intera
struttura - l'edificio principale, la strada di accesso con il ponte,
l'arredo esterno, i grandi serbatoi di acqua potabile, l'impianto di
sollevamento, i magazzini e l'arredo esterno - fu realizzata in soli 5 anni
dall’impresa "Utveggio e Collura", che a Palermo aveva già
realizzato importanti opere di edilizia pubblica e privata, come Il
Cine-teatro Utveggio di Piazza Massimo, lo Stadio della Favorita, etc..
Il Grand
Hotel non ebbe alcuna fortuna, se non per pochissime stagioni. Già negli
anni precedenti al secondo conflitto mondiale, la struttura cadde in declino
e la situazione precipitò con la guerra:l'area del Primo Pizzo diventò
sede della contraerea fascista prima, di quella tedesca poi, ed infine di
quella americana. Il Castello, rimasto in stato di totale abbandono, divenne
oggetto di saccheggio ed atti vandalici.
La Regione
Siciliana, divenuta proprietaria per esproprio del complesso, ha avviato nel
1984 il recupero dell'edificio provvedendo a ripristinare gli arredi interni
ed esterni, dotando la struttura delle più avanzate tecnologie informatiche
e di comunicazione, e destinandolo ad una Scuola di Eccellenza, di alta
formazione manageriale e di ricerca socio-economica: il CERISDI, Centro
Ricerche e Studi Direzionali.
Il Castello
Utveggio, gioiello del Liberty palermitano è collocato su un'area, compreso
il parco circostante, di circa sette ettari e si sviluppa su tre piani come
segue:
Piano terra
Dalla Hall si accede alla Sala Convegni, che può accogliere più di 200
persone. Al piano terra si trovano anche altre sale e i locali di servizio,
la sala ristorante e il bar. All'esterno il colonnato ed il belvedere da cui
si può godere una delle più esclusive vedute del golfo di Palermo.
Al primo
piano sono ubicate le aule didattiche ed i locali di supporto alla
didattica: il centro dispone di due aule ad anfiteatro (rispettivamente 80 e
40 posti), un’aula attrezzata per la video-conferenza, due aule da 30
posti, l'aula Informatica, l'Emeroteca e la Biblioteca, dotata di oltre 6000
volumi e di postazione Internet. Sempre in questo piano trovano posto
l’ufficio dell’amministrazione e il centro stampa.
Il secondo
piano ospita gli uffici del CERISDI. Vi si trovano l'ufficio del Presidente,
del Vicepresidente e del Direttore, la Sala Riunioni del Consiglio di
Amministrazione, la Segreteria, l'Ufficio Legale e gli uffici dei
responsabili delle diverse aree d'attività del Centro.
Al terzo
piano si trovano 27 camere, perfettamente arredate in stile Liberty, per un
totale di circa 50 posti letto. Riveste particolare importanza per il Centro
la Suite dove è stato ospitato Sua Santità Giovanni Paolo II, in visita a
Palermo nel 1995. In ricordo, da allora, la Suite è rimasta immutata. Per
il gran pregio architettonico del Castello e per il panorama che dalle sue
terrazze è possibile godere, il centro offre la disponibilità alla visita
per turisti e visitatori che salgono su Monte Pellegrino.
Santuario
di Santa Rosalia

Il santuario
di Santa Rosalia fu costruito intorno al XVII
secolo sulla base di precedenti edifici religiosi in onore della
nuova santa patrona della città.
Il
santuario si trova all'interno di un anfratto di roccia, quasi sulla cima
del monte
Pellegrino, all'interno è presente una grossa quantità d'acqua
che viene canalizzata verso l'esterno attraverso un curioso quanto elaborato
sistema di raccolta.
Il
santuario custodisce la memoria del prodigioso ritrovamento delle ossa di santa
Rosalia.
Nel 1180,
Il Senato Palermitano edificò un tempio sotto il titolo di Santa Rosalia
presso l'antro e
la preesistente chiesa bizantina retta da monaci dell'Ordine
benedettino, religiosi che avevano assistito spiritualmente la
vergine durante gli anni dell'eremitaggio. L'area in epoca
fenicia era nota come sede pagana di un piccolo santuario
rupestre.
Rosalia,
figlia del duca Sinibaldo di Quisquina e delle Rose, nipote per parte di
madre di re Ruggero d’Altavilla, crebbe nel XII secolo alla corte dello
zio, a Palermo. Era molto bella e suscitava interessi terreni, fra i tanti
quello del principe Baldovino, all’epoca ospite di riguardo alla corte di
Ruggero. La leggenda narra che, durante una battuta di caccia grossa, sul
monte Pellegrino, la montagna sopra Palermo, un leone stava per uccidere re
Ruggero; Baldovino, coraggiosamente, lo salvò uccidendo il leone. Re
Ruggero chiese a Baldovino di indicare egli stesso un premio per la sua
eroica azione, e quest’ultimo chiese la mano di Rosalia, che, in seguito
alla proposta di matrimonio, fuggirà gettando nello sconforto la madre, lo
zio e l’intera guarnigione di stanza a Palazzo Reale (o dei
Normanni).Vissuta per poco tempo alla corte di Ruggero II, in seguito alla
morte del re, chiese ed ottenne il permesso di vivere da eremita in una
grotta sul monte Quisquina, dove trascorse dodici anni della sua vita.
Successivamente,
si trasferì in una grotta sul monte Pellegrino, dove visse “a vita di
contemplazione” fino alla morte. Il suo culto si collega ad un evento
particolare accaduto a Palermo in occasione di un’epidemia di peste. Il 7
maggio del 1624, infatti, attraccò nel porto della città un vascello
proveniente da Tunisi, sospettato di essere stato contagiato dal morbo. Ben
presto era stato dato l’allarme ma il viceré, mal consigliato, si lasciò
convincere e fece scaricare dal vascello il carico. Palermo si trasformò in
un lazzaretto sotto il cielo. Il resto è leggenda, mito e prodigio. Il
miracolo, invece, fu attribuito alle reliquie di Santa Rosalia, le quali,
portate in processione, impedirono l’ulteriore diffondersi
dell’epidemia.

Sebbene non
elevata canonicamente agli onori degli altari, Rosalia rappresentava in
quegli anni, la figura celeste di riferimento per le popolazioni locali. Gualtiero
Offamilio, trascinato dal sentimento popolare effettuò solo una
"canonizzazione vescovile" limitata e riconosciuta
territorialmente. Il potere di inserirla nel martirologio romano spetterà
solo a Papa
Urbano VIII il 26 gennaio 1630 dopo le ben note fasi del
ritrovamento e del trasferimento delle reliquie in cattedrale, vicende
subordinate al riconoscimento dell'autenticità delle stesse e del miracolo
riconosciuto come cessazione della peste da parte dell'arcivescovo e
cardinale Giannettino
Doria.
Il canonico Antonino
Mongitore nelle sue opere elenca svariati luoghi di culto
cittadini dedicati alla figura di Rosalia, spesso legati alle vicende del
suo passaggio terreno. Il suo nome è doppiamente menzionato nelle
acclamazioni e invocazioni della liturgia.
Atti
notarili del 18 aprile 1257 sono le prime fonti scritte, documenti
conservati presso gli archivi del monastero dell'Ordine
benedettino della chiesa
di Santa Maria dell'Ammiraglio detta la «Martorana».
L'attaccamento,
la devozione, la venerazione, il culto subiscono un lento affievolimento,
per riaffiorare timidamente nei momenti di maggior scoramento. L'eremo di
monte Pellegrino, unico tempio celebrativo superstite durante la peste del 1474,
fu restaurato.
Le spoglie
furono scoperte il 15 luglio 1624 grazie all'indicazione di una donna,
Girolama La Gattuta, che, salita sul Monte Pellegrino per sciogliere un voto
il 26 maggio 1624, ebbe la duplice visione della Madonna e di santa Rosalia,
durante la quale le fu indicato dove trovarle. Il 13 febbraio 1624 mentre
la peste flagellava
la città, il giovane Vincenzo Bonelli, disperato per la morte della moglie,
sale sul monte per suicidarsi. Fermato nell'insano intento dalla visione
della santa, riceve indicazioni per fare una processione. Fu così che il 9
giugno 1625, durante il corteo religioso con le reliquie della santa, al
canto del Te Deum Laudamus, la peste cessò e Palermo fu salva. Il
senato palermitano, come segno di ringraziamento per la peste sconfitta, le
dedicò il santuario.
Varcato
l'atrio scoperto si entra all'interno della cavità della grotta, dove sulla
sinistra sotto un baldacchino di forme barocche è custodita la sacra
immagine della Santa, scolpita da Gregorio Tedeschi un artista
fiorentino, intorno al 1630. Santa Rosalia è rappresentata nell'estasi del
suo trapasso. Circa un secolo dopo, Carlo III di Borbone in occasione delle
sue nozze palermitane, dono' alla patrona di Palermo la sontuosa veste
dorata che la ricopre. Davanti a questa immagine Johann
Wolfgang von Goethe, attratto dalle forme elette del simulacro,
durante la sua visita vespertina, scrisse un ispirato elogio sul suo
"viaggio in Italia".
«Sembrava
come rapita in estasi, gli occhi semichiusi, il capo appoggiato
negligentemente alla mano destra carica d'anelli. Non mi saziavo di
contemplare quell'immagine; mi sembrava che ne emanasse uno straordinario
fascino. Il manto che la riveste è di lamiera dorata e imita benissimo una
stoffa riccamente tessuta d'oro. La testa e le mani sono di marmo bianco,
non oso dire di stile elevalo, tuttavia rese con tanta naturalezza e grazia
da far credere che la figura respiri e si muova.
Un angioletto le sta accanto e sembra ventilarla con lo stelo d'un giglio.»
Johann
Wolfgang von Goethe
Nel
santuario sono presenti molti ex
voto depositati dai fedeli.

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Agosto
2018
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