Palermo

 

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Chiesa della Magione

La chiesa della SS. Trinità, comunemente conosciuta come “ Magione”, si erge sul lato meridionale di un vasto spiazzo nella omonima piazza Magione. Una spianata formatosi in seguito ai bombardamenti aerei del 1943 (particolarmente devastanti in questa zona) le cui ferite ancora aperte si potevano vedere ancora non molti anni addietro.

Questa chiesa insieme all’annessa abbazia fu fondata sul finire del XII secolo da Matteo D’Aiello, cancelliere di Tancredi, l’ultimo Re normanno, che proprio da Matteo, nel 1190, aveva ricevuto la corona regia, secondo la testimonianza di Riccardo di San Germano “est per ipsum Cancellarium coronatus Rege”.

Il complesso chiesa-monastero occupò un settore urbano “infra moenia in civitate panormi”, (dentro le mura della città di Palermo) con edilizia rada, dove risultava l’unica emergenza architettonica del posto, ed era circondato da un grande giardino  (“viridarium magnum”) cosi vasto, che nei periodi di carestia, veniva piantato a grano per sfamare la popolazione.

Matteo D’Aiello la volle intitolare alla SS. Trinità, una scelta non casuale, come una forma di risposta a quelle dottrine considerate ereticali, che in quei tempi, sotto forma di correnti teologiche e filosofiche, tendevano ad alterare il concetto di “Trinità”. Per lo stesso motivo chiesa e convento furono donati ai monaci Cistercensi che S. Bernardo di Chiaravalle, per istanza dell’amico Re Ruggero, aveva mandato in Sicilia anni prima.

Infatti questo ordine monastico, in quei tempi il più influente all’interno della chiesa cattolica, rappresentava un vero baluardo a difesa del Dogma cattolico della SS. Trinità contro tutte le dottrine ereticali del tempo.

I frati Cistercensi mantennero il possesso della chiesa e dell’abbazia per pochi anni, nel 1197 infatti l’Imperatore svevo Enrico VI, cacciava i cistercensi, che gli erano stati ostili, concedendo gli edifici all’ordine dei cavalieri teutonici (“ordo hospitalis Sanctae Mariae theutonicorum Jerusalem”) che annoverava lo stesso Imperatore tra i suoi confratelli.

Da questo momento la chiesa assunse il titolo “Mansio Sanctae Trinitatis“, divenendo la casa dei Cavalieri Teutonici, cioè la “mansio theutonicorum”, da cui il nome Magione.

I cavalieri manomisero pesantemente chiesa e convento, ne stravolsero l’assetto architettonico originario, crearono nuove cappelle all’interno della chiesa, ingrandirono il convento e costruirono un ospedale destinato ai pellegrini di etnia germanica provenienti o diretti in Terra Santa.

Essi possedettero il complesso religioso fino al 1492 quando la Magione fu eretta in commenda (cioè data in affidamento) e governata per quasi due secoli da Abbati commendatari (primo fra i quali il Cardinale Rodrigo Borgia, il futuro Papa Alessandro VI) e anche loro vi apportarono nuove modifiche occultando preesistenti strutture medievali. Infine nel 1787, Ferdinando III di Borbone aggregò la chiesa con tutti i suoi beni all’ordine Costantiniano di San Giorgio.

La chiesa, realizzata da maestranze e da artisti di origini islamiche, che è stata costruita probabilmente inglobando una struttura religiosa preesistente (moschea), rappresenta uno degli ultimi prodotti dell’architettura medievale siciliana d’impronta fatimita ( che fu una dinastia musulmana sciita che si impose tra il X e il XII secolo in alcune regioni mediterranee, tra cui la Sicilia) e mostra in chiave ridotta, lo stesso schema iconografico delle cattedrali di Palermo e Monreale.

L’esterno presenta una ricca varietà di motivi decorativi e possiede i caratteri inconfondibili della cultura architettonica del mondo arabo che si riscontrano in quasi tutte le architetture ecclesiali costruite in Sicilia tra XI e XII secolo.

La facciata è formata da tre portali ogivali con ghiere a rincasso, uno più grande al centro, che è anche l’ingresso alla chiesa, e due laterali più piccoli. Più sopra si trovano cinque finestre, di cui tre cieche al centro e due lucifere ai lati, inoltre, nell’ordine più alto, vi è una finestra posta in asse con il portale principale.

La parte posteriore dell’edificio termina in tre absidi, di cui quella centrale è disegnata da archi intrecciati ben sporgenti mentre nelle minori questi sono appena accennati e nei fianchi viene riproposto il motivo delle finestre cieche con ghiere a rincasso.

L’interno della chiesa, ampio e arioso, unisce il tipo di pianta longitudinale a croce latina, con un corpo centrico a tre absidi. L’impianto che ne risulta è quello tradizionale di tipo basilicale a tre navate separate da grandi archi ogivali sostenuti da colonne monolitiche di spoglio di diversa altezza, con capitelli a motivi vegetali stilizzati diversi nella forma e nella decorazione. Il motivo delle colonnine si ripresenta nella zona del presbiterio che appare soprelevato, come la navata centrale con soffitto ligneo, un tempo magnificamente dipinto.

Nei tempi passati la chiesa, che doveva essere ricca di preziosi manufatti e opere d’arte (dipinti su tavole, icone dipinte e rivestimenti marmorei parietali), oggi la troviamo quasi spoglia, vi sono poche opere ma certamente di grande valore artistico.

Entrando sul lato destro troviamo una Pietà di Archimede Campini del 1953. Accanto all’ingresso, sempre a destra, una bella acquasantiera del XVI secolo; di seguito, addossato alla parete, un Cristo benedicente della bottega dei Gagini e ancora un trittico marmoreo tardo gotico, con al centro una Madonna col bambino e S. Caterina.

Nella parete della navata sinistra vi è una Croce in pietra con l’emblema dei Cavalieri Teutonici, sotto si trova il sarcofago funerario di F.sco Perdicaro, Maestro Razionale del Regno, opera di V.zo Gagini. A seguire, attaccata alla parete, una Madonna col Bambino, sempre della bottega dei Gagini, e più avanti un elegante portale rinascimentale attribuito a F.sco Laurana, introduce alla sacrestia.

Negli oltre otto secoli della sua vita, la chiesa è stata sottoposta a numerosissimi restauri, i più rilevanti quelli di Giuseppe Patricolo e di Francesco Valenti che riportarono la chiesa, per quanto è stato possibile, al suo aspetto originario.

Infine, dopo i rovinosi bombardamenti dell’ultima guerra, è stata ancora una volta restaurata e parzialmente ricostruita.

Questo monumento, che si trova ai margini dei circuiti turistici tradizionali, ha sempre un suo fascino particolare, quasi spirituale: la nuda pietra, le linee semplici delle sue strutture, lo scarno apparato ornamentale, sembrano voler non farci dimenticare che la religione prima di ogni altra cosa, deve essere “povertà”.

Ponte dell'Ammiraglio

Imboccando il lunghissimo corso dei Mille, una volta giunti in piazza Scaffa, ci si imbatte in una struttura molto particolare, carica di riferimenti storici molto importanti e simbolo di un passato perduto (sotto di esso un tempo scorreva anche il fiume Oreto). Si tratta del Ponte dell’Ammiraglio, anch’esso ascrivibile al periodo normanno, così chiamato poiché colui che ne ordinò la costruzione era quello stesso Giorgio d’Antiochia, grande ammiraglio del re Ruggero II, che aveva già fatto edificare la chiesa della Martorana.

Fu completato intorno al 1131 per volere di Giorgio d'Antiochiaammiraglio del re Ruggero II di Sicilia, un anno dopo la nascita del Regno di Sicilia, per collegare la città (divenuta capitale) ai giardini posti al di là del fiume Oreto. Oggi, pur avendo conservato le sue sembianze originali, sotto il Ponte dell’Ammiraglio non scorre più alcun fiume. Il fiume cittadino infatti qualche tempo fa ha subito una deviazione del suo corso, lasciando praticamente sospeso il ponte, che così smise di avere una funzione pratica.

Il Ponte dell’Ammiraglio è costituito da sette arcate a ghiere rientranti, che diventano sempre più piccole mentre si avvicinano ai lati; tali arcate sono alternate da alcune arcatelle minori poste nei piloni. La composizione della struttura vede una muratura in conci di tufo squadrati, un’ossatura che ha permesso al ponte di resistere molto bene all’usura dei secoli. Una struttura talmente solida permetteva al ponte di sopportare dei carichi pesantissimi, senza subire alcun danno. 

Ben pochi furono gli interventi effettuati su quello che oggi consideriamo un vero e proprio monumento della Palermo arabo normanna: soltanto il Senato palermitano promosse nel XVII e nel XVIII secolo delle opere per consolidare la struttura, poiché il fiume Oreto, che oggi ci appare più come un fiumiciattolo che altro, un tempo straripava spesso e non aveva certo nulla da invidiare ad altri importanti corsi d’acqua d’Italia (e pensare che sino al XIX secolo nell’Oreto si riuscivano a pescare persino i salmoni).

Nel 1931 Palermo subì una tremenda alluvione ed anche in quel caso l’Oreto straripò, ma sorprendentemente il Ponte dell’Ammiraglio, vecchio di quasi 1000 anni, resistette a quell’evento senza riportare alcun danno, a dimostrazione della sua indiscutibile solidità.

Il 27 maggio dell'anno 1860, nel corso della spedizione dei MilleGaribaldi proprio su questo ponte e nella vicina via di Porta Termini si scontrò con le truppe dei Borboni, lì schierate perché il ponte era un ingresso nella città per chi veniva da mezzogiorno: Garibaldi proveniva infatti dal Monte Grifone, e precisamente dalla frazione di Gibilrossa. Lo scontro al ponte dell'Ammiraglio provocò l'insurrezione di Palermo.

Il Ponte dell’Ammiraglio è carico di riferimenti storici. Nei suoi pressi venne combattuta un’importante battaglia che vide scontrarsi gli uomini al seguito di Giuseppe Garibaldi contro i soldati borbonici. Ad avere la meglio furono i primi che si apprestavano a liberare la Sicilia e il Meridione dai Borboni per restituirla finalmente al resto d’Italia. Quella battaglia lasciò un’ eco profonda nella memoria della nostra città, tant’è che la strada che comprende anche il Ponte dell’Ammiraglio prese appunto il nome di corso dei Mille, in omaggio ai ‘picciotti’ garibaldini. Il grande pittore Renato Guttuso dedicò una delle sue opere proprio alla rappresentazione di quell’epico scontro.

Lo scrittore Gaspare Palermo descrisse positivamente il Ponte dell’Ammiraglio, definendolo “di amplissima larghezza, potendovi al di sopra camminare quattro carrozze del paro”. Ed anche il Villabianca (XVIII-XIX secolo), nella sua opera ‘Diario’, parlò del Ponte in termini lusinghieri, sostenendo che ancora ai suoi tempi facesse ‘onore alla città felice’.

Chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi

La piccola chiesa, dedicata a San Giovanni Battista, prende il suo toponimo dall’annesso lebbrosario, del quale oggi più nulla esiste, che Ruggero II fece edificare, verosimilmente in memoria del fratello Goffredo, che secondo il cronista Goffredo Malaterra era morto di lebbra. 

La chiesa fu edificata sulle rovine del castello di Yahya (Giovanni in lingua araba) nel 1071, durante la riconquista da parte dei Normanni, per mano delle truppe di Roberto il Guiscardo e Ruggero I di Sicilia. La costruzione sorge a poca distanza dal fiume Oreto, località in epoca araba ricoperta da un rigoglioso dattereto, alcuni decenni dopo Giorgio d'Antiochia edificò il cosiddetto Ponte dell'Ammiraglio per scavalcare il corso d'acqua quindi permettere l'accesso e il transito delle merci. Le ricerche condotte dall'arabista Michele Amari in "Storia dei Musulmani di Sicilia", portano all'esistenza di un castello saraceno denominato Yahya, ipotesi suffragata dall'esistenza di resti nel giardino retrostante la chiesa consistenti in tratti di muro e frammenti di pavimentazione.

In effetti si trattava di una pianura alluvionale adibita a piantagione ove le truppe normanne si erano accampate in stato d'assedio prima di sferrare l'attacco alla conquista dei due quartieri strategici posti a settentrione del fiume: la Kalsa e il fortificato Cassaro, rispettivamente il primo "eletto" e deputato a dimora degli Emiri e centro amministrativo dell'isola, il secondo a polo commerciale e fulcro religioso cittadino. Nei mesi dell'accerchiamento accanto al maniero rinominato di San Giovanni Battista fu edificato il tempio, verosimilmente in esso fu celebrata la prima vittoria con la consacrazione e dedicazione al Precursore, area prossima al Castello di Maredolce nel Parco della Favara.

Ruggero II di Sicilia dotò la chiesa di casali, beni e privilegi, prerogative confermate dal figlio Guglielmo. Quest'ultimo vi fece trasferire i lebbrosi ospitati presso le strutture della chiesa di San Leonardo, luogo di culto documentato sull'area dell'attuale convento dell'Ordine dei frati minori cappuccini, già adibito al ricovero e all'assistenza dei lebbrosi. Da qui deriva l'appellativo di San Giovanni de' Lebbrosi. Una pergamena proveniente dal tabulario della Commenda della Magione rivela una concessione di Guglielmo I, datata maggio 1155, ove si evince che l'istituzione e l'edificazione dell'ospedale e delle strutture annesse fu opera del padre, senza tuttavia indicare l'anno di avvio lavori.

Nel 1219 Federico II di Svevia pone l'amministrazione e la gestione dell'ospedale all'attenzione del precettore della Magione e nel 1221 lo unì in perpetuo all'Ordine teutonico. Nel 1324 è appellato ospedale de infectis, ovvero struttura preposta alla cura e al trattamento delle malattie infettive. Risalgono a questo periodo gli affreschi documentati nel cortile, in particolare una scena raffigurante la Madonna Annunziata ritratta con un cavaliere teutonico genuflesso e orante.

In una missiva datata 23 novembre 1434, re Alfonso V d'Aragona fa riferimento alla chiesa con ospedale adibito a lebbrosario, appellandola chiesa di San Giovanni de' Lebbrosi. Il sovrano per l'istituzione ospedaliera decretò l'esenzione di tasse e gabelle, rivolse ai Teutonici l'invito ad abbandonarne la gestione pur consentendo tuttavia alla chiesa di restare canonicamente unita alla chiesa della Santissima Trinità del Cancelliere. Nel 1442 circa, il lebbrosario assieme all'Ospedale di San Bartolomeo l'Incurabili, figura come gancia dell'Ospedale Grande e Nuovo.

Nel 1495 il lebbrosario fu amministrato dal Senato Palermitano e in seguito trasformato in lazzaretto per le varie epidemie di peste scoppiate a Palermo a partire dal giugno 1575. Questa particolare ondata infettiva fu provocata dai traffici marittimi, attacchi di pirati e corsari nel meridione; per converso le regioni settentrionali della penisola furono soggette alle frequenti incursioni di barbari e gruppi nomadi che provocarono la diffusione del flagello, in Lombardia nella fattispecie contagio noto come Peste di San Carlo (1576 - 1577).

Il Collegio dei Notari costituito per la gestione del polo di San Nicolò di Tolentino trasferì nel 1596 parte degli eremitani di Sant'Agostino appena insediatisi e dei vecchi membri dell'ordine preesistente ancora presenti nella struttura, presso il convento di Santa Maria la Sanità aggregato alla chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi. Col fiorire di nuovi stili e correnti le strutture subirono sovrapposizioni che nel XVII secolo. Gli interni del tempio furono appesantiti con l'inserimento di volte in muratura e il rivestimento con decori in stucco che occultarono le finestre delle navate laterali.

La regina Maria Carolina d'Austria durante una visita compiuta nel 1802, constatando i vetusti e fatiscenti impianti, le condizioni pietose in cui versavano i ricoverati, fece trasferire degenti e l'istituzione presso le strutture dell'Ospedale dei pazzi o tisici ubicato nell'ex noviziato dei Padri teresiani scalzi.

L'attuale aspetto della chiesa è dovuto al restauro condotto nei primi anni del XX secolo dall'architetto Francesco Valenti, soprintendente ai monumenti dell'epoca che ha rimosso le sovrapposizioni accumulatisi in secoli d'interventi, dotando il campanile di cupoletta rossa analoga a quella della crociera.

Il castello era circondato da un palmeto dove le truppe normanne si accamparono in attesa di sferrare l’attacco risolutivo per espugnare la città (che avvenne dopo cinque mesi di assedio). Sembra però più probabile che durante l’assedio, i normanni abbiano solo iniziato l’edificazione della chiesa, provvedendo al completamento dell’edificio religioso soltanto dopo l’avvenuta conquista, come per adempimento di un voto e presumibilmente prima della morte di Roberto avvenuta nel 1085. Infatti è verosimile pensare che la chiesa non poteva essere costruita in forme così definite, in un periodo di operazioni militari.

Successivamente, nel febbraio del 1219, l’imperatore Federico II di Svevia donò la chiesa e l’ospedale per lebbrosi all’Ordine dei Cavalieri Teutonici della Magione, che lo detenne fino alla fine del  XV secolo. Nel 1495 infatti, “l’ospedale di San Giovanni” fu incorporato, con tutti i suoi ricoverati ( lebbrosi, tisici e matti), “all’Ospedale Grande e Nuovo” fondato dal frate benedettino Giuliano Majali, che aveva sede all’interno di palazzo Sclafani.

La chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi, forse la più antica chiesa latina della città, presenta delle affinità con le prime chiese costruite dai normanni in territorio messinese durante il periodo della Contea (1060- 1130), e si contraddistingue per alcuni caratteri singolari della costruzione, come l’uso dei pilastri per dividere le navate.

L’edificio religioso, tipico prodotto dell’architettura siciliana di epoca normanna, fu pesantemente rimaneggiato nel XVII secolo, in occasione di un rinnovamento che ne aveva snaturato i caratteri originari. Gli interni erano stati appesantiti con l’inserimento di voltoni in muratura e l’applicazione di una veste decorativa in stucco che aveva occultato le finestre delle navate laterali.
I drastici restauri diretti dall’architetto Francesco Valenti tra il 1920 e il 1934 hanno restituito alla costruzione il suo austero e spoglio splendore originario, liberandola da tutte le sovrastrutture di epoca barocca. Fu allora abbattuta la pesante “volta portante a botte con teste di padiglione” della navata centrale, e si demolirono le volte a crociera delle navate laterali. Inoltre furono scrostati gli intonaci e gli stucchi, si ricostruì l’altare marmoreo della tribuna ” conforme al tipo esistente nella chiesa di San Cataldo” e si abbassò il pavimento, riportandolo all’antico livello.

La chiesa risponde ai canoni dell'architettura romanica siculo-normanna a croce latina con transetto sporgente e tripla abside; è considerata uno degli edifici medievali in stile normanno più antichi della città, e in particolare è forse la chiesa a croce latina più antica di Palermo. Il periodo di fondazione, le cupolette a semicalotta e lo stile architettonico sono comuni alla chiesa di San Giovanni degli Eremiti, alla chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio detta la "Martorana" e alla chiesa di San Cataldo. Pur non essendo inserita negli affollati itinerari turistici, tantomeno contemplata nel recente elenco del Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco e nell'Itinerario della Palermo arabo - normanna e le cattedrali di Cefalù e Monreale, per storia, stile e contesto ambientale, evoca fascino e interesse al pari dei monumenti del centro storico cittadino.

All'interno si ammira un bel crocifisso ligneo dipinto, risalente al Quattrocento sull'arco della crociera. Colonnine angolari incassate e sormontate da capitelli decorati recanti iscrizioni arabe in caratteri cufici di tipo omayyade - andaluso

L'esterno dell'edificio si presenta spoglio perché privo di decorazioni, tranne i rilievi in conci delle monofore che garantiscono l'illuminazione interna. L'ingresso è semplice, preceduto da un piccolo porticato sorretto da un unico pilastro angolare, su cui poggia il campanile. L'interno ha impianto basilicale ripartito in tre navate da pilastri, copertura lignea, presbiterio cupolato sovrastante l'altare che prevedeva una primitiva tribuna.

La facciata dell’edificio si presenta leggermente sbilanciata verso sinistra per la presenza della scala che permette l’accesso al portico-campanile che segna l’ingresso alla chiesa, ricostruito dal Valenti in modo “arbitrario”, in sostituzione di quello preesistente.

La chiesa ha orientamento sud-ovest  nord-est ed è una limpida costruzione eseguita con piccoli conci di tufo calcareo ben squadrati messi in opera a corsi regolari.

Cuba

Situata all’interno di quello che un tempo era l’esteso parco di caccia dei re normanni chiamato il “Genoard ” (paradiso della terra), la Cuba (dall’arabo qubba) che vuol dire arco, volta, sorge poco lontano da Porta Nuova nell’attuale corso Calatafimi.  Si chiama anche "Cuba sottana" per distinguerla dalla Cuba soprana, oggi inglobata nella settecentesca villa Di Napoli e dalla Piccola Cuba, situate nell'antico parco reale del Genoardo.  

Questo sontuoso palazzo, che presenta tutti i caratteri peculiari dell’ architettura d’età normanna, fu voluto da Guglielmo II il Buono, come testimonia una iscrizione araba in caratteri cufici che decora la cornice d’attico della fabbrica decifrata da Michele Amari nel 1849, “Nel nome di Dio, clemente e misericordioso Bada qui, ferma qui la tua attenzione, fermati e guarda! Vedrai Egregia stanza dell’Egregi tra i re della terra, Guglielmo Secondo, non v’ha castello che sia degno di lui, né bastano le sue sale… né quali notansi i momenti più avventurati e i tempi più prosperi. E di nostro Signore il Messia mille e cento aggiuntovi ottanta che son corsi tanto lieti”.   

La dinastia degli Altavilla, aveva definitivamente conquistato la Sicilia nel 1070 con la presa di Palermo da parte di Roberto il Guiscardo. La Sicilia era fin dal 948 un Emirato fatimide.

Gli Emiri, portatori di una cultura evolutissima resero la loro capitale, Palermo, una delle più belle città del Mediterraneo, arricchendola di palazzi, giardini e moschee. Resero floridi i commerci, crearono un apparato statale molto efficiente, e si circondarono di poeti, architetti, filosofi, e matematici. I re normanni, provenendo da una regione sino ad allora culturalmente ai margini dell'Europa, ebbero l'apertura e l'intelligenza di assorbire, quanto più possibile i costumi ed il sapere della civiltà araba di Sicilia, depositaria del sapere cumulatosi grazie al contatto con le civiltà asiatiche e africane sottomesse fin da VII secolo.

Nasce allora uno splendido stile architettonico, l'Arabo-Normanno, che coniuga elementi del romanico nord-europeo, con elementi bizantini, e la tradizione costruttiva ed ornamentale di una civiltà, quella araba, insuperata per le costruzioni nei paesi caldi.

La Cuba (dall'arabo Qubba, "cupola") fu costruita nel 1180 per il re Guglielmo II, al centro di un ampio parco che si chiamava Jannat al-ard ("il Giardino - o Paradiso - in terra"), il Genoardo. Il Genoardo comprendeva anche la Cuba soprana e la Cubula, e faceva parte dei solatia o Sollazzi Regi, un circuito di splendidi palazzi della corte normanna situati intorno a Palermo.

L'uso originale della Cuba era di padiglione di delizie, ossia di un luogo in cui il Re e la sua Corte potevano trascorrere ore piacevoli al fresco delle fontane e dei giardini di agrumi, riposandosi nelle ore diurne o assistendo a feste e cerimonie alla sera.

La Cuba Sottana, appare oggi di proporzioni turriformi abbastanza sgraziate. La spiegazione è semplice. Era circondata da un bacino artificiale profondo quasi due metri e mezzo. L'apertura più grande, sul fronte settentrionale, si affacciava sull'acqua ad un'altezza oggi inspiegabile.

Le notizie sul committente e sulla data sono esatte grazie all'epigrafe posta sul muretto d'attico dell'edificio. La parte più importante, quella sul committente, era dispersa e fu ritrovata nel XIX secolo, scavando ai piedi della Cuba, da Michele Amari, massimo studioso della Sicilia araba e normanna. La parte dell'epigrafe ritrovata dall'Amari, esposta in una sala a lato, dice così: "Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Bada qui, fermati e mira! Vedrai l'egregia stanza dell'egregio tra i re di tutta la terra Guglielmo II re cristiano. Non v'ha castello che sia degno di lui ... Sia lode perenne a Dio. Lo mantenga ricolmo e gli dia benefici per tutta la vita".

Il fatto straordinario per oggi di questa epigrafe, che dimostra la tolleranza e l'apertura della corte normanna, è la lingue: arabo in caratteri cufici. Dunque pur riferendosi ad un Re cristiano, fondatore del Duomo di Monreale e vassallo del Pontefice, l'iscrizione è in arabo. È noto che molti componenti delle varie corti normanne in Sicilia fossero arabi, celeberrimo è il caso di Idrisi, massimo geografo del suo tempo, maghrebino alla corte cristiana di Ruggero II re di Sicilia.

Nei secoli successivi, la Cuba fu destinata agli usi più vari. Il lago fu prosciugato e sulle rive furono costruiti dei padiglioni, usati come lazzaretto dalla peste del 1576 al 1621. Poi fu alloggio per una compagnia di mercenari borgognoni ed infine proprietà dello Stato nel 1921. Negli anni '80 comincia il restauro che riporta alla luce le strutture del XII secolo.

Dall'esterno, l'edificio si presenta in forma rettangolare, lungo 31,15 metri e largo 16,80. Al centro di ogni lato sporgono quattro corpi a forma di torre. Il corpo più sporgente costituiva l'unico accesso al palazzo dalla terraferma. I muri esterni sono ornati con arcate ogivali. Nella parte inferiore si aprono alcune finestre separate da pilastrini in muratura.

I muri spessi e le poche finestre erano dovuti ad esigenze climatiche, offrendo maggiore resistenza al calore del sole. Inoltre, la maggior superficie di finestre aperte era sul lato nord-orientale, perché meglio disposta a ricevere i venti freschi provenienti dal mare, temperati ed anche umidificati dalle acque del bacino circostante.

L'interno della Cuba era divisa in tre ambienti allineati e comunicanti tra loro. Al centro dell'ambiente interno si vedono i resti di una splendida fontana in marmo, tipico elemento delle costruzioni arabe necessario per rinfrescare l'aria. La sala centrale era abbellita da muqarnas, soluzione architettonica ed ornamentale simile ad una mezza cupola.  

Proprio alla Cuba, tra le acque e gli alberi che la circondavano, Boccaccio ambientò una delle novelle del suo Decameron. La sesta della quinta giornata. È la vicenda d'amore tra Gian di Procida - nipote dell'omonimo grande eroe del Vespero Siciliano - e Restituta, una ragazza bellissima di Ischia rapita da «giovani ciciliani» per offrirla in dono al allora re di Sicilia: Federico II d'Aragona.

Quando Giovanni Boccaccio scrisse il Decameron, era già cominciato il declino dei parchi reali che erano l'orgoglio della città ormai in mani angioine. Era finita l'epoca di Palermo "felicissima" che secondo Idrisi era allora «la più grande e la più bella metropoli del mondo» con la sua vasta verdeggiante pianura e con i suoi luoghi di delizie (mustanaza). Ma la traccia che aveva lasciato quel periodo di splendore era così luminosa da impressionare Boccaccio ancora diversi secoli dopo.

La Cubula (detta anche Piccola Cuba) è un piccolo edificio arabo-normanno di Palermo. Si trova dove un tempo scorrevano le acque che alimentavano il lago Alberira ed è situato all'interno dell'immenso giardino del Parco del Genoardovoluto dal re Guglielmo II di Sicilia, detto il Buono.  

È di pianta quadrata con archi a sesto acuto su ogni lato decorati con fasce bugnate e sormontato da una cupola emisferica in stile arabo-normanno nel tipico colore rosso.

Il padiglione, fu realizzato nel 1184 da architetti fatimidi. All'interno del parco reale normanno era possibile ammirare numerosi chioschetti, come la Cuba soprana poi inglobata nel Settecento in Villa Napoli, dimore nobiliari, fontane, laghetti, alberi di ogni specie (soprattutto di agrumi e magnolie), nonché la Cuba. Ecco perché il re aveva scelto per esso il nome di Genoardo che deriva dall'arabo Gennai al ard, ovvero: Paradiso della Terra.

Per la sua particolare ubicazione, così immersa nel verde, la Cubula veniva spesso usata come luogo di riposo dal sovrano e dai suoi ospiti.

Il particolare edificio in pietra tagliata a conci regolari, con i suoi ogivali a tre ghiere leggermente incassate, di cui quella centrale con un caratteristico motivo a rilievo, ricorda nell'aspetto altre chiese del capoluogo siciliano, come ad esempio la Basilica La Magione e la Chiesa di Santo Spirito. Lo stesso motivo lo si ritrova nel frontone della Cattedrale e nel campanile della Chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio.  

Convento e catacombe dei Cappuccini

Il convento dei Cappuccini a Palermo, nel quartiere Cuba, è annesso alla chiesa di Santa Maria della Pace. Chiesa e convento risalgono al XVI secolo, benché edificati su strutture precedenti. Nel sotterraneo si trovano le famose catacombe dei Cappuccini in stile gotico, così chiamate ma in realtà cimitero e non catacomba, cioè luogo di culto e riunione paleocristiana.

Il Convento è conosciuto in tutto il mondo per la presenza nei suoi sotterranei di un vasto cimitero, che attira la curiosità di numerosi turisti, fin dai secoli scorsi tappa obbligata del Grand Tour (fu visitato anche da Guy de Maupassant). Lo spettacolo macabro degli innumerevoli cadaveri esposti è spunto di riflessione sulla caducità della vita, sulle vanità terrene e sull'inutilità dell'attaccamento degli uomini alle loro fattezze esteriori. Le gallerie furono scavate alla fine del '500 in stile gotico con sottotitoli a volte a crociera ogivali costolonate e a volta ogivale; queste formano un ampio cimitero di forma rettangolare. Non sono mai state inventariate le salme ivi presenti, ma si è calcolato che debbano raggiungere la cifra di circa 8.000.

Le mummie, in piedi o coricate, vestite di tutto punto, sono divise per sesso e categoria sociale, anche se la maggior parte di esse appartengono ai ceti alti, poiché il processo di imbalsamazione era costoso. Nei vari settori si riconoscono: prelati; commercianti e borghesi nei loro vestiti "della domenica"; ufficiali dell'esercito in uniforme di gala; giovani donne vergini, decedute prima di potersi maritare, vestite con il loro abito da sposa; gruppi familiari disposti in piedi su alte mensole, delimitate da sottili ringhiere simili a balconate; bambini; ecc.  

Un immenso patrimonio unico al mondo di memorie storiche e dati scientifici si conserva nel sottosuolo di Palermo. Chi visita il cimitero sotterraneo dei Cappuccini si appresta a compiere un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, certo, ma soprattutto in un mondo che, nonostante l’attuale degrado in cui è immerso, è assolutamente suggestivo, misterioso e affascinante (anche se non è per tutti).
Insieme ad una incredibile collezione di scheletri e mummie le “catacombe” dei frati Cappuccini conservano una massa imponente di documenti e di preziose informazioni grazie alle quali è possibile ricostruire la vita, la storia e anche i costumi della società cittadina dei tempi passati. Un autentico scrigno di memorie, una vera e propria archeologia delle emozioni che si schiude agli occhi dei visitatori e che purtroppo oggi rischia di andare perduta per sempre.

Nel 1534 i frati minori Cappuccini si stabilirono a Palermo e in quello stesso anno il senato palermitano concesse ai religiosi il privilegio di edificare il proprio convento accanto alla preesistente chiesa di Santa Maria della Pace.

A quel tempo, i frati defunti venivano deposti in una grande fossa comune posta nel lato meridionale della chiesa, mai al suo interno: la presenza del corpo di Cristo rendeva impossibile che nello stesso luogo venissero conservati anche resti umani, naturalmente soggetti alla putrefazione. Tuttavia alla fine del XVI secolo, una casuale scoperta determinò una svolta decisiva nel modo di concepire la morte da parte di quei religiosi.

La necessità di svuotare la fossa divenuta insufficiente, portò alla riesumazione di quarantacinque salme che tra lo stupore generale risultarono miracolosamente indenni dalle usure del tempo. Il fatto venne subito interpretato come segno di intervento divino, per cui nel 1599, quaranta di quei corpi furono trasferiti in una sepoltura scavata appositamente dietro l’altare maggiore della chiesa, e sistemati in nicchie poste tutte intorno alle pareti del primo corridoio.

Ma presto vi furono conservate altre salme di frati che vivevano e morivano a Palermo, così che si rese necessaria la costruzione di un’altra stanza e di una cappella: gli ampliamenti continuarono negli anni successivi per soddisfare le sempre più numerose richieste di seppellimento da parte di estranei, fino ad allora accettati in via del tutto eccezionale.

Dal Seicento all’Ottocento furono migliaia le persone, soprattutto notabili siciliani e personaggi illustri, che decisero di affidare ai Frati i corpi dei loro defunti: in cambio di ricche donazioni, questi ed i loro parenti potevano permettersi l’efficace processo di mummificazione naturale che i Frati Cappuccini con il tempo perfezionarono, e di essere esposti all’interno del cimitero.

Al desiderio di preservare il corpo a tutti i costi anche dopo la morte, si aggiungeva la possibilità per le famiglie dei defunti non solo di piangere la tomba del proprio caro ma anche di vederlo, di parlargli, di ‘fargli visita’ come se ancora facesse parte del mondo dei vivi.

L’apprezzamento generale verso il metodo utilizzato da Frati Cappuccini per la conservazione dei corpi, fece del cimitero una specie di zona franca, esclusa da tutte le leggi civili che negli anni vennero emanate in materia di sepolcri, come il decreto regio del 1710 con il quale si ordinava di seppellire i cadaveri ad un miglio di distanza dall’ambito urbano e non più dentro le chiese.

Numerose salme appartengono comunque a frati dell'ordine dei Cappuccini stessi: il primo a essere stato inumato all'interno delle catacombe fu infatti frate Silvestro da Gubbio il 16 ottobre del 1599. La sua salma è la prima sulla sinistra subito dopo l'ingresso.

La sepoltura all’interno delle Catacombe dei Cappuccini il più delle volte si articolava in un percorso scandito da fasi precise. In un primo tempo i cadaveri venivano adagiati nei cosiddetti “colatoi”, dove rimanevano per il tempo necessario (circa un anno) a drenare quei liquidi organici che ne avrebbero reso impossibile una corretta conservazione. Quindi le salme venivano portate in un luogo ventilato pronte per essere lavate e ripulite con acqua e aceto, dopo di che rivestite, venivano collocate nei loculi posti nei corridoi.
Quello dell’essiccazione naturale, tuttavia, non era l’unica metodica adoperata per la preparazione delle salme. Altri sistemi si adottarono in casi particolari, ad esempio in casi di epidemie i corpi venivano disinfettati con un bagno di arsenico, altre volte con latte e calce; quest’ultimo metodo divenne poi consueto in aggiunta al metodo di essiccazione naturale.

Con il passare del tempo vennero affinate specifiche tecniche di imbalsamazione che prevedevano oltre che l’eviscerazione, speciali trattamenti a base di iniezioni di sostanze chimiche che avrebbero dato al defunto un aspetto il più realistico possibile.

Questi sistemi però destavano non poche preoccupazioni negli operatori, spesso a stretto contatto con sostanze altamente tossiche come arsenico e mercurio; per la loro dismissione si dovette attendere il XX secolo, quando si cominciarono ad impiegare fluidi a base di formaldeide.

A questi elementi , il famoso tassidermista palermitano Alfredo Salafia, aggiungerà altre sostanze tra cui paraffina disciolta in etere per meglio preservare i tratti facciali.

Il cimitero venne chiuso nel 1880, salvo accogliere in via eccezionale ancora due salme nei primi anni del Novecento: la prima, nel 1911, fu quella di Giovanni Paterniti, viceconsole degli Stati Uniti; la seconda, nel 1920, fu quella della piccola Rosalia Lombardo, morta alla tenera età di due anni e oggi nota come la “mummia più bella del mondo”.

Nelle Catacombe dei Cappuccini si conservano oltre ottomila scheletri e corpi mummificati, di tantissimi personaggi più o meno illustri, che qui trovarono riposo. Tra questi il garibaldino Giovanni Corrao (1863), il vescovo di rito greco Agostino Franco (1877), il pittore Giuseppe Velasquez ( 1827), lo scultore Filippo Pennino (1794), il presidente del regno Giuseppe Grimau (1755), il viceconsole americano Giovanni Paterniti (1911), fino ad arrivare al caso più emblematico, la mummia di Rosalia Lombardo, una bambina morta di broncopolmonite il 6 dicembre del 1920 (una settimana prima di compiere due anni).

“La Bella Addormentata”, cosi viene chiamata la dolcissima bambina dai capelli biondi, da molti studiosi considerata a ragione, la più bella mummia del mondo.

Nata a Palermo il 13 dicembre 1918 e ivi morta di polmonite il 6 dicembre 1920, la bambina è stata una delle ultime persone a essere ammesse alla sepoltura nella cripta. L'imbalsamazione, fortemente voluta dal padre affranto, fu curata dal professor Alfredo Salafia, lo stesso che imbalsamò Francesco Crispi.

Come si è scoperto solo nel 2009 grazie a studi compiuti sugli appunti di Salafia, per l'operazione fu utilizzata una miscela composta da formalina, per uccidere i batteri, alcool, che avrebbe contribuito alla disidratazione, glicerina, per impedire l'eccessivo inaridimento, acido salicilico, che avrebbe impedito la crescita dei funghi, e sali di zinco, che conferiscono rigidità. La bambina appare intatta (infatti attraverso una radiografia accurata si può notare che anche l'intero corpo della piccola è perfettamente integro, si possono vedere chiaramente sia l'emisfero cerebrale e l'organo del fegato) tanto da destare l'impressione che stia dormendo, e da meritare il soprannome di Bella addormentata.

Nonostante il processo di mummificazione sia uno dei migliori, se non il migliore, il corpo presenta piccoli segni di decomposizione. È stato quindi necessario collocare la storica bara all'interno di una teca ermetica di acciaio e vetro, satura di azoto, che impedisce la crescita di microrganismi, tenuta alla temperatura costante di 20 °C e con umidità del 65%.

Oggi l’inestimabile patrimonio delle Catacombe dei Cappuccini rischia di andare perduto, e sarebbe un danno incalcolabile. Trattandosi quasi interamente di reperti organici, senza adeguati interventi, tutto si avvia verso la dissoluzione.

Sono auspicabili rapidi interventi per preservare questo luogo eccezionale, ed evitare la fine di questo straordinario “museo dei defunti”, che ha oltre quattrocento anni di storia da raccontare ai vivi.
Sempre che questi siano disposti ad ascoltare.

Zisa

La Zisa bisognerebbe immaginarsela immersa in un parco talmente rigoglioso e ricco di specie da meritarsi l’appellativo di Genoardo, ovvero “paradiso sulla terra”.

La volle re Guglielmo I verso il 1165 come “castello” di delizie appena fuori le mura di Palermo, cercando di superare in magnificenza il padre Ruggero II. Al-Aziz: lo conferma il nome stesso, poi diventato Zisa, che tradisce l’impronta araba onnipresente e mai cancellata dai Normanni. Il palazzo è un inno alle tecniche costruttive più avanzate disponibili all’epoca: per questo luogo di svago furono ingaggiate maestranze nordafricane che idearono un grande padiglione dotato di innovative opere di aerazione e canalizzazione delle acque. Di quei prodigi d’ingegneria oggi restano solo volumi simmetrici, nudi e rigorosi, una purezza che è solo il frutto dello scorrere del tempo. Dell’epoca più sfarzosa della Zisa resta soprattutto la Sala della Fontana, una sinfonia di marmi, mosaici e muqarnas accarezzati dal musicale scorrere dell’acqua.

Anche la peschiera antistante il palazzo della Ziza aveva un compito preciso: quello di rinfrescare l’aria proveniente dal mare.

Riconosciuti come i protagonisti di una delle corti più ammirate del Medioevo, i sovrani normanni di Sicilia, accanto alla tradizionale fama di guerrieri, uniscono anche quella di committenti di prestigiosi e raffinati edifici civili e religiosi.

Il gran conte Ruggero e i suoi discendenti nell’intento di creare “un paesaggio ideale”, realizzarono nella grande Piana di Palermo un immenso Parco Reale. All’interno di questa vasta area, che si estendeva intorno alla città e comprendeva il territorio di Monreale e di Parco (l’odierna Altofonte) denominata poi “Genoardo” cioè Paradiso della terra, gli Altavilla promossero l’edificazione dei loro “Sollazzi Regi” (luoghi di delizie) splendide dimore di svago e di riposo circondate da magnifici giardini dalla vegetazione lussureggiante, padiglioni di caccia, laghi artificiali e peschiere.

Tra il 1165 e il 1180 viene portata a compimento da maestranze musulmane provenienti probabilmente da Sousse e da Kairouan, la più significativa espressione di tale tipologia di edifici, “la Zisa” , così detta dal termine arabo “El-Aziz” cioè la “Splendida”.

Le prime notizie, indicanti il 1165 come data d'inizio della costruzione della Zisa, sotto il regno di Guglielmo I (detto "Il Malo"), ci sono state tramandate da Ugo Falcando nel Liber de Regno Siciliae. Sappiamo da questa fonte che nel 1166, anno della morte di Guglielmo I, la maggior parte del palazzo era stata costruita “mira celeritate, non sine magnis sumptibus” (lett. "con straordinaria velocità, non senza ingenti spese) e che l'opera fu portata a termine dal suo successore Guglielmo II (detto "Il Buono") (1172-1184), subito dopo la sua maggiore età.

L'appellativo Mustaʿizz è riferito, secondo Michele Amari, a Guglielmo II, anche in un'iscrizione in caratteri naskhī nell'intradosso dell'arcata d'accesso alla Sala della Fontana.

Un'altra iscrizione, invece, ben più famosa – in caratteri cufici – è tutt'oggi conservata nel muretto d'attico del palazzo, tagliata ad intervalli regolari nel tardo medioevo, quando la struttura fu trasformata in fortezza. Alla luce di queste fonti, la maggior parte degli studiosi sono concordi nel fissare al 1175 la data di completamento dei lavori del solatium reale.

Fino al XVII secolo il palatium non venne sostanzialmente modificato, come ci testimonia la descrizione del 1526 fatta dal monaco bolognese Leandro Alberti, che visitò la Zisa in quell'anno. Significativi interventi di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni de Sandoval e Platamone, cavaliere dell'Alcantara, marchese di San Giovanni la Mendola, príncipe di Castelreale, signore della Mezzagrana e della Zisa, acquistò la Zisa, adattandola alle nuove esigenze abitative. In occasione di questi lavori fu aggiunto un altro piano, chiudendo il terrazzo, e si costruì, nell'ala destra del palazzo, secondo la moda dei tempi, un grande scalone, resecando i muri portanti e distruggendo le originarie scale d'accesso.

Successivamente, nel 1806, la Zisa pervenne ai Principi Notarbartolo, rappresentanti della più antica nobiltà siciliana ed eredi della Casa Ducale dei Sandoval de Leon, che ne fecero propria residenza effettuando diverse opere di consolidamento, quali il risarcimento di lesioni sui muri e l'incatenamento degli stessi per contenere le spinte delle volte. Venne trasformata la distribuzione degli ambienti mediante la costruzione di tramezzi, soppalchi, scalette interne e nel 1860 fu ricoperta la volta del secondo piano per costruire il pavimento del padiglione ricavato sulla terrazza.

Nel 1955 il palazzo fu espropriato dallo Stato, ed i lavori di restauro, iniziati immediatamente, vennero poco dopo sospesi. Dopo un quindicennio d'incuria ed abbandono nel 1971 l'ala destra, compromessa strutturalmente dai lavori del Sandoval e dagli interventi di restauro, crollò.

Il progetto per la ricostruzione strutturale, il restauro filologico e la fruizione, venne affidato al Prof. Giuseppe Caronia, il quale, dopo circa vent'anni di appassionato lavoro e rilettura integrale, nel giugno del 1991, restituì alla storia, uno dei monumenti più belli e suggestivi della civiltà siculo normanna. Durante l'opera di restauro il Prof. Caronia invitò più volte a visitare il cantiere il direttore editoriale della casa editrice LaterzaEnrico Mistretta, che al termine dei lavori fece raccogliere un ampio materiale illustrativo a documentazione delle varie fasi del restauro, materiale adeguatamente commentato dallo stesso Caronia, pubblicando quindi nel 1982 uno splendido volume di grande formato.

Dal 1991 la Zisa ospita il Museo d'arte islamica.

La Zisa, edificata con conci di pietra ben squadrati presenta un impianto a forma di parallelepipedo di semplice geometria, interrotta ai fianchi da leggeri avancorpi turriti (le torri del vento).

Distribuito orizzontalmente in tre elevazioni, ha il paramento murario esterno  decorato da grandi arcate cieche ogivali a più incassi. Nel fronte principale, rivolto a nord-ovest, si aprono i tre grandi fornici ogivali di accesso al palazzo, di cui quello centrale, più ampio, è sottolineato da una doppia ghiera ed è sormontato dall’elegante stemma marmoreo della famiglia Sandoval.

I due ordini superiori che interessano il fronte principale e i due fronti laterali erano dotati di finestre bifore con colonnina centrale e oculo nel pennacchio degli archi (oggi modificati). Una cornice d’attico trasformata in merlatura presumibilmente tra il XIV e il XV secolo chiude in alto la costruzione, conferendogli l’aspetto di un castello. 

Il palazzo della Zisa, concepito come dimora estiva dei re, rappresenta uno dei migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna con ambienti tipici della casa normanna(compresa la doppia torre cuspidata) e decorazioni e ingegnerie arabe per il ricambio d'aria negli ambienti. Si tratta, infatti, di un edificio rivolto a nord-est, cioè verso il mare per meglio godere delle brezze più temperate, specialmente notturne, che venivano captate dentro il palazzo attraverso i tre grandi fornici della facciata e la grande finestra belvedere del piano alto. Questi venti, inoltre, venivano inumiditi dal passaggio sopra la grande peschiera antistante il palazzo e la presenza di acqua corrente all'interno della Sala della Fontana dava una grande sensazione di frescura. 

L'ubicazione del bacino davanti al fornice d'accesso, infatti, è tutt'altro che casuale: esso costituiva una fonte d'umidità al servizio del palazzo e le sue dimensioni erano perfettamente calibrate rispetto a quelle della Zisa. Anche la dislocazione interna degli ambienti era stata condizionata da un sistema abbastanza complesso di circolazione dell'aria che attraverso canne di ventilazione, finestre esterne ed altri posti in riscontro stabilivano un flusso continuo di aria.

La stereometria e la simmetria del palazzo sono assolute. Esso è orizzontalmente distribuito in tre ordini, il primo dei quali al piano terra è completamente chiuso all'esterno, fatta eccezione per i tre grandi fornici d'accesso. Il secondo ordine è segnato da una cornice marcapiano che delinea anche i vani delle finestre, mentre il terzo, quello più alto, presenta una serie continua di arcate cieche. Una cornice con l'iscrizione dedicatoria chiudeva in alto la costruzione con una linea continua. Si tratta di un'iscrizione in caratteri cufici, molto lacunosa e priva del nome del re e della data, che è tuttora visibile nel muretto d'attico del palazzo. Questa iscrizione venne, infatti, tagliata ad intervalli regolari per ricavarne merli nel momento in cui il palazzo fu trasformato in fortezza.

Al piano terra oltrepassando il lungo vestibolo voltato si giunge alla suggestiva Sala della Fontana, esempio  mirabile di morbida architettura orientale. La Sala è un ambiente quadrato, le cui pareti, scandite da nicchie e colonnine, sono rivestite di marmi e mosaici. 

La parete di fondo presenta un raffinato pannello musivo racchiuso da una cornice costituita da piccoli motivi floreali stilizzati, pure in mosaico sono tre medaglioni dal fondo d’oro, quello centrale con arcieri e i due laterali con animali disposti ai lati di palme stilizzate. Rilievo particolare rivestono i magnifici soffitti che presentano decorazioni tipicamente arabe con volte a stalattiti (muqarnas). 

La seconda elevazione, per la smisurata altezza della sala della fontana e del vestibolo, risulta limitata alle due ali laterali comunicanti attraverso un lungo corridoio. Nella terza elevazione si ripropone lo stesso schema planimetrico del piano sottostante. Esso è costituito da un grande salone centrale con una contigua sala che si affaccia nel prospetto principale. 

Ai lati dell’edificio, le due torri del vento, svolgevano la funzione di  incanalare le correnti costringendoli ad attraversare il palazzo e a creare un effetto camino che insieme alla presenza dell’acqua, assicurava nelle afose notti dell’estate palermitana il massimo confort bioclimatico.

Il primo piano si presenta di dimensioni più piccole, poiché buona parte della sua superficie è occupata dalla Sala della Fontana e dal vestibolo d'ingresso, che con la loro altezza raggiungono il livello del piano superiore. Esso è costituito a destra e a sinistra della Sala della Fontana dalle due scale d'accesso che si aprono su due vestiboli. Questi si affacciano con delle piccole finestre sulla parte alta della Sala, affinché, anche dal piano superiore, si potesse osservare quanto accadeva nel salone di ricevimento. Questo piano costituiva una delle zone residenziali del palazzo ed era destinato molto probabilmente alle donne.

Il complesso del “Sollazzo” comprende una cappella dedicata alla Santissima Trinità. Nel 1803, all’originaria cappella del palazzo venne affiancata la piccola chiesa di Gesù, Maria e Santo Stefano. Rimasto possedimento del regio demanio per molti anni, a partire dal XIV secolo il palazzo e le terre ad esso connesse furono di volta in volta concessi a privati, in genere personalità di alto rango, che lo usarono come dimora di tenuta agricola. 

Nel 1624 in occasione della grande epidemia di peste che colpì la città, l’edificio venne utilizzato come deposito di materiale sospetto sottoposto a quarantena. Soltanto un decennio dopo, nel 1635, il palazzo era ridotto così male che fu ceduto gratuitamente a don Giovanni de Sandoval, compratore all’asta dei terreni circostanti, che per ciò ottiene il titolo di principe di Castel Reale. 

La famiglia de Sandoval ne promuove subito diversi interventi di restauro che salvano il palazzo dalla completa rovina ma ne stravolgono l’originario assetto architettonico. Il palazzo subisce profonde trasformazioni, e vengono realizzate delle aggiunte che conferiscono all’edificio le caratteristiche tipologiche del palazzo signorile seicentesco. 

Tuttavia anche se quantitativamente rilevanti gli interventi dei Sandoval non inficiano del tutto le peculiarità dell’antico edificio normanno, facendo si che la straordinaria Sala della Fontana, venga lasciata pressoché inalterata con i suoi  elementi scultorei, architettonici e musivi originari. Mentre il giardino circostante non perde le sue connotazioni originarie conservando gran parte del suo carattere lussureggiante.

Agli inizi del XIX secolo l’intero complesso  monumentale pervenne per via ereditaria ai Notarbartolo principi di Sciara che vi apportarono ulteriori rimaneggiamenti per farne la loro residenza.

Nel 1951 la Zisa viene espropriata e acquisita dal demanio regionale, e nel corso degli anni Cinquanta si svolgono le prime opere di rimozione delle strutture realizzate in epoca barocca.

L’ala destra, già compromessa dagli interventi dei Sandoval, è stata ricostruita negli ultimi decenni, dopo il crollo delle strutture e del paramento murario, verificatosi nel 1971. Dopo i recenti (e discutibili) interventi di restauro e di ricostruzione patrocinati dalla Soprintendenza regionale ai beni culturali di Palermo, l’antico palazzo e i suoi giardini (anche se il verde superstite è veramente modesto) sono stati finalmene restituiti alla pubblica fruizione.

Palazzina Cinese

Nel 1799 don Giuseppe Riggio principe di Aci, con delega di sua Maestà re Ferdinando, richiede la concessione della casina dei Lombardo baroni della Scala, sita nella Piana dei Colli e contestualmente, diede mandato all’architetto regio Giuseppe Venanzio Marvuglia di valutare la fabbrica al fine di stabilire il giusto censo annuale. 

Ma la Casina dei Colli, che aveva subito incantato il re e la regina, mal si adattava ad una residenza reale, perciò re Ferdinando, riparato in Sicilia nel dicembre del 1798 dopo l’occupazione napoleonica, ne dispose una riconfigurazione strutturale che doveva comunque lasciare invariato il carattere esotico e lo stile orientaleggiante voluto dal primo ideatore e committente, il barone Benedetto Lombardo della Scala.

La Palazzina - I lavori vengono affidati allo stesso architetto Venanzio Marvuglia, che vi realizza una delle costruzioni più originali e raffinate che si possono ammirare oggi in Sicilia.

La fabbrica originaria, edificata in stile prettamente orientale, si presentava in muratura con ballatoi lignei in due ordini, delle ringhiere dipinte e coperta da tetti a padiglione. Le opere di abbellimento e gli interventi strutturali operati dal noto architetto fino al 1802 e successivamente dal figlio Alessandro Emanuele, conferirono all’intera costruzione originalità e grande pregio architettonico. Furono modificate le coperture sostituendo i tetti laterali con due terrazze simmetriche che presentano delle colonne che sorreggono architravi lignee traforate, mentre nella parte centrale viene eretta una costruzione con grande copertura a padiglione su tamburo ottagonale sormontata da pinnacolo a doppio calice rovesciato, detta “Specola o Stanza dei Venti”.

Nei prospetti nord e sud viene aggiunto un portico sorretto da sei colonne in marmo disposte a semicerchio, coronato da tetto a pagoda; ai fianchi della casina, su progetto di Giuseppe Patricolo, vengono agganciate due torrette con scale elicoidali collegate attraverso passaggi aerei ai ballatoi del piano rialzato e del piano nobile.

L’edificio oggi appare come un originale ibrido stilistico con prevalenza di riferimenti al gusto orientale, ma con diversi elementi in stile neoclassico, espressione della sensibilità eclettica e del gusto dei tempi: inoltre decorazioni policrome con ocre gialle, rosse e grigie conferiscono ai prospetti della palazzina un’originalità estetica di ineguagliata bellezza.

Gli interni - Si compone di cinque livelli: al seminterrato troviamo la grande sala da ballo in stile Luigi XVI, alcuni disimpegni, la sala da bagno di re Ferdinando, una sala da buffet chiamata “sala delle codine” stranamente decorata, e l’ambiente che contiene l’originale meccanismo ligneo a saliscendi della superiore sala da pranzo, “la tavola matematica”, progettata dallo stesso Marvuglia.

Al piano rialzato si trova il salone di rappresentanza alla cinese, detta anche sala delle udienze, con ai lati gli ambienti privati del re (la sala da gioco, la sala da pranzo e la camera da letto).

Al primo piano gli alloggi dei cavalieri e delle dame, e mezzanini per il numeroso personale di servizio; al secondo piano vi troviamo le stanze più belle, gli alloggi della regina Maria Carolina, con il “salotto turco”, la saletta “ercolana” in stile impero, e la camera da letto con alcova in stile neoclassico con il magnifico bagno chiamato “gabinetto delle pietre dure”. Infine l’ultimo livello, cui si accede attraverso quattro scale a chiocciola in ferro poste sulle terrazze laterali, è la già citata “Stanza dei Venti”, l’ambiente posto al termine dell’intera costruzione, originariamente destinato ad osservatorio.

Decorazioni pittoriche e arredi - Ma sono le magnifiche decorazioni pittoriche degli interni che destano l’ammirazione dei visitatori. Tutto è improntato al gusto per l’esotico che va dallo stile “cinesizzante”, al turco, ma anche a quello pompeiano e neoclassico.
Lo splendido ed eclettico apparato decorativo interno della residenza vide la partecipazione dei maggiori pittori palermitani del periodo e di artisti napoletani: dai famosi Giuseppe Velasco ed Elia Interguglielmi, a Vincenzo Riolo, Rosario Silvestri, Raimondo Gioia, Giuseppe Patania e Benedetto Cotardi pittore adornista di origini napoletane molto attivo a Palermo nell’ultimo trentennio del Settecento.

I meravigliosi arredi della palazzina sono di una ricchezza e di un fascino straordinario, lo stile che li connota è fantasioso ed eclettico, molti si ispirano alla maniera cinese, una moda che aveva contagiato tutta l’aristocrazia siciliana; infatti non c’era casa patrizia dell’isola dove non si trovava almeno un angolo alla “cinese”. Altri splendidi esemplari di arredi testimoniano invece il gusto per l’antichità classica legato alle scoperte degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei promossi dal Sovrano.

La Palazzina Cinese nel corso degli anni è stata oggetto di diversi interventi di restauro, sia strutturali, che nelle decorazioni interne ed esterne; gli ultimi sono stati completati nel 2008 ed hanno consentito di recuperare non soltanto i raffinati elementi architettonici della Casina, ma soprattutto gli splendidi elementi decorativi (tappezzerie, affreschi, pavimenti), nonché gli arredi, il mobilio, e tanti manufatti che caratterizzavano i diversi ambienti della magnifica residenza.

Il Giardino - Sul retro della Casina si trova un delizioso giardino all’italiana molto curato, con delle siepi che formano dei labirinti, suggestive fontane e alberi secolari.

Nelle dipendenze della palazzina, antica sede delle cucine e delle stalle, trova posto il museo etnografico Pitrè, un museo interamente dedicato alle arti e alle tradizioni popolari siciliane fondato nel 1909 dal professore Giuseppe Pitrè.

Castello Utveggio

Il Castello Utveggio è ormai parte integrante e caratterizzante del "più bel promontorio del mondo" come Goethe definì Monte Pellegrino nel suo celebre "Viaggio in Italia".

Dal Primo Pizzo,a quota 346 metri, il Castello domina la città di Palermo e dalle sue finestre la vista spazia dalla Conca d'Oroai monti che la racchiudono, al Golfo che va da Capo Zafferano sino alla punta di Sferracavallo a, talvolta, , la sommità dell'Etna e le isole Eolie.

Il Castello nasce dall’idea del Cavaliere Michele Utveggio di costruire un grande albergo esclusivo. Il Grand Hotel Utveggio fu inaugurato nel 1934, ma non ebbe una grande fortuna– nonostante l’innovatività di una struttura ricettiva “completa”, dotata perfino di un sistema autonomo per l’approvvigionamento idrico.

L'intera struttura - l'edificio principale, la strada di accesso con il ponte, l'arredo esterno, i grandi serbatoi di acqua potabile, l'impianto di sollevamento, i magazzini e l'arredo esterno - fu realizzata in soli 5 anni dall’impresa "Utveggio e Collura", che a Palermo aveva già realizzato importanti opere di edilizia pubblica e privata, come Il Cine-teatro Utveggio di Piazza Massimo, lo Stadio della Favorita, etc..

Il Grand Hotel non ebbe alcuna fortuna, se non per pochissime stagioni. Già negli anni precedenti al secondo conflitto mondiale, la struttura cadde in declino e la situazione precipitò con la guerra:l'area del Primo Pizzo diventò sede della contraerea fascista prima, di quella tedesca poi, ed infine di quella americana. Il Castello, rimasto in stato di totale abbandono, divenne oggetto di saccheggio ed atti vandalici.

La Regione Siciliana, divenuta proprietaria per esproprio del complesso, ha avviato nel 1984 il recupero dell'edificio provvedendo a ripristinare gli arredi interni ed esterni, dotando la struttura delle più avanzate tecnologie informatiche e di comunicazione, e destinandolo ad una Scuola di Eccellenza, di alta formazione manageriale e di ricerca socio-economica: il CERISDI, Centro Ricerche e Studi Direzionali.

Il Castello Utveggio, gioiello del Liberty palermitano è collocato su un'area, compreso il parco circostante, di circa sette ettari e si sviluppa su tre piani come segue:

Piano terra Dalla Hall si accede alla Sala Convegni, che può accogliere più di 200 persone. Al piano terra si trovano anche altre sale e i locali di servizio, la sala ristorante e il bar. All'esterno il colonnato ed il belvedere da cui si può godere una delle più esclusive vedute del golfo di Palermo.

Al primo piano sono ubicate le aule didattiche ed i locali di supporto alla didattica: il centro dispone di due aule ad anfiteatro (rispettivamente 80 e 40 posti), un’aula attrezzata per la video-conferenza, due aule da 30 posti, l'aula Informatica, l'Emeroteca e la Biblioteca, dotata di oltre 6000 volumi e di postazione Internet. Sempre in questo piano trovano posto l’ufficio dell’amministrazione e il centro stampa.

Il secondo piano ospita gli uffici del CERISDI. Vi si trovano l'ufficio del Presidente, del Vicepresidente e del Direttore, la Sala Riunioni del Consiglio di Amministrazione, la Segreteria, l'Ufficio Legale e gli uffici dei responsabili delle diverse aree d'attività del Centro.

Al terzo piano si trovano 27 camere, perfettamente arredate in stile Liberty, per un totale di circa 50 posti letto. Riveste particolare importanza per il Centro la Suite dove è stato ospitato Sua Santità Giovanni Paolo II, in visita a Palermo nel 1995. In ricordo, da allora, la Suite è rimasta immutata. Per il gran pregio architettonico del Castello e per il panorama che dalle sue terrazze è possibile godere, il centro offre la disponibilità alla visita per turisti e visitatori che salgono su Monte Pellegrino. 

Santuario di Santa Rosalia

Il santuario di Santa Rosalia fu costruito intorno al XVII secolo sulla base di precedenti edifici religiosi in onore della nuova santa patrona della città.

Il santuario si trova all'interno di un anfratto di roccia, quasi sulla cima del monte Pellegrino, all'interno è presente una grossa quantità d'acqua che viene canalizzata verso l'esterno attraverso un curioso quanto elaborato sistema di raccolta.

Il santuario custodisce la memoria del prodigioso ritrovamento delle ossa di santa Rosalia.

Nel 1180, Il Senato Palermitano edificò un tempio sotto il titolo di Santa Rosalia presso l'antro e la preesistente chiesa bizantina retta da monaci dell'Ordine benedettino, religiosi che avevano assistito spiritualmente la vergine durante gli anni dell'eremitaggio. L'area in epoca fenicia era nota come sede pagana di un piccolo santuario rupestre.

Rosalia, figlia del duca Sinibaldo di Quisquina e delle Rose, nipote per parte di madre di re Ruggero d’Altavilla, crebbe nel XII secolo alla corte dello zio, a Palermo. Era molto bella e suscitava interessi terreni, fra i tanti quello del principe Baldovino, all’epoca ospite di riguardo alla corte di Ruggero. La leggenda narra che, durante una battuta di caccia grossa, sul monte Pellegrino, la montagna sopra Palermo, un leone stava per uccidere re Ruggero; Baldovino, coraggiosamente, lo salvò uccidendo il leone. Re Ruggero chiese a Baldovino di indicare egli stesso un premio per la sua eroica azione, e quest’ultimo chiese la mano di Rosalia, che, in seguito alla proposta di matrimonio, fuggirà gettando nello sconforto la madre, lo zio e l’intera guarnigione di stanza a Palazzo Reale (o dei Normanni).Vissuta per poco tempo alla corte di Ruggero II, in seguito alla morte del re, chiese ed ottenne il permesso di vivere da eremita in una grotta sul monte Quisquina, dove trascorse dodici anni della sua vita. 

Successivamente, si trasferì in una grotta sul monte Pellegrino, dove visse “a vita di contemplazione” fino alla morte. Il suo culto si collega ad un evento particolare accaduto a Palermo in occasione di un’epidemia di peste. Il 7 maggio del 1624, infatti, attraccò nel porto della città un vascello proveniente da Tunisi, sospettato di essere stato contagiato dal morbo. Ben presto era stato dato l’allarme ma il viceré, mal consigliato, si lasciò convincere e fece scaricare dal vascello il carico. Palermo si trasformò in un lazzaretto sotto il cielo. Il resto è leggenda, mito e prodigio. Il miracolo, invece, fu attribuito alle reliquie di Santa Rosalia, le quali, portate in processione, impedirono l’ulteriore diffondersi dell’epidemia.

Sebbene non elevata canonicamente agli onori degli altari, Rosalia rappresentava in quegli anni, la figura celeste di riferimento per le popolazioni locali. Gualtiero Offamilio, trascinato dal sentimento popolare effettuò solo una "canonizzazione vescovile" limitata e riconosciuta territorialmente. Il potere di inserirla nel martirologio romano spetterà solo a Papa Urbano VIII il 26 gennaio 1630 dopo le ben note fasi del ritrovamento e del trasferimento delle reliquie in cattedrale, vicende subordinate al riconoscimento dell'autenticità delle stesse e del miracolo riconosciuto come cessazione della peste da parte dell'arcivescovo e cardinale Giannettino Doria.

Il canonico Antonino Mongitore nelle sue opere elenca svariati luoghi di culto cittadini dedicati alla figura di Rosalia, spesso legati alle vicende del suo passaggio terreno. Il suo nome è doppiamente menzionato nelle acclamazioni e invocazioni della liturgia.

Atti notarili del 18 aprile 1257 sono le prime fonti scritte, documenti conservati presso gli archivi del monastero dell'Ordine benedettino della chiesa di Santa Maria dell'Ammiraglio detta la «Martorana».

L'attaccamento, la devozione, la venerazione, il culto subiscono un lento affievolimento, per riaffiorare timidamente nei momenti di maggior scoramento. L'eremo di monte Pellegrino, unico tempio celebrativo superstite durante la peste del 1474, fu restaurato.

Le spoglie furono scoperte il 15 luglio 1624 grazie all'indicazione di una donna, Girolama La Gattuta, che, salita sul Monte Pellegrino per sciogliere un voto il 26 maggio 1624, ebbe la duplice visione della Madonna e di santa Rosalia, durante la quale le fu indicato dove trovarle. Il 13 febbraio 1624 mentre la peste flagellava la città, il giovane Vincenzo Bonelli, disperato per la morte della moglie, sale sul monte per suicidarsi. Fermato nell'insano intento dalla visione della santa, riceve indicazioni per fare una processione. Fu così che il 9 giugno 1625, durante il corteo religioso con le reliquie della santa, al canto del Te Deum Laudamus, la peste cessò e Palermo fu salva. Il senato palermitano, come segno di ringraziamento per la peste sconfitta, le dedicò il santuario.  

Varcato l'atrio scoperto si entra all'interno della cavità della grotta, dove sulla sinistra sotto un baldacchino di forme barocche è custodita la sacra immagine della Santa, scolpita da Gregorio Tedeschi un artista fiorentino, intorno al 1630. Santa Rosalia è rappresentata nell'estasi del suo trapasso. Circa un secolo dopo, Carlo III di Borbone in occasione delle sue nozze palermitane, dono' alla patrona di Palermo la sontuosa veste dorata che la ricopre. Davanti a questa immagine Johann Wolfgang von Goethe, attratto dalle forme elette del simulacro, durante la sua visita vespertina, scrisse un ispirato elogio sul suo "viaggio in Italia".

«Sembrava come rapita in estasi, gli occhi semichiusi, il capo appoggiato negligentemente alla mano destra carica d'anelli. Non mi saziavo di contemplare quell'immagine; mi sembrava che ne emanasse uno straordinario fascino. Il manto che la riveste è di lamiera dorata e imita benissimo una stoffa riccamente tessuta d'oro. La testa e le mani sono di marmo bianco, non oso dire di stile elevalo, tuttavia rese con tanta naturalezza e grazia da far credere che la figura respiri e si muova. 
Un angioletto le sta accanto e sembra ventilarla con lo stelo d'un giglio.» Johann Wolfgang von Goethe

Nel santuario sono presenti molti ex voto depositati dai fedeli.

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Agosto 2018