- Teatro
Massimo
Il Teatro
Massimo Vittorio Emanuele di Palermo è
il più grande edificio
teatrale lirico d'Italia,
e uno dei più grandi d'Europa,
terzo per ordine di grandezza architettonica dopo l'Opéra
National di Parigi e
la Staatsoper di Vienna.
Ambienti di rappresentanza, sale, gallerie e scale monumentali circondano il
teatro vero e proprio, formando un complesso architettonico di grandiose
proporzioni.
Alla sua
apertura, per monumentalità e dimensione (oltre 7.730 metri quadrati),
suscitò le invidie di molti, come si può facilmente verificare leggendo i
giornali italiani dell'epoca. Di gusto neoclassico-eclettico,
sorge sulle aree di risulta della chiesa
delle Stimmate e del monastero
di San Giuliano che vennero demoliti alla fine dell'Ottocento
per fare spazio alla grandiosa costruzione. I lavori furono iniziati nel 1875 dopo
vicende travagliate che seguirono il concorso del 1864 vinto
dall'architetto Giovan
Battista Filippo Basile, alla morte del quale subentrò il figlio
Ernesto Basile, anch'egli architetto, il quale accettò di ultimare
l'opera in corso del padre su richiesta del Comune di Palermo, completando
anche i disegni necessari per la prosecuzione dei lavori del Teatro.
L'impresa
di costruzioni che costruì l'edificio del Teatro Massimo apparteneva a due
soci, Giovanni Rutelli e Alberto Machì. L'architetto cav. Giovanni Rutelli
apparteneva a un'antica famiglia italiana di origine britannica con
tradizioni anche nel settore dell'architettura fin
dalla prima metà del settecento palermitano con l'architetto Mario Rutelli,
suo bisnonno; Giovanni, sotto l'affidamento dell'architetto G.B.F. Basile,
diresse dall'inizio e fino al completamento tutti i lavori di costruzione
dell'edificio con la propria direzione tecnica e costruttiva. Rutelli, già
costruttore civile e imprenditore molto richiesto, era pure un profondo
esperto sia delle antiche
costruzioni greco-romane che della scienza stereotomica,
conoscenze ereditate dalla stessa famiglia composta da diversi architetti e
imprenditori provenienti dalla tradizionale scuola siciliana degli architetti di
impronta classica e barocca,
ma anche da artisti puramente classici della scultura,
conoscenze essenziali e preziose per poter erigere un edificio-tempio del
genere e mole come il Teatro Massimo, vero monumento dall'autentico stile
greco-romano; si completò così il fenomenale progetto del geniale Giovan
Battista Filippo Basile.

Da
ricordare che G.B.F.
Basile aveva organizzato dei corsi di formazione d'arte
classica sia per l'intaglio della pietra che per la decorazione atti
a formare un adeguato numero di esperti maestri preparati a dare le volute
forme, e quindi a poter rifinire nei minimi dettagli richiesti tutti gli
innumerevoli blocchi di pietra viva da taglio necessari all'edificazione
dell'imponente teatro,
a parte le precise ed originali decorazioni esterne da apportare in seguito
(durante quel periodo il numero di maestri esperti intagliatori a
disposizione era estremamente esiguo poiché le note Maestranze dei
tempi erano già andate scomparendo); per la costruzione, di maestri
dell'intaglio se ne impiegarono addirittura circa centocinquanta; fu
l'occasione da parte del Rutelli di ideare anche una rivoluzionaria gru azionata
da un motore
a vapore e caratterizzata da un ingegnoso sistema di
pulegge/carrucole e cavi che s'impiegò effettivamente e con successo
durante l'edificazione del Teatro Massimo V. E. per il sollevamento dei
grossi massi, capitelli e colonne (capacità di sollevamento fino ad otto
tonnellate di peso) a considerevoli altezze per quel tempo (fino a metri 22
d'altezza), il che poté accelerare anche il proseguimento dei lavori. Di
detta gru il Comune di Palermo custodisce oggi il relativo prototipo in
scala donato al tempo dallo stesso Giovanni Rutelli. Il 16 maggio 1897
avvenne l'apertura ufficiale del Teatro con Falstaff
(Verdi). Tra i direttori d'orchestra più celebri dell'800 che hanno
diretto al Teatro Massimo V.E. di Palermo, si annovera il M° Antonino
Palminteri, presente sul podio nella stagione a cavallo degli anni
1897 e 1898,
portando in scena le opere: Aida e La
traviata di Giuseppe
Verdi, Lohengrin di Richard
Wagner, Norma di Vincenzo
Bellini.
Nel 1903 avviene
la prima assoluta di Barberina di Gino
Marinuzzi (1882-1945), nel 1910 di Mese
mariano di Giordano, nel 1912 di La
baronessa di Carini di Giuseppe
Mulè, nel 1913 di Mimì
Pinson di Ruggero
Leoncavallo, nel 1941 di La
zolfara di Mulè con Pia
Tassinari e Giuseppe Valdengo, nel 1955 del
successo di Il
cappello di paglia di Firenze di Nino
Rota con Nicola
Filacuridi ed Alfredo
Mariotti per la regia di Corrado
Pavolini, nel 1963 di Il
diavolo in giardino di Franco
Mannino con Clara
Petrella, Jolanda
Gardino, Ugo
Benelli ed Enrico
Campi e nel 1967 di Il
gattopardo di Angelo
Musco (compositore) con Ottavio
Garaventa e Nicola
Rossi-Lemeni.
Nel 1997 venne
riaperto dopo un lunghissimo periodo d'abbandono iniziato nel 1974 per
motivi di restauro procrastinato. Il lungo periodo di chiusura fu gestito
dal sovrintendente Ubaldo
Mirabelli dal 1977 al 1995.
La
simmetria compositiva attorno all'asse dell'ingresso, la ripetizione
costante degli elementi (colonne, finestre ad archi), la decorazione
rigorosamente composta, definiscono una struttura spaziale semplice ed una
volumetria chiara, armonica e geometrica, d'ispirazione greca e romana. I
riferimenti formali di quest'edificio sono, oltre che nei teatri antichi,
anche nelle costruzioni religiose e pubbliche romane quali il tempio, la basilica civile
e le terme
soprattutto nello sviluppo planimetrico dei volumi e nella copertura.
Sul
frontone della facciata si può leggere il motto "L'arte rinnova i
popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a
preparar l'avvenire".

L'esterno
del teatro, seguendo la moda dell'attualizzazione
delle architetture antiche, presenta un pronao corinzio esastilo
elevato su una monumentale scalinata ai lati della quale sono posti due
leoni bronzei con le allegorie della Tragedia dello scultore Benedetto
Civiletti e della Lirica dello scultore Maestro Cav. Mario
Rutelli, figlio dello stesso Architetto Giovanni (Mario Rutelli è,
fra le centinaia di sue opere scultoree, l'autore della quadriga che orna il
pronao del Politeama
Garibaldi, l'altro grande teatro di Palermo); in alto l'edificio è
sovrastato da un'enorme cupola emisferica.
L'ossatura della cupola è una struttura metallica reticolare che s'appoggia
ad un sistema di rulli a consentirne gli spostamenti dovuti alle variazioni
di temperatura.
I due
gruppi bronzei con i leoni che fiancheggiano la maestosa scalinata
raffigurano la Tragedia, opera di Benedetto Civiletti, e la Lirica, opera
invece di Mario Rutelli, autore anche della Quadriga che sovrasta il
Politeama Garibaldi. Al termine della scalinata, un pronao con sei colonne
corinzie accoglie lo spettatore. Il fregio in alto reca la scritta:
“L’Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il
diletto ove non miri a preparar l’avvenire”.
La cupola
che sovrasta la sala ha un diametro di 28,73 metri ed è composta da una
struttura di ferro coperta da squame bronzee, sovrastata da un grande vaso
anch’esso d’ispirazione corinzia. Ad Antonio Ugo sono dovuti il busto di
Giuseppe Verdi e quello di Giovanni Battista Filippo Basile, mentre diversi
rilievi scultorei sono opera di Salvatore Valenti. Tra i pittori che hanno
decorato le sale del Teatro, Ettore De Maria Bergler, Michele Corteggiani,
Luigi Di Giovanni, Rocco Lentini, Giuseppe Enea, Enrico Cavallaro, mentre
Giuseppe Sciuti raffigurò il corteo dell’incoronazione di Ruggero II nel
grande sipario decorato.
Nei primi
decenni di attività il teatro fu affidato ad imprese private, spesso
diverse di anno in anno, fino al 1935, quando con un decreto del Ministro
della Cultura Popolare venne proclamato Ente Teatrale Autonomo, e
dall’anno successivo assunse la denominazione ufficiale di Ente Autonomo
Teatro Massimo di Palermo. Nel 1974 il Teatro viene chiuso per lavori di
ristrutturazione, che si protraggono fino al 12 maggio 1997, quando il
teatro viene riaperto con un concerto diretto nella prima parte da Franco
Mannino e nella seconda parte da Claudio Abbado con i Berliner
Philharmoniker.

L'apparato
architettonico della grande sala si deve all'architetto Ernesto Basile,
figlio di Giovan Battista, autore del complesso generale dell'opera.
Ernesto, raffinatissimo rappresentante del Liberty europeo,
si servì per le decorazioni e i particolari della valida opera del Ducrot,
soprattutto per le raffinatissime composizioni dei palchi e degli arredi.
L'interno è decorato e dipinto da Rocco
Lentini, Ettore
De Maria Bergler, Michele
Cortegiani, Luigi
Di Giovanni. La sala, a ferro di cavallo, con cinque ordini di palchi
e galleria (loggione). La platea dispone di uno speciale soffitto mobile
composto da grandi pannelli lignei affrescati (i cosiddetti petali) che
vengono mossi da un meccanismo di gestione dell'apertura modulabile verso
l'alto, che consente l'aerazione dell'intero ambiente. Il sistema permette
al teatro di non necessitare di aerazione forzata per la ventilazione e la
climatizzazione interna.
Nella rotonda
del mezzogiorno o sala pompeiana, la sala riservata in origine ai soli
uomini, si può constatare un effetto di risonanza particolarissimo,
appositamente ottenuto dall'architetto tramite una leggera asimmetria della
sala, tale per cui chi si trova al centro esatto della sala ha la percezione
di udire la propria voce amplificata a dismisura, mentre nel resto
dell'ambiente la risonanza è enorme e tale per cui risulta impossibile
comprendere dall'esterno della rotonda quanto viene detto al suo interno.
Il teatro
fu edificato fra il bastione di San Vito e la Porta Maqueda, abbattendo la Chiesa
di San Francesco delle Stimmate e l'annesso convento e la Chiesa
di San Giuliano; la tradizione narra che una suora detta "la
monachella" (la prima Madre Superiora del convento) si aggiri ancora
per le sale del teatro. Alcuni sostengono di aver visto un'ombra di una
suora aggirarsi dietro le quinte e nei sotterranei e, stando alla
tradizione, essa lanci delle vere e proprie maledizioni. Si dice anche che
chi non crede alla leggenda inciampi in un particolare gradino entrando a
teatro, gradino detto appunto "gradino della suora".
Il teatro,
da sempre molto sensibile alle istanze della comunità LGBT, nell'agosto 2015 sigla
un accordo con le parti sindacali con il quale ai propri dipendenti
omosessuali viene riconosciuto il diritto di usufruire dei permessi
matrimoniali per nozze e unioni civili, altrove previsto solo per i
matrimoni etero. È il primo teatro italiano ad equiparare i dipendenti
omosessuali a quelli etero. Già da tempo, in concomitanza con la
settimana delle celebrazioni del pride, illumina le imponenti colonne della
sua facciata con i colori della bandiera
arcobaleno.
Teatro
Politeama

Il Teatro
Politeama Garibaldi (con la parola Politeama si intende un
generico teatro dove si danno rappresentazioni di vario genere, e pertanto
è improprio utilizzarla per riferirsi nello specifico a detto Teatro) si
trova sulla Piazza Ruggero Settimo (a
sua volta usualmente denominata Piazza Politeama).
Nel 1865 il
Comune di Palermo delibera la costruzione del Politeama. Essendo la spesa
superiore alla cifra prevista, viene contattato il banchiere Carlo Galland
che si impegna a costruire oltre a "tre mercati secondo i disegni
dell'architetto Damiani e a costruire, nel locale che indicherà il
Municipio, un Politeama secondo il piano d'arte e disegni preparati
dall'Ufficio tecnico del Municipio" (Capitolato di convenzione tra il
Municipio e il Sig. Carlo Galland, piemontese, per la costruzione dei
mercati e Teatro, 1866). Il concorso interno viene vinto da Giuseppe Damiani Almeyda e
i primi disegni di progetto vengono presentati a metà del 1866 e già a
gennaio del 1867
sono in corso i lavori di scavo. La costruzione del Politeama ha un
inizio affrettato con molte zone oscure, che può essere chiarita solo dalla
conoscenza delle intricate vicende politiche municipali.
Nel 1869 e 1870 sorgono
dei problemi tra il Municipio e l'impresa Galland, ma si decide di
proseguire l'opera, eliminando tutti i lavori di abbellimento. Il cantiere
inoltre era stato chiuso per qualche tempo per fare delle verifiche sulle
condizioni statiche dell'edificio. Essendo stato trovato tutto a perfetta
regola d'arte fu riaperto e si proseguì con i lavori. Il teatro era stato
progettato come teatro diurno all'aperto, ma fu in un secondo tempo deciso
di realizzare una copertura. Il 7 giugno 1874 fu
inaugurato anche se incompleto e ancora privo di copertura, la prima
rappresentazione fu I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo
Bellini. La copertura, considerata per l'epoca opera di grande
ingegneria, venne realizzata in metallo dalla Fonderia Oretea nel
novembre del 1877. Gli ultimi
lavori, di abbellimento, furono realizzati nel 1891 in
occasione della grande Esposizione Nazionale che si teneva quell'anno a
Palermo.
Dal 1910 al
dicembre del 2006 il Ridotto del
teatro ospitò la Galleria d'arte moderna di Palermo che
venne successivamente spostata al Palazzo
Bonet.
Dal
dopoguerra - a partire dal 1947 circa - l'edificio ospitò l'attività di
cinematografo. Come cinema "Politeama" l'attività proseguì,
quasi ininterrottamente, sino al 1974, quando - a causa della chiusura del Teatro Massimo Vittorio Emanuele -
verranno abbandonate, definitivamente, le proiezioni cinematografiche, e
riprese le attività teatrali.
Nel 2000, in occasione
del G8 ospitato
in città, vennero realizzati i restauri delle decorazioni
pompeiane policrome dei loggiati.
Dal 2001 il teatro
è sede dell'Orchestra Sinfonica Siciliana.
A partire dall'estate del 2011 iniziano i lavori di restauro della
facciata posteriore del teatro.
L'opera propone simmetrie con sinteticità espositive in sinergia ad
equilibri neoclassici caratteristici degli Archi
di Trionfo napoleonici, con gruppi bronzei di cavalli rampanti
posti all'ingresso dell'edificio.
Giuseppe
Damiani Almeyda s'ispirò ai modelli del classicismo accademico in voga alla
fine dell'Ottocento. Secondo Antonella Mazzamuto (Luoghi di Sicilia, Teatri
tra ‘800 e ‘900. Edizioni Ariete, 2000), "il tipo adottato nel
Politeama Garibaldi è quello del teatro-circo, in cui però la forma
semicilindrica del prospetto nasconde una sala a ferro di cavallo con due
ordini di palchi ed un profondo loggione. È una soluzione che ricorda il
primo Hoftheater di Gottfried
Semper, realizzato a Dresda, dove l'andamento semicircolare del
fronte contiene ancora una sala di tipo tradizionale.
L'architettura
del Politeama – sottolinea ancora la Mazzamuto – rimanda, poi,
"al progetto teorico di teatro del Durand che aveva canonizzato la
riproposizione del monumento storico: l'anfiteatro romano. Damiani Almeyda
non adotta i tre ordini di arcate del Colosseo,
come fa Durand, bensì un doppio ordine con trabeazione, secondo modalità
desunte dall'architettura pompeiana".
Inoltre la
struttura cilindrica con la quale si presenta ci ricorda il famosissimo
Pantheon romano.Similmente il teatro ha al centro del tetto un foro di forma
ovale che si apre grazie ad una struttura metallica mobile che consente di
prendere aria e luce nelle rappresentazioni diurne.
Il valore
di questa costruzione sta nell'esaltazione della funzione sociale del teatro
come "teatro del popolo" con l'enorme sala
a ferro di cavallo (che nel 1874 poteva
contenere cinquemila spettatori) con
due file di palchi, dominata da una grande galleria articolata in due
ordini.
L'ingresso
è costituito da un arco
di trionfo sormontato dalla quadriga bronzea di Apollo,
opera di Mario Rutelli, cui s'affianca una coppia di
cavalli bronzei di Benedetto Civiletti.
Chiesa
e Oratorio di Santa Cita
La Chiesa
dedicata alla vergine toscana Santa
Cita (dialetto toscano che sta per Zita) fu fondata nei primi
anni del trecento da facoltosi mercanti toscani e fu donata, nel 1428, ad un
gruppo di frati Domenicani. La Chiesa subì negli anni successivi parziali
modifiche ed abbellimenti, prima di essere in gran parte demolita nel 1583,
allorché i frati, grazie alle rendite accumulate dall’aver concesso alle
famiglie più facoltose della città di seppellire qui i propri cari,
decisero di ampliarla.
La nuova
chiesa con una pianta a croce latina a tre navate fu terminata nel 1603 su
progetto di Giuseppe
Giacalone. La facciata, invece, fu ultimata nel 1781 ad opera di Nicolò
Peralta.
A causa dei
bombardamenti dell'ultima guerra, sono state eliminate le navate laterali
irrimediabilmente danneggiate.
La
Chiesa di Santa Cita è oggi dedicata a San
Mamiliano, primo vescovo di Palermo.
Attiguo
alla chiesa è l'Oratorio con i preziosi stucchi del Serpotta.
La facciata
settecentesca presenta tre portali di ingresso sopra i quali la figura del
cane con la fiaccola in bocca, simbolo dell’ordine di San Domenico, su
quello principale, e della Carità e della Fede, rispettivamente sul portale
sinistro e destro.
L'interno
della chiesa è arricchito da pregevoli decorazioni ed opere d’arte.
Grande
rilievo hanno le opere realizzate dallo scultore Antonello
Gagini: la tribuna e l’arco (1516) posti dietro l’altare
maggiore, e l’arco (1517) che si trova nella seconda cappella a destra del
transetto. Entrambe le opere appartengono alla prima struttura della chiesa
e furono salvate e conservate nei lavori di ricostruzione iniziati nel 1583.
Appartiene
ad A. Gagini anche il sarcofago di Antonio
Scirotta che si trova nella seconda cappella a sinistra del
transetto.
Ricca di
fascino e leggenda è la Cappella
titolata al Crocifisso, la prima nell’ala sinistra del transetto.
La cappella fu concessa nel 1614 alla famiglia Lanza, ai quali fu consentito
di aprire una cripta.
Quest’ultima è rimasta nascosta per secoli ed è stata ritrovata soltanto
20 anni fa. All’interno, tra pareti decorate, un altare su cui era posta
una mirabile “Pietà”
attribuita a Giorgio
da Milano. Ma anche quattro sarcofagi: quello di Blasco Lanza, primo
barone di Trabia, del figlio don Cesare Lanza, della seconda consorte di
quest’ultimo, Castellana Centelles, e quello anonimo con la figura
scolpita di una giovane donna che potrebbe essere quello di Laura
Lanza, Baronessa di Carini, figlia di don Cesare ed uccisa proprio da
quest’ultimo.
Tra i
dipinti d’epoca presenti, la tela dedicata al Beato Geremia di Antonio
Manno (1785), posta sopra l’altare a sinistra del transetto, e
la preziosa tela di Filippo
Paladini raffigurante Santa Agnese da Montepulciano (1603).
Il gioiello
più autentico della Chiesa di Santa Cita è però costituito dalla Cappella
dedicata alla Madonna del Rosario, la prima nell’ala destra del
transetto. Il complesso decorativo che si presenta agli occhi del visitatore
è uno tra i più belli di tutta la città e uno degli esempi più ricchi
del barocco siciliano.
Tra
decorazioni ad intarsio di marmi mischi, gli inserti scultorei di puppi,
ghirlande, motivi. Magnifici sono gli stucchi alle pareti realizzati tra il
1697 ed il 1722 da Gioacchino
Vitagliano: dieci teatrini dedicati ai "Misteri del
Rosario", con la raffigurazione di scene della vita di Gesù.
Completano la cappella la pala d’altare dedicata alla "Madonna del
Rosario", il magnifico affresco sulla volta “I cinque Misteri
Gloriosi” di Pietro
Aquila ed il pavimento ricoperto di lapidi sepolcrali in marmi
policromi.
L’oratorio
del Rosario in Santa Cita (dialetto toscano che sta per Zita) si
trova sul lato destro dell’omonima chiesa, in via Valverde.
Fu fondato
nella seconda metà del Seicento, sui resti di un precedente oratorio, dalla
Compagnia del Rosario, costituita da esponenti della ricca borghesia
mercantile.
La parte
architettonica è attribuibile a Giacomo
Amato mentre l'opera decorativa costituisce uno dei capolavori
barocchi di Giacomo
Serpotta.
Vi si
accede da uno scalone che conduce ad un loggiato tardo cinquecentesco a
doppio ordine. Due portali marmorei attribuiti a Giuseppe
Giacalone, appartenenti al vecchio oratorio, immettono
nell’antioratorio. Tra questi due portali è stato posto il mezzobusto in
stucco raffigurante Giacomo Serpotta.
L’antioratorio
accoglie molti ritratti dei Governatori della Compagnia. Sulla volta, due
angiolini reggono lo stemma della Compagnia del Rosario.
L'Oratorio
del Rosario di Santa Cita, unitamente all'Oratorio di San Lorenzo,
rappresenta la massima espressione del genio artistico di Giacomo
Serpotta che in questo luogo operò una prima volta tra il 1685
e il 1690.
Lo
splendido apparato decorativo si sviluppa lungo le pareti laterali con una
serie di teatrini raffiguranti i Misteri del SS. Rosario. A sinistra quelli
Gaudiosi (partendo dall’ingresso e fino alla arco: Annunciazione,
Visitazione, Natività, Circoncisione, Gesù tra i Dottori) nella destra
quelli Dolorosi (partendo dall’ingresso e fino alla arco: Gesù nell'Orto,
Flagellazione, Coronazione di spine, Salita al Calvario, Crocifissione).

Sopra
questi le grandi finestre con le statue allegoriche delle virtù che
sorreggono oggetti dorati, tra cui un serpente (simbolo di Giacomo
Serpotta).
E un
tripudio di putti che giocano su festoni di fiori e frutta. Alcuni voltando
le spalle in maniera irriverente. Le espressioni, gli sguardi e i gesti
sembrano, nella maestria delle loro pose naturali, dar vita ai protagonisti.
Sulla
parete di fondo, quella posta alle spalle dei superiori che qui vi sedevano
ricevendo gli sguardi dei confrati seduti sui sedili laterali, tanti putti
reggono un manto cha fa da sfondo alla rappresentazione dei Misteri Gloriosi
(Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, Assunzione, Incoronazione di Maria).
Al centro
campeggia l’allegoria della “Battaglia di Lepanto” del 1571, cui è
legata la devozione per la Vergine del Rosario, che intervenne
miracolosamente consentendo alla flotta cristiana di prevalere contro quella
turca.
Due
fanciulli posti sulla cornice ai piedi della scena testimoniano, con il loro
aspetto dimesso, gli orrori della guerra che sempre punisce sia i vincitori
(il putto con l’elmo dell’imperatore Carlo V) che i vinti (il putto con
il turbante arabo).
L’altare
maggiore, delimitato da pregiate cantorie, è reso ancor più ricco dalla
celeberrima pala dedicata alla Vergine del Rosario di Carlo
Maratta del 1695.
Ad esaltare
la magnificenza della tela, il nuovo intervento del Serpotta tra il 1717 e
il 1718, con le decorazione del catino presbiteriale, e l’inserimento a
ridosso dell’arco che introduce al presbiterio delle magnifiche statue di
Ester (a sinistra) e Giuditta (quest’ultima, a destra, raffigurata con ai
piedi la testa decapitata di Oloferne), tra le più belle figure muliebri
realizzate dall’artista.
Completano
l'arredo le panche sulle pareti laterali per i confratelli, in ebano
intarsiate in madreperla, e il pavimento a tarsie marmoree che si estende in
un intreccio di stelle ad otto punte.

Fortezza
del Castellammare
Uno dei
monumenti storicamente più emblematici della città, del tutto sconosciuto
a molti, soprattutto alle giovani generazioni di palermitani, è il
complesso fortificato del Castello a Mare. "Castrum Inferior"
posto all’imboccatura dell’antico porto della Cala, dal XII secolo,
probabile momento della sua edificazione, ha svolto il fondamentale ruolo di
sentinella della città.
Una
prima fortificazione è edificata in epoca araba intorno al IX
secolo, edificata rivolta verso il mare per il controllo e la difesa del
porto, a ridosso della La Cala, nell'area adiacente alla Kalsa.
Nel recinto è documentata una moschea, strutture restaurate in epoca
normanna da Roberto il Guiscardo e dal Gran Conte
Ruggero a riconquista avvenuta. Con le ristrutturazioni operate
dagli Altavilla la moschea fu derivata nella chiesa di San Giovanni
Battista a Castellammare.
Nel
1333 la flotta di Roberto d'Angiò, nell'ambito delle Guerre del
Vespro tentò d'assaltarlo. Fino al 1337 fu la residenza preferita del
sovrano Federico III di Sicilia che riformò personalmente
l'ordinamento delle prigioni in esso ospitate. Le carceri molto
vulnerabili dal punto di vista della sicurezza, per via dei frequenti
assalti, quando non subivano veri e propri sabotaggi o bombardamenti
dall'esterno, motivarono i primi interventi di restauro a carico dei
cittadini.
Fino
agli eventi contraddistinti dal Giuramento di Castronovo,
regnante Martino il Giovane, il maniero ospitò i tribunali della
giustizia ordinaria, secondo il privilegio concesso da Federico III di
Sicilia. Gli uffici dei tribunali approdano nel Palazzo
Chiaramonte-Steri fino al 1598, per essere trasferiti nel
restaurato Palazzo Reale. Sotto la reggenza di Bianca di Navarra nel
1417, per garantire la sicurezza della struttura è costruito un fossato, la
porta e gli accessi sono dotati di barbacane, sono poste grate e sbarre
alle finestre, è completato il tetto, sono aggiunti quegli accorgimenti
atti a migliorare le funzioni e la qualità di vita delle persone e delle
istituzioni in esso ospitate.
Nel
1445 furono aggiunte altre opere difensive volute da Alfonso V
d'Aragona, è documentato il luogo di culto retto da un cappellano, i
magazzini d'approvvigionamento di cereali e legname, i locali per la
macinatura del grano.
Tra
i vari documenti del XIV e del XV secolo, è pervenuto un inventario delle
armi e dei beni, redatto nel 1478, in occasione della morte del castellano
Giovanni Antonio Fuxa.
Nel
1496 sono documentati altri lavori d'ampliamento voluti da Ferdinando
II d'Aragona e commemorati con una targa marmorea posta all'ingresso,
fortificazioni motivate dai sempre più frequenti assalti di flotte corsare
genovesi e saracene.
Le
opere continuarono il secolo successivo sotto il viceregno di don Ferrante
Gonzaga (nel Castello ebbero i natali due dei suoi figli Francesco e
Giovanni Vincenzo, divenuti in seguito Cardinali). In quell’epoca la
fortezza venne ancora rafforzata con la costruzione di un nuovo sistema
bastionato e si realizzarono i grandi baluardi dei lati occidentale e
meridionale . Il primo che inglobò il Bastione di S. Pietro, prese il nome
di Baluardo di S. Giorgio, per la vicinanza con la porta di S. Giorgio che
si apriva nel tratto di mura contigue alla fortezza; quello meridionale si
chiamò Baluardo di S. Pasquale. Successivi ampliamenti, modifiche e
trasformazioni del complesso architettonico continuarono fino alla fine del
XVIII° secolo.

La
lunga e tormentata storia del Castello a Mare è quasi una metafora di
quella della città, da sempre legata intimamente ai fatti più salienti
delle vicende palermitane. Residenza preferita dall’imperatore Federico II
per i suoi soggiorni in città, dal XV secolo il Castello ebbe funzione di
residenza del governo vicereale e, a seguito della rivolta popolare
capeggiata da Gianluca Squarcialupo nel 1517, anche dello stesso viceré che
vi si trasferì per maggiore sicurezza. Successivamente, per un breve
periodo (15531601), e in maniera non proprio continua, fu sede del
Tribunale della “Santa” Inquisizione spagnola, introdotta in Sicilia fin
dal 1487 da Ferdinando d’Aragona, con le sue anguste e tristemente note
prigioni sotterranee, e una cappella per i condannati a morte.
Nel
1593 una forte esplosione provocò tantissimi morti tra detenuti e
carcerieri; tra le vittime vi fu il poeta monrealese Antonio Veneziano.
Successivamente,
nel 700, venute meno le esigenze difensive, il complesso fortificato
sopravvisse solo con funzione di controllo nei confronti della città contro
eventuali tentativi di insurrezioni popolari.
In
età borbonica divenne struttura puramente difensiva, nota per
essere stata sede di iniziative anti-borboniche concluse poi negativamente
coi moti del 1718 e 1734. Nel 1722, sulla piazza antistante è documentata
l'installazione della statua di San Giovanni Nepomuceno, realizzata
da Tommaso Maria Napoli, manufatto custodito dopo gli eventi del 1860
nella chiesa di Santa Maria degli Angeli detta la «Gancia», oggi
nella cappella eponima della chiesa di San Giacomo dei
Militari.
Con Ferdinando
III di Borbone sono aggiunte altre fortificazioni. Tra le più
importanti:
il Bastione di San Pietro, la Porta Aragonese, il Baluardo di San Giorgio,
il Baluardo di San Pasquale
e il Baluardo del Principe di Lignè.
Durante
l'insurrezione di Palermo fu uno dei punti da cui si bombardò la città
e fu parzialmente smantellato dopo la partenza delle truppe regie. Tuttavia
proprio durante il Regno delle due Sicilie alcune strutture furono
sottoposte a restauri e ammodernamenti fino al regno di Francesco II nel 1860,
quando l'intero complesso fu assaltato e in parte demolito dalla
popolazione, secondo la richiesta formulata a Giuseppe Garibaldi.
Dopo
l’unità d’Italia ciò che era stato risparmiato venne adibito a caserma
militare, mantenendo questo ruolo fino al 1922, anno in cui allo scopo di
sistemare le nuove attrezzature portuali, su disposizione del governo
fascista si consumò uno dei più assurdi scempi urbanistici della storia
palermitana. A nulla servirono gli accorati appelli del Soprintendente ai
Monumenti della Sicilia Francesco Valenti e di altri illustri intellettuali
dell’epoca, dall’ingegnere Ernesto Basile, al direttore del Museo
Nazionale professor Ettore Gabrici, che non riuscirono ad evitare che le
ruspe della ditta McArthur di Londra, portasse a compimento la demolizione
della fortezza del Castello a Mare, da cui si salvarono, in parte, solo il
“Mastio” e l’antica porta di accesso alla fortezza.
Fino
al 1923 la fortezza presentava una cinta muraria quadrangolare
bagnata su due lati dal mare, che racchiudeva al suo interno un enorme
complesso architettonico, risultato di continue ristrutturazioni e
adattamenti alle varie esigenze occorse nel tempo.
Anticamente
composto da un grande maschio di epoca araba, alcune parti
normanne, bastioni e zona d'ingresso quattrocenteschi, un
palazzetto rinascimentale, una chiesa cinquecentesca (la Madonna di
Piedigrotta, edificata su una antica moschea araba), due basse torri esagonali e
molte altre strutture e fabbriche di epoca più recente.
Degli
antichi edifici rimangono parte della torre maestra,
la torre cilindrica e il corpo d'ingresso.
Dopo
un lungo abbandono, dal 2006 tutto il complesso architettonico è stato
interessato da vasti interventi di scavo e di restauro che hanno permesso di
liberare tutta l’area, riportando alla luce gran parte delle strutture
murarie dell’originario complesso fortificato. E’ stata inoltre scoperta
una vasta necropoli di età musulmana utilizzata anche nel periodo normanno.
Il
recupero e la restituzione alla città di un monumento di così
straordinaria importanza come il Castello a Mare rappresenta, oltre che una
risorsa fondamentale sotto il profilo urbanistico e architettonico, una
ritrovata consapevolezza del valore delle proprie memorie, e anche la
ricostituzione dello stretto legame che i palermitani hanno sempre avuto con
il loro mare, rescisso quasi un secolo fa dal ”piccone demolitore”.
Palazzo
Chiaramonte
Edificato
nei primi anni del XIV secolo da Manfredi I Chiaramonte conte di Modica e
Capitano Giustiziere di Palermo, esponente di una delle famiglie feudali più
ricche e potenti del regno. Palazzo Chiaramonte, detto anche lo Steri,
rappresenta un vero “monumento-documento” di questa città. I
Chiaramonte agli inizi del trecento, al culmine della loro potenza e
ricchezza avevano acquistato a Palermo, a ridosso dell’antica Kalsa,
un’enorme estensione di terre paludose dal convento di S. Maria di Ustica,
le avevano bonificate e dato inizio (sembra su preesistenze più antiche),
alla costruzione del loro palazzo fortificato “Hosterium Magnum” (donde
il nome Steri) che doveva rappresentare l’emblema della famiglia e del
potere politico che essi esercitavano in città.
L’affermazione
dei Chiaramonte (originari da Clermont-en-Beauvais), si delinea prima della
fine del XIII secolo, con la costituzione di un grande patrimonio feudale
che si realizza in seguito a una doppia successione femminile: Manfredi I
infatti, eredita dalla madre Markisia Prefolio il casale di Caccamo, col suo
castello turrito e merlato, e acquisisce attraverso la moglie Isabella,
figlia di Federico Mosca, la Contea di Modica, la più grande Contea di
Sicilia.
I
Chiaramonte dominano, oltre che nella contea di Modica, su Palermo, su
Agrigento e sull’immenso territorio posto fra le due città. Grazie a
questi vasti possedimenti terrieri erano diventati potentissimi, e proprio a
Palermo si imponevano come potere alternativo alla Corona, così forte e
arrogante al punto che solo con il loro consenso i deboli sovrani aragonesi
avevano libero accesso in città. Era fatale che in tali condizioni il
turbolento baronaggio siciliano tentasse di opporsi al soverchiante potere
dei Chiaramonte, così che, dopo la morte dell’ultimo re aragonese
Federico IV, nell’isola si visse in un clima di profonda anarchia e la
Sicilia fu teatro di una accesa guerra di fazioni che coinvolse i più
potenti signori feudali del tempo divisi in due partiti: la fazione latina e
la fazione catalana, la prima, capeggiata dai Chiaramonte, era composta dai
discendenti dell’antica nobiltà di origine normanna e sveva ormai
naturalizzata siciliana, la seconda, capeggiata dagli Alagona, era composta
dalla nobiltà di più recente importazione iberica.

L’arroganza,
la potenza economica delle grandi famiglie comitali cresce a dismisura e
tocca l’apice quando incuranti dell’autorità regia, le quattro più
potenti famiglie del regno, i Chiaramonte conti di Modica, i Ventimiglia
conti di Geraci, gli Alagona conti di Agosta e i Peralta conti di
Caltabellotta, arrivarono a spartirsi sia politicamente che territorialmente
la Sicilia, instaurando un governo chiamato dei “Quattro Vicari”. Ma
quando la giovane figlia dell’ultimo re aragonese Maria di Sicilia, andò
in sposa a Martino (il Giovane), duca di Montblanc si sancì
l’unione delle corone di Sicilia e di Aragona, mettendo la nobiltà
siciliana di fronte a una situazione complessa, e determinando in pratica,
la fine della supremazia dei quattro vicari e dei loro privilegi. In questo
stato di cose, molti baroni cominciarono a trattare con Martino,
comprendendo infatti che l’unica via per salvare la propria posizione era
quella dell’accordo con il sovrano aragonese. Il nuovo re venuto
dall’Aragona, trovò unico fiero oppositore in Andrea Chiaramonte, figlio
bastardo di Manfredi III, che insieme a pochissimi fedeli tentò a Palermo
una disperata resistenza. Ma era troppo impari il rapporto di forze e dopo
un mese di assedio Andrea Chiaramonte si arrendeva e si sottometteva a
Martino di Montblanc. Il primo di giugno del 1392 venne decapitato ai piedi
del palazzo dei suoi avi, simbolo della potenza e dell’orgoglio del suo
casato.
Morto
Andrea, i Chiaramonte scomparvero dalla storia e i sovrani aragonesi,
intrapresero una politica volta a cancellare la memoria del periodo
chiaramontano, confiscarono l’immenso patrimonio immobiliare della
famiglia che passò al demanio regio, compreso il palazzo-fortezza del Piano
della Marina.
Il
prestigio e la magnificenza dei Chiaramonte influenzò la cultura
architettonica del trecento, che è passata alla storia sotto il nome di
“arte chiaramontana”: singolare innesto di forme islamiche, normanne e
gotiche, amalgamate in un’arte tutta ed esclusivamente siciliana.

Palazzo
Chiaramonte è il più solenne e splendido documento di questa arte, che in
Sicilia per una stagione brevissima ha avuto preziosa fioritura. Sede
vicereale, della Regia Curia, del tribunale del Santo Uffizio e infine sede
di uffici giudiziari, il palazzo oggi è sede del rettorato universitario,
una delle maggiori istituzioni culturali della città.
In
origine la storica dimora era circondata da un grande e rigoglioso giardino
ricco di piante ornamentali, di alberi da frutto e con tanti animali
esotici. Era stato costruito seguendo i canoni del palazzo residenziale,
tipica dimora aristocratica medievale, rispondente all’esigenza di
esprimere con la sua forma severa e massiccia la potenza e la grandezza dei
Chiaramonte. Nel contempo questo palazzo, grazie al suo cortile interno con
portico sottostante e loggiato superiore, che anticipa il modello
rinascimentale della grande residenza nobiliare, si pone come uno dei primi
prestigiosi esempi di palazzo signorile italiano, ed è arrivato fino ai
nostri giorni come testimonianza di un’epoca. Nel prospetto antistante la
piazza è possibile cogliere gli elementi della tradizione architettonica
trecentesca nelle ampie finestre bifore e trifore, con le caratteristiche
decorazioni ad intarsio.
L’ingresso
al palazzo, oggi avviene sul lato orientale, presso la cappella trecentesca
di Sant’Antonio Abate, coperta con volte costolonate e con un bel portale
quattrocentesco, anche questa fatta edificare da Manfredi Chiaramonte come
cappella privata della famiglia. La magnifica corte a duplice loggiato
presenta forme essenziali con una serie di arcate a sesto acuto poggianti su
colonne con capitelli di diverso aspetto e di diversa provenienza.
La
sala magna terranea (oggi adibita a spazio espositivo) ricalca modulo e
dimensione della sala magna superiore: molto interessante la spina di grandi
arcate in pietra, che attraversa tutto l’ambiente dando l’effetto di una
spazialità superiore a quella reale. Dall’interno del cortile, tramite
una scala interna a rampe contigue, si accede alla “Sala Magna”, il cui
soffitto ligneo a cassettoni di rara suggestione, è il più grande soffitto
dipinto rimastoci a testimonianza della ricchezza di questi elementi
strutturali e decorativi.
Un grandioso complesso figurativo e ornamentale di
grande efficacia descrittiva, un’eccezionale ciclo pittorico di arte
“mudejiar” che trova riscontro solo nei più preziosi “artesonados”
spagnoli. Venne realizzato in soli tre anni tra il 1377 e il 1380, per
volontà di Manfredi III, da tre artisti popolareschi siciliani che ci
trasmisero i loro nomi in tre iscrizioni, di cui una fino a pochi anni fa
non era conosciuta. L’uno è Cecco di Naro “Chicu pinturi di Naru”,
l’altro è Simone da Corleone “mastru Simuni pinturi di Curiglu”, e il
terzo è un tal “mastru Darenu pingituri di Palermu”. Vi sono
raffigurate scene dell’antico testamento, leggende cavalleresche, episodi
popolari, scene d’amore, stemmi nobiliari ed episodi celebrativi della
famiglia Chiaramonte. Senza dubbio nelle travi di questo soffitto è
condensata una vera enciclopedia medievale.
Da
questa sala, attraverso eleganti finestre bifore con delle sottili colonnine
bianche, le stesse che vediamo dall’esterno, adorne di cornici in tufo
intagliato e intarsi in pietra lavica, arte chiaramontana per eccellenza,
possiamo ammirare l’odierna piazza Marina, ombreggiata dall’immenso
ficus Magnolioides di villa Garibaldi , che visto da qui, sembra di
dimensioni ancora più grandi.
Nella
parete esterna della sala magna, sotto il loggiato, troviamo due splendide
trifore ornate con caratteristici motivi a zig-zag che l’arte
chiaramontana riprese dagli schemi decorativi altomedievali. Sempre al primo
piano si trovano altri ambienti di rappresentanza, come la sala che oggi
ospita lo studio del rettore e la “sala dei vicerè,” con bel soffitto
ligneo, destinata alle sedute del senato accademico.
Altro
ambiente di notevole bellezza è l’altra sala del piano superiore chiamata
delle “Capriate”, così detta per le caratteristiche capriate che
sorreggono il tetto, che il rettorato mette solitamente a disposizione per
convegni e conferenze.
Agli
inizi del seicento, al tempo del tribunale dell’Inquisizione, il palazzo
fu interessato da radicali trasformazioni per adattarlo al nuovo uso. Si
progettarono e si realizzarono in pochi anni le carceri dei
“penitenziati” e la porta monumentale sul piano della marina.
Vennero realizzati anche la scala e i vani di collegamento delle celle con
la “stanza
del secreto“, dove gli inquisitori si riunivano per emettere
le sentenze. In seguito furono costruite le celle del primo piano e si
eseguirono altri lavori che comportarono una notevole trasformazione
dell’originaria configurazione dell’edificio.
Al
pianterreno, oltre alle celle erano sistemate le sale di tortura dove
avvenivano gli interrogatori dei carcerati, anche se il tribunale
dell’inquisizione poteva condannare con una sola testimonianza . Agli
inizi del novecento sono stati scoperti dal grande studioso delle tradizioni
popolari siciliane Giuseppe Pitrè, sotto gli intonaci, graffiti con disegni e frasi
di dolore dei carcerati che vi erano rinchiusi, che lo studioso riuscì
a salvare dalla completa distruzione. Altre testimonianze del periodo
dell’inquisizione sono stati scoperti nel corso di più recenti restauri,
quei muri che sembravano custodire solo quei pochi graffiti scoperti dal
Pitrè, invece occultavano scritti e disegni di una straordinaria varietà,
un vero patrimonio di interesse storico e culturale.

Nei
suoi quasi sette secoli di vita il palazzo-fortezza dei Chiaramonte si può
dire che ha accompagnato la storia di questa città, è stato testimone di
tantissimi eventi storici, di episodi tragici, di avvenimenti pubblici e
privati che si svolsero dentro e fuori le sue mura. Il piano della marina
per secoli fu teatro di spettacoli solenni come cavalcate, tornei, giostre,
ma anche di un altro genere di spettacoli: questo luogo infatti era
destinato alle esecuzioni capitali dei condannati a morte. Vi sorgeva in
permanenza il patibolo per i criminali di bassa estrazione, e di volta in
volta, veniva innalzata la mannaia per le esecuzioni di nobili e borghesi.
Anche il famigerato tribunale del sant’Uffizio vi svolgeva i suoi roghi e
celebrava gli autodafè (atto di fede), che contribuivano a dare a questo
luogo un aspetto lugubre e sinistro.
Da
notare nella facciata rivolta verso piazza Marina, nel secondo ordine, si
vedono scavati nella pietra dei solchi, lasciati dalle pesanti gabbie di
ferro che pendevano dai merli del palazzo (macabro monito), dove per oltre
due secoli e mezzo vi erano esposte le teste dei nobili condannati a morte
per la sfortunata congiura filo-francese del 1523, nota con il nome di “Congiura
dei fratelli Imperatore” dove fu giustiziato tra gli altri
Federico Abbatellis conte di Cammarata, proprietario del palazzo contiguo
allo Steri. Un eguale tragico destino accomuna questi personaggi,
ultimi proprietari di questi due palazzi: Andrea Chiaramonte e Federico
Abbatellis furono spogliati dei loro beni e decapitati entrambi.
Lo
Steri un tempo era il simbolo del potere sociale, economico, militare e
politico, di una signoria splendida e imperiosa che osò sfidare l’autorità
della Corona.
Oggi
rimane uno dei più importanti monumenti del nostro patrimonio
architettonico, parte di quel grande “museo a cielo aperto” che è
questa nostra splendida città.
Piazza
Marina e Giardino Garibaldi

La
grande piazza, ora occupata in gran parte dalla villa, era anticamente una
bassa ma larga insenatura di mare. Lungo il suo arco, fin dai tempi dei
musulmani, si allinearono vari edifici e quello spiazzo rimase a lungo nudo
e scoperto. Dopo la liberazione Garibaldina la piazza fu sistemata a
“square” e nel 1864-66, su disegno di G. B. Filippo Basile, vi sorse la
Villa Garibaldi, caratterizzata da una fitta vegetazione ed alcuni maestosi
esemplari di “ficus magnolioides” e numerosi i busti di protagonisti del
Risorgimento.
La piazza
Marina servì di volta in volta agli usi più svariati. Vi si
svolgevano tornei, giostre corride di tori, cacce artificiali, fuochi
d’artificio, vi si teneva mercato, vi si costruivano baracche per rozze
rappresentazioni comiche, dette “vastasate” e per l’opera dei pupi, il
teatro delle marionette, vi si erigevano anche macchine di ogni specie per
le pubbliche feste. Memorabili furono le giostre ivi combattute nel 1542 per
le nozze di Don Cesare Consaga con Diana Cardona, quelle del 1544 per la
pace fra Carlo V e Francesco I, quelle del 1572 per la venuta di don
D’Aragona col Marchese di Geraci.
Nel
1680 vi fu eretto un’enorme teatro ligneo per il pubblico strabocchevole
che assisteva la giostra in onore di Carlo II che sposava Maria Luisa di
Borbone.
Ma
alla piazza il popolo accorreva in massa per assistere anche a pubbliche
esecuzioni capitali.
Nel
1633, ad esempio, ebbe luogo in questa piazza l’esecuzione capitale della
famosa avvelenatrice Francesca La Sarda (nota anche come “Peppa”); in
questo caso i palchi eretti per l’occasione non ressero al peso della
folla e sprofondarono, con gravi danni agli spettatori.
Le
forche erano erette in permanenza ed erano riservate agli ignobili, cioè al
popolo di bassa estrazione. Per i nobili ed i ricchi si levava di volta in
volta la mannaia. Forche e mannaie non furono i soli arnesi a dare aspetto
sinistro allo spiazzo; spesso, nei secoli XVII e XVIII, vi arse il rogo per
le vittime del famigerato tribunale del S. Uffizio, in omaggio
all’oscurantismo dei tempi.
Nella
seconda metà del XIX secolo, in seguito all’unificazione d’Italia,
nuove forze politiche affrontarono il tema del rinnovamento urbano con una
visione che coinvolgeva l’intera città.
In
tale ottica s’inquadra l’iniziativa del 2 agosto 1860 del pretore di
Palermo Giulio Benso, duca di Verdura che incaricò un gruppo di
architetti ed Ingegneri di ideare un vasto piano di fondamentali riforme ed
ingrandimento che rispondesse alle esigenze dei tempi e mettesse Palermo al
livello delle migliori città d’ Europa.
Il
collegio di professionisti era formato da Agostino Pastiglia, Francesco De
Simone, Rosario Torregrossa, Giovanni Moscuzza, Pietro Rainieri e Giovanni
Battista Filippo Basile.

La
“Commissione
del progetto di riforma e abbellimento della città” nel 25
settembre 1860 consegnò all’esame della “Commissione delle opere
pubbliche della città” il risultato dei propri lavori concretizzati in più
progetti.
Il
consolidarsi di una borghesia attenta alle dinamiche della rendita urbana
fece si che le “tecnica haussmanniana”
degli sventramenti permeasse facilmente il tessuto culturale e popolare
della città dando il via a vasti interventi finalizzati a costruire
le nuove residenze della borghesia e i servizi e le attrezzature che
dovevano elevare Palermo al rango delle capitali europee.
Nel
1860 il Sindaco Antonio Starrabba, marchese di Rudinì, decise di
trasformare la parte centrale della piazza in giardino pubblico affidandone
la progettazione a Giovan Battista Filippo Basile. Il Basile in quel periodo
pubblicava il “Giornale
di Antichità e belle arti”, nel quale ebbe modo di
divulgare le informazioni riguardanti i lavori relativi allo square di
piazza Marina, dalla progettazione alla realizzazione.
Nella
redazione del progetto, Basile incontrò non poche difficoltà, dovute
soprattutto alla forma quadrilatera irregolare, al non perfetto
allineamento degli edifici sui quattro lati dell’area ed al
consistente dislivello tra i vertici della piazza (oggi tra i
vertici nord e sud esiste un dislivello di mt 3.20). L’intervento di Basile
non si limitò quindi al solo giardino ma all’intera sistemazione del
piano. La zona da trasformare in giardino fu delimitata da quattro strade,
dopo lo spianamento dell’intera area.
Per colmare il dislivello tra il nuovo piano e gli ingressi dei palazzi
delimitanti la piazza a nord-est (l’edificio della Zecca, poi palazzo
delle Finanze, e i palazzi Sant’Onofrio e Abatellis) fu realizzato un alto
stereobate in pietra.
Le
opere di sistemazione del perimetro della piazza inquadrano il Giardino al
centro. Questo fu realizzato, su progetto di Basile, in un solo anno e
completato il 7 ottobre 1864. L’inaugurazione avvenne il 9 ottobre
1864, come riporta il “Giornale di Sicilia” del 6 ottobre 1864.
All’interno
delle aiuole, variabili per forma e dimensioni, sono presenti diverse specie
di piante tropicali e subtropicali come Araucarie, Washingtonie, Ibiscus ed
i monumentali Ficus (Ficus Magnolioides, Ficus beniamina) che per le
dimensioni e lo sviluppo raggiunto dai rami e dalle radici aeree, sono tra
gli elementi più ammirati della piazza. Si suppone che, in quel tempo
nessuno prefigurasse lo sviluppo di tali piante.
Poiché
il giardino era la più importante realizzazione dopo i moti del
Risorgimento, fu deciso di intitolarlo a Giuseppe Garibaldi, e per questo venne
trasferito a Piazza Marina il busto dedicato a Giuseppe Garibaldi ubicato
precedentemente nel parterre del Giardino Inglese di via Libertà.
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Agosto
2018
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