Palermo

 

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Teatro Massimo

Il Teatro Massimo Vittorio Emanuele di Palermo è il più grande edificio teatrale lirico d'Italia, e uno dei più grandi d'Europa, terzo per ordine di grandezza architettonica dopo l'Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna. Ambienti di rappresentanza, sale, gallerie e scale monumentali circondano il teatro vero e proprio, formando un complesso architettonico di grandiose proporzioni.

Alla sua apertura, per monumentalità e dimensione (oltre 7.730 metri quadrati), suscitò le invidie di molti, come si può facilmente verificare leggendo i giornali italiani dell'epoca. Di gusto neoclassico-eclettico, sorge sulle aree di risulta della chiesa delle Stimmate e del monastero di San Giuliano che vennero demoliti alla fine dell'Ottocento per fare spazio alla grandiosa costruzione. I lavori furono iniziati nel 1875 dopo vicende travagliate che seguirono il concorso del 1864 vinto dall'architetto Giovan Battista Filippo Basile, alla morte del quale subentrò il figlio Ernesto Basile, anch'egli architetto, il quale accettò di ultimare l'opera in corso del padre su richiesta del Comune di Palermo, completando anche i disegni necessari per la prosecuzione dei lavori del Teatro.  

L'impresa di costruzioni che costruì l'edificio del Teatro Massimo apparteneva a due soci, Giovanni Rutelli e Alberto Machì. L'architetto cav. Giovanni Rutelli apparteneva a un'antica famiglia italiana di origine britannica con tradizioni anche nel settore dell'architettura fin dalla prima metà del settecento palermitano con l'architetto Mario Rutelli, suo bisnonno; Giovanni, sotto l'affidamento dell'architetto G.B.F. Basile, diresse dall'inizio e fino al completamento tutti i lavori di costruzione dell'edificio con la propria direzione tecnica e costruttiva. Rutelli, già costruttore civile e imprenditore molto richiesto, era pure un profondo esperto sia delle antiche costruzioni greco-romane che della scienza stereotomica, conoscenze ereditate dalla stessa famiglia composta da diversi architetti e imprenditori provenienti dalla tradizionale scuola siciliana degli architetti di impronta classica e barocca, ma anche da artisti puramente classici della scultura, conoscenze essenziali e preziose per poter erigere un edificio-tempio del genere e mole come il Teatro Massimo, vero monumento dall'autentico stile greco-romano; si completò così il fenomenale progetto del geniale Giovan Battista Filippo Basile.

Da ricordare che G.B.F. Basile aveva organizzato dei corsi di formazione d'arte classica sia per l'intaglio della pietra che per la decorazione atti a formare un adeguato numero di esperti maestri preparati a dare le volute forme, e quindi a poter rifinire nei minimi dettagli richiesti tutti gli innumerevoli blocchi di pietra viva da taglio necessari all'edificazione dell'imponente teatro, a parte le precise ed originali decorazioni esterne da apportare in seguito (durante quel periodo il numero di maestri esperti intagliatori a disposizione era estremamente esiguo poiché le note Maestranze dei tempi erano già andate scomparendo); per la costruzione, di maestri dell'intaglio se ne impiegarono addirittura circa centocinquanta; fu l'occasione da parte del Rutelli di ideare anche una rivoluzionaria gru azionata da un motore a vapore e caratterizzata da un ingegnoso sistema di pulegge/carrucole e cavi che s'impiegò effettivamente e con successo durante l'edificazione del Teatro Massimo V. E. per il sollevamento dei grossi massi, capitelli e colonne (capacità di sollevamento fino ad otto tonnellate di peso) a considerevoli altezze per quel tempo (fino a metri 22 d'altezza), il che poté accelerare anche il proseguimento dei lavori. Di detta gru il Comune di Palermo custodisce oggi il relativo prototipo in scala donato al tempo dallo stesso Giovanni Rutelli. Il 16 maggio 1897 avvenne l'apertura ufficiale del Teatro con Falstaff (Verdi). Tra i direttori d'orchestra più celebri dell'800 che hanno diretto al Teatro Massimo V.E. di Palermo, si annovera il M° Antonino Palminteri, presente sul podio nella stagione a cavallo degli anni 1897 e 1898, portando in scena le opere: Aida e La traviata di Giuseppe VerdiLohengrin di Richard WagnerNorma di Vincenzo Bellini.

Nel 1903 avviene la prima assoluta di Barberina di Gino Marinuzzi (1882-1945), nel 1910 di Mese mariano di Giordano, nel 1912 di La baronessa di Carini di Giuseppe Mulè, nel 1913 di Mimì Pinson di Ruggero Leoncavallo, nel 1941 di La zolfara di Mulè con Pia Tassinari e Giuseppe Valdengo, nel 1955 del successo di Il cappello di paglia di Firenze di Nino Rota con Nicola Filacuridi ed Alfredo Mariotti per la regia di Corrado Pavolini, nel 1963 di Il diavolo in giardino di Franco Mannino con Clara PetrellaJolanda GardinoUgo Benelli ed Enrico Campi e nel 1967 di Il gattopardo di Angelo Musco (compositore) con Ottavio Garaventa e Nicola Rossi-Lemeni.

Nel 1997 venne riaperto dopo un lunghissimo periodo d'abbandono iniziato nel 1974 per motivi di restauro procrastinato. Il lungo periodo di chiusura fu gestito dal sovrintendente Ubaldo Mirabelli dal 1977 al 1995.  

La simmetria compositiva attorno all'asse dell'ingresso, la ripetizione costante degli elementi (colonne, finestre ad archi), la decorazione rigorosamente composta, definiscono una struttura spaziale semplice ed una volumetria chiara, armonica e geometrica, d'ispirazione greca e romana. I riferimenti formali di quest'edificio sono, oltre che nei teatri antichi, anche nelle costruzioni religiose e pubbliche romane quali il tempio, la basilica civile e le terme soprattutto nello sviluppo planimetrico dei volumi e nella copertura.

Sul frontone della facciata si può leggere il motto "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l'avvenire".

L'esterno del teatro, seguendo la moda dell'attualizzazione delle architetture antiche, presenta un pronao corinzio esastilo elevato su una monumentale scalinata ai lati della quale sono posti due leoni bronzei con le allegorie della Tragedia dello scultore Benedetto Civiletti e della Lirica dello scultore Maestro Cav. Mario Rutelli, figlio dello stesso Architetto Giovanni (Mario Rutelli è, fra le centinaia di sue opere scultoree, l'autore della quadriga che orna il pronao del Politeama Garibaldi, l'altro grande teatro di Palermo); in alto l'edificio è sovrastato da un'enorme cupola emisferica. L'ossatura della cupola è una struttura metallica reticolare che s'appoggia ad un sistema di rulli a consentirne gli spostamenti dovuti alle variazioni di temperatura.  

I due gruppi bronzei con i leoni che fiancheggiano la maestosa scalinata raffigurano la Tragedia, opera di Benedetto Civiletti, e la Lirica, opera invece di Mario Rutelli, autore anche della Quadriga che sovrasta il Politeama Garibaldi. Al termine della scalinata, un pronao con sei colonne corinzie accoglie lo spettatore. Il fregio in alto reca la scritta: “L’Arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. 

La cupola che sovrasta la sala ha un diametro di 28,73 metri ed è composta da una struttura di ferro coperta da squame bronzee, sovrastata da un grande vaso anch’esso d’ispirazione corinzia. Ad Antonio Ugo sono dovuti il busto di Giuseppe Verdi e quello di Giovanni Battista Filippo Basile, mentre diversi rilievi scultorei sono opera di Salvatore Valenti. Tra i pittori che hanno decorato le sale del Teatro, Ettore De Maria Bergler, Michele Corteggiani, Luigi Di Giovanni, Rocco Lentini, Giuseppe Enea, Enrico Cavallaro, mentre Giuseppe Sciuti raffigurò il corteo dell’incoronazione di Ruggero II nel grande sipario decorato.

Nei primi decenni di attività il teatro fu affidato ad imprese private, spesso diverse di anno in anno, fino al 1935, quando con un decreto del Ministro della Cultura Popolare venne proclamato Ente Teatrale Autonomo, e dall’anno successivo assunse la denominazione ufficiale di Ente Autonomo Teatro Massimo di Palermo. Nel 1974 il Teatro viene chiuso per lavori di ristrutturazione, che si protraggono fino al 12 maggio 1997, quando il teatro viene riaperto con un concerto diretto nella prima parte da Franco Mannino e nella seconda parte da Claudio Abbado con i Berliner Philharmoniker. 

L'apparato architettonico della grande sala si deve all'architetto Ernesto Basile, figlio di Giovan Battista, autore del complesso generale dell'opera. Ernesto, raffinatissimo rappresentante del Liberty europeo, si servì per le decorazioni e i particolari della valida opera del Ducrot, soprattutto per le raffinatissime composizioni dei palchi e degli arredi. L'interno è decorato e dipinto da Rocco LentiniEttore De Maria BerglerMichele CortegianiLuigi Di Giovanni. La sala, a ferro di cavallo, con cinque ordini di palchi e galleria (loggione). La platea dispone di uno speciale soffitto mobile composto da grandi pannelli lignei affrescati (i cosiddetti petali) che vengono mossi da un meccanismo di gestione dell'apertura modulabile verso l'alto, che consente l'aerazione dell'intero ambiente. Il sistema permette al teatro di non necessitare di aerazione forzata per la ventilazione e la climatizzazione interna.  

Nella rotonda del mezzogiorno o sala pompeiana, la sala riservata in origine ai soli uomini, si può constatare un effetto di risonanza particolarissimo, appositamente ottenuto dall'architetto tramite una leggera asimmetria della sala, tale per cui chi si trova al centro esatto della sala ha la percezione di udire la propria voce amplificata a dismisura, mentre nel resto dell'ambiente la risonanza è enorme e tale per cui risulta impossibile comprendere dall'esterno della rotonda quanto viene detto al suo interno.

Il teatro fu edificato fra il bastione di San Vito e la Porta Maqueda, abbattendo la Chiesa di San Francesco delle Stimmate e l'annesso convento e la Chiesa di San Giuliano; la tradizione narra che una suora detta "la monachella" (la prima Madre Superiora del convento) si aggiri ancora per le sale del teatro. Alcuni sostengono di aver visto un'ombra di una suora aggirarsi dietro le quinte e nei sotterranei e, stando alla tradizione, essa lanci delle vere e proprie maledizioni. Si dice anche che chi non crede alla leggenda inciampi in un particolare gradino entrando a teatro, gradino detto appunto "gradino della suora".

Il teatro, da sempre molto sensibile alle istanze della comunità LGBT, nell'agosto 2015 sigla un accordo con le parti sindacali con il quale ai propri dipendenti omosessuali viene riconosciuto il diritto di usufruire dei permessi matrimoniali per nozze e unioni civili, altrove previsto solo per i matrimoni etero. È il primo teatro italiano ad equiparare i dipendenti omosessuali a quelli etero. Già da tempo, in concomitanza con la settimana delle celebrazioni del pride, illumina le imponenti colonne della sua facciata con i colori della bandiera arcobaleno.

Teatro Politeama

Il Teatro Politeama Garibaldi (con la parola Politeama si intende un generico teatro dove si danno rappresentazioni di vario genere, e pertanto è improprio utilizzarla per riferirsi nello specifico a detto Teatro) si trova sulla Piazza Ruggero Settimo (a sua volta usualmente denominata Piazza Politeama).  

Nel 1865 il Comune di Palermo delibera la costruzione del Politeama. Essendo la spesa superiore alla cifra prevista, viene contattato il banchiere Carlo Galland che si impegna a costruire oltre a "tre mercati secondo i disegni dell'architetto Damiani e a costruire, nel locale che indicherà il Municipio, un Politeama secondo il piano d'arte e disegni preparati dall'Ufficio tecnico del Municipio" (Capitolato di convenzione tra il Municipio e il Sig. Carlo Galland, piemontese, per la costruzione dei mercati e Teatro, 1866). Il concorso interno viene vinto da Giuseppe Damiani Almeyda e i primi disegni di progetto vengono presentati a metà del 1866 e già a gennaio del 1867 sono in corso i lavori di scavo. La costruzione del Politeama ha un inizio affrettato con molte zone oscure, che può essere chiarita solo dalla conoscenza delle intricate vicende politiche municipali.

Nel 1869 e 1870 sorgono dei problemi tra il Municipio e l'impresa Galland, ma si decide di proseguire l'opera, eliminando tutti i lavori di abbellimento. Il cantiere inoltre era stato chiuso per qualche tempo per fare delle verifiche sulle condizioni statiche dell'edificio. Essendo stato trovato tutto a perfetta regola d'arte fu riaperto e si proseguì con i lavori. Il teatro era stato progettato come teatro diurno all'aperto, ma fu in un secondo tempo deciso di realizzare una copertura. Il 7 giugno 1874 fu inaugurato anche se incompleto e ancora privo di copertura, la prima rappresentazione fu I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini. La copertura, considerata per l'epoca opera di grande ingegneria, venne realizzata in metallo dalla Fonderia Oretea nel novembre del 1877. Gli ultimi lavori, di abbellimento, furono realizzati nel 1891 in occasione della grande Esposizione Nazionale che si teneva quell'anno a Palermo.

Dal 1910 al dicembre del 2006 il Ridotto del teatro ospitò la Galleria d'arte moderna di Palermo che venne successivamente spostata al Palazzo Bonet.

Dal dopoguerra - a partire dal 1947 circa - l'edificio ospitò l'attività di cinematografo. Come cinema "Politeama" l'attività proseguì, quasi ininterrottamente, sino al 1974, quando - a causa della chiusura del Teatro Massimo Vittorio Emanuele - verranno abbandonate, definitivamente, le proiezioni cinematografiche, e riprese le attività teatrali.

Nel 2000, in occasione del G8 ospitato in città, vennero realizzati i restauri delle decorazioni pompeiane policrome dei loggiati. Dal 2001 il teatro è sede dell'Orchestra Sinfonica Siciliana. A partire dall'estate del 2011 iniziano i lavori di restauro della facciata posteriore del teatro.

L'opera propone simmetrie con sinteticità espositive in sinergia ad equilibri neoclassici caratteristici degli Archi di Trionfo napoleonici, con gruppi bronzei di cavalli rampanti posti all'ingresso dell'edificio.

Giuseppe Damiani Almeyda s'ispirò ai modelli del classicismo accademico in voga alla fine dell'Ottocento. Secondo Antonella Mazzamuto (Luoghi di Sicilia, Teatri tra ‘800 e ‘900. Edizioni Ariete, 2000), "il tipo adottato nel Politeama Garibaldi è quello del teatro-circo, in cui però la forma semicilindrica del prospetto nasconde una sala a ferro di cavallo con due ordini di palchi ed un profondo loggione. È una soluzione che ricorda il primo Hoftheater di Gottfried Semper, realizzato a Dresda, dove l'andamento semicircolare del fronte contiene ancora una sala di tipo tradizionale.

L'architettura del Politeama – sottolinea ancora la Mazzamuto – rimanda, poi, "al progetto teorico di teatro del Durand che aveva canonizzato la riproposizione del monumento storico: l'anfiteatro romano. Damiani Almeyda non adotta i tre ordini di arcate del Colosseo, come fa Durand, bensì un doppio ordine con trabeazione, secondo modalità desunte dall'architettura pompeiana".

Inoltre la struttura cilindrica con la quale si presenta ci ricorda il famosissimo Pantheon romano.Similmente il teatro ha al centro del tetto un foro di forma ovale che si apre grazie ad una struttura metallica mobile che consente di prendere aria e luce nelle rappresentazioni diurne.

Il valore di questa costruzione sta nell'esaltazione della funzione sociale del teatro come "teatro del popolo" con l'enorme sala a ferro di cavallo (che nel 1874 poteva contenere cinquemila spettatori) con due file di palchi, dominata da una grande galleria articolata in due ordini.

L'ingresso è costituito da un arco di trionfo sormontato dalla quadriga bronzea di Apollo, opera di Mario Rutelli, cui s'affianca una coppia di cavalli bronzei di Benedetto Civiletti.

Chiesa e Oratorio di Santa Cita

La Chiesa dedicata alla vergine toscana Santa Cita (dialetto toscano che sta per Zita) fu fondata nei primi anni del trecento da facoltosi mercanti toscani e fu donata, nel 1428, ad un gruppo di frati Domenicani. La Chiesa subì negli anni successivi parziali modifiche ed abbellimenti, prima di essere in gran parte demolita nel 1583, allorché i frati, grazie alle rendite accumulate dall’aver concesso alle famiglie più facoltose della città di seppellire qui i propri cari, decisero di ampliarla.

La nuova chiesa con una pianta a croce latina a tre navate fu terminata nel 1603 su progetto di Giuseppe Giacalone. La facciata, invece, fu ultimata nel 1781 ad opera di Nicolò Peralta.

A causa dei bombardamenti dell'ultima guerra, sono state eliminate le navate laterali irrimediabilmente danneggiate.

La Chiesa di Santa Cita è oggi dedicata a San Mamiliano, primo vescovo di Palermo.

Attiguo alla chiesa è l'Oratorio con i preziosi stucchi del Serpotta.

La facciata settecentesca presenta tre portali di ingresso sopra i quali la figura del cane con la fiaccola in bocca, simbolo dell’ordine di San Domenico, su quello principale, e della Carità e della Fede, rispettivamente sul portale sinistro e destro.

L'interno della chiesa è arricchito da pregevoli decorazioni ed opere d’arte.

Grande rilievo hanno le opere realizzate dallo scultore Antonello Gagini: la tribuna e l’arco (1516) posti dietro l’altare maggiore, e l’arco (1517) che si trova nella seconda cappella a destra del transetto. Entrambe le opere appartengono alla prima struttura della chiesa e furono salvate e conservate nei lavori di ricostruzione iniziati nel 1583.

Appartiene ad A. Gagini anche il sarcofago di Antonio Scirotta che si trova nella seconda cappella a sinistra del transetto.

Ricca di fascino e leggenda è la Cappella titolata al Crocifisso, la prima nell’ala sinistra del transetto. La cappella fu concessa nel 1614 alla famiglia Lanza, ai quali fu consentito di aprire una cripta. Quest’ultima è rimasta nascosta per secoli ed è stata ritrovata soltanto 20 anni fa. All’interno, tra pareti decorate, un altare su cui era posta una mirabile “Pietà” attribuita a Giorgio da Milano. Ma anche quattro sarcofagi: quello di Blasco Lanza, primo barone di Trabia, del figlio don Cesare Lanza, della seconda consorte di quest’ultimo, Castellana Centelles, e quello anonimo con la figura scolpita di una giovane donna che potrebbe essere quello di Laura Lanza, Baronessa di Carini, figlia di don Cesare ed uccisa proprio da quest’ultimo.

Tra i dipinti d’epoca presenti, la tela dedicata al Beato Geremia di Antonio Manno (1785), posta sopra l’altare a sinistra del transetto, e la preziosa tela di Filippo Paladini raffigurante Santa Agnese da Montepulciano (1603).

Il gioiello più autentico della Chiesa di Santa Cita è però costituito dalla Cappella dedicata alla Madonna del Rosario, la prima nell’ala destra del transetto. Il complesso decorativo che si presenta agli occhi del visitatore è uno tra i più belli di tutta la città e uno degli esempi più ricchi del barocco siciliano.

Tra decorazioni ad intarsio di marmi mischi, gli inserti scultorei di puppi, ghirlande, motivi. Magnifici sono gli stucchi alle pareti realizzati tra il 1697 ed il 1722 da Gioacchino Vitagliano: dieci teatrini dedicati ai "Misteri del Rosario", con la raffigurazione di scene della vita di Gesù. Completano la cappella la pala d’altare dedicata alla "Madonna del Rosario", il magnifico affresco sulla volta “I cinque Misteri Gloriosi” di Pietro Aquila ed il pavimento ricoperto di lapidi sepolcrali in marmi policromi.

L’oratorio del Rosario in Santa Cita (dialetto toscano che sta per Zita) si trova sul lato destro dell’omonima chiesa, in via Valverde.

Fu fondato nella seconda metà del Seicento, sui resti di un precedente oratorio, dalla Compagnia del Rosario, costituita da esponenti della ricca borghesia mercantile.

La parte architettonica è attribuibile a Giacomo Amato mentre l'opera decorativa costituisce uno dei capolavori barocchi di Giacomo Serpotta.

Vi si accede da uno scalone che conduce ad un loggiato tardo cinquecentesco a doppio ordine. Due portali marmorei attribuiti a Giuseppe Giacalone, appartenenti al vecchio oratorio, immettono nell’antioratorio. Tra questi due portali è stato posto il mezzobusto in stucco raffigurante Giacomo Serpotta.

L’antioratorio accoglie molti ritratti dei Governatori della Compagnia. Sulla volta, due angiolini reggono lo stemma della Compagnia del Rosario.

L'Oratorio del Rosario di Santa Cita, unitamente all'Oratorio di San Lorenzo, rappresenta la massima espressione del genio artistico di Giacomo Serpotta che in questo luogo operò una prima volta tra il 1685 e il 1690.

Lo splendido apparato decorativo si sviluppa lungo le pareti laterali con una serie di teatrini raffiguranti i Misteri del SS. Rosario. A sinistra quelli Gaudiosi (partendo dall’ingresso e fino alla arco: Annunciazione, Visitazione, Natività, Circoncisione, Gesù tra i Dottori) nella destra quelli Dolorosi (partendo dall’ingresso e fino alla arco: Gesù nell'Orto, Flagellazione, Coronazione di spine, Salita al Calvario, Crocifissione).

Sopra questi le grandi finestre con le statue allegoriche delle virtù che sorreggono oggetti dorati, tra cui un serpente (simbolo di Giacomo Serpotta).

E un tripudio di putti che giocano su festoni di fiori e frutta. Alcuni voltando le spalle in maniera irriverente. Le espressioni, gli sguardi e i gesti sembrano, nella maestria delle loro pose naturali, dar vita ai protagonisti.

Sulla parete di fondo, quella posta alle spalle dei superiori che qui vi sedevano ricevendo gli sguardi dei confrati seduti sui sedili laterali, tanti putti reggono un manto cha fa da sfondo alla rappresentazione dei Misteri Gloriosi (Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, Assunzione, Incoronazione di Maria).

Al centro campeggia l’allegoria della “Battaglia di Lepanto” del 1571, cui è legata la devozione per la Vergine del Rosario, che intervenne miracolosamente consentendo alla flotta cristiana di prevalere contro quella turca.

Due fanciulli posti sulla cornice ai piedi della scena testimoniano, con il loro aspetto dimesso, gli orrori della guerra che sempre punisce sia i vincitori (il putto con l’elmo dell’imperatore Carlo V) che i vinti (il putto con il turbante arabo).

L’altare maggiore, delimitato da pregiate cantorie, è reso ancor più ricco dalla celeberrima pala dedicata alla Vergine del Rosario di Carlo Maratta del 1695.

Ad esaltare la magnificenza della tela, il nuovo intervento del Serpotta tra il 1717 e il 1718, con le decorazione del catino presbiteriale, e l’inserimento a ridosso dell’arco che introduce al presbiterio delle magnifiche statue di Ester (a sinistra) e Giuditta (quest’ultima, a destra, raffigurata con ai piedi la testa decapitata di Oloferne), tra le più belle figure muliebri realizzate dall’artista.

Completano l'arredo le panche sulle pareti laterali per i confratelli, in ebano intarsiate in madreperla, e il pavimento a tarsie marmoree che si estende in un intreccio di stelle ad otto punte.

Fortezza del Castellammare

Uno dei monumenti storicamente più emblematici della città, del tutto sconosciuto a molti, soprattutto alle giovani generazioni di palermitani, è il complesso fortificato del Castello a Mare. "Castrum Inferior" posto all’imboccatura dell’antico porto della Cala, dal XII secolo, probabile momento della sua edificazione, ha svolto il fondamentale ruolo di sentinella della città.

Una prima fortificazione è edificata in epoca araba intorno al IX secolo, edificata rivolta verso il mare per il controllo e la difesa del porto, a ridosso della La Cala, nell'area adiacente alla Kalsa. Nel recinto è documentata una moschea, strutture restaurate in epoca normanna da Roberto il Guiscardo e dal Gran Conte Ruggero a riconquista avvenuta. Con le ristrutturazioni operate dagli Altavilla la moschea fu derivata nella chiesa di San Giovanni Battista a Castellammare.  

Nel 1333 la flotta di Roberto d'Angiò, nell'ambito delle Guerre del Vespro tentò d'assaltarlo. Fino al 1337 fu la residenza preferita del sovrano Federico III di Sicilia che riformò personalmente l'ordinamento delle prigioni in esso ospitate. Le carceri molto vulnerabili dal punto di vista della sicurezza, per via dei frequenti assalti, quando non subivano veri e propri sabotaggi o bombardamenti dall'esterno, motivarono i primi interventi di restauro a carico dei cittadini.

Fino agli eventi contraddistinti dal Giuramento di Castronovo, regnante Martino il Giovane, il maniero ospitò i tribunali della giustizia ordinaria, secondo il privilegio concesso da Federico III di Sicilia. Gli uffici dei tribunali approdano nel Palazzo Chiaramonte-Steri fino al 1598, per essere trasferiti nel restaurato Palazzo Reale. Sotto la reggenza di Bianca di Navarra nel 1417, per garantire la sicurezza della struttura è costruito un fossato, la porta e gli accessi sono dotati di barbacane, sono poste grate e sbarre alle finestre, è completato il tetto, sono aggiunti quegli accorgimenti atti a migliorare le funzioni e la qualità di vita delle persone e delle istituzioni in esso ospitate.

Nel 1445 furono aggiunte altre opere difensive volute da Alfonso V d'Aragona, è documentato il luogo di culto retto da un cappellano, i magazzini d'approvvigionamento di cereali e legname, i locali per la macinatura del grano.

Tra i vari documenti del XIV e del XV secolo, è pervenuto un inventario delle armi e dei beni, redatto nel 1478, in occasione della morte del castellano Giovanni Antonio Fuxa.

Nel 1496 sono documentati altri lavori d'ampliamento voluti da Ferdinando II d'Aragona e commemorati con una targa marmorea posta all'ingresso, fortificazioni motivate dai sempre più frequenti assalti di flotte corsare genovesi e saracene.  

Le opere continuarono il secolo successivo sotto il viceregno di don Ferrante Gonzaga (nel Castello ebbero i natali due dei suoi figli Francesco e Giovanni Vincenzo, divenuti in seguito Cardinali). In quell’epoca la fortezza venne ancora rafforzata con la costruzione di un nuovo sistema bastionato e si realizzarono i grandi baluardi dei lati occidentale e meridionale . Il primo che inglobò il Bastione di S. Pietro, prese il nome di Baluardo di S. Giorgio, per la vicinanza con la porta di S. Giorgio che si apriva nel tratto di mura contigue alla fortezza; quello meridionale si chiamò Baluardo di S. Pasquale. Successivi ampliamenti, modifiche e trasformazioni del complesso architettonico continuarono fino alla fine del XVIII° secolo.  

La lunga e tormentata storia del Castello a Mare è quasi una metafora di quella della città, da sempre legata intimamente ai fatti più salienti delle vicende palermitane. Residenza preferita dall’imperatore Federico II per i suoi soggiorni in città, dal XV secolo il Castello ebbe funzione di residenza del governo vicereale e, a seguito della rivolta popolare capeggiata da Gianluca Squarcialupo nel 1517, anche dello stesso viceré che vi si trasferì per maggiore sicurezza. Successivamente, per un breve periodo (1553­1601), e in maniera non proprio continua, fu sede del Tribunale della “Santa” Inquisizione spagnola, introdotta in Sicilia fin dal 1487 da Ferdinando d’Aragona, con le sue anguste e tristemente note prigioni sotterranee, e una cappella per i condannati a morte.

Nel 1593 una forte esplosione provocò tantissimi morti tra detenuti e carcerieri; tra le vittime vi fu il poeta monrealese Antonio Veneziano.

Successivamente, nel 700, venute meno le esigenze difensive, il complesso fortificato sopravvisse solo con funzione di controllo nei confronti della città contro eventuali tentativi di insurrezioni popolari.

In età borbonica divenne struttura puramente difensiva, nota per essere stata sede di iniziative anti-borboniche concluse poi negativamente coi moti del 1718 e 1734. Nel 1722, sulla piazza antistante è documentata l'installazione della statua di San Giovanni Nepomuceno, realizzata da Tommaso Maria Napoli, manufatto custodito dopo gli eventi del 1860 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli detta la «Gancia», oggi nella cappella eponima della chiesa di San Giacomo dei Militari.

Con Ferdinando III di Borbone sono aggiunte altre fortificazioni. Tra le più importanti: il Bastione di San Pietro, la Porta Aragonese, il Baluardo di San Giorgio, il Baluardo di San Pasquale e il Baluardo del Principe di Lignè.

Durante l'insurrezione di Palermo fu uno dei punti da cui si bombardò la città e fu parzialmente smantellato dopo la partenza delle truppe regie. Tuttavia proprio durante il Regno delle due Sicilie alcune strutture furono sottoposte a restauri e ammodernamenti fino al regno di Francesco II nel 1860, quando l'intero complesso fu assaltato e in parte demolito dalla popolazione, secondo la richiesta formulata a Giuseppe Garibaldi.

Dopo l’unità d’Italia ciò che era stato risparmiato venne adibito a caserma militare, mantenendo questo ruolo fino al 1922, anno in cui allo scopo di sistemare le nuove attrezzature portuali, su disposizione del governo fascista si consumò uno dei più assurdi scempi urbanistici della storia palermitana. A nulla servirono gli accorati appelli del Soprintendente ai Monumenti della Sicilia Francesco Valenti e di altri illustri intellettuali dell’epoca, dall’ingegnere Ernesto Basile, al direttore del Museo Nazionale professor Ettore Gabrici, che non riuscirono ad evitare che le ruspe della ditta McArthur di Londra, portasse a compimento la demolizione della fortezza del Castello a Mare, da cui si salvarono, in parte, solo il “Mastio” e l’antica porta di accesso alla fortezza.

Fino al 1923 la fortezza presentava una cinta muraria quadrangolare bagnata su due lati dal mare, che racchiudeva al suo interno un enorme complesso architettonico, risultato di continue ristrutturazioni e adattamenti alle varie esigenze occorse nel tempo.

Anticamente composto da un grande maschio di epoca araba, alcune parti normanne, bastioni e zona d'ingresso quattrocenteschi, un palazzetto rinascimentale, una chiesa cinquecentesca (la Madonna di Piedigrotta, edificata su una antica moschea araba), due basse torri esagonali e molte altre strutture e fabbriche di epoca più recente.

Degli antichi edifici rimangono parte della torre maestra, la torre cilindrica e il corpo d'ingresso.

Dopo un lungo abbandono, dal 2006 tutto il complesso architettonico è stato interessato da vasti interventi di scavo e di restauro che hanno permesso di liberare tutta l’area, riportando alla luce gran parte delle strutture murarie dell’originario complesso fortificato. E’ stata inoltre scoperta una vasta necropoli di età musulmana utilizzata anche nel periodo normanno.

Il recupero e la restituzione alla città di un monumento di così straordinaria importanza come il Castello a Mare rappresenta, oltre che una risorsa fondamentale sotto il profilo urbanistico e architettonico, una ritrovata consapevolezza del valore delle proprie memorie, e anche la ricostituzione dello stretto legame che i palermitani hanno sempre avuto con il loro mare, rescisso quasi un secolo fa dal ”piccone demolitore”.  

Palazzo Chiaramonte

Edificato nei primi anni del XIV secolo da Manfredi I Chiaramonte conte di Modica e Capitano Giustiziere di Palermo, esponente di una delle famiglie feudali più ricche e potenti del regno. Palazzo Chiaramonte, detto anche lo Steri, rappresenta un vero “monumento-documento” di questa città. I Chiaramonte agli inizi del trecento, al culmine della loro potenza e ricchezza avevano acquistato a Palermo, a ridosso dell’antica Kalsa, un’enorme estensione di terre paludose dal convento di S. Maria di Ustica, le avevano bonificate e dato inizio (sembra su preesistenze più antiche), alla costruzione del loro palazzo fortificato “Hosterium Magnum” (donde il nome Steri) che doveva rappresentare l’emblema della famiglia e del potere politico che essi esercitavano in città.

L’affermazione dei Chiaramonte (originari da Clermont-en-Beauvais), si delinea prima della fine del XIII secolo, con la costituzione di un grande patrimonio feudale che si realizza in seguito a una doppia successione femminile: Manfredi I infatti, eredita dalla madre Markisia Prefolio il casale di Caccamo, col suo castello turrito e merlato, e acquisisce attraverso la moglie Isabella, figlia di Federico Mosca, la Contea di Modica, la più grande Contea di Sicilia. 

I Chiaramonte dominano, oltre che nella contea di Modica, su Palermo, su Agrigento e sull’immenso territorio posto fra le due città. Grazie a questi vasti possedimenti terrieri erano diventati potentissimi, e proprio a Palermo si imponevano come potere alternativo alla Corona, così forte e arrogante al punto che solo con il loro consenso i deboli sovrani aragonesi avevano libero accesso in città. Era fatale che in tali condizioni il turbolento baronaggio siciliano tentasse di opporsi al soverchiante potere dei Chiaramonte, così che, dopo la morte dell’ultimo re aragonese Federico IV, nell’isola si visse in un clima di profonda anarchia e la Sicilia fu teatro di una accesa guerra di fazioni che coinvolse i più potenti signori feudali del tempo divisi in due partiti: la fazione latina e la fazione catalana, la prima, capeggiata dai Chiaramonte, era composta dai discendenti dell’antica nobiltà di origine normanna e sveva ormai naturalizzata siciliana, la seconda, capeggiata dagli Alagona, era composta dalla nobiltà di più recente importazione iberica. 

L’arroganza, la potenza economica delle grandi famiglie comitali cresce a dismisura e tocca l’apice quando incuranti dell’autorità regia, le quattro più potenti famiglie del regno, i Chiaramonte conti di Modica, i Ventimiglia conti di Geraci, gli Alagona conti di Agosta e i Peralta conti di Caltabellotta, arrivarono a spartirsi sia politicamente che territorialmente la Sicilia, instaurando un governo chiamato dei “Quattro Vicari”. Ma quando la giovane figlia dell’ultimo re aragonese Maria di Sicilia, andò in sposa a Martino  (il Giovane), duca di Montblanc si sancì l’unione delle corone di Sicilia e di Aragona, mettendo la nobiltà siciliana di fronte a una situazione complessa, e determinando in pratica, la fine della supremazia dei quattro vicari e dei loro privilegi. In questo stato di cose, molti baroni cominciarono a trattare con Martino, comprendendo infatti che l’unica via per salvare la propria posizione era quella dell’accordo con il sovrano aragonese. Il nuovo re venuto dall’Aragona, trovò unico fiero oppositore in Andrea Chiaramonte, figlio bastardo di Manfredi III, che insieme a pochissimi fedeli tentò a Palermo una disperata resistenza. Ma era troppo impari il rapporto di forze e dopo un mese di assedio Andrea Chiaramonte si arrendeva e si sottometteva a Martino di Montblanc. Il primo di giugno del 1392 venne decapitato ai piedi del palazzo dei suoi avi, simbolo della potenza e dell’orgoglio del suo casato.

Morto Andrea, i Chiaramonte scomparvero dalla storia e i sovrani aragonesi, intrapresero una politica volta a cancellare la memoria del  periodo chiaramontano, confiscarono l’immenso patrimonio immobiliare della famiglia che passò al demanio regio, compreso il palazzo-fortezza del Piano della Marina.

Il prestigio e la magnificenza dei Chiaramonte influenzò la cultura architettonica del trecento, che è passata alla storia sotto il nome di “arte chiaramontana”: singolare innesto di forme islamiche, normanne e gotiche, amalgamate in un’arte tutta ed esclusivamente siciliana.

Palazzo Chiaramonte è il più solenne e splendido documento di questa arte, che in Sicilia per una stagione brevissima ha avuto preziosa fioritura. Sede vicereale, della Regia Curia, del tribunale del Santo Uffizio e infine sede di uffici giudiziari, il palazzo oggi è sede del rettorato universitario, una delle maggiori istituzioni culturali della città.

In origine la storica dimora era circondata da un grande e rigoglioso giardino ricco di piante ornamentali, di alberi da frutto e con tanti animali esotici. Era stato costruito seguendo i canoni del palazzo residenziale,  tipica dimora aristocratica medievale, rispondente all’esigenza di esprimere con la sua forma severa e massiccia la potenza e la grandezza dei Chiaramonte. Nel contempo questo palazzo, grazie al suo cortile interno con portico sottostante e loggiato superiore, che anticipa il modello rinascimentale della grande residenza nobiliare, si pone come uno dei primi prestigiosi esempi di palazzo signorile italiano, ed è arrivato fino ai nostri giorni come testimonianza di un’epoca. Nel prospetto antistante la piazza è possibile cogliere gli elementi della tradizione architettonica trecentesca nelle ampie finestre bifore e trifore, con le caratteristiche decorazioni ad intarsio.

L’ingresso al palazzo, oggi avviene sul lato orientale, presso la cappella trecentesca di Sant’Antonio Abate, coperta con volte costolonate e con un bel portale quattrocentesco, anche questa fatta edificare da Manfredi Chiaramonte come cappella privata della famiglia. La magnifica corte a duplice loggiato presenta forme essenziali con una serie di arcate a sesto acuto poggianti su colonne con capitelli di diverso aspetto e di diversa provenienza.

La sala magna terranea (oggi adibita a spazio espositivo) ricalca modulo e dimensione della sala magna superiore: molto interessante la spina di grandi arcate in pietra, che attraversa tutto l’ambiente dando l’effetto di una spazialità superiore a quella reale. Dall’interno del cortile, tramite una scala interna a rampe contigue, si accede alla “Sala Magna”, il cui soffitto ligneo a cassettoni di rara suggestione, è il più grande soffitto dipinto rimastoci a testimonianza della ricchezza di questi elementi strutturali e decorativi. 

Un grandioso complesso figurativo e ornamentale di grande efficacia descrittiva, un’eccezionale ciclo pittorico di arte “mudejiar” che trova riscontro solo nei più preziosi “artesonados” spagnoli. Venne realizzato in soli tre anni tra il 1377 e il 1380, per volontà di Manfredi III, da tre artisti popolareschi siciliani che ci trasmisero i loro nomi in tre iscrizioni, di cui una fino a pochi anni fa non era conosciuta. L’uno è Cecco di Naro “Chicu pinturi di Naru”, l’altro è Simone da Corleone “mastru Simuni pinturi di Curiglu”, e il terzo è un tal “mastru Darenu pingituri di Palermu”. Vi sono raffigurate scene dell’antico testamento, leggende cavalleresche, episodi popolari, scene d’amore, stemmi nobiliari ed episodi celebrativi della famiglia Chiaramonte. Senza dubbio nelle travi di questo soffitto è condensata una vera enciclopedia medievale. 

Da questa sala, attraverso eleganti finestre bifore con delle sottili colonnine bianche, le stesse che vediamo dall’esterno, adorne di cornici in tufo intagliato e intarsi in pietra lavica, arte chiaramontana per eccellenza, possiamo ammirare l’odierna piazza Marina, ombreggiata dall’immenso ficus Magnolioides di villa Garibaldi , che visto da qui, sembra di dimensioni ancora più grandi.

Nella parete esterna della sala magna, sotto il loggiato, troviamo due splendide trifore ornate con caratteristici motivi a zig-zag che l’arte chiaramontana riprese dagli schemi decorativi altomedievali. Sempre al primo piano si trovano altri ambienti di rappresentanza, come la sala che oggi ospita lo studio del rettore e la “sala dei vicerè,” con bel soffitto ligneo, destinata alle sedute del senato accademico.

Altro ambiente di notevole bellezza è l’altra sala del piano superiore chiamata delle “Capriate”, così detta per le caratteristiche capriate che sorreggono il tetto, che il rettorato mette solitamente a disposizione per convegni e conferenze.

Agli inizi del seicento, al tempo del tribunale dell’Inquisizione, il palazzo fu interessato da radicali trasformazioni per adattarlo al nuovo uso. Si progettarono e si realizzarono in pochi anni le carceri dei “penitenziati” e la porta monumentale sul piano della marina. Vennero realizzati anche la scala e i vani di collegamento delle celle con la “stanza del secreto“, dove gli inquisitori si riunivano per emettere le sentenze. In seguito furono costruite le celle del primo piano e si eseguirono altri lavori che comportarono una notevole trasformazione dell’originaria configurazione dell’edificio.

Al pianterreno, oltre alle celle erano sistemate le sale di tortura dove avvenivano gli interrogatori dei carcerati, anche se il tribunale dell’inquisizione poteva condannare con una sola testimonianza . Agli inizi del novecento sono stati scoperti dal grande studioso delle tradizioni popolari siciliane Giuseppe Pitrè, sotto gli intonaci, graffiti con disegni e frasi di dolore dei carcerati che vi erano rinchiusi, che lo studioso riuscì a salvare dalla completa distruzione. Altre testimonianze del periodo dell’inquisizione sono stati scoperti nel corso di più recenti restauri, quei muri che sembravano custodire solo quei pochi graffiti scoperti dal Pitrè, invece occultavano scritti e disegni di una straordinaria varietà, un vero patrimonio di interesse storico e culturale.

Nei suoi quasi sette secoli di vita il palazzo-fortezza dei Chiaramonte si può dire che ha accompagnato la storia di questa città, è stato testimone di tantissimi eventi storici, di episodi tragici, di avvenimenti pubblici e privati che si svolsero dentro e fuori le sue mura. Il piano della marina per secoli fu teatro di spettacoli solenni come cavalcate, tornei, giostre, ma anche di un altro genere di spettacoli: questo luogo infatti era destinato alle esecuzioni capitali dei condannati a morte. Vi sorgeva in permanenza il patibolo per i criminali di bassa estrazione, e di volta in volta, veniva innalzata la mannaia per le esecuzioni di nobili e borghesi. Anche il famigerato tribunale del sant’Uffizio vi svolgeva i suoi roghi e celebrava gli autodafè (atto di fede), che contribuivano a dare a questo luogo un aspetto lugubre e sinistro.

Da notare nella facciata rivolta verso piazza Marina, nel secondo ordine, si vedono scavati nella pietra dei solchi, lasciati dalle pesanti gabbie di ferro che pendevano dai merli del palazzo (macabro monito), dove per oltre due secoli e mezzo vi erano esposte le teste dei nobili condannati a morte per la sfortunata congiura filo-francese del 1523, nota con il nome di “Congiura dei fratelli Imperatore” dove fu giustiziato tra gli altri Federico Abbatellis conte di Cammarata, proprietario del palazzo contiguo allo Steri. Un eguale tragico destino accomuna questi  personaggi, ultimi proprietari di questi due palazzi: Andrea Chiaramonte e Federico Abbatellis furono spogliati dei loro beni e decapitati entrambi.

Lo Steri un tempo era il simbolo del potere sociale, economico, militare e politico, di una signoria splendida e imperiosa che osò sfidare l’autorità della Corona.

Oggi rimane uno dei più importanti monumenti del nostro  patrimonio architettonico, parte di quel grande “museo a cielo aperto” che  è questa nostra splendida città.  

Piazza Marina e Giardino Garibaldi

La grande piazza, ora occupata in gran parte dalla villa, era anticamente una bassa ma larga insenatura di mare. Lungo il suo arco, fin dai tempi dei musulmani, si allinearono vari edifici e quello spiazzo rimase a lungo nudo e scoperto. Dopo la liberazione Garibaldina la piazza fu sistemata a “square” e nel 1864-66, su disegno di G. B. Filippo Basile, vi sorse la Villa Garibaldi, caratterizzata da una fitta vegetazione ed alcuni maestosi esemplari di “ficus magnolioides” e numerosi i busti di protagonisti del Risorgimento.

La piazza Marina servì di volta in volta agli usi più svariati. Vi si svolgevano tornei, giostre corride di tori, cacce artificiali, fuochi d’artificio, vi si teneva mercato, vi si costruivano baracche per rozze rappresentazioni comiche, dette “vastasate” e per l’opera dei pupi, il teatro delle marionette, vi si erigevano anche macchine di ogni specie per le pubbliche feste. Memorabili furono le giostre ivi combattute nel 1542 per le nozze di Don Cesare Consaga con Diana Cardona, quelle del 1544 per la pace fra Carlo V e Francesco I, quelle del 1572 per la venuta di don D’Aragona col Marchese di Geraci.

Nel 1680 vi fu eretto un’enorme teatro ligneo per il pubblico strabocchevole che assisteva la giostra in onore di Carlo II che sposava Maria Luisa di Borbone.

Ma alla piazza il popolo accorreva in massa per assistere anche a pubbliche esecuzioni capitali.

Nel 1633, ad esempio, ebbe luogo in questa piazza l’esecuzione capitale della famosa avvelenatrice Francesca La Sarda (nota anche come “Peppa”); in questo caso i palchi eretti per l’occasione non ressero al peso della folla e sprofondarono, con gravi danni agli spettatori.

Le forche erano erette in permanenza ed erano riservate agli ignobili, cioè al popolo di bassa estrazione. Per i nobili ed i ricchi si levava di volta in volta la mannaia. Forche e mannaie non furono i soli arnesi a dare aspetto sinistro allo spiazzo; spesso, nei secoli XVII e XVIII, vi arse il rogo per le vittime del famigerato tribunale del S. Uffizio, in omaggio all’oscurantismo dei tempi.

Nella seconda metà del XIX secolo, in seguito all’unificazione d’Italia, nuove forze politiche affrontarono il tema del rinnovamento urbano con una visione che coinvolgeva l’intera città.

In tale ottica s’inquadra l’iniziativa del 2 agosto 1860 del pretore di Palermo Giulio Benso, duca di Verdura che incaricò un gruppo  di architetti ed Ingegneri di ideare un vasto piano di fondamentali riforme ed ingrandimento che rispondesse alle esigenze dei tempi e mettesse Palermo al livello delle migliori città d’ Europa.

Il collegio di professionisti era formato da Agostino Pastiglia, Francesco De Simone, Rosario Torregrossa, Giovanni Moscuzza, Pietro Rainieri e Giovanni Battista Filippo Basile.

La “Commissione del progetto di riforma e abbellimento della città” nel 25 settembre 1860 consegnò all’esame della “Commissione delle opere pubbliche della città” il risultato dei propri lavori concretizzati in più progetti.

Il consolidarsi di una borghesia attenta alle dinamiche della rendita urbana fece si che le “tecnica haussmanniana” degli sventramenti permeasse facilmente il tessuto culturale e popolare della città dando il via a vasti  interventi finalizzati a costruire le nuove residenze della borghesia e i servizi e le attrezzature che dovevano elevare Palermo al rango delle capitali europee.

Nel 1860 il Sindaco Antonio Starrabba, marchese di Rudinì, decise di trasformare la parte centrale della piazza in giardino pubblico affidandone la progettazione a Giovan Battista Filippo Basile. Il Basile in quel periodo pubblicava il “Giornale di Antichità e belle arti”, nel quale ebbe modo di divulgare le informazioni riguardanti i lavori relativi allo square di piazza Marina, dalla progettazione alla realizzazione.

Nella redazione del progetto, Basile incontrò non poche difficoltà, dovute soprattutto alla forma quadrilatera irregolare, al non perfetto allineamento degli edifici sui quattro lati dell’area ed al consistente dislivello tra i vertici della piazza (oggi tra i vertici nord e sud esiste un dislivello di mt 3.20). L’intervento di Basile non si limitò quindi al solo giardino ma all’intera sistemazione del piano. La zona da trasformare in giardino fu delimitata da quattro strade, dopo lo spianamento dell’intera area.
Per colmare il dislivello tra il nuovo piano e gli ingressi dei palazzi delimitanti la piazza a nord-est (l’edificio della Zecca, poi palazzo delle Finanze, e i palazzi Sant’Onofrio e Abatellis) fu realizzato un alto stereobate in pietra.

Le opere di sistemazione del perimetro della piazza inquadrano il Giardino al centro. Questo fu realizzato, su progetto di Basile, in un solo anno e completato il 7 ottobre 1864. L’inaugurazione avvenne il 9 ottobre  1864, come riporta il “Giornale di Sicilia” del 6 ottobre 1864.

All’interno delle aiuole, variabili per forma e dimensioni, sono presenti diverse specie di piante tropicali e subtropicali come Araucarie, Washingtonie, Ibiscus ed i monumentali Ficus (Ficus Magnolioides, Ficus beniamina) che per le dimensioni e lo sviluppo raggiunto dai rami e dalle radici aeree, sono tra gli elementi più ammirati della piazza. Si suppone che, in quel tempo nessuno prefigurasse lo sviluppo di tali piante.

Poiché il giardino era la più importante realizzazione dopo i moti del Risorgimento, fu deciso di intitolarlo a Giuseppe Garibaldi, e per questo venne trasferito a Piazza Marina il busto dedicato a Giuseppe Garibaldi ubicato precedentemente nel parterre del Giardino Inglese di via Libertà.

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Agosto 2018