Bagheria
(Palermo)

   

Tra il VII e il III secolo a.C. è attestato lo strategico insediamento di Monte Porcara, situato a 3,5 km in direzione sud-ovest da Bagheria. La città di Bagheria sorge in una stretta piana a sud-est della città di Palermo, sovrastata dal Monte Catalfano insieme al Monte Consona e alla Montagnola di Serradifalco, dove si estendeva la cosiddetta Foresta della Bacarìa

L'origine urbanistica di Bagheria ebbe inizio dall'edificazione del Palazzo Butera ad opera del principe Giuseppe Branciforti, ultimata nel 1658 da una precedente masseria di proprietà di Benedetto Rizzo, che Branciforti aveva acquistato nel 1595. Il tessuto urbano si sviluppò da una serie di modeste costruzioni dove alloggiavano gli inservienti di Giuseppe Branciforti; tra il 1653 e il 1697, benché in assenza di licentia populandi, vennero realizzate 43 abitazioni, mentre tra il 1705 e il 1723 si ebbe un incremento di 137 unità abitative. 

Nel 1769 si venne a delineare l'asse principale dell'impianto urbanistico bagherese ad opera di Salvatore Branciforti - ovvero il Corso Butera, popolarmente detto Stratuni per differenziarlo dallo Stratunieddu (il Corso Umberto I) - insieme alla costruzione della Chiesa Madrice che fu ultimata nel 1771. Una lapide in marmo del 1769 ricorda la realizzazione del Corso Butera

Importante arteria di Bagheria è il Corso Umberto I, anticamente Via Municipio, che fu tracciato per metà da Salvatore Branciforti nella seconda metà del XVIII secolo; vi si trova il palazzo del Duca di Milazzo, dove venne ospitata la regina Maria Carolina d'Austria. A metà sviluppo del Corso Umberto I sono presenti, inglobati nel tessuto urbano, i due alti pilastri in calcarenite che costituivano l'accesso secondario alla Villa Palagonia; raffigurano ciascuno due statue armate, con elmi piumati e scudi, tra cui la Giustizia con bilancia e spada. Altra importante arteria all'interno del tessuto urbano è la cosiddetta Corsa Vecchia, diventata successivamente Via Ciro Scianna.

Chiesa della Natività di Maria

Chiesa Madrice. Fu fatta erigere, a partire dal 1769 ad opera dell’architetto Salvatore Attinelli, da Salvatore Branciforti, per sostituire la piccola chiesetta che si  trovava all’interno di Palazzo Butera. 

L’edificio fa da fondale al Corso Umberto con il suo maestoso e imponente prospetto neoclassico in pietra  di Aspra, costituito da pilastri e colonne corinzie, con un portale al centro sormontato da un arco su cui si trova lo stemma dei Branciforti.

La Chiesa è formata da un’unica navata con l’altare maggiore contenente  la statua in legno dell’Immacolata. Vicino l’altare maggiore, è presente  un medaglione che raffigura una Madonna con Bambino, in marmo, della scuola del Gagini, donato dal fondatore.

La navata è arricchita da quattro altari laterali che contengono:  una tela con la Madonna del Rosario, una con San Bonaventura, un dipinto di San Francesco e San Giuseppe con il Bambino Gesù, ed un Crocifisso in legno.

Vi è anche una statua realizzata  da Domenico Quattrociocchi dedicata a San Giuseppe, Patrono di Bagheria. Domenico Mangione, notabile del tempo, fece arricchire il prospetto della Chiesa con un orologio ancora funzionante. 

Nei primi anni del Novecento, l’interno della navata è stato ridipinto in finto marmo, le pareti dell’altare maggiore sono state affrescate con le tavole dei Dieci Comandamenti e con l’Arca dell’Alleanza; verso la metà dello stesso secolo fu fatto erigere il campanile, su quello preesistente che è stato sopraelevato.

Chiesa del Sepolcro

La prima pietra della chiesa fu posta nell’anno 1740 dal principe don Nicolò Branciforti, il quale, si racconta gettò delle monete dove furono innalzate le colonne. Don Giuseppe Toscano  di Casalvecchio di Puglia, primo cappellano rettore della Chiesa, la fece ingrandire ed arricchire di opere d’arte  fra le quali cinque pregevoli dipinti in ardesia che raffigurano: la Sacra Famiglia Sant'Onofrio, Santa Rosalia, Sant’Elia e la Deposizione di Cristo  dalla Croce. Originariamente la Chiesa era costituita da una sola navata, attorno al 1866 ne furono aggiunte altre due laterali ed intorno al 1884 fu modificato il tetto delle due navate, prima a forma di botte.

L’attuale altare maggiore donato nel 1877 da Don Giuseppe Pittalà; proviene dalla Chiesa di San Giacomo a Palermo, andata ormai distrutta. La volta della navata centrale è affrescata con alcune scene della Passione di Cristo. Sull’altare centrale è collocata una statua lignea dell’Addolorata, realizzata all’inizio del XIX secolo da Rosario Quattrociocchi.

Nel 1914, su progetto di Arnò è iniziata la costruzione del prospetto principale, in marmo di Billiemi ed in stile neogotico, i lavori furono completati dopo dieci anni a causa dell’insorgere del primo conflitto mondiale. Nel 2006, la piazza antistante la chiesa è stata risistemata e chiusa alla circolazione veicolare.

Chiesa delle Anime Sante

La chiesa del SS. Crocifisso e delle Anime Sante del Purgatorio detta anche dei Miseremini, eretta nei possedimenti della famiglia Branciforti, è la seconda chiesa sorta a Bagheria. Fu fondata nel 1722, secondo quanto ci riporta lo storico Mongitore “ colle limosine degli abitanti del luogo “, ma come è emerso da recenti documenti  ritrovati, la costruzione risalirebbe al 1710. Tra il 1865 e il 1870, si rese necessario l’ampliamento degli spazi fino a raggiungere le dimensioni attuali. 

Nel 1902 venne fatta realizzare, dall’ingegnere Filippo Scordato, la facciata, in pietra d’Aspra, ritmata da semplici elementi decorativi. Nella parte centrale presenta una ricercata decorazione tridimensionale attraverso cinque arcate arricchite da bifore, sormontate da un rosone. Contemporaneamente si diede mano alla decorazione interna affidata al noto pittore bagherese Onofrio Tomaselli, il quale dipinse, le Anime Purganti (tra cui raffigura anche il suo autoritratto), i quattro Evangelisti, gli apostoli e l’Ultima Cena. 

L’interno è a tre navate divise da colonne. Sull’altare maggiore trova posto una statua lignea del XIX secolo raffigurante la Vergine Immacolata realizzata da Cosimo Quattrociocchi.

Chiesa di Sant'Antonio

Più conosciuta come Chiesa di Sant’Antonino, fu edificata alla fine del XVIII secolo dal duca di Angiò. L’attiguo convento si sviluppò durante il secolo successivo.

Chiesa Maria Santissima del Monte Carmelo

Progettata dall’architetto Pietro La Tona. L’edificio sacro ha forte spessore volumetrico, evidenziato da una coloritura esterna uniforme e solare. La facciata tripartita sul sagrato che diventa una vera e propria piazza, con la volumetrica presenza dei tre corpi, tende a riassumere il concetto  della Trinità. Il grande portone centrale completa l’aspetto  formale del prospetto principale, caratterizzato da un elemento a punta verticale che consente al cielo di penetrare all’interno fino a   farne quasi parte integrante.  

Chiesa di San Pietro Apostolo

Il complesso fu progettato, agli  inizi degli anni Novanta, dagli architetti Cacciatore e Ciotta. Si coglie un ritmico susseguirsi di pieni e di vuoti segnati dalla piazza, dal chiostro e da altri spazi che tendono ad equilibrare il volume costruito. Sulla piazza, che funge da filtro e da primo percorso di accesso, nel lato Ovest, si affaccia il corpo di fabbrica dove sono allocati  i locali destinati ad attività sociali  e catechistiche. 

L’aula che è l’elemento principale di tutto  il complesso si presenta all’esterno come un volume compatto, le superfici non sono interrotte da finestre e la luce filtra attraverso fessure ricavate dall’intersezione  del volume principale con gli altri piani e altre poste negli spigoli. 

Ville

È qui che si concentrano le ville più sontuose della nobiltà siciliana, immerse in rigogliosi giardini, sospese anch’esse tra Barocco e Neoclassico. Le ville sono quasi tutte del XVIII secolo, lo stile è barocco. Non tutte visitabili e molte in stato di abbandono, rappresentarono un tempo le più pregiate residenze estive dell'aristocrazia palermitana; è stato ipotizzato un preciso intento architettonico con stretti riferimenti alla filosofia alchemica settecentesca che sarebbe alla base dell'edificazione di alcune ville, in particolar modo Villa Valguarnera e Villa Palagonia; in molte sculture e decorazioni di tali ville compare il dio Mercurio, che nel processo alchemico presiedeva alla trasmutazione della materia dallo stato primordiale della nigredo a quello finale della rubedo attraverso l'albedo.

Anche l'impianto planimetrico di Villa Palagonia e Villa Valguarnera, considerato insieme ai viali d'ingresso, sarebbe ispirato alla forma della chiave dell'Opera alchemica. Questo contesto fortemente simbolico derivò verosimilmente dalla volontà di creare una congregazione arcadica dove gli aristocratici adepti potessero dedicarsi alle arti liberali e alla filosofia alchemica, lontani dall'ostile Tribunale dell'Inquisizione di Palermo.

Palazzo Butera- Branciforti

Questa superba “Domus Magna” cittadina, per l’imponenza del suo impianto e la magnificenza delle sue opere d’arte, è considerata una delle dimore più affascinanti e ricche di storia di tutta la Sicilia.

Il grandioso palazzo, una vera e propria reggia, sorge in via Butera nel cuore dell’antico quartiere della Kalsa, nel sito dove agli inizi del Seicento era stata edificata la casa degli Imperatore, una famiglia di illustri patrizi, senatori e uomini di governo.

Questa antica casa, con frontespizio sulla strada Colonna, acquistata nel 1692 da Girolamo Branciforte, marchese di Martini, costituisce il nucleo originario di Palazzo Butera. A quel tempo non possedeva ancora la fisionomia di un palazzo nobiliare, ma piuttosto l’aspetto disarticolato di un vecchio tenimento di case, confinante con altre case appartenenti ai duchi di Santa Lucia, anch’essi di casa Branciforte, uno dei più prestigiosi casati del Regno.

In seguito al matrimonio nel 1718 tra Ercole Michele Branciforte e Gravina, figlio di Girolamo, e donna Caterina Branciforte e Ventimiglia, figlia di don Nicolò Placido, principe di Butera e duca di Santa Lucia, i due contigui tenimenti di case si unificarono in un unico contesto, divenendo da allora, la residenza ufficiale dei principi di Butera.

Il principe Ercole Michele volle affidare il progetto di ampliamento e ristrutturazione del palazzo, all’architetto crocifero Giacomo Amato il quale realizzò solo in parte il grandioso progetto: la morte colse il noto architetto nel 1732.

Sappiamo di certo che il palazzo già nel 1735 aveva assunto l’aspetto pressoché attuale, almeno per quanto riguarda il prospetto monumentale rivolto verso il mare. Lo dimostra una delle incisioni a corredo del volume, “La Reggia in trionfo per l’acclamazione e coronazione della Sacra Real Maestà di Carlo infante di Spagna…..”, che ritrae la facciata parata a festa in onore del nuovo sovrano. I successivi interventi esterni furono indirizzati quasi esclusivamente all’adeguamento formale dei corpi aggiunti: il contiguo palazzo appartenente ai Moncada, annesso nel 1760, e la dimora di Francesco Benso Landolina duca della Verdura accorpato nel 1801 (sembra che principale scopo dell’acquisto di quest’ultimo palazzo fosse stato l’ambizioso progetto di ricavarvi un enorme salone da ballo). Complesse e stratificate furono le trasformazioni degli interni, disposti ancora oggi secondo criteri distributivi settecenteschi.

PALAZZO - Il castello ha forma rettangolare con due ampie scalinate: una sul fronte sud e l'altra sul fronte est. Il portale sopra la scalinata sud fu realizzato nel '500 ed è coronato da una magnifica decorazione di stile spagnolo che riproduceva con freschezza grappoli di frutta, foglie e fiori. Una decorazione simile la riscontriamo anche nella torre sud intorno ad una nicchia che ospita una statuina raffigurante la Madonna. 

Il castello si snoda attorno a due grandi cortili ed è circondato da bassi 'dammusi' che anticamente erano abitati dai servitori o ospitavano le scuderie, dando vita ad un piccolo borgo, nato all'ombra del castello. All'interno delle mura si trova anche una chiesetta e, nelle vicinanze del palazzo, un teatro.  

Dall’elegante scalone in marmo rosso di Trapani si accede al piano nobile che ha inizio con la grande sala, luogo di celebrazione del casato e suggestivo ambiente di rappresentanza. Sul soffitto campeggia lo stemma che reca i simboli araldici della famiglia Branciforte (il leone rampante con vessillo e due zampe mozzate), attribuito al pittore Gioacchino Martorana. Le pareti della sala sono popolate dai ritratti degli antenati di famiglia, nei quali l’orgogliosa aristocrazia si rimirava compiaciuta, mentre sui sovrapporta sono dipinte le vedute dei numerosissimi feudi del principe di Butera.

Ci si addentra poi nella spettacolare “enfilade” di salotti e saloni di passaggio prospettanti sul grande terrazzo a mare: splendido il salone che, nel secolo scorso, venne destinato a sala da pranzo, la cui sontuosità ancora oggi è leggibile nei magnifici affreschi e nelle decorazioni. Secondo i documenti reperiti, diverse furono le fasi di ristrutturazione degli interni, e numerosi furono le maestranze e gli artigiani coinvolti nelle opere.

Non sembra sia rimasta traccia delle belle opere decorative, profuse senza limitazione di spesa, condotte dal 1728 al 1741 durante il periodo di consulenza dell'architetto Ferdinando Fuga per la realizzazione dei fastosi addobbi del “nuovo camerone”, sotto la direzione dell'ingegnere Giuseppe Li Gotti: opere dei pittori Olivio Sozz e Pietro Martorana in collaborazione con una fitta schiera di indoratori, intagliatori e carpentieri.

Nel 1759 infatti, un devastante incendio rovinò gran parte del palazzo. Si diede inizio allora, a un’impegnativa opera di riconfigurazione e ristrutturazione della nobile dimora.

Dal rovinoso incendio il palazzo risorse ancora più grandioso, avendo il principe Ercole Brancinforte “per ridurlo in miglior forma e maggiore ornamento di questa città”, chiesta la “venditione” coattiva del contiguo palazzo dei Moncada conti di Caltanissetta.

Alcuni documenti relativi agli anni tra il 1765 e il 1767 ricordano una serie di lavori diretti dall’architetto Paolo Vivaldi, comprendenti vari interventi decorativi, dedicati principalmente agli interni del palazzo. Sono da riferire a questo periodo, le splendide pitture raffiguranti prospettive architettoniche a trafori che decorano i soffitti della maggior parte dei saloni del piano nobile e del secondo piano.

Sulle volte di alcuni ambienti del piano nobile, eleganti figure tratte da un raffinato repertorio di temi arcadici ed esotici si affacciano da finte balaustre. 

Al centro del salone Gotico (così chiamato per gli splendidi arredi goticheggianti) e dell’ambiente adiacente, finte architetture incorniciano un ampio vano centrale riservato a raffigurazioni di tipo teatrale: “Diana cacciatrice assisa sul carro trainato da due cervi” e “Apollo sul carro del sole”.

A palazzo Butera prestarono la loro opera, sotto la direzione di vari architetti, artisti di grande fama come Olivio Sozzi, Emanuele ed Elia Interguglielmi, Gioacchino e Pietro Martorana, Gaspare Fumagalli; nonché i migliori decoratori, i migliori stuccatori e i migliori maestri artigiani del periodo, anche se non siamo in grado di risalire esattamente al nome degli autori delle singole opere.

Collezioni di splendidi dipinti, lampadari in vetro di murano, eleganti arredi, raffinati soprammobili e scintillanti pavimenti completano gli ambienti di rappresentanza di palazzo Butera.

La teoria dei saloni che si svolge lungo l’imponente prospetto che guarda a mare si affaccia su una smisurata terrazza che corre ininterrotta al di sopra della cosiddetta “Passeggiata delle Cattive”. Il fascino di questo luogo e il panorama che si gode per la magnifica vista sul golfo di Palermo, non mancarono di suggestionare il grande poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe, che durante la sua permanenza a Palermo soggiornò in una delle parti del palazzo. Così annotava nei suoi diari il 2 aprile del 1787: “ il limpido chiaro di luna ci attirò, la sera […] e, dopo che fummo rientrati, ci si trattenne ancora lungo tempo sulla balconata. Il gioco delle luci era singolarissimo, grandi la calma e l’incanto”.

Con Stefania Branciforte, ultima principessa di Butera, titoli e feudi passarono per via dotale ai Lanza, principi di Trabia e duchi di Camastra.

Gli ultimi ad abitare il palazzo, dagli splendori della “belle Epoque” fino all’ultima guerra, sono stati il principe Pietro Lanza Galletti e la moglie Giulia Florio d’Ondes, figlia di Ignazio e munifica benefattrice dei bisognosi del quartiere della Kalsa. Di essi si ricordano ancora i fasti e la vita mondana assurta a leggenda, ma si ricorda pure, nei ritratti dei due figli caduti in guerra nel fiore degli anni, Ignazio e Manfredi, la grande tragedia che ha segnato questa nobile famiglia.

La prestigiosa dimora è stata proprietà dei Moncada, principi di Paternò e ha ospitato nei suoi ambienti eventi di diversa natura. Mostre d’arte e d’antiquariato, sfilate di moda, congressi e ricevimenti hanno trovato prestigiosa sede nei suoi splendidi saloni.

Oggi il Palazzo è stato acquisito dal collezionista e gallerista Massimo Valsecchi che ne sta facendo un museo d’arte classica e moderna per ospitare mostre e collezioni. I lavori di restauro sono iniziati nel gennaio 2016.

La magnifica dimora nella sua lunga storia ha ospitato tanti personaggi illustri e teste coronate, il Kaiser di Prussia Guglielmo II, l’imperatrice dei francesi Eugenia, i reali d’Inghilterra Edoardo VII e la consorte Alessandra, i Borbone di Sicilia, i Savoia, i reali di Grecia, e tanti principi e capi di stato. Oggi una parte del palazzo, riferibile all’ex palazzo Benso, acquistata dalla Regione Siciliana, ospita gli uffici del tribunale Amministrativo Regionale.

Villa Valguarnera

''Villa Valguarnera era la reggia fra le case principesche della verde vallata'' scriveva il medico e  studioso di tradizioni siciliane Giuseppe Pitrè. La villa è infatti, in assoluto la più imponente e lussuosa delle ville bagheresi. 

Nel 1708, nella tenuta di Valguarnera esisteva già una casina di villeggiatura di stile barocco. Il terreno ove sorge la villa attuale invece, venne concesso dalla famiglia Joppolo, tra il 1712 ed il 1713, e la costruzione del palazzo fu voluto, nel 1714, dalla principessa Marianna del Bosco Gravina, sposata a prime nozze con il principe Emanuele Valguarnera ed in seconde con Giuseppe del Bosco, principe di Cattolica. Gli architetti furono il frate domenicano Tommaso Maria Napoli, coadiuvatore del Senato di Palermo (a lui venne commissionata anche la progettazione di Villa Palagonia), Gascione VanariniGiovan BattistaVincenzo Fiorelli. Morta la principessa nel 1733, la costruzione del palazzo venne continuata dal figlio Francesco Saverio principe di Valguarnera e poi dalla nipote Marianna, che la completò nel 1783.  

Dacia Maraini, nota scrittrice di fama internazionale e discendente della famiglia Alliata, proprietaria della villa, nel suo libro ''Bagheria'' così la descrive : ''...siamo saliti a piedi su per il viale che porta alla villa, lasciando la macchina fuori dal cancello. Il viale è in salita, prima procede dritto e poi  improvvisamente fa una curva, passa sotto una terrazza sostenuta da alte arcate e riprende tra due file di tamerici, in mezzo a cui si alza qualche alberello del cosiddetto scopazzo. (...) Ed ecco che, dopo avere camminato per un altro centinaio di metri, alzando gli occhi ci si trova davanti la villa Valguarnera in tutta la sua bellezza. Un corpo centrale a due piani, con un seguito di finestre, vere e finte, che scorrono seguendo un ritmo giocoso e severo. Dal corpo centrale partono due ali piegate in modo da formare un semicerchio perfetto. Una volta le ali erano fatte di archi che si susseguivano con un ritmo spericolato, lievissimo. Questo ai tempi di Marianna Valguarnera che trasformò la ''casina'' di caccia del padre in una villa. E parlo dei primi del '700. Poi gli archi sono stati murati per farne delle stalle, dei pollai ed in seguito degli appartamenti e dei garage. Al centro del corpo centrale un viluppo di scale, che si protendono ad arco, salgono verso il primo piano con una voluta elegante, dando leggerezza e plasticità all'intera facciata. Le due ali laterali stringono in un abbraccio gentile un cortile che, nella sua perfetta simmetria, suggerisce l'idea di una sala da concerto. Le sproporzioni sono di una armonia studiata e felice, rivelano quel gusto del teatro e della geometria che era tipico del secolo dei lumi.(...) Molte delle finestre che danno sulle due ali sono finte dipinte sulla parete, con le loro ante, i loro vetri semiaperti, le loro figure in contemplazione, secondo l'uso barocco del trompe-l'oeil, il quale non è altro che piacere della rappresentazione (...) Lungo i bordi del tetto di villa Valguarnera si alzano delle statue che sfidano con i loro gesti graziosi e teatrali il ciel sempre lucido e setoso di Bagheria. Dei putti armati di frecce, delle Veneri più grandi di una persona, dei Nettuni, dei Centauri che visti dal cortile, assumono l'aria di immobili e incombenti divinità protettive''.

La Villa dunque, è situata in mezzo a un parco recintato da terrazze e balaustre, preceduto da un ampio piazzale a doppia esedra e da una stupenda facciata che si concava nel mezzo per accogliere la scala a tenaglia. La facciata posteriore, che porta verso il mare, si presenta invece rettilinea. La corte antistante al palazzo, di stile corinzio, è circondata da casette sovrastate due lunghe terrazze su di un portico sostenuto da trentasei colonne. Al piano superiore dell'edificio si perviene attraverso un monumentale scalone esterno, a doppia rampa, sul quale sono sistemate le statue delle quattro Muse.

Sopra il balcone centrale, un medaglione di marmo raffigura il principe don Emanuele di Valguarnera, generale delle truppe piemontesi. Un altro medaglione, sul lato opposto, raffigura la principessa Marianna. Bellissimi sono i vari puttini di stucco del Marabitti che con lo stemma della famiglia ornano l'attico.

Alla villa si accede dallo scalone, variamente mosso e dinamico, tramite una veranda che immette nel grande salone da ballo. Questo ha due ampie esedre semicircolari, nei lati lunghi del rettangolo, che rendono movimentato lo spazio, lo ampliano e ne aumentano l'eleganza, completata dalle decorazioni parietali che presentano profili in oro zecchino e motivi floreali, unitamente a motivi artificiali.

Il pittore Elia Intergugliemi decorò le stanze del pianterreno, mentre il Luzzardi le stanze del piano soprastante con scene mitologiche e paesaggi. Qui si possono ammirare pure due artistici pastelli, realizzati da Paolo Vasta.

La Villa sorge alle falde della Montagnola, un'alta collinetta da dove si ammira l'incantevole panorama dei golfi di Palermo e di Termini Imerese, del colle soluntino e del Monte Catafano.

Man mano che si sale sulla Montagnola ''l'occhio si perde fra i due promontori nella vista del mare turchino nelle lontananze cerulee di luce, per valloncelli e falde costiere - continua Dacia Maraini nel romanzo ''Bagheria'' - e, nel salire, un amorino sorride lievemente, una Diana ti invita alla caccia, una baccante danza e un Polifemo fistoleggia (suona la fistola, strumento musicale fatto di cannucce, usato dai pastori) quasi per farci cantare l'arietta del Metastasio scolpita ai suoi piedi''.

Nel vasto parco che originariamente circondava la villa, trovavano posto alcuni padiglioni come due coffee-house decorati da affreschi e coperti da erbe rampicanti, una fontana con un imponente Nettuno e alcune statue delle principali divinità campestri Cerere, Bacco, Pan e Flora che oggi versano in cattivo stato di conservazione: ''La statua della dea Cerere col corno ripieno di frutti, giace a terra, decapitata - riferisce la Maraini -. La Coffee House di ferro smaltato pende da una parte, con le griglie di ferro arrugginite su cui corrono le formiche indaffarate; il pavimento è stato spaccato e divelto dalle radici impetuose di una robinia che infesta il giardino con i suoi polloni venuti su spontaneamente nella incuria generale. (...) Il parapetto di tufo che chiudeva il giardino è smozzicato, in parte crollato. Pezzi di balaustra sono caduti a valle. Di fianco, dove si vedeva il dorso di una morbida collina dalla grana tutta grigia e rugosa come pelle d'elefante ora c'è una ferita nella pietra, e in mezzo alla ferita, si erge un orribile palazzetto nuovo, color rosa confetto. La collina è stata sventrata, la montagna  decapitata, sconciata, gli alberi divelti, distrutti. Il paesaggio inutilmente rovinato. Girando lo sguardo verso il mare, noto con sollievo che gli ulivi sono ancora li, in massa e hanno sempre lo stesso colore cereo, argentato. Fra gli ulivi, in basso a destra, la villa Spedalotto...''.

Si racconta che Maria Carolina d'Austria, regina di Napoli e di Sicilia, consorte di Ferdinando III di Borbone, nel 1799 , sia stata ospitata, per qualche tempo, nell'appartamento nord di Villa Valguarnera. 

Lo scrittore Catanese Vito Amico, priore di ben 25 monasteri ed uomo di grande cultura, agli inizi del '700, così si espresse riguardo la Villa: ''Sovrasta ad un altura, a mezzogiorno di quella terra, la Villa Valguarnera dove nulla desideri che tenda alle delizie dell'animo...''

Lo scrittore francese Stendhal, agli inizi dell'800, riferendosi al panorama che si ammira dalla terrazza aggiunse: ''trae suoni dell'anima, come arco da un violino...''.

A Villa Valguarnera trascorse la sua adolescenza la scrittrice Dacia Maraini. La madre di Dacia, la pittrice Topazia, apparteneva infatti, all'antica e nobile famiglia degli Alliata di Salaparuta, proprietaria della villa. Il padre, Fosco Maraini invece, era un etnologo.
La famiglia Maraini si trasferì in Giappone, nel 1938,poiché il padre portava avanti uno studio sugli Hainu, una popolazione in via di estinzione che viveva nell'Hokkaido. Nel 1943 il governo giapponese, che aveva fatto un patto di alleanza con l'Italia e la Germania, chiese ai coniugi Maraini di firmare l'adesione alla Repubblica di Salò. Sia Topazia che Fosco rifiutarono quindi furono portati insieme alle tre figlie in un campo di concentramento a Tokio dove passarono due anni di fame e furono liberati, solo a guerra finita, dagli americani.

Rientrati in Italia, andarono ad abitare in Sicilia, presso i nonni, nella villa Valguarnera di Bagheria. Il ricordo della Villa rimase così impresso nella memoria della scrittrice tanto da divenire il luogo nel quale furono ambientati due suoi romanzi diventati best seller: ''La lunga vita di Marianna Ucria'' e ''Bagheria''. - Il primo riconduce il lettore nel clima oscuro e pieno di contraddizioni della Sicilia del '700. Mentre in Europa fioriva il secolo dei "Lumi", a Palermo, in un tempo scandito da impiccagioni, matrimoni di interesse, monacazioni, si consumava la vicenda di Marianna (antenata della Maraini e fondatrice di Villa Valguarnera), povera muta appartenente alla nobile e potente famiglia degli Ucria. Il secondo è un lungo racconto autobiografico che ritrae la Sicilia e  la cittadina di Bagheria. Dai ricordi, dai sapori, dagli odori, emerge tutto un mondo fatto di affetti profondi, di  mafia, di scempio edilizio, e dell'arroganza di una società che sconvolge tutto.

Villa Palagonia

La più celebre, più originale e più singolare delle ville bagheresi, quella che colpisce di più al primo impatto visivo è senza dubbio “Villa Gravina di Palagonia”. Comunemente conosciuta come la “Villa dei Mostri” fu progettata verso il 1715 dal frate domenicano Tommaso Maria Napoli, già architetto militare del senato palermitano, e dal suo primo committente e fondatore, il principe Ferdinando Francesco Gravina e Bonanni.  

La villa conobbe successivamente gli interventi degli architetti Agatino Daidone e forse di Giovan Battista Cascione, nipote del grande Vaccarini, di cui tuttavia poco si sa. Il principe nel 1700 aveva acquistato un appezzamento di terreno dal principe di Butera, la dove qualche decennio dopo avrebbe fatto edificare una “Casena” che nel tempo sarebbe divenuta una delle più strane e straordinarie costruzioni barocche che si conoscono.

Il secondo principe che vi si insediò fu Ignazio Sebastiano Gravina e Lucchese. Egli fece realizzare i corpi bassi della villa che servivano ad ospitare la servitù (su ogni porta vi era una mattonella con un numero e a ciascun numero corrispondeva un servo), e taluni servizi che lasciano ben intendere la struttura sociale gerarchica vigente dentro le mura del palazzo. Ma fu suo figlio, il VII principe di Palagonia Francesco Ferdinando Gravina e Alliata, “ il Negromante” a rendere questa villa famosa in tutto il mondo con  l’appellativo di “Villa dei Mostri”. 

L'architettura della villa è molto movimentata per la scala a tenaglia e per il contrasto del tufo giallo sull'intonaco bianco.

Personaggio bizzarro e fuori dagli schemi, da molti considerato pazzo, Ferdinando Francesco junior, figura emblematica e stravagante, nel 1749 intraprese i lavori di completamento dell’intero complesso della villa, edificata dal nonno come residenza di villeggiatura. A lui si devono le famose statue in pietra arenaria che raffigurano strane forme umane e ferine orrendamente commiste, che adornano i muri esterni dei corpi bassi della villa: mostruosi animali, orribili figure antropomorfe, musicisti caprini, nani barbuti, deformi corpi umani, serpenti con più teste, gnomi, dame e cavalieri suini che danzano beffardi, un numero enorme di figurazioni fantastiche chiamate ordinariamente i “Mostri” di villa Palagonia. Con questo spettacolare e grottesco“ teatro di figure  pietrificate”  il terzo proprietario di Villa Palagonia stravolse l’ordinata scenografia architettonica e l’ornamentazione, che , pur con delle evidenti originalità, avevano lasciato il nonno Francesco Ferdinando senior ed il padre Ignazio.

Alla farneticante fantasia che ha partorito le mostruose statue dell’esterno fa riscontro la magnificente bizzarria degli interni della villa. La sala più straordinaria è quella dove immensi specchi applicati con diverse angolazioni coprivano pareti, soffitto e pavimenti, centuplicando, capovolgendo e deformando le figure degli stupefatti ospiti del principe. 

L'enigmatica “Sala degli specchi” dotata di stravagante fascino, fu frutto della fantasia del principe. “Specchiati in quei cristalli e nell’istessa / magnificenza singoiar contempla / di fralezza mortai l’immago espressa”. Così recita la scritta all’ingresso della galleria degli specchi, un esplicito monito a riconoscere la propria fragilità (“fralezza”) in quel caleidoscopio di immagini riflesse e spezzate.

Per la costruzione della villa Francesco Ferdinando Gravina profuse la somma di centomila scudi, una cifra esorbitante per i tempi. Un intero popolo di artigiani e artisti lavorarono per attuare le decorazioni volute dal padrone di casa: pavimenti preziosamente intarsiati, splendidi mosaici, rabeschi di stucchi, di madreperla, di pietre dure che seguono le linee delle pareti e si arrampicano fino ai soffitti.

La villa si articola su due piani, ha impianto curvilineo, conferitogli dalla linea mossa dei due fronti, convesso l’uno concavo il secondo per accogliere nel centro lo scalone monumentale a doppia rampa in marmo di Billiemi, che conduce al piano nobile. Subito ci si imbatte nel vestibolo elittico con magnifici affreschi parietali che rappresentano quattro delle fatiche di Ercole (Ercole ed il leone nemeo, Ercole ed il cinghiale d’Erimanto, Ercole e l’idra di Lerna, Ercole e la cerva di Cerinea.). 

Alla sua destra si trova la già citata “Sala degli specchi” da dove si giunge alla piccola sala della cappella privata e alla sala da biliardo. Tutti gli ambienti erano caratterizzati dalla straordinaria eleganza e sfarzosità delle decorazioni,  ma gli arredi erano alquanto bizzarri: i piedi di alcune sedie erano più bassi così da rimanere zoppe, altre erano talmente inclinate in avanti che era impossibile starci seduti.

Originariamente villa Palagonia possedeva un terreno vastissimo, segnalato dalla presenza, a circa due chilometri di distanza, di un ingresso maestoso adornato da gruppi scultorei. Attigua all’edificio l’architetto Tommaso Maria Napoli costruì una chiesetta privata, oggi aperta al culto. E anche nella chiesa il “Negromante” volle lasciare il segno della sua enigmatica e stravagante “follia”. Infatti il principe nella chiesa fece porre un crocifisso con attaccata sull’ombelico la statuetta di un uomo in ginocchio somigliante a lui che, lo rappresentava mentre chiedeva perdono a Dio per la società del suo tempo, tutta apparenza e poca essenza. Sempre nella chiesetta fece costruire la statua di una donna bellissima, ben vestita, ma dal collo in poi resa orribile  dai vermi post-mortem; ciò per far capire che belli, brutti, ricchi o poveri, un giorno moriremo tutti.

La villa nel 1872 fu acquistata dai fratelli Angelo e Francesco Castronovo, che la rilevarono da un curatore, per 60 mila lire, dopo che la stessa venne donata prima di morire dall’ultimo principe di Palagoniaall’Ospedale Civico di Palermo. Oggi i loro eredi riuniti in fondazione, rendono la villa in parte fruibile al pubblico ed intervengono nelle opere di manutenzione e restauro. L’originale e stravagante costruzione ha chiamato ad ammirarla, fotografarla, e a scriverne gente da tutto il mondo. 

La visitarono illustri viaggiatori aristocratici del tardo settecento, da Goethe, che non riuscì a comprendere la complessa personalità del principe, a Brydone e Houel incuriositi dalle letture delle guide che parlavano della famosa villa. 

Goethe arrivò perfino a coniare un neologismo: “paiagonico” in riferimento a qualcosa di deforme e caotico. In visita nel 1787, lo scrittore non apprezzò particolarmente le bizzarrie della “villa dei Mostri” (è con questo nome, in effetti, che è più nota villa Palagonia). Si stupì per le sedie dai piedi segati in modo che nessuno potesse servirsene e le spine celate tra i cuscini di velluto. 

Anche il visitatore di oggi resta stupefatto davanti ai circa sessanta “mostri” che popolano il giardino: figure antopomorfe spesso deformi, nani barbuti, musicanti, strani esseri mitologici. Li fece scolpire con grande dispiego di denaro nel 1749 Ferdinando Gravina, omonimo nipote del principe costruttore, eccentrico e visionario preromantico, sulla soglia di una follia surrealista, forse per esorcizzare la sua bruttezza e deformità.

Assorbita ormai dall’urbanizzazione degli ultimi decenni, circondata da case cresciute in modo disordinato che ne hanno mortificato l’impianto scenografico, ingoiata in un vortice di moderne strutture, villa Palagonia, superba, teatrale e spettrale, continua ancora a stupire, meravigliare e attrarre tantissimi curiosi visitatori.

PALAZZO CUTO' - Costruito nel 1716 da Luigi Onofrio Naselli, principe d'Aragona, su progetto di Giuseppe Mariani; è sede della Biblioteca comunale e del Museo del Giocattolo.

VILLA CATTOLICA - La villa, costruita nel 1736 dal principe di Cattolica Eraclea, fu completata per i Bonanno. La profonda esedra accoglie lo scalone principale che conduce, all'interno, agli spazi che oggi ospitano il Museo Guttuso, dedicato al più celebre degli artisti bagheresi, Renato Guttuso (1911-1987) e ad altri nomi del Novecento (Cagli, Schifano, Mirko Basaltella). L'artista riposa in una tomba, realizzata dal suo amico Giacomo Manzù, orientanta per il mare.

VILLA SAN CATALDO - Costruita nella prima metà del XVIII secolo dai principi Galletti di San Cataldo. L'assetto architettonico risale ad un restyling effettuato alla fine del XIX secolo. Nel 1905 la villa fu acquistata dalla Compagnia di Gesù.

VILLA LARDERIA - Costruita nel 1752 dal principe Francesco Litterio Moncada di Larderia.

PALAZZO INGUAGGIATO - Costruito nel 1770 da Giovanni Pietro Galletti, marchese di Santa Marina, su progetto di Andrea Gigante. Fu sede della truppa borbonica sino al 1860.

VILLA VILLAROSA - Costruita nel 1763 da Placido Notarbartolo, duca di Villarosa, su progetto di Giuseppe Venanzio Marvuglia. Si tratta dell'unica villa bagherese in stile neoclassico, e presenta un elegante porticato con alte colonne d'ordine corinzio.

VILLA RAMACCA - Costruita alla metà del XVIII secolo da Bernardo Gravina, principe di Ramacca.

VILLA TRABIA - Costruita alla metà del XVIII secolo da Michele Gravina, principe di Comitini su progetto di Nicolò Palma. La villa fu successivamente acquistata dal principe Pietro Lanza di Trabia.

VILLA SAN CATALDO (XVIII secolo) - Costruita dai principi Galletti di San Cataldo.

VILLA ANGIO' - Costruita alla metà del XVIII secolo dal principe di Angiò. I due pilastri di accesso alla villa sono inglobati in edifici allo sbocco del Passo del Carretto.

VILLA SPEDALOTTO (1784) - Costruita da Barbaro Arezzo su progetto di Emanuele Incardona. Nel 1991 vi furono girate alcune scene del film Johnny Stecchino.

VILLA CASAURO - Costruita nel XVIII secolo, di piccole dimensioni e con decorazioni in stile Luigi XV.

VILLA PARISI - Costruita per volere della baronessa Parisi.

VILLA ROCCAFORTE - Costruita nel XVIII secolo dai principi principi Cottù, marchesi di Roccaforte; sul cancello d'ingresso si trovano gli aforismi latini Aut amor aut libertas e Et amor et libertas.

VILLA SANT'ELIA - Costruita nella prima metà del XVIII secolo dal principe di Sant'Elia. Sull'ingresso si trova scolpito l'aforisma latino Parva sed apta mihi.

VILLA SANT'ISIDORO - Costruita alla fine del XVIII secolo dal marchese Cordova di Sant'Isidoro, sede dell'omonimo museo, dove sono esposte opere di Vincenzo Gennaro.

VILLA SERRADIFALCO - Costruita nella seconda metà del XVIII secolo dal duca Lo Faso di Serradifalco.

VILLA CIRICIONE (1905) - Costruita dall'illustre professore Giuseppe Cirincione

Torri

Dal XV secolo, il territorio di Bagheria entrò a far parte del Feudo di Sòlanto. A questo periodo risalgono le prime torri sparse per le campagne circostanti. In seguito, intorno a queste torri, nacquero masserie adibite all'allevamento del bestiame e all'agricoltura.

Torre Amalfitano. La struttura, di probabile origine duecentesca, fu riedificata nel 1546 dal viceré Juan de Vega; in seguito, durante la prima metà del XVIII secolo, fu trasformata in masseria da Ugo Notarbartolo di Amalfitano. Pare che accanto alla torre vi fosse una filanda per la lavorazione della seta e l'allevamento del baco. La torre presenta una pianta quadrata ed era costituita da un pianoterra con cisterna per l'acqua, un piano superiore adibito a magazzino ed un terrazzo con merlature a coda di rondine.

Torre Bellacera. Torre agricola del XVI secolo fatta costruire da Anfusio Bellacera, imprenditore agricolo di canna da zucchero. Nel XVIII secolo la torre fu trasformata in casina residenziale con terrazza a belvedere e cappella.

Torre Chiarandà. Si tratta di una torre agricola del XVI secolo, in stato di totale abbandono.

Torre Cordova. Torre del XVI secolo sorta per la difesa dei terreni della famiglia La Grua, lungo il corso del fiume Eleuterio. Il pianterreno era adibito a magazzino, mentre il piano superiore era l'abitazione.

Torre Ferrante. Risalente al XVI secolo, è inglobata nel tessuto urbano di Bagheria. È nota per essere stata abitata dal rivoluzionario Andrea Cuffaro.

Torre Mortillaro. Realizzata durante il XIX secolo dal marchese Mortillaro, non è più esistente a causa dell'espansione urbanistica bagherese; rimane tuttavia, a fianco del Corso Butera, uno dei due grandi pilastri in calcarenite da cui si accedeva alla tenuta di Mortillaro.

Torre Parisi. Risalente al XVII secolo, è una grande torre rustica con fornice affrescato raffigurante il Padreterno.

Torre Roccaforte. Torre agricola del XVI secolo che durante il XVIII secolo fu inglobata nella Villa Roccaforte di proprietà dei principi Cottù, marchesi di Roccaforte.

Agosto 2018