Chiesa di San Nicolò
Regale
La chiesa
di San Nicolò Regale è un edificio religioso di stile arabo-normanno che
si erge sulla sponda sinistra del Mazaro.
Costruita nel 1124, ha
una pianta quadrata con tre absidi e
una cupola, impostata su un tamburo ampio
e basso di forma cubica, che la sormonta, tipica delle cube.
Tra il XVII
e il XVIII secolo la chiesa subì una radicale trasformazione per adattarla
ai nuovi canoni barocchi,
divenendo a pianta ottagonale con copertura a falde.
Nel 1947 si
tentò di riportare la chiesa alle sue forme originarie, ma bisognò
attendere fino agli anni Ottanta affinché questo gioiello dell'arte
arabo-normanna riacquistasse le sue originali sembianze di monumento
medievale.
Il tempio
è documentato come sede dell'Ordine
equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Impianto
quadrato, con tre absidi, coronamento di merli e
cupola emisferica.
Nell'interno
si trova un piccolo altare, quattro colonne centrali e delle colonnine
incassate negli spigoli delle tre absidi e una pavimentazione con un disegno
a colori d'ispirazione islamica, caratteristiche architettoniche simili alla chiesa
di San Cataldo di Palermo, della quale risulta coeva, e alla chiesa
della Santissima Trinità di Delia a Castelvetrano.
Di
particolare interesse è il basamento sottostante,
nel quale sono state rinvenute nel 1933 tracce di mosaici romani
di tarda età imperiale.
Chiesa
di San Michele
La chiesa
di San Michele è una chiesa di stile barocco.
Annessa alla chiesa e al monastero si trova una foresteria,
resa operativa in occasione del Giubileo
del 2000.
La chiesa
venne fatta costruire da Giorgio
d'Antiochia nel XII
secolo. Agli inizi del XVII
secolo, venne riedificata in stile barocco, dall'allora badessa Ausilia
Lazzara. Il 23 gennaio 1678 venne
consacrata dall'allora vescovo Giuseppe Cicala, evento testimoniato da una
lapide posta subito all'interno della chiesa.
L'interno
venne decorato con stucchi nel 1697,
e arricchito d'oro nel 1764 sotto
la direzione della badessa Maria Benedetta Gerbino.
La
facciata è in stile
neorinascimentale, realizzata nel 1702 da Alberto Orlando, ed è
divisa in due ordini,
con capitelli dorici nel
primo e ionici nel
secondo. Nel prospetto si trovano inoltre quattro nicchie contenenti le
statue dei santi Bernardo, Benedetto, Scolastica e
Gertrude. Al centro del frontone triangolare, in alto, è posta la statua di San
Michele Arcangelo opera di Fazio
Gagini.
All'interno,
la chiesa ha una sola navata ricoperta
da una volta a botte,
con un breve transetto e
un'abside profonda. All'incrocio della navata con il transetto si innalza
una cupola semisferica,
poggiante su un tamburo cilindrico. Attraverso il transetto, la chiesa
comunica con l'adiacente monastero delle benedettine.
L'interno
della chiesa è decorato da venti statue di stucco bianco di Bartolomeo
Sanseverino, mentre gli affreschi e le tele sono di Tommaso
Maria Sciacca (Strage degli Innocenti, Sacra Famiglia, Morte
di San Benedetto, ai lati del presbiterio Abramo e Melchisedec e
la Cena in Emmaus).
Sulla volta
della navata è dipinto un affresco, raffigurante il Trionfo di San
Michele su Lucifero, con la particolarità che parte della figura del
diavolo fuoriesce dalla superficie dell'affresco. Si trova anche un ciborio a
forma di trittico del 1532 realizzato
da Antonello Gagini, e
la cantoria maggiore,
realizzata tra il 1696 e
il 1702 da Natale
Pugliese.
Adiacente
alla chiesa si trova il monastero delle benedettine: questo è
caratterizzato da un loggiato con
dodici finestre con grate a petto d'oca, dalle quali le monache potevano
seguire gli avvenimenti religiosi nell'antistante piazza.
Affiancato
al prospetto del monastero si trova il campanile,
risalente al XVIII secolo,
caratterizzato da un alto basamento, sovrastato da un corpo quadrato dotato
di orologio su
tre fronti, un altro corpo ottagonale ed infine una torretta a pianta
quadrata, su cui s'innalza una cupoletta.
Chiesa
di San Francesco

La chiesa di San Francesco fu edificata sopra una chiesa
preesistente, dedicata a San
Biagio, fatta costruire dal gran conte Ruggero
I d'Altavilla nella seconda metà dell'XI
secolo.
L'originale
costruzione era in stile arabo-normanno dotata
di tre navate e
dodici altari, oltre a
quello principale. Nel 1680,
mons. Francesco Maria Grifeo (che
sarà poi vescovo della diocesi), decise di trasformarla in stile barocco:
le due navate laterali vennero abbattute, e la navata centrale venne
rialzata e coperta con una volta
a botte. Venne quindi riaperta al culto nel 1703,
per essere chiusa nuovamente in seguito al terremoto
del Belice nel 1968,
durante il quale la chiesa e l'adiacente convento subirono
notevoli danni. Nel 1977 vennero
cominciati i lavori di restauro.
Nel 1216 il beato
Angelo Tancredi da Rieti, chiamato in Sicilia dal
gran conte Ruggero, fondò un convento
francescano contiguo all'allora chiesa di San Biagio. In seguito
alla chiusura, il convento divenne proprietà della Provincia
di Trapani, e venne adibito a caserma dei carabinieri.
Chiesa
di San Vito

Sui ruderi
dell’antica chiesa normanna, venne edificata nel 1776 questa
chiesetta semplice e silenziosa, esattamente sullo scoglio da cui, la
leggenda vuole che San Vito giovinetto si sia imbarcato alla volta di Roma,
per affrontarvi il martirio e la morte.
Ispiratore
dell’opera sembra sia stato un certo Giovanni
Grifeo, capostipite dei Graffeo, patrizi di Mazara, compagno inoltre
del Conte
Ruggero. Da secoli il mare viene a lambire la spiaggia che vide il
susseguirsi di tante vicende e conquiste nella storia della Sicilia.
Il tempo
corrode i muri e scalfisce le pitture, ma la bellezza e l’incanto del
luogo rimangono inalterati nella visione di un paesaggio magico fatto di
campanili, di vigneti lontani, di guglie e di onde che da sempre vengono a
riportare i misteri degli abissi e gli echi del passato.
La
ricorrenza del Santo cade il 15 giugno ma a Mazara i festeggiamenti si
svolgono la penultima settimana di agosto, ricorrenza dell’avvenuta
traslazione del Santo e durano 4-5 giorni. I festeggiamenti in onore di San
Vito, patrono della città di Mazara del Vallo, hanno origini molto lontane
nel tempo, con inizio nell’anno 1728. Inizialmente «Lu Fistinu di Santu
Vitu» nasce come rappresentazione figurata del martirio dei mazaresi Vito,
Crescenzia e Modesto sotto l’imperatore Diocleziano; successivamente si
accantonarono le scene delle torture per rappresentare in modo meno cruento
i prodigi che operò in vita, i miracoli fatti ai devoti che lo invocarono e
specialmente le guarigioni di coloro che furono morsi da cani arrabbiati.
La
festa in onore del Santo Patrono che si articola in vari momenti e
manifestazioni: l’Annuncio del Festino, un gruppo rievocativo della
proclamazione barocca del festino, uscendo dal Palazzo Vescovile percorre le
vie principali della città annunciando l’inizio dei festeggiamenti; la
processione più mattiniera d’Italia (alle 3:30 di mattina del mercoledì)
con trasporto del Simulacro del Santo dalla Chiesa di San Vito in Urbe alla
Chiesa di San Vito a Mare, la manifestazione “jocu di focu a diunu”,
giochi pirotecnici sullo sfondo del lungomare; la processione storico-ideale
a “quadri viventi”, sacra rappresentazione con 300 personaggi in costume
d’epoca della vita e del martirio del Santo, che dalla chiesetta di San
Vito a mare porta in giro il simulacro del Santo per le vie della città;
“ la consegna delle chiavi” della città al Santo; il Pontificale nella
Basilica Cattedrale; Processione ed Imbarco del Simulacro del Santo Patrono.
Palazzo Vescovile

Il Palazzo
vescovile, sede del Vescovado, è un edificio del XVI secolo costruito
su una parte del preesistente Palazzo Chiaramonte e che si affaccia
sull'odierna Piazza della Repubblica.
Il
prospetto ottocentesco presenta un portale architravato, con quattro colonne
doriche, al di sopra del quale è presente lo stemma della Diocesi di
Mazara del Vallo.
All'interno
del Palazzo c'è un cortile dove è possibile ammirare una loggia con archi
a tutto sesto, sulla quale si affacciano diverse stanze, in una delle quali
è presente un meraviglioso soffitto in legno a cassettoni di
stile cinquecentesco.
Di
fronte al Palazzo vescovile si trova il Palazzo del Seminario mentre
sulla destra dell'edificio è presente una loggetta del XVIII secolo
che congiunge il Palazzo Vescovile con la Cattedrale attraverso un
ponte coperto detto Tocchetto.
Palazzo del Seminario
Il palazzo
del Seminario è un edificio che si affaccia sulla piazza della
Repubblica, fronteggiando il Palazzo Vescovile e la Basilica
Cattedrale.
L'iniziale
sede del seminario, istituito con decreto vescovile nel 1579 dal
vescovo Bernardo Gasch, fu la chiesa di Sant'Egidio finché
non venne costruito nel 1710 l'attuale palazzo per volontà del vescovo
Bartolomeo Castelli.
Il
prospetto dell'edificio presenta un porticato con 11 archi a
tutto sesto con pilastri a base quadrata e un loggiato soprastante
anch'esso costituito da 11 archi a tutto sesto, ma con pilastri a base
rettangolare. Sia il porticato che il loggiato hanno poi una copertura a
crociera.
All'interno
si trova un porticato con 16 archi a tutto sesto che si reggono su 20
colonne tuscaniche che delimitano un atrio di forma
rettangolare da cui si può accedere all'attiguo Museo diocesano.
Arco
Normanno

L'Arco
normanno era la porta di accesso a forma di arco ogivale del castello fatto
costruire da Ruggero I d'Altavilla, dopo la liberazione nel 1072 della
città dalla dominazione araba, e demolito nel 1880 per la
costruzione di un giardino pubblico, l'attuale villa Jolanda.
L'Arco
normanno domina l'antistante piazza Mokarta (così chiamata in
onore del guerriero musulmano Mokarta, nipote del re di Tunisi che
nel 1075 tentò la riconquista della città) ed è considerato il
simbolo più significativo di Mazara.
Nel
castello soggiornarono oltre al Gran Conte Ruggero, anche Federico III
di Aragona e la regina Eleonora d'Angiò nel 1318, nonchè
Pietro II di Sicilia, il re Martino I di Sicilia e per ultimo il
re Alfonso II di Napoli nel 1495.
Nel XVI
secolo le sale e i sotterranei del castello vennero adibite a carcere.
Roccazzo
Roccazzo è
un sito archeologico ubicato
nel territorio di Mazara del
Vallo, nei pressi della frazione agricola di Borgata
Costiera.
L'area di
interesse archeologico è di rilevanti dimensioni, sviluppandosi per circa
20 ettari su di un sopralzo di roccia calcarea del
tipo che localmente viene definito magaggiara. Si tratta di un
imponente insediamento eneolitico,
con grandi capanne a
forma di barca e numerose tombe
a pozzetto.
Nel 2008 il
sito è stato oggetto di una campagna di scavo diretta
da Sebastiano Tusa,
che ha permesso il rinvenimento di numerose tombe e capanne eneolitiche,
oltre a ceramiche neolitiche e
dell'età del bronzo e,
nella parte più occidentale, di un complesso edificio greco probabilmente
databile alla prima fase di colonizzazione del territorio di Selinunte.
Dell'insediamento
abitativo sono rimaste solamente le trincee
di fondazione di 4 capanne di forma rettangolare, di dimensioni
7x16m. Nella
necropoli sono state invece rinvenute 47 tombe, ognuna adibita
all'inumazione di un solo cadavere, ad eccezione della n. 29, che ospitava
14 individui.
Riserva Naturale integrale
Lago Preola e Gorghi Tondi

La riserva naturale integrale Lago Preola e Gorghi Tondi è stata
istituita nel 1998.
Dal 2011 è
riconosciuta zona umida
Ramsar.
Sottoposta
a tutela già nel 1981 dalla Regione
siciliana, diviene riserva naturale nel 1998.
Il ministero dell'Ambiente nel luglio 2011 la riconosce anche zona umida
tutelata ai sensi della Convenzione
di Ramsar, insieme alle limitrofi paludi costiere di Capo
Feto.
La Riserva
fa anche parte del sito di
interesse comunitario "Laghetti di Preola e Gorghi Tondi,
Pantano Leone e Sciare di Mazara" e della zona
di protezione speciale.
Si estende
nel territorio del comune di Mazara
del Vallo, in direzione di Torretta
Granitola. Vi sono il Lago
Preola, il Lago Murana e
tre laghetti rotondeggianti di origine carsica, i Gorghi Alto,
Medio e Basso.
Sono
presenti diverse specie di orchidee
selvatiche, anemoni, asfodeli, margherite, tarassaco,
la vedovina e la quercia spinosa.
Presenti
molte specie di avifauna acquatica. Vi stazionano il falco
di palude, la poiana,
il gheppio, l'upupa e
nel Gorgo basso folaghe, gallinelle, germani
reali, moriglioni, alzavole, tuffetti e marzaiole.
Durante le migrazioni possono individuarsi il tarabusino,
ma anche aironi rossi e aironi
cinerini.
Tra i
rettili va segnalata la presenza di una popolazione dell'endemica tartaruga
palustre siciliana.
Capo Feto
Capo Feto è una palude costiera
salmastra stagionale, e un sito
di interesse comunitario della Provincia
di Trapani, nel territorio del comune di Mazara
del Vallo.
Il
ministero dell'Ambiente nel luglio 2011 l'ha
riconosciuta come zona umida,
tutelata ai sensi della Convenzione
di Ramsar, insieme alle paludi di Margi Spanò (Petrosino)
e alla limitrofa Riserva
naturale integrale Lago Preola e Gorghi Tondi.
Capo Feto
è situato in una zona caratterizzata dalla presenza di un consistente
sistema di zone umide. Mazara
del Vallo nasce infatti tra le foci di due fiumi: il Màzaro ad
occidente, il Delia o Arena ad
oriente. La configurazione del territorio è mutata profondamente negli
ultimi cinquant'anni: a nord, sino agli anni Cinquanta del Novecento,
esistevano ancora le paludi delle contrade: Gazzera, Gazzerotta, Vignale,
Timpone Lupo, la Turca e "margiu Nivuliddi". Ad est è
ancora presente la depressione che comprende l'ultimo tratto del fiume Delia
o Arena e i laghetti del Cantarro, composti originariamente dalla "dagala"
(depressione del terreno che raccoglie le acque delle zone più
sopraelevate) di Ingrasciotta, dal Pantano Murana, dal lago
Preola e dai Gorghi
Tondi. A ovest, a circa 4 km dalla foce del Màzaro,
si trova per l'appunto Capo Feto.
L'ecosistema
di Capo Feto appartiene alla fascia
climatica mediterranea caratterizzata da estati calde e umide e
inverni miti. La temperatura media annua oscilla intorno ai +17° con punte
massime di +38° nel mese di agosto e minime che raramente scendono al di
sotto dello 0. Grazie allo scontro tra le correnti d'aria provenienti dall'oceano
Atlantico e quelle provenienti dall'Africa,
si vengono a creare, nel periodo autunno-inverno, le condizioni ideali per
la pioggia, pertanto le precipitazioni atmosferiche sono costituite perlopiù
da brevi rovesci temporaleschi, raramente da grandinate e quasi mai da
nevicate. Fino agli inizi degli anni
ottanta la piovosità media annua si aggirava intorno ai 550mm
per poi decrescere di oltre 100mm. Nel 1999 le stazioni
meteorologiche situate nelle contrade vicino alla zona di Capo
Feto hanno registrato il minimo storico di piovosità con soli 338 mm.
La zona di
Capo Feto è stata frequentata unicamente da cacciatori fino agli inizi
degli anni cinquanta.
Negli anni settanta vennero
pianificati molteplici utilizzi dell'area come la costruzione di un
autodromo per il collaudo dei motori turbocompressi o la costruzione di
complessi residenziali, progetti che non vennero realizzati; gli speculatori
realizzarono un sentiero in terra battuta riducendo la palude a una
discarica abusiva. Grazie all'intervento di alcune personalità del mondo
scientifico e l'impegno di alcuni cacciatori, il Comitato provinciale della
caccia di Trapani deliberò,
in data 21 ottobre 1976, l'istituzione del vincolo
faunistico di Oasi di Protezione e Rifugio; delibera poi
sottoscritta l'8 marzo 1977 dall'Assessore per l'Agricoltura e Foreste, On.
Aleppo. In assenza di qualsiasi controllo, i vincoli di tutela paesaggistica
istituiti dall'oasi di protezione e rifugio della fauna e da altre autorità
preposte non sono mai stati rispettati e gli agricoltori continuano a
bonificare ed impiantare vigneti nella parte nord della palude. Nel 1996,
attraverso il programma europeo "Life
Natura", l'Amministrazione Comunale di Mazara
del Vallo iniziò ad occuparsi dell'area e nel 1999, grazie
all'intervento della provincia regionale di Trapani,
avviò un progetto per la riqualificazione del biotopo.
Il 22
aprile del 2000 il Ministero
dell'Ambiente inserì il biotopo di Capo Feto fra le Zone
di Protezione Speciale (ZPS), identificandolo col numero di
codice ITA010006; provvedimento che ha permesso l'accesso ai fondi
comunitari per la conservazione delle aree naturali.
L'area di
Capo Feto si presenta oggi come una distesa pianeggiante di circa 154 ettari
in cui compaiono lievi depressioni e affioramenti di depositi calcarei
risalenti all'età pleistocenica.
Nella parte più interna invece, il terreno è costituito da calcarenite molto
tenera chiamata "calcarenite di Marsala", di colore giallo
scuro e formata da detriti di natura diversa. La distesa è separata dal
mare da una bassa striscia di sabbia. Il rinvenimento di resti fossili ha
reso possibile la distinzione dei sedimenti e lo studio dell'origine delle
zone più profonde formatesi nel Quaternario grazie
al progressivo ritiro delle acque e al movimento delle maree. Procedendo
verso il mare il suolo si ricopre di sedimenti palustri che hanno uno
spessore che oscilla tra i 4 e i 6 metri. Per quanto riguarda l'aspetto
idrogeologico, i depositi di calcarenite sono permeabili sia per porosità che
per fessurazione a differenza dei sedimenti palustri che invece risultano
permeabili soltanto per la porosità.
Al di sotto dello strato calcarenitico risiede un manto roccioso
impermeabile costituito da detriti di argilla di età
pliocenica. In origine l'apporto di acqua dolce proveniente dalla falda
freatica riusciva ad alimentare gli specchi d'acqua impedendone
il completo prosciugamento nel periodo estivo e allo stesso tempo bloccava
l'infiltrazione di acqua marina evitando ripercussioni sulla vegetazione.
Con l'andare del tempo, a causa della sensibile riduzione delle
precipitazioni atmosferiche e della realizzazione di molteplici pozzi
abusivi, questo sistema di sostentamento è venuto meno.
Per
quanto riguarda la fauna marina, la pesca incontrollata, qui come in altre
aree, ha comportato una sostanziale riduzione di diverse specie. Entro i
duecento metri dalla costa, dove il fondale è basso e sabbioso, permangono
ancora la triglia di scoglio e la triglia di fango. Sono in numero
decisamente ridotto la mormora e la tracina ragno ma al contrario abbondano
ancora le bavose occhiute. Non appena la profondità aumenta, la Posidonia
oceanica diventa predominante e continuano ad essere rinvenuti moltissimi
esemplari di perchia), di scorfano rosso, di orata e di sarago maggiore. In
netta diminuzione sono invece gli esemplari di cernia bruna e di astice
europeo. Tra le specie degne di nota merita menzione anche il cavalluccio
marino. Riguardo agli anfibi, nel canale maggiore è ancora presente la rana
verde e il rospo comune.
Tra i
rettili invece è facile rinvenire il biacco, la lucertola siciliana e il
ramarro orientale. Il geco comune è più diffuso ora che in passato grazie
alla maggiore quantità di pietre depositate.
Per quello
che concerne i mammiferi, sono i chirotteri la
specie più numerosa; in particolare sono facilmente individuabili il
pipistrello albolimbato e il pipistrello nano. Tra i roditori sono ormai
rari i topi selvatici, il ratto comune e il topo comune, mentre si ritengono
totalmente estinti la lepre italica e l'istrice.
L'area di
Capo Feto, grazie alla sua posizione geografica, è di fondamentale
importanza per i flussi migratori degli uccelli. Sin dalla seconda metà del
Novecento sono stati documentati avvistamenti di rari uccelli di cui gli
esemplari conservati ancora oggi all'interno del Museo Ornitologico comunale
costituiscono la testimonianza. Tra le specie più rare di cui è attestata
la presenza in zona vanno ricordati lo stercorario maggiore, il cigno
selvatico, la sula bassana, il corrione biondo, il quattrocchi comune, il
fistione turco e l'edredone comune. Ad oggi gli uccelli più numerosi sono
le anatre selvatiche e, tra di esse, la volpoca ha fatto registrare il
maggior numero di esemplari nel dicembre del 2001 con 53 individui. Questo anatide è
presente dappertutto nella zona ma tende a concentrarsi soprattutto nella
"gorga del Lanternino" e nella "gorga di Nardu".
Una specie che ha subito nel corso degli anni serie decimazioni da parte dei
bracconieri è invece il fischione: nei primi anni di istituzione dell'oasi
furono registrati circa 300 esemplari ma adesso se ne verificano soltanto
saltuarie apparizioni.
Altre
specie molto numerose sono l'alzavola, osservabile soprattutto alla sera, e
il mestolone comune che è solito frequentare la palude nel periodo
invernale e in particolar modo la parte orientale nei pressi della "gorga
di Nardu". In numero leggermente ridotto si presenta invece il
codone comune. Altra famiglia di uccelli che è solita popolare le zone
paludose è quella dei rallidi.
Purtroppo lo scenario attuale è profondamente diverso da quello che era
possibile osservare fino ai primi anni settanta quando la folaga era
largamente diffusa nell'area e non era difficile osservare stormi di airone
rosso, di nitticora, di garzetta e di mignattaio. Tra le specie che ancora
oggi invece abbondano nella palude vengono annoverati il piviere dorato e la
pavoncella.
Il terreno
sabbioso che caratterizza la fascia costiera permette unicamente la crescita
di piante psammofile in
grado di sopportare lo scarso apporto d'acqua e le alte concentrazioni di
sale. La zona paludosa è invece condizionata dalla natura dell'acqua che vi
stagna. Le caratteristiche dell'acqua sono infatti molto variabili e
dipendono da diversi fattori quali la crescente infiltrazione di acqua
marina e il discontinuo apporto di acqua dolce che trova ormai nei rovesci
atmosferici l'unica fonte di sostegno. Le specie più diffuse sono
naturalmente quelle eliofite come giunco marittimo e sparzio comune. Altre
piante largamente diffuse sono quelle alofile come
le grasselle e le salicornie. È invece sul punto di scomparire la cannuccia
di palude. D'altro canto le diverse specie di tifa ,in dialetto "burda",
e il falasco si sono completamente estinte. Con la bonifica del
terreno e l'abbassamento della falda acquifera altre specie di piante, come
la canna comune, la canna del Po e la canna d'Egitto, hanno potuto
diffondersi largamente. Nella zona terrazzata più interna, prima che i
lavori di scavo alterassero il manto roccioso, persisteva la tipica macchia
mediterranea.
Pag.
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