Una
piccola isola in mezzo ad una laguna, così piccola da non far supporre di
aver avuto parte nella storia della grande isola, la Sicilia. Eppure su San
Pantaleo, suo nome odierno, i Fenici diedero vita ad una prosperosa colonia.
La posizione strategica, circondata dalle acque basse della laguna dello Stagnone,
e naturalmente protetta dalla vicina Isola Longa, la resero un obiettivo
ambito sia dai Cartaginesi che dai siracusani. Ed è proprio a causa di
questi ultimi che Motya venne completamente distrutta e presto dimenticata,
per essere poi riscoperta alla fine del secolo scorso.
Mozia
fu probabilmente interessata dalle esplorazioni dei mercanti-navigatori fenici,
che si spinsero nel Mar Mediterraneo occidentale, a partire dalla fine
del XII secolo a.C.: dovette rappresentare un punto d'approdo e una
base commerciale morfologicamente molto simile alla città fenicia di Tiro.
Il nome antico in fenicio era Mtw, Mtw o Hmtw,
come risulta dalle legende monetali; il nome riportato in greco, Motye, Μοτύη,
è citato anche da Tucidide e da Diodoro Siculo. Intorno alla
metà dell'VIII secolo a.C., con l'inizio della colonizzazione greca in Sicilia, Tucidide riporta
che i Fenici si ritirarono nella parte occidentale dell'isola, più
esattamente nelle tre città di loro fondazione: Mozia, Solunto e Palermo.
Archeologicamente è testimoniato un insediamento della fine dell'VIII
secolo a.C., preceduto da una fase protostorica sporadica ed
alquanto modesta. Le fortificazioni che circondano l'isola possono essere
forse collegate alle spedizioni greche in Sicilia occidentale di Pentatlo e Dorieo nel VI
secolo a.C.
Nel 400
a.C. Dionisio di Siracusa prese e distrusse la città all'inizio
della sua campagna di conquista delle città elime e puniche della Sicilia
occidentale; l'anno successivo Mozia venne ripresa dai Cartaginesi, ma
perse di importanza in conseguenza della fondazione di Lilibeo. Dopo la battaglia
delle Isole Egadi nel 241 a.C. tutta la Sicilia passò
sotto il dominio romano, ad eccezione di Siracusa: Mozia doveva
essere quasi del tutto abbandonata, dal momento che vi si sono rinvenute
solo pochissime tracce di nuova frequentazione, generalmente singole ville di epoca
ellenistica o romana. Di pregevole valore sono invece reperti
d’epoca fenicia come il Giovane di Mozia e la c.d. “Stele del
re di Mozia”, tra i frutti di una cinquantennale missione archeologica
dell'Università La Sapienza guidata prima da Antonia Ciasca e
poi da Lorenzo Nigro.

Nell'XI
secolo l'isola fu donata dai Normanni all'abbazia di Santa
Maria della Grotta di Marsala e vi si insediarono i monaci
basiliani di Palermo, che diedero poi essi stessi il nome San
Pantaleo all'isola, dedicandola al santo fondatore dell'ordine.
Nella seconda metà del XVI secolo, insieme ai monasteri di Palermo e
Marsala, passò ai Gesuiti. La prima identificazione dell'isola con
l'antica Mozia risale al viaggiatore e studioso tedesco Filippo
Cluverio nel XVII secolo e notizie dei resti archeologici
sull'isola si hanno nei testi di diversi eruditi del Settecento.
Nel
1792 fu data come feudo al notaio Rosario Alagna di Mozia insignito
con il titolo di Barone di Mothia. Sotto il suo patrocinio sono incominciati
i primi scavi archeologici, in seguito all'autorizzazione del principe di
Torremuzza e poi di Monsignore Alfonso Airoldi, custodi alle antichità
della Sicilia occidentale. Il barone fu nominato sovrintendente alle
antichità del territorio di Trapani e diresse alcuni scavi su ordine del
monsignor Airoldi, rinvenendo nel 1793 un gruppo scultoreo
riproducente due leoni che azzannano un toro; i reperti archeologici sono
oggi conservati ed esposti al museo Whitaker dell'isola. Nel 1806 passò in
mano a piccoli proprietari che la coltivarono soprattutto a vigneto,
coltivazione attiva ancora oggi. Ricerche archeologiche scarsamente
documentate furono condotte nel 1865, 1869 e 1872 e
vi scavò senza risultati anche Heinrich Schliemann nell'ottobre
del 1875; nel 1883 Innocenzo Coglitore identificò
definitivamente il sito con l'antica Mozia.
Agli
inizi del Novecento l'intera isola fu acquistata da Joseph
Whitaker, archeologo ed erede di una famiglia inglese che si era trasferita
in Sicilia arricchendosi con la produzione del marsala. Fu
lui a promuovere i primi veri e propri scavi archeologici, che iniziarono
nel 1906 e proseguirono fino al 1929: si misero in luce il
santuario fenicio-punico del Cappiddazzu, parte della necropoli
arcaica, la cosiddetta Casa dei Mosaici, l'area del tofet,
le zone di Porta Nord e di Porta Sud e della Casermetta;
Whitaker si occupò inoltre della sistemazione degli scavi, acquistando
l'isola e sistemandovi il museo.
Nel 1930 lo
scavo del santuario del Cappiddazzu fu portato a termine da Pirro Marconi,
ma solamente dal 1955 gli scavi furono proseguiti da una missione
archeologica inglese dell'Università di Leeds, diretta da Benedikt Isserlin
e a cui partecipò anche Pierre Cintas, celebre archeologo che aveva già
scavato a Cartagine: le indagini interessarono le zone di Porta Sud e
di Porta Nord ed il Kothon, e fu rimessa in luce una capanna
preistorica nell'area del Cappiddazzu.

Nel 1964 altre
indagini furono condotte da La Sapienza di Roma con Sabatino
Moscati insieme alla locale soprintendenza archeologica diretta da Vincenzo
Tusa; gli scavi interessarono l'area del Cappiddazzu, il tofet,
l'area industriale a sud della necropoli arcaica e il centro abitato. Dal 1971 l'isola
è di proprietà della Fondazione "Giuseppe Whitaker", costituita
e voluta dalla nipote Delia, oggi scomparsa; dal 1974 vi ha
condotto scavi Antonia Ciasca, soprattutto nelle cinta muraria, mentre
dal 1977 Gioacchino Falsone e Antonella Spanò Giammellaro dell'Università
di Palermo hanno svolto diverse campagne - tuttora in corso - nel
centro abitato tra il santuario del Cappiddazzu e l'area della Porta
Nord.
Nel 1985 gli
scavi hanno interessato la Casa dei Mosaici con Enrico Acquaro,
mentre nel 1987 la Soprintendenza ha ripreso gli scavi
all'abitato, nella Casa delle Anfore e nella Zona B, sotto
la direzione di Maria Luisa Famà. Nel 2005 sono state avviate le prime
indagini di archeologia subacquea, dirette da Sebastiano Tusa della Soprintendenza
del Mare, che hanno riportato alla luce sulla strada sommersa delle
strutture identificabili come delle banchine.
Dal
2002 al 2012 gli scavi de La Sapienza hanno completamente rivoluzionato
le conoscenze sull'antica Mozia. Gli scavi, diretti da Lorenzo Nigro sono
stati condotti in sei diverse zone dell'Isola: la Zona C, in corrispondenza
del cosiddetto kothon che si è rivelato come la piscina
sacra di un Tempio dedicato al dio Baal 'Addir, dove sono stati raggiunti i
primi livelli dell'occupazione fenicia di Mozia risalenti alla prima metà
dell'VIII secolo a.C. e una serie di tre templi sovrapposti (Tempio C5,
C1 e C2), e, all'interno di un temenos circolare altre installazioni
cultuali; la Zona D, alle pendici occidentali dell'acropoli, dove sono state
portate
alla luce due residenze, la "Casa del Sacello domestico" e la
"Casa del Corno di Tritone", per via di interessanti ritrovamenti
effettuati al loro interno, tra i quali un corno di conchiglia; la Zona B,
alle pendici orientali dell'acropoli, dove è stato messo in luce un ampio
edificio con una serie di pozzi, che ha restituito un'arula con una sfinge
alata; la Zona F, dove è stata scavata la Porta Ovest e l'annessa Fortezza
Occidentale; un sacello dedicato alla dea Astarte era stato
inglobato nel settore più occidentale della Fortezza; in esso sono state
rinvenute due statue della dea e diverse arule; il tofet dove
le indagini, riprese nel 2009 grazie ad un intervento della Soprintendenza
di Trapani, di restauro e valorizzazione dell'area hanno portato
all'identificazione dell'ingresso al santuario dove si sacrificavano i
bambini e alla scoperta di un ambiente cultuale ad esso collegato. Gli scavi
della Sapienza hanno portato all'identificazione delle sorgenti di acqua
dolce che alimentavano il bacino del kothon e l'adiacente
area sacra del Tempio di Baal. Inoltre, nella campagna 2012 è stato
identificato il possibile nome della statua nota come Giovane di Mozia: si
tratterebbe di un eroe omerico, il mirmidone Alcimedonte, auriga occasionale
del carro di Achille durante la battaglia per il recupero del
corpo di Patroclo sotto le mura di Troia.
La
topografia generale della città fenicio-punica è ricavabile sia dai resti
archeologici messi in luce dagli scavi, in particolare dal percorso
della cinta muraria, sia dalle condizioni fisiche del terreno e dai dati
ricavabili dalla fotografia aerea. Nel settore meridionale dell'isola
è presente una zona allungata relativamente elevata (6-7 metri s.l.m.),
che costituiva forse l'acropoli della città ("zona B"),
affiancata sulla costa da due aree più basse (2 metri s.l.m.): in quella
occidentale è stato messo in luce il kothon (porto
interno) della città, all'origine forse stagno o zona paludosa. Verso nord
un'altra modesta elevazione (5-6 metri s.l.m.) è occupata dal santuario di
"Cappiddazzu", a cui arriva una strada proveniente dalla Porta
Nord. I dati archeologici sembrano riferire alla seconda metà del VI
secolo a.C. una prima fase di sistemazione urbana, nella quale furono
realizzate imponenti opere pubbliche (fortificazioni, sistemazione delle
zone portuali e del kothon, ampliamento di santuari, strada di
collegamento con la terraferma).
La
parte centrale dell'isola è percorsa da un sistema stradale con lunghe
arterie (approssimativamente nord-est/sud-ovest) che s'incontrano ad angolo
retto formando un reticolo largo e relativamente regolare per i quartieri
d'abitazione, piuttosto estesi, ma presumibilmente intervallati da giardini
ed orti. I quartieri lungo la spiaggia sono invece orientati sempre secondo
la linea di costa, su tutto il perimetro dell'isola. Nella periferia
settentrionale si trova la parte centrale della necropoli e il tofet,
mentre lungo la costa settentrionale e orientale si estende un quartiere di
officine; presso il kothon un altro quartiere ospitava
probabilmente cantieri navali o magazzini. Sulla costa meridionale si trova
la ricca residenza della "casa dei Mosaici". Il collegamento tra
il centro e i quartieri periferici sarebbe assicurato da una via anulare, un
tratto della quale potrebbe riconoscersi al margine della zona industriale a
sud della necropoli. Si è supposto che il diverso orientamento derivi da
una successiva sistemazione del centro cittadino, ispirato alla
pianificazione regolare delle città greche, usata in Sicilia e in Magna
Grecia dal V secolo a.C., mentre i quartieri periferici
seguirebbero un impianto precedente. Planimetria analoga a quella di Mozia
ha l'abitato punico nel sito moderno di Kerkouane, al Capo Bon, in Tunisia.

La
cinta muraria, lunga circa 2,5 km, racchiude tutta l'isola ed è
fondata sul banco in calcare tenero che si alza appena (circa 2-3
metri) sulla brevissima spiaggia. Se ne conservano resti soprattutto nelle
parti di sud-est, est e nord (le strutture erano a tratti ancora in piedi
nel Seicento e nel Settecento). I resti oggi visibili, esito
di diverse fasi di costruzione e restauro, sempre sul medesimo tracciato, si
presentano con muratura in scheggioni di roccia o a blocchi squadrati di
dimensioni varie o con altre tecniche più semplici. Si sono individuate
quattro grandi fasi, tra la seconda metà del VI e la fine del V
secolo a.C. Alcuni restauri, con ricostruzioni delle parti alte in mattoni sembrano
successive alla conquista siracusana del 397 a.C.:
-
prima
fase,
con muro (spesso m 1-1,10 circa) e torri rettangolari a due vani (m 8x5,50
circa), in piccole pietre; distanza regolare fra le due torri di circa m
20-21;
-
seconda
fase,
con muro (spessore m 2,60 circa), con zoccolo in pietre di dimensioni
medio-grandi ed alzato in mattoni crudi, a metà della cortina si apre
spesso una postierla;
-
terza
fase,
con muro a paramento esterno in opera quadrata, con blocchi disposti in
opera per testa e per taglio; torri quadrangolari (media m 12x5) e torri
precedenti riadattate; alzato forse in mattoni crudi;
-
quarta
fase,
con muro (spessore 5 m circa) in scheggioni di roccia, torri quadrate (m
12x12 circa) o riadattate.
La
prima fase si riferisce ad un primo impianto unitario del muro, con misure
precise e la serie di torri ravvicinate che richiama le tecniche difensive
ricorrenti nel Vicino Oriente antico. L'attività edilizia delle
fasi successive interessò invece solo restauri nei settori che ne
presentavano la necessità. Di particolare impegno le ricostruzioni della
quarta fase, che hanno richiesto il trasporto di ingenti quantità di materiale
da costruzione non presente sull'isola.

L'ingresso
alla città (Porta Nord) si articolava attraverso tre porte successive, a
circa 22 m l'una dall'altra, ognuna delle quali era costituita da due
aperture affiancate separate da un muro centrale. Le strutture meglio
conservate sono relative alla porta più esterna, cui forse era pertinente,
come fregio di coronamento, il gruppo scultoreo di due felini che azzannano
un toro, conservato nel museo. Nella zona fra la porta e la costa gli scavi
hanno individuati tre livelli stradali, di cui è visibile l'ultimo, con
ampliamento della sede stradale a circa 10 m di larghezza, pavimentato con
grandi lastre di calcare su cui sono visibili i solchi dei carri.
Le aree laterali pavimentate in ciottoli sono forse interpretabili come
passaggi pedonali. All'interno della porta questa pavimentazione più
recente era preceduta da quattro livelli pavimentati in ciottoli.
Ai
lati della strada sorgono due piccoli complessi: quello occidentale consiste
in un edificio centrale a pianta rettangolare, di cui si conservano solo le
fondazioni, racchiuso ad est e a sud da un recinto con parte inferiore in
blocchi di pietra accuratamente squadrati e alzato in mattoni crudi. A circa
m 1,50 ad est, sorge una struttura pressoché quadrata, più piccola (il
lato misura circa 2 metri), della quale resta soltanto il basamento in
pietra. L'edificio maggiore presenta due fasi: nel VI secolo a.C. fu
edificato un sacello rettangolare (m 2,52 x 4,11), prostilo o in
antis con facciata a nord. A questa fase del complesso appartengono
un frammento di capitello dorico di calcare rivestito
di stucco, confrontabile con quelli del tempio F di Selinunte, e
un frammento di rilievo in calcare con scena di battaglia, conservato nel
museo.
In
una seconda fase della prima metà del V secolo a.C. il sacello più
antico fu sostituito da un edificio quadrato (m 3,93 x 4,11), al quale
apparterrebbero alcuni frammenti di capitelli angolari di tipo foliato,
d'ispirazione orientale, ora esposti nello spiazzo antistante il museo. Il
sacello venne quindi distrutto probabilmente in occasione dell'assedio
siracusano del 397 a.C. In corrispondenza dei sacelli la
strada appare interrotta e una fila di massi, forse uno sbarramento eretto
in occasione dell'assedio.
Il
complesso orientale è costituito da un'area rettangolare (circa 5 x 7
metri) delimitata ad est e ad ovest da rozzi muri a piccole pietre e a sud
da un muro a blocchi squadrati alla prima fase del sacello maggiore nel VI
secolo a.C.
Anche
in questo secondo edificio esistono tracce di una ristrutturazione degli
inizi del V secolo a.C. Nell'area si sono rinvenute tre anfore infisse
nella sabbia, la cui funzione non è ancora chiara. Gli strati riferibili
all'ultima fase dell'impianto, numerosi frammenti di ciotole e piccoli
piatti utilizzati molto probabilmente per il culto. Il santuario sia per le
forme architettoniche che per le caratteristiche dei depositi votivi sembra
riferibile ad un culto greco-punico.
L'asse
viario che usciva dalla Porta Nord, proseguiva con una strada artificiale
che collegava l'isola con il promontorio di Birgi sulla terraferma. La
strada lunga circa 1,7 km e larga circa 7 m, in modo da consentire il
passaggio di due carri affiancati, è conservata a tratti e attualmente è
sommersa per l'innalzamento del livello del mare. Era costruita sopra una
massicciata larga circa 12,50 m alla base, ricoperta da lastre in pietra
irregolari (ampie dai 40 cm ai 60 cm), ed è affiancata da muretti guardrail alti
cm 45.
La
strada fu realizzata intorno alla metà del VI secolo a.C., in
relazione allo spostamento della necropoli sul promontorio di Birgi (dove
sono state rinvenute tombe ad inumazione con sarcofagi monolitici
di arenaria o a cassa con lastroni di pietra databili
tra il VI e la fine del V secolo a.C.). Tuttavia una
necropoli contemporanea esisteva anche sul litorale nord-orientale
dell'isola.
Sulla
base delle foto aeree alcune strutture sommerse in grandi blocchi squadrati
disposte ad ovest della strada sembrano formare una sorta di molo per un
porticciolo, di cui la stessa strada artificiale e una scogliera parallela
alla costa dovevano costituire le banchine di attracco. In corrispondenza
del limite costiero attuale è stata rinvenuta una pavimentazione realizzata
con ciottoli sopra un letto di terra e sabbia. A circa 500 m dalla Porta
Nord la strada si allargava in una piazzola (m 10 x 14) costruita con grandi
blocchi squadrati, luogo di sosta o base per un piccolo edificio.
All'interno
delle mura, a poca distanza dalla Porta Nord sorge l'area sacra del
santuario di Cappiddazzu (in siciliano "cappellaccio",
usato per indicare un cappello dalla larga falda). In una prima fase (inizi
del VII secolo a.C.) sono datate una serie di fosse scavate nella
roccia e profonde circa 30 cm, disposte all'interno di una fossa più
grande, nelle quali furono rinvenute ossa di ovini e bovini,
utilizzate dunque probabilmente per i sacrifici. Nella seconda fase,
attribuita alla seconda metà del VII secolo a.C. venne costruito
un primo edificio con muretti in pietrame grezzo, affiancato da un pozzetto
costruito nella medesima tecnica. Ad una terza fase del V secolo a.C. sono
riferibili frammenti architettonici di capitelli d'anta a gola egizia pertinenti
ad un edificio in pietra che dovette essere distrutto nell'assedio del 397
a.C. e i cui materiali furono poi riutilizzati nelle fondazioni
dell'edificio ricostruito.
I
resti attualmente meglio visibili si riferiscono alla quarta fase, la
ricostruzione del IV secolo a.C., che consiste in un grande edificio a
pianta tripartita a nord, inserito in un ampio recinto di m 27,40 x 35,40.
Davanti all'edificio sacro si conserva una struttura costituita da una
lastra di pietra rettangolare con un grosso foro al centro e due semifori ai
lati, posta entro un recinto in pietre rozzamente sagomate e destinata
probabilmente a contenere tre betili conici. Si conservano inoltre
i resti di una grande cisterna ovale e tracce di intonaci e pavimenti di
diverse epoche (saggi recenti hanno individuato tracce di interventi tra il I
secolo a.C. e il V secolo d.C. I resti di una piccola
basilica bizantina furono eliminati negli scavi degli inizi del Novecento e
sono conosciuti solo da uno schizzo.

Sulla
costa settentrionale ed orientale dell'isola sono stati rinvenuti i resti di
alcuni impianti destinati alla produzione e alla lavorazione. I più
significativi finora individuati sorgono a nord del "santuario di
Cappidazzu" (zone "K" e "K est"), e a sud della
necropoli arcaica. Nell'area "K" si sviluppa un complesso
destinato alla produzione di ceramica, parzialmente scavato. Il
complesso sembra essere stato impiantato nel VI secolo a.C. e aver
subito una ristrutturazione nel V secolo a.C., per essere poi distrutto
nel corso dell'assedio siracusano del 397 a.C. Un
edificio bipartito si addossa verso nord alle mura cittadine.
Vi
si accedeva dal lato sud attraverso uno spazio scoperto con un piccolo forno
all'angolo sud-ovest, abbandonato in una seconda fase e ricoperto da una
pavimentazione in acciottolato. Nel pavimento era inserito un grande
recipiente (pithos) e vi si apriva inoltre un pozzo quadrangolare
scavato nella roccia, con tacche nelle pareti per la discesa, a cui si
collegano condutture fittili. In questo spazio doveva trovarsi inoltre i
depositi per l'argilla e per il materiale non ancora sottoposto a cottura.
L'ambiente più settentrionale era coperto da un tetto poggiante su due
pilastri.
A
sud-est si trova un forno più grande, con pianta a forma polilobata,
presso il quale è stato rinvenuto capovolto un grande bacino in pietra con
becco di scolo, probabilmente utilizzato per la lavorazione dell'argilla. A
nord del forno un più antico pozzo fu successivamente ricoperto da un
pavimento. A sud del complesso si trova un ampio spazio aperto, bordato
lungo il suo margine settentrionale da altre installazioni. Nella limitrofa
area "K est" è stato rinvenuto un pozzo circolare scavato nella
roccia, successivamente abbandonato e ricoperto da un pavimento in battuto
di argilla, che doveva raccogliere per mezzo di condutture fittili l'acqua
piovana dalle mura cittadine e doveva essere stato utilizzato nella prima
fase del complesso industriale.
Presso
il pozzo era una vasca quadrangolare in muratura rivestita internamente di
stucco e riempita di sabbia silicea finissima, presumibilmente utilizzata
nella lavorazione della ceramica. A sud uno spazio aperto pavimentato in
acciottolato, dove è stato rinvenuto un tratto di muratura con pietre
irregolari legate con argilla, che faceva forse parte delle installazioni
difensive approntate per l'assedio. Dopo la successiva distruzione della
città l'area "K" fu ricoperta da cumuli di detriti, che
comprendevano elementi architettonici e pietre ammassate con rifiuti di
vario genere.
Qui
è stata rinvenuta nel 1979 la statua marmorea nota come
il Giovane di Mozia, attualmente conservata nel museo.
Nell'area "K est", fra i detriti di vario genere che ne
caratterizzano i livelli superiori, è venuto alla luce un bell'esemplare di capitello del
tipo cosiddetto proto-eolico (con entrambe le facce decorate a bassorilievo
con un fiore di loto stilizzato). Nella parte orientale dell'area "K
est" si trova quello che sembra un secondo complesso industriale: un
edificio con due ambienti in uno dei quali fu ritrovata sotto lo strato di
crollo delle coperture una vasca rettangolare in pietra con resti di
bruciato e diverse scorie metalliche, forse riferibile ad un impianto per la
lavorazione del metallo.
Una
seconda area industriale per la tintura e forse per la concia delle pelli fu
individuata nei pressi della "necropoli arcaica", dopo essere
stata inizialmente identificata con un "luogo di arsione" legato
ai sacrifici del vicino tofet. Questa zona restò in funzione
dagli inizi del VII secolo a.C. fino alla distruzione di Mozia
agli inizi del IV secolo a.C. Si tratta di una superficie quasi
quadrata (m 23,5 x 21,5), delimitata da muri costituiti da piccole pietre, e
sul lato est in parte da mattoni crudi. All'interno di questo spazio furono
scavate nella roccia piuttosto tenera, circa venti fosse, in maggioranza
ellittiche e profonde intorno ai 2 m, con pareti leggermente inclinate e
rivestite internamente di argilla cruda di colore grigio-verde, per uno
spessore di circa 4 cm, con tracce più o meno consistenti di
bruciatura. Alcune fosse erano comprese entro vani irregolari.
Completavano
l'insieme due pozzi per l'acqua. Ammucchiati in notevole quantità in vari
punti dell'area si sono rinvenuti resti di molluschi marini,
specialmente murices, che fornivano la materia prima per la
tintura di color porpora, una specialità fenicia: si è dunque
supposto che l'impianto fosse destinato alla concia e alla colorazione di
pelli ed anche di tessuti. Due forni di forma ellittica di grandi
dimensioni, collocati all'estremità meridionale dell'area dovevano invece
essere destinati alla fabbricazione di vasi. Nella stessa zona fu inoltre
rinvenuto un pozzo contenente ceramiche della facie di Thapsos,
attribuibili alla seconda metà dell'età del bronzo (XVIII-XVI secolo
a.C.), con i tipici recipienti a "fruttiera" che tuttavia in
questo caso non presentano alcuna decorazione né incisa né dipinta.

La necropoli della
fase arcaica si trova sulla costa settentrionale dell'isola. Si tratta di
una vasta zona rocciosa spianata, attraversata dalla cinta muraria, che
lascia alcune tombe all'interno della città. Le tombe sono prevalentemente
ad incinerazione e sono costituite da piccole fosse scavate nella
roccia o nella terra che contengono il cinerario (recipiente dove venivano
posti resti combusti del defunto) e ai lati gli oggetti del corredo
funerario. I cinerari erano di tre tipi:
-
cinerario formato da sei lastre tufacee grezze - quattro laterali, una in
basso come fondo e l'altra in alto come coperchio;
-
cinerario costituito da anfore di vario tipo;
-
cinerario costituito da un blocco monolitico in pietra, quadrato o
rettangolare, in cui era ricavata al centro una fossetta quadrata destinata
a contenere i resti combusti del defunto; per coperchio aveva o una lastra o
un altro blocco monolitico identico.
Il
corredo funerario, in genere abbastanza modesto e indifferenziato, è
costituito da ceramica fenicio-punica, a cui si accompagnano esempi di
ceramica greco-corinzia di importazione, che permettono di datare la
maggior parte delle sepolture tra la fine dell'VIII ed il VII
secolo a.C., mentre più rare sono le tombe del VI e V
secolo. Alcune tombe contenevano inoltre armi di ferro (pugnali e spade)
oppure oggetti di ornamento in oro, argento e bronzo (pendagli, bracciali,
orecchini, anelli, ecc). Una tomba più ricca presentava quindici vasi in
ceramica, fra cui sei vasi corinzi d'importazione, e una statuetta
di terracotta fenicia, riproducente una figura femminile che si spreme il
seno, quale simbolo di fertilità e fecondità.
Un
insieme di sedici tombe era delimitato da un muro costituito da rozze pietre
compreso fra il muro di cinta della città e la zona industriale. Queste
tombe presentarono corredi straordinariamente omogenei costituiti da
ceramica fenicio-punica arcaica, e forse appartengono al primo gruppo di
coloni. Agli inizi del VI secolo a.C. l'area fu attraversata dalla
costruzione delle mura cittadine e la necropoli venne spostata sulla
terraferma, sul promontorio di Birgi.

Il tofet di
Mozia (60 m circa di lunghezza) si trova sulla costa settentrionale, nello
spazio tra il mare e le mura. Restò in funzione probabilmente sin dalle
origini dell'insediamento (VII secolo a.C.), fino a dopo l'assedio
siracusano, nel III secolo a.C. In questi secoli si succedettero
tre principali fasi. Nella fase più antica il santuario occupava un'area
ristretta al centro, sul banco di roccia naturale: si conservano tre strati
sovrapposti di urne, che giungono alla metà del VI secolo a.C.
Inizialmente
le urne venivano deposte sulla roccia, a volte ricoperte da tumuli di pietre
che possono presentare in rari casi una pietra ritta alla sommità. Le urne
erano costituite da ceramica a impasto o da forme ceramiche greche o
fenicie, ma di produzione locale. Nei due strati successivi le deposizioni
si infittirono e iniziarono ad essere spesso racchiuse da lastre infisse nel
terreno e segnalate con cippi o stele. In questa prima fase le strutture del
santuario si limitarono a muri di recinzione o relativi a ripartizioni
interne; un pozzo circolare era presente sul limite nord dell'area.
In una
seconda fase il santuario venne ristrutturato, parallelamente alle altre
opere di monumentalizzazione nella città (metà del VI secolo a.C.):
l'area sacra fu estesa verso est, per le deposizioni, con opere di
terrazzamento, e verso ovest con la costruzione di un piccolo tempio
rettangolare (10 x 5 m) orientato in senso est-ovest. Un podio, forse un
altare, si addossa al limite orientale. Altri piccoli edifici e un pozzo
quadrato si trovano nella zona di servizio.
Le
deposizioni sono numerose, con stele e cippi di grandi dimensioni, con
iscrizioni e raffigurazioni simboliche o antropomorfe, che furono
riutilizzate in successive opere di terrazzamento. Negli strati I e II sono
presenti solo le urne. Dopo la distruzione dovuta alle vicende della breve
conquista siracusana il santuario fu risistemato: le fondazioni del tempio
furono utilizzate per lo scarico di terrecotte votive (statuette al tornio o
a stampo) e un altro piccolo deposito si trova sul limite settentrionale. Il
rialzamento dei muri di terrazzamento inglobò le stele delle fasi
precedenti e frammenti architettonici. Ad est e ad ovest dell'area sacra
furono inoltre realizzati camminamenti in acciottolato. Le indagini al tofet sono
riprese nel 2009 per iniziativa de La Sapienza.

La
parte centrale dell'isola era occupata dalla città vera e propria, con un
reticolo viario ortogonale, di cui sono stati portati in luce solo alcuni
tratti. Nel centro è visibile un tratto di una strada orientata in senso
nord-ovest/sud-est, delimitata dalla fronte di diversi edifici. Una pietra
collocata verticalmente in corrispondenza di uno spigolo, che doveva fungere
da paracarro, rivela la presenza di un incrocio con una via ortogonale, solo
parzialmente visibile, che doveva essere parallela alla strada della Porta
nord. Nella pavimentazione in battuto della strada si aprono quattro
pozzetti circolari, scavati nella roccia e rivestiti di pietre a secco, tre
dei quali sono allineati: dovevano servire per l'assorbimento ed il
drenaggio delle acque. Al complesso che s'affaccia lungo il lato
settentrionale della strada s'accede attraverso una grande soglia in un
grande ambiente sulla cui parete di fondo è addossata una piattaforma
accessibile da tre gradini e con una canaletta di scolo che sbocca in un
pozzo, proprio davanti alla scaletta.
Un
secondo ambiente più piccolo, lungo e stretto, presenta al centro della
parete un bancone rettangolare, mentre un terzo ambiente aveva al centro un
pilastro, in cui sono stati rinvenuti resti di ossa combuste. La piattaforma
del primo ambiente è stata interpretata come altare per i sacrifici e il
complesso come un edificio di culto. Tre piccoli ambienti, cui s'accedeva
dalla strada tramite un'altra soglia, sono probabilmente pertinenti ad un
altro edificio. Nello scavo sono stati rinvenuti materiali del IV e
forse III secolo a.C., posteriori dunque alla distruzione del 397
a.C. Tracce di rimaneggiamenti non sono chiaramente definibili.
Lungo
la costa sud-orientale dell'isola si trova un complesso edilizio scavato
solo parzialmente, denominato "Casa dei mosaici", costruito
su due livelli sul pendio che degrada verso il mare. È visibile il limite
orientale e l'angolo sud-est si addossa al muro di fortificazione della città.
La parte a nord e ad est consisteva in una grande corte rettangolare a peristilio,
circondata da alcuni ambienti di carattere residenziale, mentre la parte
sud-occidentale era una zona di servizio. Il pavimento del peristilio era
decorato con mosaico a ciottoli neri, bianchi e grigi di cui si conserva un
breve tratto nell'angolo nord-est, con pannelli, raffiguranti animali (un
leone che assale un toro, un grifone che attacca un cervide, e un leone e un
cervide su due pannelli),separati da un motivo a rombi e delimitati da un
bordo tripartito (fasce con meandro, fiori di loto e palmette, motivo ad
onda).
Un
piccolo ambiente all'estremità sud-occidentale della corte aveva un
pavimento a scacchiera di cocciopesto e scaglie di pietra bianca.
Gli ambienti ad est, solo i pavimenti. Nell'ambiente meridionale era
collocata una piccola struttura interpretata come un piccolo forno. La zona
di servizio s'articola in sei ambienti, forse ricavati in parte in un
preesistente edificio, con murature in pietre e materiali di recupero.
L'ambiente comunicante con la corte presentava un pozzo scavato nel terreno
e fu successivamente occupato anche da un focolare.
Lungo
il lato ovest corre una canaletta che conduceva l'acqua piovana raccolta
nella corte all'esterno dell'edificio, sfruttando l'andamento del terreno in
discesa. Un ambiente adibito a magazzino conserva i resti di tre grandi pithoi,
In un altro ambiente furono rinvenuti cinque capitelli dorici e
uno corinzio, apparentemente immagazzinati, pertinenti ad almeno due fasi
diverse del peristilio. mentre anche altri elementi architettonici erano
presenti nell'area. L'edificio dovette subire dei rimaneggiamenti e fu
probabilmente oggetto di spoliazioni. La datazione dell'edificio e del
pavimento a mosaico è discussa: l'assenza di dettagli interni delle figure
e la partizione dei pannelli con rombi a linee bianche su fondo nero,
trovano confronti nel III secolo a.C. (Eretria, Olbia, Tarso).

La
Casermetta deve il suo nome ad un edificio addossato all'esterno di
una grande torre delle mura, sulla costa meridionale, tra la Casa dei
mosaici e la Porta Sud. L'edificio è suddiviso in due parti poste ai lati
di un corridoio scoperto, in fondo al quale una scala conduce al piano
superiore sopra le mura difensive, dove si trovano i resti del pavimento di
un ambiente scoperto, in cocciopesto con canaletta di scolo per l'acqua
piovana. Al piano terra la parte orientale s'articolava in tre ambienti, di
cui due contigui posti sulla fronte dell'edificio, ed uno più interno di
dimensioni maggiori, comunicante sia col corridoio che con uno dei due
ambienti frontali. La parte occidentale consisteva in tre ambienti allineati
non ben conservati.
I
muri sono costruiti con tecnica "a telaio", presente anche altrove
a Mozia e in ambiente punico: grossi blocchi d'arenaria di misure uniformi e
posti ad intervalli regolari costituiscono l'ossatura del muro, mentre altri
blocchi simili sono utilizzati per gli stipiti delle porte, che conservano
traccia degli incassi per i telai lignei. I tratti di muratura tra i blocchi
sono costituiti da piccole pietre con legante. La destinazione d'uso di
quest'edificio è ignota e l'assenza di dati stratigrafici ne rende
problematica la datazione. La sua costruzione è comunque posteriore a
quella della grande torre della cinta muraria, mentre la sua distruzione fu
dovuta ad un incendio, forse in relazione con l'assedio del 397 a.C.
Tra
il kothon e la Porta sud si trova un gruppo di costruzioni
di difficile lettura a causa della stratificazione di diverse fasi edilizie
e del cattivo stato di conservazione. Agli inizi del VII secolo a.C. era
presente una grande casa con cortile, che si estendeva anche nel settore poi
occupato dalla Porta e venne distrutta tra la fine del VII e gli inizi del VI
secolo a.C. Un secondo edificio con pianta simile venne ricostruito sui
resti del precedente, a cui si aggiunge un primo muro di fortificazione.
Intorno alla metà del VI secolo l'area venne probabilmente di nuovo
riorganizzata in dipendenza dell'organizzazione del vicino kothon.
Intorno
alla metà del V secolo a.C. il muro difensivo viene abbattuto,
per essere sostituito dalle fortificazioni, con la Porta sud e una torre
situata sulla banchina del canale del kothon. Alla fine del
secolo all'interno delle mura si impianta un quartiere con alcuni edifici a
pianta irregolare, ai lati di uno stretto vicolo, dotati di pozzi al centro
dei cortili: in uno di essi si conserva una canalizzazione in terracotta che
raccoglieva l'acqua piovana delle mura difensive. In occasione dell'assedio
furono scavati dei fossati davanti alle mura e con i materiali di risulta
venne costruito uno sbarramento in corrispondenza della porta. Un muro
curvilineo all'interno delle fortificazioni inglobava il quartiere. Dopo la
distruzione l'area venne abbandonata.

Il kothon è
stato identificato come una piscina sacra connessa con il Tempio adiacente
scoperto e scavato dalla Missione della Sapienza dal 2002 al 2010. La
vasca, che era alimentata da una sorgente di acqua dolce, attraverso un
serie di sette blocchi di calcarenite inseriti nello strato marnoso, ma a
contatto con la falda freatica, era chiusa verso lo Stagnone di Marsala,
essendo stata - solo successivamente - dopo l'abbandono di Mozia,
trasformata in bacino ittico e poi in salina. D'altra parte l'antica
interpretazione della piscina come un'installazione portuale è sconfessata
anche dagli studi sul livello antico delle acque, che era di circa 1 m
inferiore a quello attuale (come indica peraltro la famosa strada sommersa).
La piscina era collegata da un canale costruito con il pozzo sacro posto al
centro del Tempio del kothon ed è stata paragonata a
quella del santuario detto "Maabed" di Amrit in Siria,
un luogo di culto fenicio coevo al kothon di Mozia (VI
secolo a.C.).
In
corrispondenza del kothon, nel corpo delle mura urbiche fu
costruito un bacino di carenaggio (solo successivamente collegato con la
vasca. Il fondo di questa installazione era pavimentato con blocchi di
calcarenite e al centro vi era ricavato un solco longitudinale, a sezione
semicircolare. Le pareti erano rivestite da blocchi squadrati disposti in
filari aggettanti sì da formare pareti gradinate.
All'estremità
erano presenti due strutture triangolari in blocchi e sulle banchine furono
ricavate scanalature per l'inserimento di elementi lignei. In questa parte
del canale doveva funzionare come cantiere per la riparazione delle navi, la
cui chiglia scivolava sul solco ricavato sul fondo appoggiandosi alle
strutture triangolari e ad elementi in legno inseriti nelle scanalature
delle banchine.
Il
canale, a nord, s'allargava notevolmente verso il bacino, mantenendo la
stessa profondità della parte meridionale ed era privo di pavimentazione.
L'ingresso del canale venne successivamente chiuso alle due estremità da
muri costruiti sopra lo strato di fango depositato sul fondo. Anche i muri
lungo la parte più interna del canale sono frutto di una tarda
risistemazione. Il canale e il bacino furono scavati probabilmente nella
seconda metà del VI secolo a.C. e dovette essere risistemato
nella seconda metà del V secolo a.C., con altri parziali
rimaneggiamenti in epoca successiva.
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