Erice (Borgo)
(Trapani)

 

 

Giardini del Balio

Il Balio, ridente giardino pubblico di Erice, può considerarsi un vero e proprio monumento naturale per la sua incomparabile bellezza paesaggistica e ambientale. In questo luogo, il tempo sembra fermarsi, la tranquillità e la pace che si respirano sembrano trasportare il visitatore indietro nel tempo dando libero spazio alla fantasia per rincorrere miti lontani e memorie nascoste. Si estende lungo lo spazio contiguo al Castello di Venere. Affacciandosi da uno dei tanti belvedere del Giardino è possibile ammirare panorami talmente suggestivi e pittoreschi da rimanere col fiato sospeso: a valle la città di Trapani dalla particolare forma falciata, le isole Egadi, lo Stagnone di Mozia, il monte Cofano, Capo San Vito, il canale di Sicilia, il mar Tirreno.  Nelle limpide giornate è facile intravedere, guardando a nord-ovest l’isola di Ustica e a sud Pantelleria. Eccezionalmente Capo Bon. Assistere ad un tramonto da questo Giardino è come assistere ad uno spettacolo di vera magia, per la straordinarietà degli effetti visivi.

Il nome Balio deriva dall’antica fortezza ricostruita al tempo dei Normanni come residenza del Bajulo, il magistrato che, su nomina del Re, rappresentava l’Autorità locale. Il Bajulo amministrava la giustizia civile, penale e curava l’esazione dei tributi; nella stessa sede viveva anche la sua corte e scorta militare.

Intorno alla seconda metà dell’Ottocento, il giovane Agostino Maria Alberto Pepoli, nobile mecenate discendente dal Casato bolognese dei Sieri Pepoli, venne ad Erice, allora Monte San Giuliano. Rimase incantato dall’incommensurabile bellezza della Città ma anche amareggiato nel costatare come tanti luoghi e monumenti versassero in pessime condizioni. Sentì che non poteva rimanere inerte e impassibile davanti a tutto ciò. 

Spinto dalla naturale generosità, caratteristica della sua famiglia, che non esitava ad investire il proprio patrimonio per la realizzazione di importanti e grandiose opere pubbliche, decise di intervenire presso le Autorità locali per poter fare qualcosa. 

Il 29 novembre del 1871 inviò una lettera al Sindaco di Erice in cui scriveva: “ avendo il desiderio che le torri col Muro ossia corpi avanzati del Castello si conservassero e non andassero a deperire fa preghiera alla S.V.I. affinché si voglia degnare esporre al nobile Consiglio Comunale che il sottoscritto sarebbe pronto a restaurarle sul gusto antico senza imbiancarle e far costruire una stradina dalla parte di ponente per la quale si possa andare liberamente al Castello, allorquando il suddetto Consiglio volesse permettere la cessione delle stesse insieme allo spazio che sta tra il Castello e le Torri non che l’altro spazio di terra che sta tra le torri e la città e nel quale verrà formato un giardinetto dove si permetterebbe d’intervenire il pubblico in dati giorni ed in date stagioni… e ciò mediante il canone di lire venticinque annuali… tenendo presente che un locale squallido e pericolante potrebbe diventare solido ed ameno”. 

Il Consiglio Comunale dopo varie perplessità e indecisioni, approvò la concessione delle torri al Conte e il contratto fu firmato nel 1872. L’anno successivo iniziarono i lavori diretti dallo stesso Pepoli ed eseguiti a regola d’arte dalle maestranze ericine. Era intendimento del Conte trasformare quell’immensa proprietà in giardino all’inglese alberato di pini, noci, mandorli ed altri alberi da frutto e tutto quanto poteva attecchire in quei luoghi irti e scoscesi.

Per la realizzazione del progetto consultò due tavole del sacerdote ericino don Matteo Gebbia inserite nell’opera del Carvini “ Erice antica e moderna, sacra e profana” della seconda metà del secolo XVII dalle quali si poteva desumere quanto l’incuria di 150 anni avesse danneggiato le antiche strutture del monumento ed in particolare le torri, le più danneggiate. Inoltre, con il trascorrere degli anni, tutta quella ampia consistenza di terreno si era frazionata. Il Conte riuscì, con molte difficoltà, ad unificare ventitré proprietà tutte contigue e sottostanti al Castello per quasi cinquanta ettari di terreno. Si era riproposto, infatti, di ridurre l’intera contrada di Runzi in un unico ampio parco. Per primo si procedette allo spianamento della zona dinanzi le Torri del Balio per proseguire, quasi in contemporanea, con i lavori del primo tratto del sentiero per i Runzi la cui vegetazione selvaggia rendeva difficile e pericoloso il percorso soprattutto dal versante orientale del Balio da dove si giungeva fino alla chiesetta medievale di Santa Maria Maddalena, meta di numerosi fedeli soprattutto in alcuni periodi dell’anno.  

La prima serie di gradini, che discendeva lungo un percorso a tornanti, si interrompeva ad un certo punto, su un piccolo spiazzo nel cui lato in pendio il Conte costruì una pittoresca fontana sovrastata da un muro di contenimento alto e robusto, caratterizzata da tre vasche comunicanti con tre nicchie, idonee per la collocazione di sculture ispirate alla mitologia. Per rendere più sicuro il transito dei viandanti fece, inoltre collocare una serie di eleganti ringhiere lungo i fianchi del sentiero. 

Dallo slargo della fontana, percorrendo una siepe si giungeva ad un’altra scalinata seminascosta da muretti disposti a semicerchi contrapposti da ampi pianerottoli, ideali per le soste all’ombra. Da questa scalinata si arrivava, allora come adesso alla Torretta Pepoli, simbolo di Erice per la sua particolare caratteristica copertura a tegole e la cupoletta d’ispirazione arabeggiante.  

I lavori di riadattamento volgevano a termine ma perché il parco dei Runzi fosse come il Conte desiderava occorreva deviare la servitù di passaggio per Paparella, antico nome della località Valderice, che attraversava il parco. 

Il Pepoli si rivolse allora ancora una volta agli Amministratori ericini che rigettarono la proposta. Deluso, tornò a Trapani. Un altro grandioso progetto balenava, intanto, nella sua mente: la costruzione di un grande Museo che sarà intitolato a lui come la strada sulla la quale si trova.

Torretta Pepoli

Torretta Pepoli sorge nella medesima area che interessa il Castello di Venere sulla sommità del Monte San Giuliano. Oggi l’edificio si onora di essere un "Osservatorio permanente di Pace" ed è conosciuto anche oltre confine regionale con il soprannome di “Faro del Mediterraneo”.

Il complesso rappresenta il frutto di una sensibilità culturale fuori del comune dimostrata da chi ne ha caldeggiato nascita, progettualità e realizzazione, il colto mecenate ed esteta Agostino Pepoli, che nel 1870 concepì il proprio personale rifugio immerso nel silenzio, un luogo in cui poter meditare ma altresì alimentare il dialogo fra uomini d’ingegno e acume artistico-letterario, citisi Ugo Antonio Amico e Alberto Favara, letterato il primo, musicologo il secondo.

Torretta Pepoli è ben più di una semplice “piccola torre”, è un’architettura che fra le rocce aguzze del monte sorride al mare e spicca per eleganza, restituita al suo antico splendore grazie a un profondo restauro capace di esaltarne le linee squadrate ma sinuose e l’aspetto eburneo che ne enfatizza la postura graziosamente monumentale. 

Si tratta di un loco di mistero, fascino e memoria storica che si lega all’esistenza stessa di Erice, alla sua identità e ad atmosfere nostalgiche che proiettano il visitatore in una dimensione oscillante fra mito, tradizione e leggenda. 

Incastonato in questo gioiello prima dimenticato e poi ritrovato, ecco articolarsi perfettamente il museo interattivo che ne racconta il viatico attraverso l’offerta di un’esperienza sensoriale assolutamente immersiva, partorita da un progetto di interaction design messo in piedi dagli studi Noidealab e Sonusloci.

La struttura si divide in quattro livelli e ottempera ai dettami stilistici del Liberty, si compone di stanzette anguste, finestre vertiginose e scale ripide. Per tutta la durata della visita rimarrete a bocca aperta, non c’è dubbio, e poi la posizione geografica è spettacolare, con un paesaggio magnifico (gli occhi spaziano dal Golfo di Bonagia alla città di Trapani comprensiva delle sue saline) a fare da sfondo a un luogo da favola.  

Quartiere Spagnolo

Il Quartiere Spagnolo sorge su un’ampia piattaforma rocciosa, di quella che doveva essere, nella prima metà del sec. XVII, caserma per i soldati spagnoli di presidio ad Erice. Domina dall’estremo nord – orientale della Vetta la pianura ed il mar Tirreno.

Dal 1424 al 1630, periodo della dominazione spagnola in Sicilia, una delle più sofferte ragioni di frequente esodo di famiglie povere o meno povere era causato dall’obbligo della posata. Veniva, infatti, imposto dal Governo l’obbligo alle città di offrire gratuitamente vitto e alloggio ai soldati della guarnigione posta a presidio.  Come se non bastasse, nel 1647, i Dominatori avevano venduto la Città “ col mero e misto Impero” al mercante fiorentino Pandolfo Malagonelli. Erice si riscattò versando alle casse dell’Erario spagnolo 14.000 scudi d’oro. Per questo riscatto ottenne il titolo di “ Fidelissima”. 

In seguito a costanti e preoccupate sollecitazioni dei Giurati, nei primi anni del XVIII secolo, il Governo Viceregio autorizzava finalmente l’Universitas a costruire a proprie spese una caserma per alloggiarvi la fanteria spagnola di stanza in Città. Dopo lunghe vicende, nel 1627, si procedeva all’inizio della costruzione. Il progetto, fornito dallo stesso Governo, prevedeva un grande edificio da costruire dietro la chiesa di sant’Antonio. 

In data 3 marzo 1624 per atto rogato dal notar Antonio Curatolo stabilì le modalità dell’appalto che rimase aggiudicato a un tale Francesco Maurici da Trapani. Deputati a tale costruzione erano Vincenzo Palma, Francesco Badalucco, Francesco Giacometta e Filippo Anselmo. L’opera non fu mai portata a termine; rimaneva realizzata solamente in parte. Si sconoscono i motivi di tale abbandono che potrebbero essere riconducibili al trasferimento in altra sede di quel presidio militare o alla cacciata degli Spagnoli dalla Sicilia.  Si sa solamente che quel pittoresco rudere rimase abbandonato per tanti lunghi anni: decenni e poi secoli e fu sede di fantasmi per il popolo, e di greggi per i pastori. L’edificio col tempo divenne sempre più fatiscente per il crollo di alcune parti.

Verso la fine dell’Ottocento il Pepoli propose all’Amministrazione Comunale di restaurare integralmente tutto l’edificio a sue spese e di ospitare in esso i preziosi reperti archeologici da lui scoperti ai quali avrebbe aggiunto le opere d’arte, quadri, statue e preziosi gioielli, maioliche, plastiche, monete dal patrimonio di famiglia. La sua proposta non fu accolta e il Pepoli deluso si trasferì a Trapani per attuare il suo prestigioso progetto della realizzazione di un Museo. Completamente restaurato, oggi il Quartiere Spagnolo è utilizzato come centro di ricezione turistico- culturale.

Chiesa Madre

La Real Chiesa Madrice Insigne Collegiata, meglio conosciuta come Real Duomo o Duomo di Erice, è ubicata in piazza Matrice, nei pressi di Porta Trapani. È dedicato a Maria Assunta.

La tradizione orale tramanda l'innalzamento di un primitivo tempio cristiano al tempo dell'imperatore Costantino nel IV secolo d.C., nell'epoca in cui il tempio di Venere Erycina venne, se non demolito, almeno chiuso. Fin da quell'epoca gli ericini abbracciarono la religione cristiana e costruirono alla Vergine Maria una piccola chiesa a partire dalla quale si è sviluppato l'edificio attuale. Sembra che in quel periodo fossero sorte ad Erice due chiese: una, dedicata alla Nostra Signora della Neve, eretta dentro l'antico castello, proprio nel luogo medesimo ove sorgeva il tempio di Venere; l'altra, pure dedicata alla Vergine Maria, ad occidente, affinché risultasse più facile allontanarsi da quel tempio per quanti - tra la popolazione - non avevano ancora abbandonato i riti della Venere Erycina.  

La lunga disputa fra fazione latina e fazione catalana, animata dalle rivendicazioni degli Angioini sulla Sicilia, indussero Federico III d'Aragona a lasciare temporaneamente Palermo, per trovare cortese protezione fra le mura dell'amena località. Quando le vicende politiche consentirono il rientro del sovrano nella capitale, Federico volle lasciare un segno di gratitudine tangibile al centro e alla cittadinanza per l'ospitalità riservatagli. La cappella od oratorio, che secondo l'opinione di alcuni risalirebbe ai tempi di Costantino, venne quindi ampliata ed ornata dal sovrano aragonese verosimilmente impiegando nella fabbrica anche materiale proveniente dal tempio dedicato alla Venere Erycina, infatti sulla parete esterna destra dell'attuale chiesa sono incastonate nove croci greche provenienti dal tempio pagano, queste ultime parte delle aggiunte postume operate nel XVII secolo dall'arciprete Carvini. L'edificazione della chiesa assunse anche un significato religioso, quale ringraziamento alla Vergine per l'esito favorevole degli annosi conflitti interni.

Il Real Duomo fu realizzato nel corso dei primi decenni del XIV secolo - lo storico Antonio Cordici colloca l'inizio dei lavori nel 1314 - in stile gotico trecentesco sulla preesistente cappella dedicata alla Vergine Assunta, per volere di re Federico secondo il progetto affidato all'architetto Antonio Musso, a fianco della torre quadrangolare d'avvistamento. Quest'ultima edificata durante le guerre del Vespro, e in seguito trasformata alla fine del XIV secolo in campanile con bifore. Passarono parecchi anni prima che l'ampliamento del duomo fosse portato a compimento. Nel 1329 i lavori della fabbrica procedevano tanto a rilento, che Papa Giovanni XXII, attraverso l'emanazione di bolle pontificie, concesse speciali indulgenze a quei fedeli qui ad fabricam manus porrexerint adiutrices. La definitiva ultimazione avvenne intorno al 1372. La costruzione era articolata secondo l'impianto basilicale a tre navate, all'interno la volta del cappellone presentava una decorazione musiva mentre il corpo ecclesiale una diversa disposizione degli altari e degli ambienti.  

Nel 1426 fu aggiunto il pronao ad archi ogivali, denominato Gibbena (da Age Bene: comportati bene), dall'arciprete Bernardo Militari per ospitare i pubblici penitenti venuti ad espiare peccati gravissimi. Contestualmente fu realizzata la scalinata accessibile da tutti i lati, che fu risistemata nel 1766 dall’arciprete Antonino Badalucco, con nove scalini.  

Col fiorire del rinascimento, dei nuovi canoni estetici, dei numerosi patrocini furono in seguito addossate ulteriori cappelle, corpi e manufatti esterni. Sul lato settentrionale furono aggregati nuovi ambienti: la Cappella de Scrineis, la Cappella di San Nicola, la Cappella di San Giuseppe, i locali della sacrestia posti dietro il cappellone.

Tra il 1673 e il 1677 dall'arciprete Giuseppe Liccio fece arrotondare gli antichi pilastri della chiesa, compromettendone la stabilità strutturale.

La chiesa madre fu tra tutte le chiese ericine la prima ad essere consacrata da monsignor Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara nel maggio 1697.  

Nel 1715 la madrice venne interdetta per effusione di sangue, allorché domenica 7 luglio, durante la celebrazione eucaristica, furono scaricate delle armi da fuoco contro Clemente Palma, pro-castellano, e Alberto Coppola, giurato, i quali persero molto sangue, che macchiò il pavimento della chiesa. I due aggressori furono catturati e condannati a morte. Le due vittime, il Palma e il Coppola, anche se gravemente feriti, guarirono. Il vescovo Castelli ordinò che si scegliesse in quel frangente un'altra chiesa per le funzioni parrocchiali, e si optò per la chiesa di san Martino. Il duomo fu ribenedetto il 16 agosto di quello stesso anno dallo stesso vescovo Castelli.

Intorno alla metà del XIX secolo il duomo ericino, modificato nel corso dei secoli in maniera episodica e frammentaria, presentava una stratificazione stilistica caotica, inadeguata ai canoni estetici del tempo: gli antichi pilastri, arrotondati nel XVII secolo, avevano verosimilmente un aspetto tozzo; i capitelli erano difformi tra loro; non esisteva un coro adeguato ai sacri uffizi, ma un'abside piuttosto angusta; le cappelle presentavano ciascuna una connotazione decorativa differente ed erano asimmetricamente disposte solo sul lato sinistro della chiesa, mentre altari e predelle erano disposti nelle già strette navate; la volta era meno slanciata di quella attuale e appariva bassa e incombente. Ai problemi di natura estetica si univano poi preoccupazioni di natura strutturale. L'assottigliamento dei pilastri si era rivelato dannoso e i sostegni mostravano lesioni così profonde da spingere, nel 1846, il vescovo Vincenzo Marolda a minacciare l'Interdetto nel caso in cui non fossero stati eseguiti urgenti lavori di restauro.  

Probabilmente nello stesso anno venne quindi commissionato un progetto dall'arciprete Giovan Battista Miceli, che morì l'anno successivo, quando non era ancora stata presa alcuna decisione ufficiale. Apprendiamo da un esposto, privo di data e di firma, indirizzato al vescovo e conservato presso l'Archivio della Curia di Trapani, le notizie riguardanti le vicende che seguirono. 

Nella lettera, scritta probabilmente nel 1857, sono riferiti gli avvenimenti risalenti a un periodo compreso tra il 1845 e il 1852. L'autore della missiva - che viene identificato nel sacerdote ericino Carmelo Pirajno - dichiara di aver ricevuto l'incarico di eseguire i disegni per il restauro della chiesa prima dall'arciprete Miceli e in seguito, morto costui, dal decano Giuseppe Augugliaro. Dalla lettera si intuisce che non doveva trattarsi di un intervento poco invasivo, quanto piuttosto di un vero e proprio rinnovamento. Il presunto autore, conclusi i disegni, vide le sue proposte improvvisamente accantonate in favore di un altro progetto. 

La chiesa, rimasta senza arciprete, era infatti amministrata dal decano, con il quale i rapporti si dimostrarono fin dall'inizio tesi. L'Augugliaro non esitò ad escludere il Pirajno dai lavori di restauro, favorendo un giovane stuccatore palermitano, Giuseppe Uttiveggio, poco conosciuto e forse per questo a lui gradito: sembra che il decano non volesse subire molte ingerenze nel compimento dell'opera. Avviare un grande restauro e legare il proprio nome all'impresa doveva rappresentare per lui un forte incentivo. Il rinnovamento della chiesa fu essenzialmente frutto della volontà di quest'uomo che, in più di tredici anni di lavori, si adoperò incessantemente per reperire i fondi necessari e per superare i numerosi ostacoli incorsi.  

Si trattò infatti di una vicenda particolarmente complessa, che può essere divisa in due fasi: la prima, iniziata nel 1852, che si interruppe nel 1858 a causa di un crollo in corso d'opera; la seconda, nella quale entrarono in gioco personaggi diversi e un progetto importato da Napoli, che prese avvio nel 1859 e si concluse nel 1865 con l'inaugurazione della nuova chiesa, non solo rinnovata, ma in parte riedificata.

Con il nuovo progetto e le necessarie autorizzazioni amministrative i lavori cominciarono tra il dicembre 1852 e il gennaio 1853, ma nel mese di maggio vennero fermati da un improvviso intervento della Commissione di Antichità e Belle Arti, informata da una denuncia di Pirajno sul pericolo che i restauri intrapresi nel duomo potessero compromettere il valore storico e artistico del monumento. La Commissione, per verificare sul posto la realtà dei fatti, inviò l'architetto Francesco Damiani, il quale - incaricato di occuparsi personalmente dei lavori - oltre a una serie di consigli su come restaurare l'antico edificio, esortava a rispettare, nella realizzazione degli intonaci e degli stucchi ormai distrutti dal tempo, i resti dell'originaria decorazione, in modo da non snaturare la storicità dell'edificio. 

Queste raccomandazioni suonano come un monito nei confronti del progetto esibitogli, che Damiani sembra considerare eccessivamente invasivo. Esistevano opinioni contrastanti tra Damiani e la deputazione in merito al valore estetico del duomo di Erice: ciò si evince dalla lettera inviata da Giuseppe Augugliaro alla Commissione di Antichità e Belle Arti in risposta al sopralluogo di Damiani e alle polemiche riguardanti il progetto di restauro. Alla Commissione che chiedeva di esaminare un "piano d'arte", per valutare le modifiche ipotizzate, il decano Augugliaro rispondeva di non avere le disponibilità economiche per fare eseguire un disegno e che del resto questo sarebbe risultato inutile, trattandosi soltanto di poco significative modifiche allo stato attuale, lasciando intuire la sua volontà di rinnovarne completamente l'aspetto della chiesa.

Tali divergenze sono sufficienti a spiegare il ruolo di semplice supervisore, più che di vero e proprio direttore dei lavori, che Damiani assunse all'interno del cantiere, così come si evince dal contratto d'appalto per l'esecuzione dei lavori di stucco, stipulato nel 1857, tra la deputazione preposta al restauro del duomo e i mastri Giuseppe Uttiveggio e Giuseppe di Noto.  

L'appalto e la relazione fanno riferimento ai soli lavori di definizione e decorazione degli interni; non vi erano considerate le opere murarie che, nel 1857, erano già state ultimate. La descrizione dei lavori presentata dallo stuccatore Uttiveggio proponeva differenze sostanziali rispetto alle idee espresse da Damiani nel 1853. Non si trattava di normali cambiamenti, ma di mutamenti profondi: se ne deduce che il carico di lavoro e le divergenze di opinioni in merito alle scelte da adottare, avessero indotto l'architetto a delegare molte decisioni alla deputazione, fornendo consigli e sorvegliandone l'operato, senza però partecipare in prima persona all'elaborazione del progetto. 

Ciò che dimostra la differenza esistente tra le tipologie di interventi esposte nei due documenti, ossia il rapporto di Damiani e la relazione di Uttiveggio, è la dichiarazione di intenti che le sottende, quella dell'architetto di non snaturare la storicità del monumento e quella, perseguita dalla deputazione, di celare lo "squallore" dell'edificio sotto un rivestimento di stucchi. Tra le opere previste vi era anche la riconfigurazione delle colonne, da realizzarsi mediante la trasformazione di quelle esistenti.

Il 2 luglio 1857 i lavori vennero interrotti per il crollo di una colonna. Questo incidente dovette preoccupare molto la deputazione, che si vide costretta ad operare scelte rapide nel tentativo di evitare un'interruzione dei lavori. Nel marzo del 1858 un crollo delle volte complicò la situazione del cantiere. Quattro ingegneri decisero di abbattere il nucleo centrale del duomo e ricostruirlo integralmente. Prese avvio l'ultima e definitiva fase dei lavori di rinnovamento. 

Le demolizioni cominciarono nel luglio del 1858 e nell'ottobre dello stesso anno la deputazione procurò a Napoli un disegno di un architetto del quale si afferma che fosse "uno dei migliori". Per adattare il progetto ai resti della vecchia matrice venne incaricato Francesco La Rocca, converso dei minori conventuali, che modificò il disegno napoletano, mantenendo dello stesso soltanto le colonne.

Nel marzo 1859 ebbero inizio i lavori in muratura che proseguirono fino al 1863; nei due anni seguenti ci si dedicò alle opere di finitura e alla realizzazione degli stucchi. Si differenziò l'altezza dei pilastri, originariamente tutti uguali, e venne innalzata la volta maggiore della chiesa e realizzate finestre più ampie. Questo aumento di altezza si rifletté anche in facciata dove venne a formarsi un corpo arretrato rispetto alla compagine principale del prospetto, al quale, per conferire un'unità con l'originaria struttura furono aggiunti dei piccoli merli. 

Con questi lavori l'antica chiesa subì una radicale trasformazione nella volumetria interna ed esterna. Dopo il rifacimento in stile neogotico ottocentesco il duomo venne riaperto il 20 agosto 1865. Il domenicano Giuseppe Castronovo esaltò il magnifico disegno napoletano e il suo adattatore, il francescano Francesco La Rocca, originario di Salaparuta: rispetto alla sua partecipazione nel cantiere del duomo di Erice, La Rocca sembra aver svolto il ruolo di regista, realizzando un'opera di assemblaggio di progetti, modelli differenti e preesistenze, elevando così una struttura difficile e sfuggente a qualsiasi tipo di classificazione, che nel panorama siciliano non presenta né precedenti né imitazioni. La scelta dei modelli da parte della deputazione si era attestata, fin dall'inizio, su due capisaldi: riferimenti gotici di provenienza continentale e un abbellimento della fabbrica mediante elaborate decorazioni a stucco.

La nuova chiesa madre è sorretta da pilastri e colonne corinzie a fascio, in alternativa ai precedenti massicci piedritti squadrati, con bassorilievi: i piedistalli, le basi, i capitelli, il cappellone sono di stile neogotico. Nella navata centrale, scomparse le volte costolonate, il colonnato regge una volta gotica a sesto acuto; ugualmente goticizzanti sono le due navate laterali.

Il blasone collocato al centro del pavimento in prossimità dell'ingresso fu ripristinato in onore del regale fondatore. Ai bordi dello stemma è riportata la scritta: "Regium hoc templum Fridericus II sal An 1314 graphice adaugens Regali suo redimivit stemmate", presente nella lapide collocata ai tempi del prelato Carvini alla fine del XVII secolo e oggi murata dentro l'antiporta meridionale.

Dalle descrizioni di Giuseppe Castronovo, lo stemma regale decorava la chiesa, la cupola, la torre, la porta meridionale, la porta maggiore e l'uscio del coro vecchio. Il rosone della facciata è stato realizzato nel 1954.

In epoca recente risale la realizzazione del polo museale ubicato nelle cappelle comunicanti della navata sinistra.  

Il portale esterno, di ispirazione catalana, con un pregevole rosone, è decorato con bugne a diamante, ed è sormontato da una caratteristica finestra. Una cupola mammelliforme sormonta la costruzione.  

La primitiva torre quadrangolare d'avvistamento riedificata durante le guerre del Vespro alla fine del XIV secolo fu trasformata in campanile con bifore, costruzione verosimilmente insistente sullo stesso sito ove in epoca punica sorgeva un analogo manufatto atto a garantire il presidio del territorio e il contestuale controllo del Mediterraneo durante la disputa delle guerre puniche sui fronti contrapposti di Roma e Cartagine.

La costruzione alta 28 metri circa, con base quadrata 8 x 8 metri, iniziali rampe di gradini in pietra e scala a chiocciola, si articola su tre livelli: il pianterreno è illuminato da monofore, gli altri piani presentano vani arricchiti da eleganti bifore. I 110 gradini conducono alla piattaforma sommitale cinta da merli ghibellini ospitante le incastellature campanarie. Da questa posizione si gode una magnifica visuale sulla cittadina e un controllo a 270° che spazia dai rilievi di Monte Cofano alla penisola di San Vito lo Capo e il profilo di Ustica; sull'intera città di Trapani, le Saline di Trapani e Paceco, lo Stagnone, Mozia e la città di Marsala; la pianura, tutto il sinuoso altipiano fino a Segesta sulla direttrice per Palermo, senza trascurare il vasto specchio di mare con l'arcipelago delle Egadi.  

L'interno della chiesa è di tipo basilicale a tre navate, delimitate da due lunghi filari di alti pilastri di tufo calcareo, sui quali poggiano degli archi ogivali.

Nove croci greche in marmo fissate alla parete sud, provenienti dal tempio di Venere Erycina, furono ivi incastrate per volontà dell’arciprete Vito Carvini nel 1685: una lastra murata ne spiega origini e finalità, con aggiunta di indulgenze papali, che erano concesse a quanti partecipassero agli osanna a Maria, distogliendosi dalle pratiche in omaggio a Venere, ancora usuali sino al XV secolo.

Il rosone, non originale, sostituì recentemente il remoto lastrone rotondo a tripla feritoia - pure surrogato di un altro anteriore - ed è affiancato da due oculi elaborati a canestro. Il portale, a doppia ghiera seghettata, rientra nei modi dell’architettura chiaramontana. Sul fianco settentrionale vi è portale catalano, ornato con bugne a diamante. Al versante orientale, sulla piazzetta, è addossato un altare del 1852, con una croce incorniciata finemente di tufo: vi si celebrava il rito prepasquale della benedizione delle palme.

Navata destra prima del 1865

Cappella e Altare di San Nicola di Bari: la cappella e l'altare vennero fondati nel 1341 dalla nobilissima famiglia Chiaramonte, che ne godeva il giuspatronato, passato poi col tempo ai loro discendenti, i Mannini (o Mannina), casato patrizio ericino. Ai Mannini successe la nobile famiglia trapanese dei Sanclemente.

Donna Francesca Sanclemente fondò a Trapani il monastero domenicano di Sant'Andrea; morta costei i giurati di Trapani volevano avocare a sé quel giuspatronato, ma per lettere apostoliche fu aggregato al suddetto monastero. La cappella di San Nicola di Bari venne poi concessa nel 1682 ai confrati di San Giuseppe col patto che facessero una statua di quel santo, statua che fu lavorata a stucco da Alberto Orlando, scultore trapanese.

Altare di Sant'Isidoro Agricola: in questo altare si venerava l'effigie di quel santo, dipinta ad olio da Orazio Ferrari; Sant'Isidoro fu eletto uno dei patroni della città di Monte San Giuliano nel 1633. L'altare era un tempo mantenuto dai massari ericini che ne celebravano la festa.

Altare Pinto: era così chiamato per una vetusta immagine di Nostra Signora dipinta a fresco nella colonna che sorge al di sotto del pergamo. Il beneficio di questo altare venne fondato il 25 marzo 1428 dalla nobile ericina Paola Morana, sposa del nobile Francesco Morana, la quale lo dotò con un predio a Bonagia, e ne ottenne dal vescovo di Mazara il giuspatronato. Questo beneficio venne poi aggregato alla Madrice dal vescovo Luciano De Rubeis.

Altare del Transito Glorioso di Nostro Signore: vi si venerava una pittura ad olio sopra tela; ogni anno i baroni di Baida pagavano un cero a questo altare.

Altare di San Trifone: fu eretto dai massari nel 1659, anno dell'invasione delle locuste, con l'obbligo di mantenerlo a proprie spese.

Altare del SS. Crocifisso: era collaterale all'ara massima, con una statua del medesimo in legno, molto antica ed assai venerata, che poi si trasferì nella sagrestia. Questo altare veniva mantenuto dall'omonima compagnia.

Navata destra oggi

Prima arcata. Nelle immediate adiacenze un'acquasantiera opera di maestranze siciliane datata 1537.

Cappella di Sant'Isidoro Agricola. Sulla parete il quadro raffigurante Sant'Isidoro Agricola, opera di Orazio Ferraro del 1622.

Cappella della Crocifissione. Sulla parete il quadro raffigurante la Crocifissione, opera di pittore locale.

Prima campata. Cappella della Vergine Assunta. Nella nicchia è collocata la pregevole statua raffigurante la Madonna Assunta, opera attribuita allo scultore Francesco Laurana (1469) (alcuni ritengono che sia di Domenico Gagini).

Seconda campata. Iscrizione marmorea.

Terza campata. Portale. Acquasantiera in marmo del 1537.

Seconda arcata o braccio transetto destro.  

Navata sinistra prima del 1865

Altare di Sant'Anna: vi si venerava la sua statua in rilievo di stucco, lavorata dallo scultore Alberto Orlando. Questo altare veniva un tempo mantenuto dalle pie donne che ne celebravano la festa con grandi dimostrazioni di devozione. L'altare di Sant'Anna fu fatto restaurare dall'arciprete Miceli e la statua di stucco venne sostituita con una tela a olio, rappresentante la Vergine Maria e i suoi genitori, dipinta dal sacerdote ericino Carmelo Pirajno.

Altare delle Anime Purganti: fu eretto dal sacerdote Leonardo Cusenza, dotato con 12 tarì annuali dall'arciprete Giuseppe Gervasi, e ornato di molte sacre reliquie. Questo altare era ammirato per un grande dipinto delle Anime Purganti con Nostra Signora del Rosario; si crede che tale tela sia opera di Andrea Carreca, pittore trapanese.

Altare di San Nicola da Tolentino: fu innalzato nel 1640 dall'arciprete Nicola Gervasi, e dotato con 12 tarì annuali da suo fratello Giuseppe che gli successe nell'arcipretura.

Cappella de Scrineis: fu aggiunta al duomo nel 1565 su iniziativa dell'arciprete Cesare de Scrineis, e posta al fianco sinistro, creando una nuova ala rivolta a tramontana. Il capellone di quest'ala è sormontato da un'alta cupola; in questa cappella si apre una delle porte del duomo che guarda a settentrione.

Cappella di Tutti i Santi: si trova a sinistra della cappella de Scrineis, fu fondata e dotata nel 1510 da Bartolomeo Saluto, e la si stima a buon diritto un egregio modello di architettura gotica. Nell'altare si venerava un affresco di Orazio Ferrari, coperto nel 1704 da una tela dipinta ad olio da Pietro D'Andrea, detto Poma, romano.

Altare di San Giuseppe: succedeva alla magnifica cappella di Tutti i Santi; la statua in legno di San Giuseppe era opera dello scultore ericino Giovan Pietro D'Angelo. L'altare di San Giuseppe sorgeva dapprima dove era quello di San Nicola di Bari, poi nel 1682 venne trasferito nella nuova ala di Tutti i Santi e abbellito di marmi e chiuso da un cancello in ferro.

Cappella di Nostra Signora Assunta in Cielo: con la cappella di Nostra Signora Assunta in Cielo (titolare della chiesa) terminava questa nuova ala della Madrice; a destra della cappella si apre l'uscio della sagrestia.

Navata sinistra oggi

Prima arcata:

Cappella. Fonte battesimale con cupolino del 1627. Quadro di Gesù bambino raffigurato fra Sant'Ignazio di Loyola e San Francesco Saverio.

Cappella della Vergine. Sulla parete il quadro raffigurante l'Incoronazione della Vergine del 1767.

Prima campata: Cappella della Madonna di Custonaci. Nell'ambiente è collocato il dipinto raffigurante la Madonna di Custonaci, immagine realizzata nel 1891 da Michele Corteggiani, copia dell'originale custodita nel santuario di Maria Santissima di Custonaci.

Seconda campata. Addossato alla parete il busto marmoreo dell'arciprete Giuseppe Augugliaro, opera di Leonardo Croce del 1883. Il prelato fu l'artefice della ricostruzione del tempio nel 1865.

Terza campata: Cappella de Scrineis. Ambiente commissionato dal prelato Cesare de Scrineis nel 1586, prima sala adibita a museo. Caratterizzata dalle nicchie angolari di raccordo tra la cupola e la crociera. Sulla parete il dipinto Compianto sul Cristo morto con San Carlo e Sant'Enrico, opera di Orazio Ferraro del 1622.

Seconda arcata o braccio transetto destro: primitiva Cappella di San Nicola. Ambiente edificato nel 1591 e caratterizzato dagli archetti ricorrenti, seconda sala adibita a museo. Sull'altare di sinistra il dipinto Madonna del Rosario raffigurata con le anime purganti, opera di Giovanni Battista Scannatella del 1705. Sull'altare destro il dipinto raffigurante la Presentazione di Maria al Tempio, opera di Pietro Croce del 1882 proveniente dalla chiesa di San Pietro;

Cappella di San Giuseppe: terzo della serie di tre ambienti, primitive cappelle cinquecentesche collegate fra loro e volte a formare un unico locale oggi adibito a sede del Tesoro della Madrice. Nella nicchia sull'altare è collocata la statua di San Giuseppe con Gesù fanciullo, opera di Gian Pietro d'Angelo.  

Abside e presbiterio - L'altare versum populum dietro la balaustra fu realizzato da Domenico de Lisi nel 1906. La cancellata bronzea che permette l'accesso all'area del presbiterio è opera del sacerdote Matteo Gebbia del 1683. Dell'imponente apparato pittorico decorativo risalente al XV secolo, realizzato da Giovanni Russi, è giunta a noi una piccola scena raffigurante un Angelo musico visibile al di sopra degli scranni del coro dei canonici.

Al 1452 risale un atto rogato dal notaio Niccolò Saluto di Erice per la commissione di un affresco con tema l'Assunzione della Vergine Maria, opera barbaramente distrutta.

Sospesa sull'altare una Croce astile, raffinata opera d'argenteria siciliana del XV secolo.  

Icona - Di rilievo la grande icona marmorea con al centro la Madonna in trono con il Bambino del 1513, opera attribuita allo scultore carrarese Giuliano Mancino. L'ardita ancona marmorea fu realizzata con la collaborazione di Bartolomeo Berrettaro, del cognato Antonello Di Battista, dei fratelli Pietro e Paolo, del giovine Pietro, loro nipote.

Il monumentale apparato con struttura piramidale, lievemente concavo sull'asse mediano verticale, raffigura su svariati ordini personaggi e scene della Vita di Gesù realizzato in candido marmo di Carrara. Sulla mensa due pannelli con bassorilievi raffigurano gli episodi Gesù con i fanciulli e la Gesù benedicente fra gli apostoli, delimitati da guglie con pinnacoli e nicchia centrale ospitanti le statuette a tutto tondo di Santi in abito talare d'ordine monastico. Al centro il tabernacolo rappresentato da un doppio tempietto arricchito da particolari argentei, fra i quali spicca la statuetta del Cristo risorto collocata sulla guglia centrale e la custodia ornata da figure opera di Pietro Lazara realizzata nel 1602. Pinnacoli traforati e cortine d'archetti gotici raccordano l'edicola sacra con le estremità laterali. Negli scomparti alla base della sopraelevazione sono raffigurati gli Apostoli a mezzobusto, il numero dei ritratti riprodotti suggerisce la presenza di Profeti.

Nel primo ordine sono presenti quattro nicchie binate, decorate con la conchiglia di San Giacomo Maggiore nella calotta e separate da lesene arricchite da delicate grottesche in rilievo. Gli scomparti ospitano le statue a tutto tondo raffiguranti rispettivamente San Giovanni Battista e San Giuliano a sinistra, due Santi Re guerrieri sulla destra. Al centro il grande pannello raffigurante la Vergine col Bambino attorniata da otto fra arcangeli e cherubini adoranti.

Nei quattro scomparti superiori scene della Passione di Gesù: l'Ultima cena, l'Orazione nell'orto, la Cattura di Gesù, la Condanna di Gesù.

Un secondo ordine delimitato da candelabra e nicchie laterali con due Dottori della Chiesa, comprende le scene della Deposizione, la Crocifissione di Gesù tra i ladroni e la Pietà.

Similmente nel terzo ordine le figure di San Pietro Apostolo e San Paolo Apostolo delimitano la Resurrezione.

Nel timpano la raffigurazione della Nascita di Gesù sormontata dalla figura a mezzobusto di Dio Padre benedicente chiude l'imponente composizione.  

Sacrestia

XVIII secolo, Armadio in legno intagliato e dipinto.

XVI secolo, Reliquiari in legno intagliato e dipinto.

XIX secolo, Madonna delle Pere, olio su tavola.

XIX secolo, Sacro Cuore di Gesù, olio su tela, opera documentata di Giuseppe Patania.

Museo - Nell'area appositamente destinata a museo custodisce il cosiddetto "Tesoro di Erice", costituito oltre da pitture e sculture, da manufatti d'oreficeria, argenti, monili, parati, alabastri, sete, ricami, coralli.

XV secolo, Calice, argento.

XVI secolo, Crocifisso, legno intagliato e dipinto.

1503, Turibolo, argento.

1602, Ostensorio, argento, opera di Pietro Lazzara.

1686, Reliquiario, argento.

XVIII secolo, San PietroSan PaoloSan Vito, statuette in alabastro.

XVIII secolo, Educazione della Vergine, olio su tela, opera proveniente dalla chiesa di San Pietro di Giuseppe Felice.  

Chiesa San Martino  

La chiesa di san Martino di Erice si trova nell’omonima piazzetta. Fu fondata dal conte Ruggero nel 1339, anno al quale risale il primo documento che ne attesta l’esistenza. Come le chiese di san Giuliano e san Cataldo è dedicata a un Santo normanno. Nel 1593, la Congregazione del Purgatorio fondata dal missionario  cappuccino fra’ Vincenzo d’Alcamo e quella detta  del  Suffragio fondata da un altro missionario dello stesso Istituto, si fusero costituendo un’  unica Congregazione che fu incorporata alla Chiesa.

Tutte le famiglie ericine furono, anticamente, divise in tre gruppi dei quali uno fu assegnato alla Confraternita di san Giovanni Battista, l’altro alla Confraternita di san Martino e l’ultimo a quella di sant’Orsola. Non si conoscono i motivi di questa ripartizione. Ciascuna Confraternita teneva un registro delle famiglie di appartenenza ed alla morte di un individuo del suo ruolo aveva l’obbligo della sepoltura. La Confraternita di san Martino era governata dal Cappellano e quattro Rettori che collaboravano con lui. Il Cappellano, eletto a vita, era la massima autorità;  a lui spettava la  nomina dei Rettori che duravano in carica un anno. La nomina avveniva per solenne atto pubblico il giorno di san Martino o in un altro giorno scelto dallo stesso Cappellano.

Aumentando le esigenze di culto, il Cappellano e i Rettori non bastavano più alla reggenza di un’Istituzione al servizio di quasi un terzo della cittadinanza, allora i cinque sacerdoti eleggevano due Procuratori amministratori ai quali spettava di curare la manutenzione e il buon funzionamento organizzativo come l’esazione e le proposte di utilizzazione dei legati. In caso di disaccordo o a parità di voti gli otto elettori dovevano passare ai voti segreti, le schede poi venivano consegnate per lo scrutinio al Padre guardiano dei Cappuccini. 

Il Cappellano aveva dei compiti specifici: coordinare l’attività dei Rettori, e dei promotori, rappresentare l’Istituzione, stabilire i criteri testamentari dei legati nonché di quelli di fondazione di messe perpetue. A lui spettava anche coordinare i momenti di solenne preghiera e di formazione dei fedeli.

Nei capitoli venivano  stabiliti alcune regole fondamentali:  la chiesa doveva portare sempre il titolo di San  Martino, il suo Cappellano era capo e primo Rettore ma senza alcun dominio sui preti celebranti le messe e gli Offici Divini e che sopra la porta della Chiesa dovevano stare gli emblemi sia di san Martino sia del Purgatorio,  dentro la chiesa come fuori si potevano rappresentare anime purganti e fiamme in pittura  o in rilievo come stabilivano gli Officiali della Congregazione.

Nel 1692 la vecchia chiesa, gotica e di piccole dimensioni,  fu demolita e, con l’eredità di Pietro Salerno e di altre eredità aggregate a san Martino, fu  ricostruita su pianta rettangolare a croce latina a tre navate delimitate da colonne; della vecchia costruzione fu conservato solo il portale.

L’Oratorio aveva un solo altare dove era posta una macchinetta in legno disegnata e intagliata dal sacerdote Vito Amico. La base del pilastro ottagonale era sostenuta negli angoli  da quattro angioletti a sostegno delle quattro  mensole. La macchinetta era divisa in due ordini: il primo, ionico con foglie corinzie, a destra l’apostolo san Paolo e sant’Alberto, a sinistra l’apostolo san Pietro e san Giuliano. 

Al centro del prospetto un quadro di Nostra Signora di Custonaci tavola ad olio, nel secondo ordine in centro il Padre Eterno, al lato destro san Francesco d’Assisi, al sinistro san Martino. Gli ordini della macchinetta  erano collocati davanti l’Altare Maggiore della Chiesa e furono  trasportati nell’Altare Maggiore dell’Oratorio quando la chiesa di san Martino fu ricostruita. I lavori terminarono  nel 1801. 

Nel 1858 furono costruiti i dieci altari in marmo. Sulla porta maggiore l’organo e a destra una larga nicchia con san Martino a cavallo in legno, opera di Giovanni Curatolo.

Il primo altare è dei quattro Santi Martiri Incoronati, tela ad olio dipinta dal celebre Pietro d’Andrea detto Poma. Il secondo è del Trapasso di Nostra Signora, tela ad olio, di Vincenzo Manno. Il terzo di Nostra Signora della Consolazione, tela ad olio, dello stesso Vincenzo Manno. Il quarto a lato della sagrestia è di Maria Santissima di Custonaci, tela ad olio di Pietro d’Andrea.

Nella cappella ai lati del Cappellone si venera il Santissimo Crocifisso, statua in legno ed ai lati spiccano le Anime Purganti di Carmelo Peranio.

Nell’Altare Maggiore del cappellone si ammira un grosso quadro rappresentante la discesa di Gesù Cristo nel limbo tela ad olio di Vincenzo Manno

A sinistra il primo altare è della Signora della Provvidenza coi santi  apostoli Pietro e Giovanni Evangelista  tela ad olio di Vincenzo Manno; il secondo è di santa Cecilia tela a olio di Pietro d’Andrea.

Il terzo è di san Francesco d’Assisi, tela ad olio di Vincenzo Manno.

Il quarto è di Maria Santissima della Luce, antica e bella statua in marmo di ignoto scultore avente tre bassorilievi nel piedistallo: il primo dei quali rappresenta san Girolamo in ginocchio nella grotta di Betlem dinanzi a un crocifisso con un sasso in mano in atto di percuotersi il petto: l’altro è il transito del patriarca San Giuseppe con la  Vergine che piange ai piedi del letto e altre due donne, infine  l’ultimo rappresenta  “la Fuga in Egitto della Sacra Famiglia”. 

Nella cappella al lato del Cappellone  l’altare di San Martino vescovo, titolare della Chiesa, magnifica tela a olio dipinta dai fratelli Vaccaro di Caltagirone che sostituì l’antica statua di stucco lavorata da Orazio Ferrari e l’altra più moderna di Pietro dell’Orto.

Singolare è il crocifisso ligneo seicentesco sovrapposto ad una tela ottocentesca di Andrea Piraino. Su uno degli altari al centro della navata si trova il dipinto in lavagna della Madonna delle Grazie  dell’ericino fra’ Ludovico Zichichi,  nel primo altare  santa Cecilia con gli Angeli e i Santi, una grande tela dell’ericino Pietro D’Andrea.

Fra il XVII e il XIX secolo la chiesa ha subito vari interventi conservativi. 

Chiesa San Giuliano  

La chiesa di San Giuliano, è uno dei più antichi luoghi di culto cattolici di Erice, dedicato a san Giuliano, martire nel 254 d.C. Fu così importante che il monte Erice fino al 1934 era chiamato monte San Giuliano. Costruita già nell'XI secolo per ordine di Ruggero il Normanno, san Giuliano vi compare nelle raffigurazioni con le sembianze di un guerriero, con la spada ed il falcone poiché, secondo i racconti, sconfisse i Musulmani che volevano espugnare Erice. San Giuliano, detto il “liberatore”, divenne protettore della città.

La piccola chiesa in stile gotico fu ricostruita e modificata nel periodo a cavallo tra il 1612 e il 1615 ed abbellita con apparato decorativo in stucco, opera di Pietro dell'Orto (1794).  

Ampliata con tre navate e impianto basilicale che conferirono al tempio un aspetto imponente. Il portale esterno è in stile rinascimentale. Il campanile esterno alla chiesa adiacente al fianco destro, con un caratteristico tetto a pagoda, fu realizzato nel 1770.  

A causa del crollo della navata centrale nel 1926 la chiesa venne chiusa al culto fino ai recenti restauri.

Nel 1941, ormai fatiscente, fu privata del titolo parrocchiale. Le suppellettili preziose e i parati furono trasferiti nell'Istituto San Rocco per essere affidati alla custodia delle Suore figlie della carità di San Vincenzo dei Paoli.

La fonte battesimale è opera del 1718 di Leonardo Crivaglia, mentre la cappella di San Giuliano è un’opera lignea di Pietro Orlando.

La chiesa ospita i gruppi statuari dei “Misteri”, rappresentanti la morte e la passione di Cristo, in processione ogni Venerdì Santo.

Adiacente alla chiesa, nella piazzetta omonima, vi è la statua marmorea di Sant’ Alberto degli Abati, opera dello scultore palermitano Nicolò Travaglia.  

La leggenda di San Giuliano - Nel 1077 i Normanni comandati da Giordano d’Altavilla conquistarono Trapani, mentre i Mussulmani si asserragliavano nella fortezza di Gebel-Hamed. Il Gran Conte Ruggero giunse per assediare la fortezza. Poiché i mussulmani resistevano, Ruggero implorò l’aiuto divino invocando, tra gli altri santi, anche S. Giuliano.

La leggenda dice che all’alba apparve ai normanni un cavaliere con un mantello rosso sopra un destriero bianco, che brandiva una spada con la destra, teneva sulla sinistra un falcone ed era accompagnato da una muta di cani. Infatti anche all’interno della chiesa San Giuliano viene raffigurato come un giovane uomo, vestito alla romana, con un mantello rosso e armato di spada e falcone.

Spronato il destriero e sguinzagliati i cani, il cavaliere cominciò ad incalzare i mussulmani con spada e falcone. Terrorizzati, i mussulmani fuggirono abbandonando la città. I normanni, parandosi loro davanti, li uccisero tutti.

Grato all’aiuto divino, Ruggero fece edificare un chiesa che intitolò a San Giuliano e comandò che Erice si chiamasse da quel momento in poi Monte San Giuliano.

Il santo, detto il “liberatore”, divenne poi protettore della città.

Convento San Domenico

L'edificio a pianta rettangolare e sormontato da un pronao quadrato oggi è adibito a sala conferenze del Centro Internazionale di Cultura Scientifica “Ettore Majorana”. Al suo interno è stata ricavata un'aula a gradoni con lunghi banchi in legno chiaro e sedute, laddove la zona presbiteriale è occupata da una cattedra in calcestruzzo a faccia vista. Il grande ambiente del terzo livello ha capriate in legno e tre gradoni rivolti verso una grande apertura data dall'assenza della parete orientale e con vista sul paesaggio.

I domenicani a partire dal 1595 fino al 1621 ampliarono l'antica piccola chiesa di San Michele, già esistente nel 1486, quando fu donata ai Frati Predicatori. La facciata della chiesa presenta un portale quattrocentesco, arricchito da un pronao d’ispirazione rinascimentale aggiunto nel 1862. 

La volta di legname fu interamente coperta e ornata di stucchi a cassettoni ed arabeschi, le colonne diventarono pilastri con capitelli di ordine corinzio, l'altare maggiore fu decorato a stucco. Niente rimane oggi a ricordo della precedente destinazione dell'interno, l'esterno invece è rimasto immutato.

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