Giardini
del
Balio
Il
Balio,
ridente
giardino
pubblico
di
Erice,
può
considerarsi
un
vero
e
proprio
monumento
naturale
per
la
sua
incomparabile
bellezza
paesaggistica
e
ambientale.
In
questo
luogo,
il
tempo
sembra
fermarsi,
la
tranquillità
e
la
pace
che
si
respirano
sembrano
trasportare
il
visitatore
indietro
nel
tempo
dando
libero
spazio
alla
fantasia
per
rincorrere
miti
lontani
e
memorie
nascoste. Si
estende
lungo
lo
spazio
contiguo
al
Castello
di
Venere.
Affacciandosi
da
uno
dei
tanti
belvedere
del
Giardino
è
possibile
ammirare
panorami
talmente
suggestivi
e
pittoreschi
da
rimanere
col
fiato
sospeso:
a
valle
la
città
di
Trapani
dalla
particolare
forma
falciata,
le
isole
Egadi,
lo
Stagnone
di
Mozia,
il
monte
Cofano,
Capo
San
Vito,
il
canale
di
Sicilia,
il
mar
Tirreno.
Nelle
limpide
giornate
è
facile
intravedere,
guardando
a
nord-ovest
l’isola
di
Ustica
e
a
sud
Pantelleria.
Eccezionalmente
Capo
Bon.
Assistere
ad
un
tramonto
da
questo
Giardino
è
come
assistere
ad
uno
spettacolo
di
vera
magia,
per
la
straordinarietà
degli
effetti
visivi.
Il
nome
Balio
deriva
dall’antica
fortezza
ricostruita
al
tempo
dei
Normanni
come
residenza
del
Bajulo,
il
magistrato
che,
su
nomina
del
Re,
rappresentava
l’Autorità
locale.
Il
Bajulo
amministrava
la
giustizia
civile,
penale
e
curava
l’esazione
dei
tributi;
nella
stessa
sede
viveva
anche
la
sua
corte
e
scorta
militare.
Intorno
alla
seconda
metà
dell’Ottocento,
il
giovane
Agostino
Maria
Alberto
Pepoli,
nobile
mecenate
discendente
dal
Casato
bolognese
dei
Sieri
Pepoli,
venne
ad
Erice,
allora
Monte
San
Giuliano.
Rimase
incantato
dall’incommensurabile
bellezza
della
Città
ma
anche
amareggiato
nel
costatare
come
tanti
luoghi
e
monumenti
versassero
in
pessime
condizioni.
Sentì
che
non
poteva
rimanere
inerte
e
impassibile
davanti
a
tutto
ciò.
Spinto
dalla
naturale
generosità,
caratteristica
della
sua
famiglia,
che
non
esitava
ad
investire
il
proprio
patrimonio
per
la
realizzazione
di
importanti
e
grandiose
opere
pubbliche,
decise
di
intervenire
presso
le
Autorità
locali
per
poter
fare
qualcosa.
Il
29
novembre
del
1871
inviò
una
lettera
al
Sindaco
di
Erice
in
cui
scriveva:
“
avendo
il
desiderio
che
le
torri
col
Muro
ossia
corpi
avanzati
del
Castello
si
conservassero
e
non
andassero
a
deperire
fa
preghiera
alla
S.V.I.
affinché
si
voglia
degnare
esporre
al
nobile
Consiglio
Comunale
che
il
sottoscritto
sarebbe
pronto
a
restaurarle
sul
gusto
antico
senza
imbiancarle
e
far
costruire
una
stradina
dalla
parte
di
ponente
per
la
quale
si
possa
andare
liberamente
al
Castello,
allorquando
il
suddetto
Consiglio
volesse
permettere
la
cessione
delle
stesse
insieme
allo
spazio
che
sta
tra
il
Castello
e
le
Torri
non
che
l’altro
spazio
di
terra
che
sta
tra
le
torri
e
la
città
e
nel
quale
verrà
formato
un
giardinetto
dove
si
permetterebbe
d’intervenire
il
pubblico
in
dati
giorni
ed
in
date
stagioni…
e
ciò
mediante
il
canone
di
lire
venticinque
annuali…
tenendo
presente
che
un
locale
squallido
e
pericolante
potrebbe
diventare
solido
ed
ameno”.
Il
Consiglio
Comunale
dopo
varie
perplessità
e
indecisioni,
approvò
la
concessione
delle
torri
al
Conte
e
il
contratto
fu
firmato
nel
1872.
L’anno
successivo
iniziarono
i
lavori
diretti
dallo
stesso
Pepoli
ed
eseguiti
a
regola
d’arte
dalle
maestranze
ericine.
Era
intendimento
del
Conte
trasformare
quell’immensa
proprietà
in
giardino
all’inglese
alberato
di
pini,
noci,
mandorli
ed
altri
alberi
da
frutto
e
tutto
quanto
poteva
attecchire
in
quei
luoghi
irti
e
scoscesi.
Per
la
realizzazione
del
progetto
consultò
due
tavole
del
sacerdote
ericino
don
Matteo
Gebbia
inserite
nell’opera
del
Carvini
“
Erice
antica
e
moderna,
sacra
e
profana”
della
seconda
metà
del
secolo
XVII
dalle
quali
si
poteva
desumere
quanto
l’incuria
di
150
anni
avesse
danneggiato
le
antiche
strutture
del
monumento
ed
in
particolare
le
torri,
le
più
danneggiate.
Inoltre,
con
il
trascorrere
degli
anni,
tutta
quella
ampia
consistenza
di
terreno
si
era
frazionata.
Il
Conte
riuscì,
con
molte
difficoltà,
ad
unificare
ventitré
proprietà
tutte
contigue
e
sottostanti
al
Castello
per
quasi
cinquanta
ettari
di
terreno.
Si
era
riproposto,
infatti,
di
ridurre
l’intera
contrada
di
Runzi
in
un
unico
ampio
parco.
Per
primo
si
procedette
allo
spianamento
della
zona
dinanzi
le
Torri
del
Balio
per
proseguire,
quasi
in
contemporanea,
con
i
lavori
del
primo
tratto
del
sentiero
per
i
Runzi
la
cui
vegetazione
selvaggia
rendeva
difficile
e
pericoloso
il
percorso
soprattutto
dal
versante
orientale
del
Balio
da
dove
si
giungeva
fino
alla
chiesetta
medievale
di
Santa
Maria
Maddalena,
meta
di
numerosi
fedeli
soprattutto
in
alcuni
periodi
dell’anno.
La
prima
serie
di
gradini,
che
discendeva
lungo
un
percorso
a
tornanti,
si
interrompeva
ad
un
certo
punto,
su
un
piccolo
spiazzo
nel
cui
lato
in
pendio
il
Conte
costruì
una
pittoresca
fontana
sovrastata
da
un
muro
di
contenimento
alto
e
robusto,
caratterizzata
da
tre
vasche
comunicanti
con
tre
nicchie,
idonee
per
la
collocazione
di
sculture
ispirate
alla
mitologia.
Per
rendere
più
sicuro
il
transito
dei
viandanti
fece,
inoltre
collocare
una
serie
di
eleganti
ringhiere
lungo
i
fianchi
del
sentiero.
Dallo
slargo
della
fontana,
percorrendo
una
siepe
si
giungeva
ad
un’altra
scalinata
seminascosta
da
muretti
disposti
a
semicerchi
contrapposti
da
ampi
pianerottoli,
ideali
per
le
soste
all’ombra.
Da
questa
scalinata
si
arrivava,
allora
come
adesso
alla
Torretta
Pepoli,
simbolo
di
Erice
per
la
sua
particolare
caratteristica
copertura
a
tegole
e
la
cupoletta
d’ispirazione
arabeggiante.
I
lavori
di
riadattamento
volgevano
a
termine
ma
perché
il
parco
dei
Runzi
fosse
come
il
Conte
desiderava
occorreva
deviare
la
servitù
di
passaggio
per
Paparella,
antico
nome
della
località
Valderice,
che
attraversava
il
parco.
Il
Pepoli
si
rivolse
allora
ancora
una
volta
agli
Amministratori
ericini
che
rigettarono
la
proposta.
Deluso,
tornò
a
Trapani.
Un
altro
grandioso
progetto
balenava,
intanto,
nella
sua
mente:
la
costruzione
di
un
grande
Museo
che
sarà
intitolato
a
lui
come
la
strada
sulla
la
quale
si
trova.
Torretta
Pepoli
Torretta
Pepoli
sorge
nella
medesima
area
che
interessa
il
Castello
di
Venere sulla
sommità
del
Monte
San
Giuliano.
Oggi
l’edificio
si
onora
di
essere
un
"Osservatorio
permanente
di
Pace"
ed
è
conosciuto
anche
oltre
confine
regionale
con
il
soprannome
di
“Faro
del
Mediterraneo”.
Il
complesso
rappresenta
il
frutto
di
una
sensibilità
culturale
fuori
del
comune
dimostrata
da
chi
ne
ha
caldeggiato
nascita,
progettualità
e
realizzazione,
il
colto
mecenate
ed
esteta
Agostino
Pepoli,
che
nel
1870
concepì
il
proprio
personale
rifugio
immerso
nel
silenzio,
un
luogo
in
cui
poter
meditare
ma
altresì
alimentare
il
dialogo
fra
uomini
d’ingegno
e
acume
artistico-letterario,
citisi
Ugo
Antonio
Amico
e
Alberto
Favara,
letterato
il
primo,
musicologo
il
secondo.
Torretta
Pepoli
è
ben
più
di
una
semplice
“piccola
torre”,
è
un’architettura
che
fra
le
rocce
aguzze
del
monte
sorride
al
mare
e
spicca
per
eleganza,
restituita
al
suo
antico
splendore
grazie
a
un
profondo
restauro
capace
di
esaltarne
le
linee
squadrate
ma
sinuose
e
l’aspetto
eburneo
che
ne
enfatizza
la
postura
graziosamente
monumentale.
Si
tratta
di
un
loco
di
mistero,
fascino
e
memoria
storica
che
si
lega
all’esistenza
stessa
di
Erice,
alla
sua
identità
e
ad
atmosfere
nostalgiche
che
proiettano
il
visitatore
in
una
dimensione
oscillante
fra
mito,
tradizione
e
leggenda.
Incastonato
in
questo
gioiello
prima
dimenticato
e
poi
ritrovato,
ecco
articolarsi
perfettamente
il
museo
interattivo
che
ne
racconta
il
viatico
attraverso
l’offerta
di
un’esperienza
sensoriale
assolutamente
immersiva,
partorita
da
un
progetto
di
interaction
design
messo
in
piedi
dagli
studi
Noidealab
e
Sonusloci.
La
struttura
si
divide
in
quattro
livelli
e
ottempera
ai
dettami
stilistici
del
Liberty,
si
compone
di
stanzette
anguste,
finestre
vertiginose
e
scale
ripide.
Per
tutta
la
durata
della
visita
rimarrete
a
bocca
aperta,
non
c’è
dubbio,
e
poi
la
posizione
geografica
è
spettacolare,
con
un
paesaggio
magnifico
(gli
occhi
spaziano
dal
Golfo
di
Bonagia
alla
città
di
Trapani
comprensiva
delle
sue
saline)
a
fare
da
sfondo
a
un
luogo
da
favola.
Quartiere
Spagnolo
Il
Quartiere
Spagnolo
sorge
su
un’ampia
piattaforma
rocciosa,
di
quella
che
doveva
essere,
nella
prima
metà
del
sec.
XVII,
caserma
per
i
soldati
spagnoli
di
presidio
ad
Erice.
Domina
dall’estremo
nord
–
orientale
della
Vetta
la
pianura
ed
il
mar
Tirreno.
Dal
1424
al
1630,
periodo
della
dominazione
spagnola
in
Sicilia,
una
delle
più
sofferte
ragioni
di
frequente
esodo
di
famiglie
povere
o
meno
povere
era
causato
dall’obbligo
della posata. Veniva,
infatti,
imposto
dal
Governo
l’obbligo
alle
città
di
offrire
gratuitamente
vitto
e
alloggio
ai
soldati
della
guarnigione
posta
a
presidio.
Come
se
non
bastasse,
nel
1647,
i
Dominatori
avevano
venduto
la
Città
“
col
mero
e
misto
Impero”
al
mercante
fiorentino
Pandolfo
Malagonelli.
Erice
si
riscattò
versando
alle
casse
dell’Erario
spagnolo
14.000
scudi
d’oro.
Per
questo
riscatto
ottenne
il
titolo
di
“
Fidelissima”.
In
seguito
a
costanti
e
preoccupate
sollecitazioni
dei
Giurati,
nei
primi
anni
del
XVIII
secolo,
il
Governo
Viceregio
autorizzava
finalmente
l’Universitas
a
costruire
a
proprie
spese
una
caserma
per
alloggiarvi
la
fanteria
spagnola
di
stanza
in
Città.
Dopo
lunghe
vicende,
nel
1627,
si
procedeva
all’inizio
della
costruzione.
Il
progetto,
fornito
dallo
stesso
Governo,
prevedeva
un
grande
edificio
da
costruire
dietro
la
chiesa
di
sant’Antonio.
In
data
3
marzo
1624
per
atto
rogato
dal
notar
Antonio
Curatolo
stabilì
le
modalità
dell’appalto
che
rimase
aggiudicato
a
un
tale
Francesco
Maurici
da
Trapani.
Deputati
a
tale
costruzione
erano
Vincenzo
Palma,
Francesco
Badalucco,
Francesco
Giacometta
e
Filippo
Anselmo.
L’opera
non
fu
mai
portata
a
termine;
rimaneva
realizzata
solamente
in
parte.
Si
sconoscono
i
motivi
di
tale
abbandono
che
potrebbero
essere
riconducibili
al
trasferimento
in
altra
sede
di
quel
presidio
militare
o
alla
cacciata
degli
Spagnoli
dalla
Sicilia.
Si
sa
solamente
che
quel
pittoresco
rudere
rimase
abbandonato
per
tanti
lunghi
anni:
decenni
e
poi
secoli
e
fu
sede
di
fantasmi
per
il
popolo,
e
di
greggi
per
i
pastori.
L’edificio
col
tempo
divenne
sempre
più
fatiscente
per
il
crollo
di
alcune
parti.
Verso
la
fine
dell’Ottocento
il
Pepoli
propose
all’Amministrazione
Comunale
di
restaurare
integralmente
tutto
l’edificio
a
sue
spese
e
di
ospitare
in
esso
i
preziosi
reperti
archeologici
da
lui
scoperti
ai
quali
avrebbe
aggiunto
le
opere
d’arte,
quadri,
statue
e
preziosi
gioielli,
maioliche,
plastiche,
monete
dal
patrimonio
di
famiglia.
La
sua
proposta
non
fu
accolta
e
il
Pepoli
deluso
si
trasferì
a
Trapani
per
attuare
il
suo
prestigioso
progetto
della
realizzazione
di
un
Museo.
Completamente
restaurato,
oggi
il
Quartiere
Spagnolo
è
utilizzato
come
centro
di
ricezione
turistico-
culturale.
Chiesa
Madre
La Real
Chiesa
Madrice
Insigne
Collegiata,
meglio
conosciuta
come Real
Duomo o Duomo
di
Erice,
è
ubicata
in
piazza
Matrice,
nei
pressi
di
Porta
Trapani.
È
dedicato
a Maria
Assunta.
La
tradizione
orale
tramanda
l'innalzamento
di
un
primitivo
tempio
cristiano
al
tempo
dell'imperatore Costantino nel IV
secolo d.C.,
nell'epoca
in
cui
il tempio
di
Venere
Erycina venne,
se
non
demolito,
almeno
chiuso.
Fin
da
quell'epoca
gli
ericini
abbracciarono
la
religione
cristiana e
costruirono
alla
Vergine
Maria
una
piccola
chiesa
a
partire
dalla
quale
si
è
sviluppato
l'edificio
attuale.
Sembra
che
in
quel
periodo
fossero
sorte
ad
Erice
due
chiese:
una,
dedicata
alla
Nostra
Signora
della
Neve,
eretta
dentro
l'antico
castello,
proprio
nel
luogo
medesimo
ove
sorgeva
il
tempio
di
Venere;
l'altra,
pure
dedicata
alla
Vergine
Maria,
ad
occidente,
affinché
risultasse
più
facile
allontanarsi
da
quel
tempio
per
quanti
-
tra
la
popolazione
-
non
avevano
ancora
abbandonato
i
riti
della
Venere
Erycina.
La
lunga
disputa
fra fazione
latina e fazione
catalana,
animata
dalle
rivendicazioni
degli Angioini sulla
Sicilia,
indussero Federico
III
d'Aragona a
lasciare
temporaneamente
Palermo,
per
trovare
cortese
protezione
fra
le
mura
dell'amena
località.
Quando
le
vicende
politiche
consentirono
il
rientro
del
sovrano
nella
capitale,
Federico
volle
lasciare
un
segno
di
gratitudine
tangibile
al
centro
e
alla
cittadinanza
per
l'ospitalità
riservatagli.
La
cappella
od
oratorio,
che
secondo
l'opinione
di
alcuni
risalirebbe
ai
tempi
di
Costantino,
venne
quindi
ampliata
ed
ornata
dal
sovrano
aragonese
verosimilmente
impiegando
nella
fabbrica
anche
materiale
proveniente
dal
tempio
dedicato
alla Venere
Erycina,
infatti
sulla
parete
esterna
destra
dell'attuale
chiesa
sono
incastonate
nove
croci
greche
provenienti
dal
tempio
pagano,
queste
ultime
parte
delle
aggiunte
postume
operate
nel XVII
secolo dall'arciprete
Carvini.
L'edificazione
della
chiesa
assunse
anche
un
significato
religioso,
quale
ringraziamento
alla
Vergine
per
l'esito
favorevole
degli
annosi
conflitti
interni.
Il Real
Duomo fu
realizzato
nel
corso
dei
primi
decenni
del
XIV
secolo
-
lo
storico
Antonio
Cordici
colloca
l'inizio
dei
lavori
nel 1314 -
in
stile gotico trecentesco
sulla
preesistente
cappella
dedicata
alla
Vergine
Assunta,
per
volere
di
re
Federico
secondo
il
progetto
affidato
all'architetto
Antonio
Musso,
a
fianco
della
torre
quadrangolare
d'avvistamento.
Quest'ultima
edificata
durante
le guerre
del
Vespro,
e
in
seguito
trasformata
alla
fine
del
XIV
secolo
in campanile con
bifore.
Passarono
parecchi
anni
prima
che
l'ampliamento
del
duomo
fosse
portato
a
compimento.
Nel 1329 i
lavori
della
fabbrica
procedevano
tanto
a
rilento,
che Papa
Giovanni
XXII,
attraverso
l'emanazione
di bolle
pontificie,
concesse
speciali
indulgenze
a
quei
fedeli qui
ad
fabricam
manus
porrexerint
adiutrices.
La
definitiva
ultimazione
avvenne
intorno
al 1372.
La
costruzione
era
articolata
secondo
l'impianto
basilicale
a
tre
navate,
all'interno
la
volta
del
cappellone
presentava
una
decorazione
musiva
mentre
il
corpo
ecclesiale
una
diversa
disposizione
degli
altari
e
degli
ambienti.
Nel
1426
fu
aggiunto
il pronao ad
archi
ogivali,
denominato Gibbena (da Age
Bene:
comportati
bene),
dall'arciprete
Bernardo
Militari
per
ospitare
i
pubblici
penitenti
venuti
ad
espiare
peccati
gravissimi.
Contestualmente
fu
realizzata
la
scalinata
accessibile
da
tutti
i
lati,
che
fu
risistemata
nel
1766
dall’arciprete
Antonino
Badalucco,
con
nove
scalini.
Col
fiorire
del rinascimento,
dei
nuovi
canoni
estetici,
dei
numerosi
patrocini
furono
in
seguito
addossate
ulteriori
cappelle,
corpi
e
manufatti
esterni.
Sul
lato
settentrionale
furono
aggregati
nuovi
ambienti:
la Cappella
de
Scrineis,
la Cappella
di
San
Nicola,
la
Cappella
di
San
Giuseppe,
i
locali
della sacrestia posti
dietro
il
cappellone.
Tra
il 1673 e
il 1677 dall'arciprete Giuseppe
Liccio
fece
arrotondare
gli
antichi
pilastri
della
chiesa,
compromettendone
la
stabilità
strutturale.
La
chiesa
madre
fu
tra
tutte
le
chiese
ericine
la
prima
ad
essere
consacrata
da
monsignor
Bartolomeo
Castelli,
vescovo
di
Mazara
nel
maggio
1697.
Nel 1715 la
madrice
venne
interdetta
per
effusione
di
sangue,
allorché
domenica
7
luglio,
durante
la celebrazione
eucaristica,
furono
scaricate
delle
armi
da
fuoco
contro
Clemente
Palma,
pro-castellano,
e
Alberto
Coppola,
giurato,
i
quali
persero
molto
sangue,
che
macchiò
il
pavimento
della
chiesa.
I
due
aggressori
furono
catturati
e
condannati
a
morte.
Le
due
vittime,
il
Palma
e
il
Coppola,
anche
se
gravemente
feriti,
guarirono.
Il
vescovo
Castelli
ordinò
che
si
scegliesse
in
quel
frangente
un'altra
chiesa
per
le
funzioni
parrocchiali,
e
si
optò
per
la
chiesa
di
san
Martino.
Il
duomo
fu
ribenedetto
il
16
agosto
di
quello
stesso
anno
dallo
stesso
vescovo
Castelli.
Intorno
alla
metà
del XIX
secolo il duomo ericino,
modificato
nel
corso
dei
secoli
in
maniera
episodica
e
frammentaria,
presentava
una
stratificazione
stilistica
caotica,
inadeguata
ai
canoni
estetici
del
tempo:
gli
antichi
pilastri,
arrotondati
nel XVII
secolo,
avevano
verosimilmente
un
aspetto
tozzo;
i capitelli erano
difformi
tra
loro;
non
esisteva
un coro adeguato
ai
sacri
uffizi,
ma
un'abside piuttosto
angusta;
le cappelle presentavano
ciascuna
una
connotazione
decorativa
differente
ed
erano
asimmetricamente
disposte
solo
sul
lato
sinistro
della
chiesa,
mentre altari e predelle erano
disposti
nelle
già
strette navate;
la volta era
meno
slanciata
di
quella
attuale
e
appariva
bassa
e
incombente.
Ai
problemi
di
natura
estetica
si
univano
poi
preoccupazioni
di
natura
strutturale.
L'assottigliamento
dei
pilastri
si
era
rivelato
dannoso
e
i
sostegni
mostravano
lesioni
così
profonde
da
spingere,
nel 1846,
il
vescovo
Vincenzo
Marolda
a
minacciare
l'Interdetto nel
caso
in
cui
non
fossero
stati
eseguiti
urgenti
lavori
di
restauro.
Probabilmente
nello
stesso
anno
venne
quindi
commissionato
un
progetto
dall'arciprete
Giovan
Battista
Miceli,
che
morì
l'anno
successivo,
quando
non
era
ancora
stata
presa
alcuna
decisione
ufficiale.
Apprendiamo
da
un
esposto,
privo
di
data
e
di
firma,
indirizzato
al vescovo e
conservato
presso
l'Archivio
della Curia
di
Trapani,
le
notizie
riguardanti
le
vicende
che
seguirono.
Nella
lettera,
scritta
probabilmente
nel 1857,
sono
riferiti
gli
avvenimenti
risalenti
a
un
periodo
compreso
tra
il 1845 e
il 1852.
L'autore
della
missiva
-
che
viene
identificato
nel
sacerdote
ericino Carmelo
Pirajno
-
dichiara
di
aver
ricevuto
l'incarico
di
eseguire
i
disegni
per
il
restauro
della
chiesa
prima
dall'arciprete
Miceli
e
in
seguito,
morto
costui,
dal decano Giuseppe
Augugliaro.
Dalla
lettera
si
intuisce
che
non
doveva
trattarsi
di
un
intervento
poco
invasivo,
quanto
piuttosto
di
un
vero
e
proprio
rinnovamento.
Il
presunto
autore,
conclusi
i
disegni,
vide
le
sue
proposte
improvvisamente
accantonate
in
favore
di
un
altro
progetto.
La
chiesa,
rimasta
senza
arciprete,
era
infatti
amministrata
dal
decano,
con
il
quale
i
rapporti
si
dimostrarono
fin
dall'inizio
tesi.
L'Augugliaro
non
esitò
ad
escludere
il
Pirajno
dai
lavori
di
restauro,
favorendo
un
giovane stuccatore palermitano,
Giuseppe
Uttiveggio,
poco
conosciuto
e
forse
per
questo
a
lui
gradito:
sembra
che
il
decano
non
volesse
subire
molte
ingerenze
nel
compimento
dell'opera.
Avviare
un
grande
restauro
e
legare
il
proprio
nome
all'impresa
doveva
rappresentare
per
lui
un
forte
incentivo.
Il
rinnovamento
della
chiesa
fu
essenzialmente
frutto
della
volontà
di
quest'uomo
che,
in
più
di
tredici
anni
di
lavori,
si
adoperò
incessantemente
per
reperire
i
fondi
necessari
e
per
superare
i
numerosi
ostacoli
incorsi.
Si
trattò
infatti
di
una
vicenda
particolarmente
complessa,
che
può
essere
divisa
in
due
fasi:
la
prima,
iniziata
nel 1852,
che
si
interruppe
nel
1858 a
causa
di
un
crollo
in
corso
d'opera;
la
seconda,
nella
quale
entrarono
in
gioco
personaggi
diversi
e
un
progetto
importato
da Napoli,
che
prese
avvio
nel 1859 e
si
concluse
nel 1865 con
l'inaugurazione
della
nuova
chiesa,
non
solo
rinnovata,
ma
in
parte
riedificata.
Con
il
nuovo
progetto
e
le
necessarie
autorizzazioni
amministrative
i
lavori
cominciarono
tra
il
dicembre
1852
e
il
gennaio
1853,
ma
nel
mese
di
maggio
vennero
fermati
da
un
improvviso
intervento
della
Commissione
di
Antichità
e
Belle
Arti,
informata
da
una
denuncia
di
Pirajno
sul
pericolo
che
i
restauri
intrapresi
nel
duomo
potessero
compromettere
il
valore
storico
e
artistico
del
monumento.
La
Commissione,
per
verificare
sul
posto
la
realtà
dei
fatti,
inviò
l'architetto
Francesco
Damiani,
il
quale
-
incaricato
di
occuparsi
personalmente
dei
lavori
-
oltre
a
una
serie
di
consigli
su
come
restaurare
l'antico
edificio,
esortava
a
rispettare,
nella
realizzazione
degli
intonaci
e
degli
stucchi
ormai
distrutti
dal
tempo,
i
resti
dell'originaria
decorazione,
in
modo
da
non
snaturare
la
storicità
dell'edificio.
Queste
raccomandazioni
suonano
come
un
monito
nei
confronti
del
progetto
esibitogli,
che
Damiani
sembra
considerare
eccessivamente
invasivo.
Esistevano
opinioni
contrastanti
tra
Damiani
e
la
deputazione
in
merito
al
valore
estetico
del
duomo
di
Erice:
ciò
si
evince
dalla
lettera
inviata
da
Giuseppe
Augugliaro
alla
Commissione
di
Antichità
e
Belle
Arti
in
risposta
al
sopralluogo
di
Damiani
e
alle
polemiche
riguardanti
il
progetto
di
restauro.
Alla
Commissione
che
chiedeva
di
esaminare
un
"piano
d'arte",
per
valutare
le
modifiche
ipotizzate,
il
decano
Augugliaro
rispondeva
di
non
avere
le
disponibilità
economiche
per
fare
eseguire
un
disegno
e
che
del
resto
questo
sarebbe
risultato
inutile,
trattandosi
soltanto
di
poco
significative
modifiche
allo
stato
attuale,
lasciando
intuire
la
sua
volontà
di
rinnovarne
completamente
l'aspetto
della
chiesa.
Tali
divergenze
sono
sufficienti
a
spiegare
il
ruolo
di
semplice
supervisore,
più
che
di
vero
e
proprio
direttore
dei
lavori,
che
Damiani
assunse
all'interno
del
cantiere,
così
come
si
evince
dal contratto
d'appalto per
l'esecuzione
dei
lavori
di
stucco,
stipulato
nel
1857,
tra
la
deputazione
preposta
al
restauro
del
duomo
e
i
mastri
Giuseppe
Uttiveggio
e
Giuseppe
di
Noto.
L'appalto
e
la
relazione
fanno
riferimento
ai
soli
lavori
di
definizione
e
decorazione
degli
interni;
non
vi
erano
considerate
le
opere
murarie
che,
nel
1857,
erano
già
state
ultimate.
La
descrizione
dei
lavori
presentata
dallo
stuccatore
Uttiveggio
proponeva
differenze
sostanziali
rispetto
alle
idee
espresse
da
Damiani
nel
1853.
Non
si
trattava
di
normali
cambiamenti,
ma
di
mutamenti
profondi:
se
ne
deduce
che
il
carico
di
lavoro
e
le
divergenze
di
opinioni
in
merito
alle
scelte
da
adottare,
avessero
indotto
l'architetto
a
delegare
molte
decisioni
alla
deputazione,
fornendo
consigli
e
sorvegliandone
l'operato,
senza
però
partecipare
in
prima
persona
all'elaborazione
del
progetto.
Ciò
che
dimostra
la
differenza
esistente
tra
le
tipologie
di
interventi
esposte
nei
due
documenti,
ossia
il
rapporto
di
Damiani
e
la
relazione
di
Uttiveggio,
è
la
dichiarazione
di
intenti
che
le
sottende,
quella
dell'architetto
di
non
snaturare
la
storicità
del
monumento
e
quella,
perseguita
dalla
deputazione,
di
celare
lo
"squallore"
dell'edificio
sotto
un
rivestimento
di
stucchi.
Tra
le
opere
previste
vi
era
anche
la
riconfigurazione
delle
colonne,
da
realizzarsi
mediante
la
trasformazione
di
quelle
esistenti.
Il 2
luglio 1857 i
lavori
vennero
interrotti
per
il
crollo
di
una colonna.
Questo
incidente
dovette
preoccupare
molto
la
deputazione,
che
si
vide
costretta
ad
operare
scelte
rapide
nel
tentativo
di
evitare
un'interruzione
dei
lavori.
Nel
marzo
del
1858
un
crollo
delle
volte
complicò
la
situazione
del
cantiere.
Quattro
ingegneri
decisero
di
abbattere
il
nucleo
centrale
del
duomo
e
ricostruirlo
integralmente.
Prese
avvio
l'ultima
e
definitiva
fase
dei
lavori
di
rinnovamento.
Le
demolizioni
cominciarono
nel
luglio
del
1858
e
nell'ottobre
dello
stesso
anno
la
deputazione
procurò
a
Napoli
un
disegno
di
un
architetto
del
quale
si
afferma
che
fosse
"uno
dei
migliori".
Per
adattare
il
progetto
ai
resti
della
vecchia
matrice
venne
incaricato
Francesco
La
Rocca,
converso
dei
minori
conventuali,
che
modificò
il
disegno
napoletano,
mantenendo
dello
stesso
soltanto
le
colonne.
Nel
marzo 1859 ebbero
inizio
i
lavori
in
muratura
che
proseguirono
fino
al 1863;
nei
due
anni
seguenti
ci
si
dedicò
alle
opere
di
finitura
e
alla
realizzazione
degli
stucchi.
Si
differenziò
l'altezza
dei pilastri,
originariamente
tutti
uguali,
e
venne
innalzata
la
volta
maggiore
della
chiesa
e
realizzate
finestre
più
ampie.
Questo
aumento
di
altezza
si
rifletté
anche
in
facciata
dove
venne
a
formarsi
un
corpo
arretrato
rispetto
alla
compagine
principale
del
prospetto,
al
quale,
per
conferire
un'unità
con
l'originaria
struttura
furono
aggiunti
dei
piccoli merli.
Con
questi
lavori
l'antica
chiesa
subì
una
radicale
trasformazione
nella
volumetria
interna
ed
esterna.
Dopo
il
rifacimento
in stile
neogotico ottocentesco il
duomo
venne
riaperto
il
20
agosto 1865.
Il domenicano Giuseppe
Castronovo
esaltò
il
magnifico
disegno
napoletano
e
il
suo
adattatore,
il francescano Francesco
La
Rocca,
originario
di Salaparuta:
rispetto
alla
sua
partecipazione
nel
cantiere
del
duomo
di
Erice,
La
Rocca
sembra
aver
svolto
il
ruolo
di
regista,
realizzando
un'opera
di
assemblaggio
di
progetti,
modelli
differenti
e
preesistenze,
elevando
così
una
struttura
difficile
e
sfuggente
a
qualsiasi
tipo
di
classificazione,
che
nel
panorama
siciliano
non
presenta
né
precedenti
né
imitazioni.
La
scelta
dei
modelli
da
parte
della
deputazione
si
era
attestata,
fin
dall'inizio,
su
due
capisaldi:
riferimenti
gotici
di
provenienza
continentale
e
un
abbellimento
della
fabbrica
mediante
elaborate
decorazioni
a
stucco.
La
nuova chiesa
madre è
sorretta
da
pilastri
e
colonne
corinzie
a
fascio,
in
alternativa
ai
precedenti
massicci piedritti squadrati,
con bassorilievi:
i
piedistalli,
le
basi,
i capitelli,
il
cappellone
sono
di stile
neogotico.
Nella
navata
centrale,
scomparse
le
volte
costolonate,
il
colonnato
regge
una
volta
gotica
a
sesto
acuto;
ugualmente
goticizzanti
sono
le
due
navate
laterali.

Il
blasone
collocato
al
centro
del
pavimento
in
prossimità
dell'ingresso
fu
ripristinato
in
onore
del
regale
fondatore.
Ai
bordi
dello
stemma
è
riportata
la
scritta:
"Regium
hoc
templum
Fridericus
II
sal
An
1314
graphice
adaugens
Regali
suo
redimivit
stemmate",
presente
nella
lapide
collocata
ai
tempi
del
prelato
Carvini
alla
fine
del XVII
secolo e
oggi
murata
dentro
l'antiporta
meridionale.
Dalle
descrizioni
di
Giuseppe
Castronovo,
lo
stemma
regale
decorava
la
chiesa,
la
cupola,
la
torre,
la
porta
meridionale,
la
porta
maggiore
e
l'uscio
del
coro
vecchio. Il rosone della
facciata
è
stato
realizzato
nel
1954.
In
epoca
recente
risale
la
realizzazione
del
polo
museale
ubicato
nelle
cappelle
comunicanti
della
navata
sinistra.
Il
portale
esterno,
di
ispirazione
catalana,
con
un
pregevole
rosone,
è
decorato
con
bugne
a
diamante,
ed
è
sormontato
da
una
caratteristica
finestra.
Una
cupola
mammelliforme
sormonta
la
costruzione.
La
primitiva
torre
quadrangolare
d'avvistamento
riedificata
durante
le
guerre
del
Vespro
alla
fine
del XIV
secolo fu
trasformata
in
campanile
con
bifore,
costruzione
verosimilmente
insistente
sullo
stesso
sito
ove
in epoca
punica sorgeva
un
analogo
manufatto
atto
a
garantire
il
presidio
del
territorio
e
il
contestuale
controllo
del Mediterraneo durante
la
disputa
delle guerre
puniche sui
fronti
contrapposti
di Roma e Cartagine.
La
costruzione
alta
28
metri
circa,
con
base
quadrata
8
x
8
metri,
iniziali
rampe
di
gradini
in
pietra
e scala
a
chiocciola,
si
articola
su
tre
livelli:
il
pianterreno
è
illuminato
da
monofore,
gli
altri
piani
presentano
vani
arricchiti
da
eleganti
bifore.
I
110
gradini
conducono
alla
piattaforma
sommitale
cinta
da merli
ghibellini ospitante
le
incastellature
campanarie.
Da
questa
posizione
si
gode
una
magnifica
visuale
sulla
cittadina
e
un
controllo
a
270°
che
spazia
dai
rilievi
di Monte
Cofano alla
penisola
di San
Vito
lo
Capo e
il
profilo
di
Ustica;
sull'intera
città
di Trapani,
le Saline
di
Trapani
e
Paceco,
lo Stagnone, Mozia e
la
città
di Marsala;
la
pianura,
tutto
il
sinuoso
altipiano
fino
a Segesta sulla
direttrice
per Palermo,
senza
trascurare
il
vasto
specchio
di
mare
con
l'arcipelago
delle Egadi.

L'interno
della
chiesa
è
di
tipo
basilicale
a
tre
navate,
delimitate
da
due
lunghi
filari
di
alti
pilastri
di
tufo
calcareo,
sui
quali
poggiano
degli
archi
ogivali.
Nove
croci
greche
in
marmo
fissate
alla
parete
sud,
provenienti
dal tempio
di
Venere
Erycina,
furono
ivi
incastrate
per
volontà
dell’arciprete
Vito
Carvini
nel
1685:
una
lastra
murata
ne
spiega
origini
e
finalità,
con
aggiunta
di
indulgenze
papali,
che
erano
concesse
a
quanti
partecipassero
agli
osanna
a Maria,
distogliendosi
dalle
pratiche
in
omaggio
a Venere,
ancora
usuali
sino
al XV
secolo.
Il rosone,
non
originale,
sostituì
recentemente
il
remoto
lastrone
rotondo
a
tripla
feritoia
-
pure
surrogato
di
un
altro
anteriore
-
ed
è
affiancato
da
due
oculi
elaborati
a
canestro.
Il
portale,
a
doppia
ghiera
seghettata,
rientra
nei
modi
dell’architettura
chiaramontana.
Sul
fianco
settentrionale
vi
è
portale
catalano,
ornato
con bugne
a
diamante.
Al
versante
orientale,
sulla
piazzetta,
è
addossato
un
altare
del
1852,
con
una
croce
incorniciata
finemente
di
tufo:
vi
si
celebrava
il
rito
prepasquale
della benedizione
delle
palme.
Navata
destra
prima
del
1865
Cappella
e
Altare
di San
Nicola
di
Bari:
la
cappella
e
l'altare
vennero
fondati
nel 1341 dalla
nobilissima
famiglia Chiaramonte,
che
ne
godeva
il giuspatronato,
passato
poi
col
tempo
ai
loro
discendenti,
i
Mannini
(o
Mannina),
casato
patrizio
ericino.
Ai
Mannini
successe
la
nobile
famiglia
trapanese
dei Sanclemente.
Donna
Francesca
Sanclemente
fondò
a Trapani il monastero
domenicano
di
Sant'Andrea;
morta
costei
i
giurati
di
Trapani
volevano
avocare
a
sé
quel
giuspatronato,
ma
per
lettere
apostoliche
fu
aggregato
al suddetto
monastero.
La
cappella
di
San
Nicola
di
Bari
venne
poi
concessa
nel 1682 ai
confrati
di
San
Giuseppe
col
patto
che
facessero
una
statua
di
quel
santo,
statua
che
fu
lavorata
a
stucco
da
Alberto
Orlando,
scultore
trapanese.
Altare
di Sant'Isidoro
Agricola:
in
questo
altare
si
venerava
l'effigie
di
quel
santo,
dipinta
ad
olio
da
Orazio
Ferrari;
Sant'Isidoro
fu
eletto
uno
dei
patroni
della
città
di
Monte
San
Giuliano
nel 1633.
L'altare
era
un
tempo
mantenuto
dai
massari
ericini
che
ne
celebravano
la
festa.
Altare
Pinto:
era
così
chiamato
per
una
vetusta
immagine
di
Nostra
Signora
dipinta
a
fresco
nella
colonna
che
sorge
al
di
sotto
del pergamo.
Il beneficio di
questo
altare
venne
fondato
il
25
marzo 1428 dalla
nobile
ericina
Paola
Morana,
sposa
del
nobile
Francesco
Morana,
la
quale
lo
dotò
con
un
predio
a Bonagia,
e
ne
ottenne
dal
vescovo
di
Mazara
il giuspatronato.
Questo
beneficio
venne
poi
aggregato
alla
Madrice
dal
vescovo
Luciano
De
Rubeis.
Altare
del
Transito
Glorioso
di
Nostro
Signore: vi si venerava una pittura ad olio sopra tela; ogni anno i baroni di Baida
pagavano
un
cero
a
questo
altare.
Altare
di San
Trifone: fu eretto dai massari nel 1659, anno dell'invasione delle locuste,
con
l'obbligo
di
mantenerlo
a
proprie
spese.
Altare
del SS.
Crocifisso:
era
collaterale
all'ara
massima,
con
una
statua
del
medesimo
in
legno,
molto
antica
ed
assai
venerata,
che
poi
si
trasferì
nella sagrestia.
Questo
altare
veniva
mantenuto
dall'omonima
compagnia.
Navata
destra
oggi
Prima
arcata.
Nelle
immediate
adiacenze
un'acquasantiera opera
di
maestranze
siciliane
datata 1537.
Cappella
di
Sant'Isidoro
Agricola.
Sulla
parete
il
quadro
raffigurante Sant'Isidoro
Agricola,
opera
di Orazio
Ferraro del 1622.
Cappella
della
Crocifissione.
Sulla
parete
il
quadro
raffigurante
la Crocifissione,
opera
di
pittore
locale.
Prima
campata. Cappella
della
Vergine
Assunta.
Nella
nicchia
è
collocata
la
pregevole
statua
raffigurante
la Madonna
Assunta,
opera
attribuita
allo
scultore Francesco
Laurana (1469) (alcuni
ritengono
che
sia
di Domenico
Gagini).
Seconda
campata.
Iscrizione
marmorea.
Terza
campata.
Portale.
Acquasantiera
in
marmo
del 1537.
Seconda
arcata
o
braccio
transetto
destro.
Navata
sinistra
prima
del
1865
Altare
di Sant'Anna: vi si venerava la sua statua in rilievo di stucco, lavorata dallo scultore
Alberto
Orlando.
Questo
altare
veniva
un
tempo
mantenuto
dalle
pie
donne
che
ne
celebravano
la
festa
con
grandi
dimostrazioni
di
devozione.
L'altare
di
Sant'Anna
fu
fatto
restaurare
dall'arciprete
Miceli
e
la
statua
di
stucco
venne
sostituita
con
una
tela
a
olio,
rappresentante
la Vergine
Maria e
i
suoi
genitori,
dipinta
dal
sacerdote
ericino
Carmelo
Pirajno.
Altare
delle
Anime
Purganti:
fu
eretto
dal
sacerdote
Leonardo
Cusenza,
dotato
con
12 tarì annuali
dall'arciprete
Giuseppe
Gervasi,
e
ornato
di
molte
sacre
reliquie.
Questo
altare
era
ammirato
per
un
grande
dipinto
delle
Anime
Purganti
con Nostra
Signora
del
Rosario;
si
crede
che
tale
tela
sia
opera
di Andrea
Carreca,
pittore
trapanese.
Altare
di San
Nicola
da
Tolentino:
fu
innalzato
nel
1640
dall'arciprete
Nicola
Gervasi,
e
dotato
con
12 tarì annuali
da
suo
fratello
Giuseppe
che
gli
successe
nell'arcipretura.
Cappella
de
Scrineis:
fu
aggiunta
al
duomo
nel 1565 su
iniziativa
dell'arciprete
Cesare
de
Scrineis,
e
posta
al
fianco
sinistro,
creando
una
nuova
ala
rivolta
a
tramontana.
Il
capellone
di
quest'ala
è
sormontato
da
un'alta
cupola;
in
questa
cappella
si
apre
una
delle
porte
del
duomo
che
guarda
a
settentrione.
Cappella
di Tutti
i
Santi:
si
trova
a
sinistra
della
cappella
de
Scrineis,
fu
fondata
e
dotata
nel 1510 da
Bartolomeo
Saluto,
e
la
si
stima
a
buon
diritto
un
egregio
modello
di architettura
gotica.
Nell'altare
si
venerava
un
affresco
di
Orazio
Ferrari,
coperto
nel
1704 da
una
tela
dipinta
ad
olio
da
Pietro
D'Andrea,
detto
Poma,
romano.
Altare
di San
Giuseppe: succedeva alla magnifica cappella di Tutti i Santi; la statua in legno di
San
Giuseppe
era
opera
dello
scultore
ericino
Giovan
Pietro
D'Angelo.
L'altare
di
San
Giuseppe
sorgeva
dapprima
dove
era
quello
di San
Nicola
di
Bari,
poi
nel
1682 venne
trasferito
nella
nuova
ala
di
Tutti
i
Santi
e
abbellito
di
marmi
e
chiuso
da
un
cancello
in
ferro.
Cappella
di Nostra
Signora
Assunta
in
Cielo:
con
la
cappella
di
Nostra
Signora
Assunta
in
Cielo
(titolare
della
chiesa)
terminava
questa
nuova
ala
della
Madrice;
a
destra
della
cappella
si
apre
l'uscio
della
sagrestia.
Navata
sinistra
oggi
Prima
arcata:
Cappella.
Fonte
battesimale
con
cupolino
del 1627.
Quadro
di Gesù
bambino raffigurato
fra Sant'Ignazio
di
Loyola e San
Francesco
Saverio.
Cappella
della
Vergine.
Sulla
parete
il
quadro
raffigurante
l'Incoronazione
della
Vergine del 1767.
Prima
campata: Cappella
della
Madonna
di
Custonaci.
Nell'ambiente
è
collocato
il
dipinto
raffigurante
la Madonna
di
Custonaci,
immagine
realizzata
nel
1891
da Michele
Corteggiani,
copia
dell'originale
custodita
nel santuario
di
Maria
Santissima
di
Custonaci.
Seconda
campata.
Addossato
alla
parete
il
busto
marmoreo
dell'arciprete
Giuseppe
Augugliaro,
opera
di
Leonardo
Croce
del
1883.
Il
prelato
fu
l'artefice
della
ricostruzione
del
tempio
nel
1865.
Terza
campata: Cappella
de
Scrineis.
Ambiente
commissionato
dal
prelato
Cesare
de
Scrineis
nel
1586,
prima
sala
adibita
a
museo.
Caratterizzata
dalle
nicchie
angolari
di
raccordo
tra
la
cupola
e
la
crociera.
Sulla
parete
il
dipinto Compianto
sul
Cristo
morto
con
San
Carlo e Sant'Enrico,
opera
di Orazio
Ferraro del
1622.
Seconda
arcata
o
braccio
transetto
destro:
primitiva Cappella
di
San
Nicola.
Ambiente
edificato
nel
1591
e
caratterizzato
dagli
archetti
ricorrenti,
seconda
sala
adibita
a
museo.
Sull'altare
di
sinistra
il
dipinto Madonna
del
Rosario raffigurata
con
le
anime
purganti,
opera
di
Giovanni
Battista
Scannatella
del
1705.
Sull'altare
destro
il
dipinto
raffigurante
la Presentazione
di
Maria
al
Tempio,
opera
di Pietro
Croce del
1882
proveniente
dalla
chiesa
di
San
Pietro;
Cappella
di
San
Giuseppe:
terzo
della
serie
di
tre
ambienti,
primitive
cappelle
cinquecentesche
collegate
fra
loro
e
volte
a
formare
un
unico
locale
oggi
adibito
a
sede
del
Tesoro
della
Madrice.
Nella
nicchia
sull'altare
è
collocata
la
statua
di San
Giuseppe
con
Gesù
fanciullo,
opera
di
Gian
Pietro
d'Angelo.
Abside
e
presbiterio
-
L'altare versum
populum dietro
la
balaustra
fu
realizzato
da Domenico
de
Lisi nel
1906.
La
cancellata
bronzea
che
permette
l'accesso
all'area
del presbiterio è
opera
del
sacerdote Matteo
Gebbia del 1683.
Dell'imponente
apparato
pittorico
decorativo
risalente
al XV
secolo,
realizzato
da Giovanni
Russi,
è
giunta
a
noi
una
piccola
scena
raffigurante
un Angelo
musico visibile
al
di
sopra
degli
scranni
del
coro
dei
canonici.
Al
1452
risale
un
atto
rogato
dal
notaio
Niccolò
Saluto
di
Erice
per
la
commissione
di
un
affresco
con
tema
l'Assunzione
della
Vergine
Maria,
opera
barbaramente
distrutta.
Sospesa
sull'altare
una Croce astile,
raffinata
opera
d'argenteria
siciliana
del XV
secolo.
Icona
-
Di
rilievo
la
grande
icona
marmorea
con
al
centro
la Madonna
in
trono
con
il
Bambino del
1513,
opera
attribuita
allo
scultore
carrarese Giuliano
Mancino. L'ardita ancona marmorea
fu
realizzata
con
la
collaborazione
di Bartolomeo
Berrettaro,
del
cognato
Antonello
Di
Battista,
dei
fratelli
Pietro
e
Paolo,
del
giovine
Pietro,
loro
nipote.
Il
monumentale
apparato
con
struttura
piramidale,
lievemente
concavo
sull'asse
mediano
verticale,
raffigura
su
svariati
ordini
personaggi
e
scene
della Vita
di
Gesù realizzato
in
candido
marmo
di
Carrara.
Sulla
mensa
due
pannelli
con
bassorilievi
raffigurano
gli
episodi Gesù
con
i
fanciulli e
la Gesù
benedicente
fra
gli
apostoli,
delimitati
da
guglie
con
pinnacoli
e
nicchia
centrale
ospitanti
le
statuette
a
tutto
tondo
di
Santi
in
abito
talare
d'ordine
monastico.
Al
centro
il tabernacolo rappresentato
da
un
doppio
tempietto
arricchito
da
particolari
argentei,
fra
i
quali
spicca
la
statuetta
del Cristo
risorto collocata
sulla
guglia
centrale
e
la
custodia
ornata
da
figure
opera
di
Pietro
Lazara
realizzata
nel 1602. Pinnacoli
traforati
e
cortine
d'archetti
gotici
raccordano
l'edicola
sacra
con
le
estremità
laterali.
Negli
scomparti
alla
base
della
sopraelevazione
sono
raffigurati
gli Apostoli a
mezzobusto,
il
numero
dei
ritratti
riprodotti
suggerisce
la
presenza
di Profeti.
Nel
primo
ordine
sono
presenti
quattro
nicchie
binate,
decorate
con
la
conchiglia
di San
Giacomo
Maggiore nella
calotta
e
separate
da lesene arricchite
da
delicate grottesche in
rilievo.
Gli
scomparti
ospitano
le
statue
a
tutto
tondo
raffiguranti
rispettivamente San
Giovanni
Battista e San
Giuliano a
sinistra,
due Santi
Re
guerrieri sulla
destra.
Al
centro
il
grande
pannello
raffigurante
la Vergine
col
Bambino attorniata
da
otto
fra
arcangeli
e
cherubini
adoranti.
Nei
quattro
scomparti
superiori
scene
della Passione
di
Gesù:
l'Ultima
cena,
l'Orazione
nell'orto,
la Cattura
di
Gesù,
la Condanna
di
Gesù.
Un
secondo
ordine
delimitato
da candelabra e
nicchie
laterali
con
due Dottori
della
Chiesa,
comprende
le
scene
della Deposizione,
la Crocifissione
di
Gesù
tra
i
ladroni e
la Pietà.
Similmente
nel
terzo
ordine
le
figure
di San
Pietro
Apostolo e San
Paolo
Apostolo delimitano
la Resurrezione.
Nel timpano la
raffigurazione
della Nascita
di
Gesù sormontata
dalla
figura
a
mezzobusto
di Dio
Padre benedicente
chiude
l'imponente
composizione.
Sacrestia
XVIII
secolo,
Armadio
in
legno
intagliato
e
dipinto.
XVI
secolo,
Reliquiari
in
legno
intagliato
e
dipinto.
XIX
secolo, Madonna
delle
Pere,
olio
su
tavola.
XIX
secolo, Sacro
Cuore
di
Gesù,
olio
su
tela,
opera
documentata
di Giuseppe
Patania.
Museo
-
Nell'area
appositamente
destinata
a
museo
custodisce
il
cosiddetto
"Tesoro
di
Erice",
costituito
oltre
da
pitture
e
sculture,
da
manufatti
d'oreficeria,
argenti,
monili,
parati,
alabastri,
sete,
ricami,
coralli.
XV
secolo, Calice,
argento.
XVI
secolo, Crocifisso,
legno
intagliato
e
dipinto.
1503, Turibolo,
argento.
1602, Ostensorio,
argento,
opera
di
Pietro
Lazzara.
1686, Reliquiario,
argento.
XVIII
secolo, San
Pietro, San
Paolo, San
Vito,
statuette
in
alabastro.
XVIII
secolo, Educazione
della
Vergine,
olio
su
tela,
opera
proveniente
dalla
chiesa
di
San
Pietro
di Giuseppe
Felice.
Chiesa
San
Martino
La
chiesa
di
san
Martino
di
Erice
si
trova
nell’omonima
piazzetta.
Fu
fondata
dal
conte
Ruggero
nel
1339,
anno
al
quale
risale
il
primo
documento
che
ne
attesta
l’esistenza.
Come
le
chiese
di
san
Giuliano
e
san
Cataldo
è
dedicata
a
un
Santo
normanno. Nel
1593,
la
Congregazione
del
Purgatorio
fondata
dal
missionario
cappuccino
fra’
Vincenzo
d’Alcamo
e
quella
detta
del
Suffragio
fondata
da
un
altro
missionario
dello
stesso
Istituto,
si
fusero
costituendo
un’
unica
Congregazione
che
fu
incorporata
alla
Chiesa.
Tutte
le
famiglie
ericine
furono,
anticamente,
divise
in
tre
gruppi
dei
quali
uno
fu
assegnato
alla
Confraternita
di
san
Giovanni
Battista,
l’altro
alla
Confraternita
di
san
Martino
e
l’ultimo
a
quella
di
sant’Orsola.
Non
si
conoscono
i
motivi
di
questa
ripartizione.
Ciascuna
Confraternita
teneva
un
registro
delle
famiglie
di
appartenenza
ed
alla
morte
di
un
individuo
del
suo
ruolo
aveva
l’obbligo
della
sepoltura.
La
Confraternita
di
san
Martino
era
governata
dal
Cappellano
e
quattro
Rettori
che
collaboravano
con
lui.
Il
Cappellano,
eletto
a vita,
era
la
massima
autorità;
a
lui
spettava
la
nomina
dei
Rettori
che
duravano
in
carica
un
anno.
La
nomina
avveniva
per
solenne
atto
pubblico
il
giorno
di
san
Martino
o
in
un
altro
giorno
scelto
dallo
stesso
Cappellano.
Aumentando
le
esigenze
di
culto,
il
Cappellano
e
i
Rettori
non
bastavano
più
alla
reggenza
di
un’Istituzione
al
servizio
di
quasi
un
terzo
della
cittadinanza,
allora
i
cinque
sacerdoti
eleggevano
due
Procuratori
amministratori
ai
quali
spettava
di
curare
la
manutenzione
e
il
buon
funzionamento
organizzativo
come
l’esazione
e
le
proposte
di
utilizzazione
dei
legati.
In
caso
di
disaccordo
o
a
parità
di
voti
gli
otto
elettori
dovevano
passare
ai
voti
segreti,
le
schede
poi
venivano
consegnate
per
lo
scrutinio
al
Padre
guardiano
dei
Cappuccini.
Il
Cappellano
aveva
dei
compiti
specifici:
coordinare
l’attività
dei
Rettori,
e
dei
promotori,
rappresentare
l’Istituzione,
stabilire
i
criteri
testamentari
dei
legati
nonché
di
quelli
di
fondazione
di
messe
perpetue.
A
lui
spettava
anche
coordinare
i
momenti
di
solenne
preghiera
e
di
formazione
dei
fedeli.

Nei
capitoli
venivano
stabiliti
alcune
regole
fondamentali:
la
chiesa
doveva
portare
sempre
il
titolo
di
San
Martino,
il
suo
Cappellano
era
capo
e
primo
Rettore
ma
senza
alcun
dominio
sui
preti
celebranti
le
messe
e
gli
Offici
Divini
e
che
sopra
la
porta
della
Chiesa
dovevano
stare
gli
emblemi
sia
di
san
Martino
sia
del
Purgatorio,
dentro
la
chiesa
come
fuori
si
potevano
rappresentare
anime
purganti
e
fiamme
in
pittura
o
in
rilievo
come
stabilivano
gli
Officiali
della
Congregazione.
Nel
1692
la
vecchia
chiesa,
gotica
e
di
piccole
dimensioni,
fu
demolita
e,
con
l’eredità
di
Pietro
Salerno
e
di
altre
eredità
aggregate
a
san
Martino,
fu
ricostruita
su
pianta
rettangolare
a
croce
latina
a
tre
navate
delimitate
da
colonne;
della
vecchia
costruzione
fu
conservato
solo
il
portale.
L’Oratorio
aveva
un
solo
altare
dove
era
posta
una
macchinetta
in
legno
disegnata
e
intagliata
dal
sacerdote
Vito
Amico.
La
base
del
pilastro
ottagonale
era
sostenuta
negli
angoli
da
quattro
angioletti
a
sostegno
delle
quattro
mensole.
La
macchinetta
era
divisa
in
due
ordini:
il
primo,
ionico
con
foglie
corinzie,
a
destra
l’apostolo
san
Paolo
e
sant’Alberto,
a
sinistra
l’apostolo
san
Pietro
e
san
Giuliano.
Al
centro
del
prospetto
un
quadro
di
Nostra
Signora
di
Custonaci
tavola
ad
olio,
nel
secondo
ordine
in
centro
il
Padre
Eterno,
al
lato
destro
san
Francesco
d’Assisi,
al
sinistro
san
Martino.
Gli
ordini
della
macchinetta
erano
collocati
davanti
l’Altare
Maggiore
della
Chiesa
e
furono
trasportati
nell’Altare
Maggiore
dell’Oratorio
quando
la
chiesa
di
san
Martino
fu
ricostruita.
I
lavori
terminarono
nel
1801.
Nel
1858
furono
costruiti
i
dieci
altari in
marmo.
Sulla
porta
maggiore
l’organo
e
a
destra
una
larga
nicchia
con
san
Martino
a
cavallo
in
legno,
opera
di
Giovanni
Curatolo.
Il
primo
altare
è
dei
quattro
Santi
Martiri
Incoronati,
tela
ad
olio
dipinta
dal
celebre
Pietro
d’Andrea
detto
Poma.
Il
secondo
è
del
Trapasso
di
Nostra
Signora,
tela
ad
olio,
di
Vincenzo
Manno.
Il
terzo
di
Nostra
Signora
della
Consolazione,
tela
ad
olio,
dello
stesso
Vincenzo
Manno.
Il
quarto
a
lato
della
sagrestia
è
di
Maria
Santissima
di
Custonaci,
tela
ad
olio
di
Pietro
d’Andrea.
Nella
cappella
ai
lati
del
Cappellone
si
venera
il
Santissimo
Crocifisso,
statua
in
legno
ed
ai
lati
spiccano
le
Anime Purganti
di
Carmelo
Peranio.
Nell’Altare
Maggiore
del
cappellone
si
ammira
un
grosso
quadro
rappresentante
la
discesa
di
Gesù
Cristo
nel
limbo
tela
ad
olio
di
Vincenzo
Manno
A
sinistra
il
primo
altare
è
della
Signora
della
Provvidenza
coi
santi
apostoli
Pietro
e
Giovanni
Evangelista
tela
ad
olio
di
Vincenzo
Manno;
il
secondo
è
di
santa
Cecilia
tela
a
olio
di
Pietro
d’Andrea.
Il
terzo
è
di
san
Francesco
d’Assisi,
tela
ad
olio
di
Vincenzo
Manno.
Il
quarto
è
di
Maria
Santissima
della
Luce,
antica
e
bella
statua
in
marmo
di
ignoto
scultore
avente
tre
bassorilievi
nel
piedistallo:
il
primo
dei
quali
rappresenta
san
Girolamo
in
ginocchio
nella
grotta
di
Betlem
dinanzi
a
un
crocifisso
con
un
sasso
in
mano
in
atto
di
percuotersi
il
petto:
l’altro
è
il
transito
del
patriarca
San
Giuseppe
con
la
Vergine
che
piange
ai
piedi
del
letto
e
altre
due
donne,
infine
l’ultimo
rappresenta
“la
Fuga
in
Egitto
della
Sacra
Famiglia”.
Nella
cappella
al
lato
del
Cappellone
l’altare
di
San
Martino
vescovo,
titolare
della
Chiesa,
magnifica
tela
a
olio
dipinta
dai
fratelli
Vaccaro
di
Caltagirone
che
sostituì
l’antica
statua
di
stucco
lavorata
da
Orazio
Ferrari
e
l’altra
più
moderna
di
Pietro
dell’Orto.
Singolare
è
il
crocifisso
ligneo
seicentesco
sovrapposto
ad
una
tela
ottocentesca
di
Andrea
Piraino.
Su
uno
degli
altari
al
centro
della
navata
si
trova
il
dipinto
in
lavagna
della
Madonna
delle
Grazie
dell’ericino
fra’
Ludovico
Zichichi,
nel
primo
altare
santa
Cecilia
con
gli
Angeli
e
i
Santi,
una
grande
tela
dell’ericino
Pietro
D’Andrea.
Fra
il
XVII
e
il
XIX
secolo
la
chiesa
ha
subito
vari
interventi
conservativi.
Chiesa
San
Giuliano

La
chiesa
di
San
Giuliano,
è
uno
dei
più
antichi
luoghi
di
culto
cattolici
di
Erice,
dedicato
a san
Giuliano,
martire
nel
254
d.C. Fu
così
importante
che
il
monte
Erice
fino
al
1934
era
chiamato
monte
San
Giuliano. Costruita
già
nell'XI
secolo
per
ordine
di
Ruggero
il
Normanno,
san
Giuliano
vi
compare
nelle
raffigurazioni
con
le
sembianze
di
un
guerriero,
con
la
spada
ed
il
falcone
poiché,
secondo
i
racconti,
sconfisse
i
Musulmani
che
volevano
espugnare
Erice.
San
Giuliano,
detto
il
“liberatore”,
divenne
protettore
della
città.
La
piccola
chiesa
in
stile
gotico
fu
ricostruita
e
modificata
nel
periodo
a
cavallo
tra
il
1612
e
il
1615
ed
abbellita
con apparato
decorativo
in
stucco,
opera
di
Pietro
dell'Orto (1794).
Ampliata
con
tre
navate
e
impianto
basilicale
che
conferirono
al
tempio
un
aspetto
imponente.
Il
portale
esterno
è
in
stile
rinascimentale.
Il campanile
esterno alla
chiesa
adiacente
al
fianco
destro,
con
un
caratteristico tetto
a
pagoda,
fu
realizzato
nel 1770.
A
causa
del
crollo
della
navata
centrale
nel
1926
la
chiesa
venne
chiusa
al
culto
fino
ai
recenti
restauri.
Nel
1941,
ormai
fatiscente,
fu
privata
del
titolo
parrocchiale.
Le
suppellettili
preziose
e
i
parati
furono
trasferiti
nell'Istituto
San
Rocco
per
essere
affidati
alla
custodia
delle
Suore
figlie
della
carità
di
San
Vincenzo
dei
Paoli.
La
fonte
battesimale
è
opera
del
1718
di Leonardo
Crivaglia,
mentre
la cappella
di
San
Giuliano è
un’opera
lignea
di Pietro
Orlando.
La
chiesa
ospita
i gruppi
statuari
dei
“Misteri”,
rappresentanti
la
morte
e
la
passione
di
Cristo,
in
processione
ogni Venerdì
Santo.
Adiacente
alla
chiesa,
nella
piazzetta
omonima,
vi
è
la statua
marmorea
di
Sant’
Alberto
degli
Abati,
opera
dello
scultore
palermitano
Nicolò
Travaglia.
La
leggenda
di
San
Giuliano
-
Nel 1077 i
Normanni
comandati
da Giordano
d’Altavilla conquistarono
Trapani,
mentre
i
Mussulmani
si
asserragliavano
nella fortezza
di
Gebel-Hamed.
Il Gran
Conte
Ruggero
giunse
per
assediare
la
fortezza.
Poiché
i
mussulmani
resistevano,
Ruggero
implorò
l’aiuto
divino
invocando,
tra
gli
altri
santi,
anche
S.
Giuliano.
La
leggenda
dice
che
all’alba
apparve
ai
normanni
un
cavaliere
con
un
mantello
rosso
sopra
un
destriero
bianco,
che
brandiva
una
spada
con
la
destra,
teneva
sulla
sinistra
un
falcone
ed
era
accompagnato
da
una
muta
di
cani.
Infatti
anche
all’interno
della
chiesa
San
Giuliano
viene
raffigurato
come
un
giovane
uomo,
vestito
alla
romana,
con
un
mantello
rosso
e
armato
di
spada
e
falcone.
Spronato
il
destriero
e
sguinzagliati
i
cani,
il
cavaliere
cominciò
ad
incalzare
i
mussulmani
con
spada
e
falcone.
Terrorizzati,
i
mussulmani
fuggirono
abbandonando
la
città.
I
normanni,
parandosi
loro
davanti,
li
uccisero
tutti.
Grato
all’aiuto
divino,
Ruggero
fece
edificare
un
chiesa
che
intitolò
a
San
Giuliano
e
comandò
che
Erice
si
chiamasse
da
quel
momento
in
poi Monte
San
Giuliano.
Il
santo,
detto
il
“liberatore”,
divenne
poi
protettore
della
città.
Convento
San
Domenico
L'edificio
a
pianta
rettangolare e
sormontato
da
un
pronao
quadrato
oggi
è
adibito
a
sala
conferenze
del
Centro
Internazionale
di
Cultura
Scientifica
“Ettore
Majorana”.
Al
suo
interno
è
stata
ricavata
un'aula
a
gradoni
con
lunghi
banchi
in
legno
chiaro
e
sedute,
laddove
la
zona
presbiteriale
è
occupata
da
una
cattedra
in
calcestruzzo
a
faccia
vista.
Il
grande
ambiente
del
terzo
livello
ha
capriate
in
legno
e
tre
gradoni
rivolti
verso
una
grande
apertura
data
dall'assenza
della
parete
orientale
e
con
vista
sul
paesaggio.
I
domenicani
a
partire
dal
1595
fino
al
1621
ampliarono
l'antica
piccola
chiesa
di
San
Michele,
già
esistente
nel
1486,
quando
fu
donata
ai
Frati
Predicatori.
La
facciata
della
chiesa
presenta
un
portale
quattrocentesco,
arricchito
da
un
pronao
d’ispirazione
rinascimentale
aggiunto
nel
1862.
La
volta
di
legname
fu
interamente
coperta
e
ornata
di
stucchi
a
cassettoni
ed
arabeschi,
le
colonne
diventarono
pilastri
con
capitelli
di
ordine
corinzio,
l'altare
maggiore
fu
decorato
a
stucco.
Niente
rimane
oggi
a
ricordo
della
precedente
destinazione
dell'interno,
l'esterno
invece
è
rimasto
immutato.
Pag.
1
|