Nel
centro cittadino che è posto sulla vetta dell'omonimo Monte Erice,
sono residenti solo 1024 abitanti (popolazione che si decuplica nel
periodo estivo), mentre la maggior parte della popolazione si concentra a
valle, nell'abitato di Casa Santa, contiguo alla città di Trapani.
Il nome di Erice deriva da Erix, un personaggio mitologico, figlio di Afrodite e
di Bute, ucciso da Eracle.
Erice si
ritiene sia stata fondata dagli Elimi, e dopo Segesta ed Entella,
fu la terza fondata dagli Elimi. Il primo nucleo abitativo dovrebbe risalire
alla fine del II millennio a.C./inizio del primo.
Altri
ritengono che la città sia stata fondata dai Troiani (insieme con
Segesta). Scrisse Tucidide che i Troiani, in fuga dopo la presa di
Ilio, approdarono in Sicilia e vennero a stabilirsi in vicinanza dei Sicani e
che loro città furono Erice e Segesta.
Diodoro
siculo riportò l’antica tradizione che voleva fondatore della città Erice,
figlio di Venere e di Bute, il quale avrebbe innalzato nella
rocca di questa città un tempio alla madre. Molti e autorevoli storici
hanno abbracciato tale tradizione.
Per quanto
riguarda poi l’origine del nome Erice, l’Amari suppone che esso
abbia origine sicana; il Loidio ritiene che derivi dal nome usato dai Cartaginesi per
indicare il monte sul quale sorge la città: ossia Harucas o Hareces.
Il Pierio sostenne che la voce Erice non solo si riferisse al fondatore
sicano della città, ma che derivasse altresì dalla voce greca ὲρινος,
ossia fortezza. Antonino Salinas, studiando una moneta punico-sicula
ericina, vi scoprì incisa la parola Erech: dichiarò quindi
essere Erice nome di origine fenicia. Il nome greco fu Eryx.
Nel XII
secolo, dai normanni la città venne ribattezzata Monte San Giuliano,
poiché - secondo la leggenda - durante l’assedio condotto da Ruggero
I d'Altavilla, sarebbe apparso quel santo, il quale avrebbe infuso nuovo
coraggio nell’animo del Gran Conte e in quello dei suoi soldati impegnati
ad espugnare la città: ed è in seguito a questo episodio che il conte
Ruggero avrebbe stabilito di chiamarla col nome del santo. Tale nome venne
mantenuto fino al 1934: a partire da quell’anno la città si chiamò
nuovamente Erice.

Se si vuole
indagare l’epoca della dominazione sicana di Erice si incontra una lacuna,
dovuta alla quasi totale assenza di fonti: tace infatti la storiografia e né Diodoro
Siculo né Erodoto narrano gli eventi di questo periodo. Dionigi
di Alicarnasso, Tucidide e altri storici attestano essere i Sicani popolazione
iberica e tale ipotesi è avallata da molti autorevoli storici delle epoche
successive, tra i quali il Fazello, Cesare Balbo e Atto
Vannucci. Tucidide attesta che i Sicani dettero all’isola il nome di Sicania,
chiamata - prima del loro arrivo - Trinacria. Benché in un primo momento
possedessero tutta l’isola, successivamente si spostarono nella parte
occidentale, dove edificarono alcune rocche. A quest’epoca risale, secondo
il Castronovo, la fondazione di Erice. Quando i Siculi, che - secondo Tucidide, Dionigi
di Alicarnasso e Antioco di Siracusa - erano popolazione
italica, giunsero in Sicilia, ne occuparono i territori a levante e ne
scacciarono i Sicani, respingendoli nelle parti meridionali e occidentali
dell’isola.
Giunti in
Sicilia, gli Elimi ne occuparono la parte occidentale dove,
eccettuata Erice, non pare vi fossero altri rilevanti insediamenti umani.
Colonizzarono la città e stabilirono la loro principale sede nella vicina Segesta.
Nel XII
secolo a.C., fuggiaschi dalla loro patria distrutta, i Troiani vennero a
stabilirsi nei territori abitati dai Sicani. Si fusero con questo popolo e
con quello degli Elimi, adottando il nome dei secondi.
I Fenici predilessero
gli Elimi come partner commerciali, poiché i territori da essi abitati
erano quelli bagnati dal Canale di Sicilia e quindi i più vicini
a Cartagine. Quando si compì la fusione dei Fenici - di essa parla Giovanni
Fraccia - con il popolo Elimo-Troiano, ne nacque un unico popolo,
denominato Elimo-Fenicio, che si stabilì nei territori degli Elimi: Erice
divenne Elimo-Punica e fu soggetta alla dominazione cartaginese.
In seguito
alla battaglia di Imera, nonostante la vittoria sui Cartaginesi dei
Greci di Sicilia delle città alleate di Agrigento e Siracusa, le città
Elimo-Puniche, tra cui Erice, non si fusero con quelle greche, rimanendo
soggette a Cartagine. E tuttavia queste città cominciarono a mescolare alle
proprie le usanze greche, abbracciando e facendo propri alcuni elementi di
quella civiltà.
All’inizio
de IV secolo a.C. Dionisio I di Siracusa dichiarò guerra a
Cartagine e si portò con il suo esercito nella Sicilia occidentale, dove
concluse con successo l’assedio di Mozia. Erice allora si consegnò
spontaneamente al tiranno di Siracusa inviandogli anche aiuti militari, ma
la reazione cartaginese non si fece attendere e dopo non molti anni il
generale cartaginese Imilcone venne in Sicilia, dove sbaragliò
facilmente il contingente di Sicelioti lasciato a guardia di Mozia da
Dionisio e rioccupò le città che erano passate sotto il controllo di
costui, tra le quali Erice.
Nel 368
a.C. Dionisio I tentò nuovamente di scacciare i Punici dalla Sicilia:
forte di un esercito di 30.000 fanti e 3.000 cavalieri riconquistò Erice, Selinunte ed Entella e assediò
Lilibeo, ma in soccorso della città sopraggiunse una flotta cartaginese che
sconfisse e mandò in rotta quella greca. Erice tornò sotto il gioco
punico.
Nel 278
a.C. Pirro, che era genero di Agatocle tiranno di Siracusa,
avendone sposato la figlia Lanassa, accolse di buon grado l’invito
rivoltogli da Siracusa di intervenire militarmente nell’isola per
scacciare i Cartaginesi, e giunse in Sicilia con il suo esercito: Eraclea
Minoa, Selinunte, Alicia e Segesta gli si arresero;
Erice gli oppose resistenza e il sovrano epirota dovette cingerla
d'assedio nel 277 a.C., riuscendo ad espugnarla. Nel 276 a.C. assediò Lilibeo, ma invano. Il suo atteggiamento dispotico gli
alienò la simpatia dei Sicelioti che gli fecero mancare il loro appoggio. I
Cartaginesi ripresero il sopravvento ed Erice con le altre città elime
tornarono in loro possesso.
In seguito
alla conquista di Milazzo da parte dei siracusani guidati da Gerone
II, i Mamertini, i quali avevano il controllo di Messana, per
difendersi dall’attacco di quel tiranno chiesero aiuto sia a Cartagine sia
a Roma: è il casus belli della Prima guerra punica. In questi anni
Erice cade in mano ora dell’una ora dell’altra potenza.
Il console Gaio
Duilio, dopo aver sconfitto Cartagine nella battaglia di
Milazzo, tornò a Roma, e Amilcare Barca ne approfittò per
conquistare parecchie città in Sicilia, tra cui Erice, già passata ai
Romani, i cui abitanti furono costretti a trasferirsi nel loro emporio, Drepanon.
Nel 249
a.C. il console Lucio Giunio Pullo riconquista Erice e
costruisce sulla sua montagna due campi fortificati per garantire a Roma non
solo il controllo della città ma anche di tutto il monte. Nonostante
queste difese, Amilcare riuscì ad aggirare le due guarnigioni romane,
assalendo e occupando la città: la spopola nuovamente e vi si asserraglia.
I Romani stavano trincerati alla base della montagna, i Cartaginesi
resistevano sulla cima.
L’arrivo
dei consoli Gaio Fundanio Fundulo e Gaio Sulpicio Gallo non
determinò un mutamento della situazione. Nel 242 a.C. Gaio
Lutazio Catulo giunse in Sicilia e si impadronì dei porti di Drepanon e Lilibeo.
I Cartaginesi inviarono nell’isola una flotta sotto il comando di Annone:
il generale cartaginese progettava di accorrere in aiuto della guarnigione
di stanza ad Erice, rifornirla di viveri e rafforzare la sua armata navale
con gli agguerriti veterani che Amilcare gli avrebbe dati. Lutazio, avendo
intuito il piano divisato dal cartaginese, veleggiò alla volta di Favignana e
sconfisse Annone nella battaglia delle Isole Egadi. I Cartaginesi si
trovarono nell’impossibilità di inviare ad Erice vettovaglie e soccorsi.
L’armata di Amilcare rimase così isolata e al generale venne dato pieno
potere di condurre le operazioni militari nel modo che ritenesse più
opportuno: egli, resosi conto che resistere era diventato impossibile, si
mostrò disposto a condurre trattative e negoziazioni e inviò a Lutazio
degli ambasciatori che proponessero di addivenire alla pace. Il console
accolse la proposta di pace alle seguenti condizioni: che i Cartaginesi
sgombrassero interamente la Sicilia; che non facessero più guerra ai
Siracusani o ai loro alleati; che rendessero, senza pretendere alcun
riscatto, tutti i prigionieri; che pagassero un’indennità di guerra. Così
Erice fu liberata dal giogo di Cartagine.
Nel 214
a.C. ha inizio la dominazione romana in Sicilia e per lo spazio di
tempo che va da quell’anno al 210 a.C. non vi è alcuna notizia
di Erice come città. Nel 214 a.C. una flotta cartaginese comparve
in vista delle isole Egadi, minacciando Lilibeo, ma di Erice non viene
fatta menzione; nel 210 a.C. Marco Valerio Levino, per scacciare
dall’isola tutti gli occupanti Cartaginesi dovette impossessarsi di molte
città, ma non di Erice. Da quando infatti Amilcare l’aveva ceduta ai
Romani, essi la occuparono stabilmente, e non risulta che i Cartaginesi
avessero tentato di riconquistarla.
I Romani,
quali discendenti di Enea, collegando la loro stirpe alla dea che
era adorata sull’Erice, le tributarono onori e ne venerarono il tempio,
accordando ad esso notevoli privilegi: era frequente che i consoli e i
pretori, giungendo in questa provincia, si recassero a visitarlo.
Cicerone,
nelle Verrine, enumera quasi tutte le città di Sicilia, ma non parla
mai della città di Erice, né dei suoi cittadini. Parla sovente del Monte
Erice, del suo tempio e del culto di Venere Erycina.
Nell’età
di Augusto, il geografo Strabone, da Capo Peloro a Pachino trovava
solo Messina, Tauromenio, Catania e Siracusa; da
Pachino a Lilibeo solo Agrigento e la stessa Lilibeo; da
Lilibeo a Capo Peloro, scarse di abitanti Erice ed Himera e con
pochi abitanti Palermo, e ancora meno popolosi gli empori di Cefaledio, Alesa e Tindari;
sotto Tiberio Erice risulta quasi disabitata e il suo tempio,
scarso di sacerdoti, in parte distrutto: Tacito scrive che in
quell’epoca la cura del tempio era affidata ai Segestani, poiché ad Erice
non restava che un forte presidiato dai Romani. Nel 25 d.C. l’imperatore
fece ristrutturare il tempio. Del lungo periodo romano sono concreta
testimonianza il gran numero di monete rinvenute in gran numero nella città
e nel suo contado.
Plinio
il Vecchio, descrivendo la Sicilia durante il principato di Vespasiano,
menziona fra gli altri popoli dell’isola gli ericini, chiamandoli
stipendiarii, cioè tributari dell’Impero.
Con
l’introduzione del Cristianesimo il tempio di Venere Erycina venne
abbandonato.
Nel 440,
con la conquista dell'isola ad parte del re Genserico, iniziò la
dominazione vandala della Sicilia, alla quale seguì la
dominazione ostrogota, che iniziò nel 493 e si concluse nel 555,
con la definitiva conquista dell’isola da parte dei bizantini in
seguito alla guerra greco-gotica.
Per la sua
vicinanza con l’Africa, già dal VII secolo la Sicilia era
vessata dalle incursioni mussulmane. Tra il 652 e il 827 si
susseguirono aggressioni e saccheggi, non conquiste durevoli. Nell’827,
dopo che il ribelle Eufemio da Messina ebbe chiesto il loro aiuto,
i mussulmani sbarcarono a Mazara del Vallo. Nel 902 la
Sicilia era mussulmana.
Si ignora
l’anno preciso in cui Erice cadde in mano mussulmana: la conquista della
città avvenne tra l’831 e l’841. Pochissimo si sa di Erice in
questa epoca: nella storia della città si incontra una lacuna di quasi due
secoli e mezzo. Monsignor Alfonso Airoldi annovera, fra le altre città
siciliane in epoca mussulmana, anche Erice, che chiama Ailigi o Erik,
riferendo che la sua popolazione era di 5321 abitanti: eppure questa notizia
non viene ripresa né dal Caruso, né dal Gregorio, né dal Lanza, né
dal Martorana né dall’Amari. Non si trova nessun'altra fonte che attesti
lo stato di Erice in quest’epoca. Il Castronovo avverte che se in
quest’epoca non era una città popolosa, restava comunque un’importante
fortezza, e aggiunge che il suo contado fu disseminato di casali e popolato
da numerosi coloni. Molte contrade dell’agro ericino conservano ancora
oggi i nomi di origine mussulmana.
Nel 1077 i normanni comandati da Giordano d'Altavilla conquistarono
Trapani, mentre i mussulmani si asserragliavano nella fortezza di
Gebel-Hamed. Sopraggiunto il Gran Conte Ruggero, li avrebbe cinti
d’assedio. Poiché quelli resistevano strenuamente, Ruggero avrebbe
implorato l’aiuto divino invocando, tra gli altri santi, anche San
Giuliano: si racconta che, all’alba, sarebbe apparso ai normanni
impetranti un cavaliere sopra un bianco destriero, armato alla leggera, con
un mantello rosso, che brandiva una spada con la destra, teneva sulla
sinistra un falcone ed era accompagnato da una muta di cani. Spronato il
destriero, sguinzagliati i cani e scappellato il falcone, il cavaliere
avrebbe cominciato ad incalzare i mussulmani che, impalliditi e
terrorizzati, sarebbero fuggiti, abbandonando la città. I normanni,
parandosi loro davanti, ne avrebbero fatto quindi carneficina. Grato
all’aiuto divino, Ruggero fece edificare un chiesa che intitolò a San
Giuliano e comandò che Erice si chiamasse da quel momento in poi Monte
San Giuliano.
Quella
dedicata a S. Giuliano fu la prima chiesa sorta ad Erice dopo
l’espulsione dei mussulmani; stando a un'antica tradizione riportata
dall’arciprete Vito Carvini, la seconda fu quella di Sant'Ippolito, chiesa
rupestre ancora esistente.
In epoca
normanna Erice ebbe grande importanza e taluni storici ritennero che essa
sia stata in parte edificata in questo periodo. Il Castronovo sosteneva che
i normanni ne avessero restaurato le mura, rendendola la città
considerevole descritta da Ibn Jubayr, e ne avessero ricostruito la fortezza.
Michele
Amari nota - non senza meraviglia - che durante il regno di Guglielmo
il Malo la città era abbandonata e il suo castello senza guarnigione. Guglielmo
il Buono concesse ad Erice il possesso di un amplissimo contado con un
diploma che poi sarebbe stato richiamato nel privilegio di Federico II
di Svevia del 1241.
Nel 1185,
durante il regno di questo sovrano, la città veniva definita considerevole
dal viaggiatore Ibn Jubayr e la sua fortezza inespugnabile. Egli
non poté tuttavia visitarla poiché l’accesso ai mussulmani era vietato:
l’ammirò da lontano, da Trapani.
Marcaldo,
balio e procuratore di Federico II, confermò agli ericini il possesso
del vasto contado già loro assegnato da Guglielmo il Buono, e nel 1241 l’imperatore
ratificò tale possesso con un diploma.
Nel 1258 il
re Manfredi di Sicilia nominò presidente del Regno Federico
Lanza: ad Erice e in altre città dell’isola scoppiarono sommosse. Nel
maggio dello stesso anno il Lanza raggiunse la città a capo di un esercito
e sedò nel sangue la rivolta costringendo la popolazione ad emigrare a
valle. Tuttavia già alla fine di luglio Manfredi mitigò tali
condizioni, consentendo agli ericini di tornare nella loro città,
ripopolandola.
Durante il
regno di Carlo I d'Angiò Erice fu afflitta dalla politica
autoritaria e oppressiva del sovrano francese. Fu questo il contesto in cui Palmiero e
Riccardo Abate a Trapani e Gerardo Abate ad Erice ordirono insieme ad altri
nobili siciliani una congiura, fomentando la rivolta del Vespro
siciliano del 1282 contro gli Angioini. In questi anni
Erice fu saccheggiata dal presidio angioino di stanza nel suo castello: la
reazione della popolazione non si fece attendere e presso la porta
settentrionale della città, che tuttora è detta Porta Spada, fece
carneficina degli occupanti francesi. Riconquistata l’autonomia, ad Erice
veniva nominato governatore Niccolò Perollo.
Dopo la
cacciata degli Angioini, Erice e la Sicilia passarono agli Aragonesi. Con la
conclusione del Trattato di Anagni, Giacomo II di Aragona acconsentì
a cedere la Sicilia ritirandosi dalla guerra con Carlo I d'Angiò: i
baroni siciliani rifiutarono il trattato e consegnarono il Regno di
Trinacria a Federico, fratello minore di Giacomo. Federico venne
incoronato nella Cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296,
giorno di Pasqua.
Nel 1314 Roberto
d'Angiò raggiunse con una potente flotta la costa siciliana sbarcò
tra Carini e Castellammare del Golfo. Si diresse verso Trapani e
la cinse d’assedio. Il re Federico reagì immediatamente: ordinò a suo
cugino Ferdinando d’Aragona, figlio del re Giacomo II di
Maiorca, di raggiungere Erice per impedire ai nemici di devastare quel ricco
territorio e inviò a Trapani l’ammiraglio Giovanni Chiaramonte; egli
stesso vi si portò con il suo esercito, accampandosi sul Monte Erice per
meglio studiare le mosse degli Angioini, posizionando la cavalleria sul
versante nord della montagna. Nel corso della battaglia che seguì, alla
quale prese parte anche un contingente di ericini, Roberto venne sconfitto e
chiese una tregua, che fu accordata nel gennaio 1315 ai piedi
dell’Erice. Venne così sciolto il terzo assedio angioino di Trapani.
Dopo la vittoria il re Federico si trattenne qualche tempo ad
Erice, dove fece ingrandire la piccola chiesa occidentale dedicata a Maria,
e la elevò a chiesa matrice.
Durante il
regno di Pietro II di Sicilia l’isola fu fiaccata dalla lotta
che vide contrapposte la Fazione dei Catalani a quella dei Latini.
Al figlio di Pietro Ludovico di Sicilia si ribellarono i Chiaramonte,
cospicua famiglia latina, che occuparono la Val di Mazara. Grazie
all’intervento di Riccardo Abbate, Erice, Trapani, Calatafimi e altre
terre vicine tornarono fedeli al re. Quando poi Ludovico visitò
varie città del regno passò da Erice, e qui ricevette giuramento di fedeltà.
Alla morte
di Federico IV di Sicilia nel 1377 gli successe la
figlia Maria, che fu posta sotto la tutela del Consiglio di quattro
Vicari che amministrassero il Regno: Artale I Alagona, Guglielmo
Peralta, Francesco II Ventimiglia e Manfredi III Chiaramonte. In
quest’epoca Niccolò Abbate fu capitano sia di Trapani sia di Erice.
Nel 1391 Maria
sposò Martino il Giovane figlio di Martino I di Aragona duca
di Montblanc. Quando Martino invitò le universitates a presentare
le loro richieste ed esporre le loro problematiche, gli ericini descrissero
lo stato penoso in cui si trovava la propria città: le sue mura erano per
la maggior parte in rovina e gran parte della popolazione era migrata
altrove lasciando le proprie case in stato di abbandono. Martino stabilì
che le mura fossero riparate e che, se i cittadini che si erano trasferiti
altrove non avessero restaurate le proprie abitazioni entro un anno, ne
avrebbero perso la proprietà e l’universitas avrebbe potuto concederle
gratuitamente a nuovi abitanti. Nel 1393 Martino decretò che la Terra
et Castrum Montis Sancti Juliani fosse dichiarata in perpetuo
demaniale.
Nel 1394 Guglielmo
Peralta occupò proditoriamente Erice e altre città, impadronendosene.
Gli ericini, resisi conto dell’inganno, cacciarono il Peralta con la
forza, ottenendo dai sovrani Martino e Maria la conferma dei loro antichi
privilegi e la conferma di nuovi.
Alla
morte di Martino I di Sicilia nel 1409 gli successe il
padre Martino il Vecchio, che morì l’anno successivo, senza eredi.
Nel 1412, a seguito del Compromesso di Caspe venne scelto
come sovrano della corona d'Aragona e re di Sicilia Ferdinando I
d’Aragona: l’isola perdeva la sua indipendenza. Questo re concesse ad
Erice due privilegi con cui si favoriva lo sviluppo e l’incremento
dell’agricoltura. A Ferdinando successe il figlio Alfonso, che
confermò i tali privilegi e ne concesse un altro, con cui stabiliva che
Erice non potesse essere ceduta dal demanio, attribuendo agli ericini la
facoltà, qualora si fosse contravvenuto a questo decreto, di ricorrere alle
armi senza macchiarsi del delitto di fellonia.
Ad Alfonso
successe Giovanni II d'Aragona e a quest’ultimo Ferdinando
il Cattolico. Giovanni concesse ad Erice il diritto di costruire un porto
nel golfo di Bonagia e Ferdinando confermò tale diritto.
Morto
Ferdinando II la Sicilia passò a suo nipote Carlo V d'Asburgo: la
successione di Carlo al trono si accompagnò ad un’ondata di malessere che
sfociò nella rivolta del 1516: a Palermo e in altre città
dell’isola scoppiarono gravi tumulti. Ad Erice i cittadini si divisero in
fazioni che vennero spesso alle armi. Carlo incaricò di sedare la rivolta
il viceré di Sicilia Ettore Pignatelli il quale inviò ad Erice
il barone di Castellammare che, giunto di notte alle porte della città, vi
entrò di soppiatto con un manipolo di soldati: con l’aiuto dei regi
ufficiali catturò cinque dei più sediziosi tumultuanti e li fece
impiccare, emanando un bando di indulto per gli altri rivoltosi, purché si
sottomettessero.
Nel 1535,
in occasione della spedizione di Tunisi Erice sborsò 1000 onze per
armare una galea.
Nel 1555,
per far fronte alle ingenti spese militari, Carlo V si risolse a vendere
Erice con il suo vasto territorio: l’universitas, per impedire tale
vendita, offrì all’erario 4000 scudi, impegnandosi ad esborsarne
altri 2000 quando il sovrano ne avesse confermati gli antichi privilegi. Il
governo accettò tale somma, confermò i privilegi e stabilì che da quel
momento in poi Erice non si chiamasse più terra ma città, e che godesse di
tutti i privilegi, immunità e franchigie di cui godevano tutte le altre città
demaniali dell’isola.
Durante il
regno di Filippo II d’Asburgo la piazza d'armi di
Erice era presidiata da 1000 soldati, come risulta da varie ordinanze del
viceré di Sicilia Carlo d'Aragona Tagliavia.
Nel 1599,
regnando Filippo III d’Asburgo, scoppiò ad Erice una nuova sommossa
popolare e due giurati vennero uccisi. Nel giugno 1624 Erice fu colpita
dalla peste; il morbo durò nove mesi e ne morirono un migliaio di persone.
Nel 1645 Filippo
IV d’Asburgo, perennemente bisognoso di denaro, decise di vendere Erice e
il suo territorio ad un mercante fiorentino, tale Pandolfo Malagonelli, per
la cifra di 22.000 scudi. L’universitas ottenne la facoltà di
riscattarsi entro quaranta giorni mediante l’esborso di 14.000 scudi. Nel 1647,
scongiurato il pericolo di diventare città feudale, ad Erice vennero
confermati gli antichi diritti e privilegi.
Con il trattato
di Utrecht la corona di Sicilia fu consegnata a Vittorio Amedeo II
di Savoia che nel 1714 nominò Annibale Maffei viceré.
In questi anni l’universitas di Monte San Giuliano conobbe un periodo di
grandi ristrettezze economiche, ai cittadini furono imposti nuovi balzelli e
la produzione agricola risentì dell’alienazione di alcune terre del
demanio per pagare i donativi ordinari: nonostante queste misure Erice
rimase debitrice di alcune centinaia di onze.
A seguito
della Guerra della Quadruplice Alleanza, conclusa con il Trattato
dell’Aia, la Sicilia venne consegnata a Carlo VI d'Asburgo, che la
tenne fino al 1734.

Nel 1735 Carlo
di Borbone conquistò la Sicilia e il 3 luglio fu incoronato rex
utriusque Siciliae nella Cattedrale di Palermo. Nel 1742,
regnando Carlo di Borbone, Erice fu dichiarata città di comarca e
città di consolato e, in occasione del censimento del 1748, il sovrano
dichiarò estinto il suo grosso debito.
Il figlio Ferdinando
di Borbone emanò nel 1789 un decreto con cui si ordinava di
censire le terre patrimoniali delle singole universitates e assegnarle,
contro il pagamento di piccole rate, ai coltivatori diretti. Tale decreto
aveva esecuzione in Monte San Giuliano nel 1791, ma - prevalendo
l’interesse privato su quello generale - non ebbe concreta applicazione.
Influenzati
dalla propaganda rivoluzionaria - nel 1799 - gli artigiani di
Monte San Giuliano, prendendo come pretesto il costo eccessivo dei beni di
prima necessità, scatenarono un tumulto pretendendo di abbassare a loro
arbitrii prezzi. Re Ferdinando spedì ad Erice il commissario Gabriele
Lavaggi con il compito di riportare la città all’ordine. Questi non ebbe
però equilibrio nel punire i colpevoli e, giunto in Monte San Giuliano il
29 gennaio 1800, condannava cinque dei principali rivoltosi
all’ergastolo facendoli prima portare su degli asini per le vie della città,
e altri a vari anni di reclusione.
Tra la fine
del XVIII e l'inizio del XIX secolo cominciarono le
operazioni di frazionamento degli ex feudi in piccoli lotti e la
distribuzione di essi ad assegnatari che avevano l'obbligo di trasferirsi
dal capoluogo a San Vito Lo Capo e Custonaci, località fino
a quel tempo assai scarsamente popolate. Nel corso di tale operazione non
mancarono speculazioni e si manifestarono problemi legati dell'incapacità
degli assegnatari a gestire il proprio lotto, alla mancanza di capitali,
alla sterilità del terreno.
Nonostante
si stesse aprendo un periodo di lenta e graduale decadenza, Erice godeva
ancora nei primi anni del XIX secolo di un certo prestigio. Vi
risiedevano numerose famiglie patrizie di antica nobiltà; il suo magistrato
urbano occupava il posto ventinovesimo nel Parlamento siciliano; vi era
una Corte di giustizia civile e una penale; possedeva un contado molto
vasto, all’interno del quale erano le tre illustri baronie di Baida, Inici
e Arcodaci; ad Erice si tenevano due grandi mercati annuali: uno presso il duomo,
in occasione della festa dell’Assunta, l’altro presso la chiesa di
sant’Orsola, per la festa della Visitazione; vi era un Collegio degli
Studi con otto cattedre; vi era un ospedale per gli infermi presso la chiesa
di san Francesco di Paola e uno per i pellegrini nella chiesa di san
Giovanni.
La Sicilia,
anticamente suddivisa in valli, fu divisa con un decreto del 14 ottobre 1817 in
sette province, suddivise in distretti, e questi in circondari e comuni. Le
antiche istituzioni vennero abolite. Posto in vigore il 1º settembre 1819,
il nuovo Codice introdusse a Monte San Giuliano un conciliatore e un giudice
di circondario, rendendola in ogni cosa dipendente da Trapani, capoluogo
dell’omonima provincia.
Nella
seconda metà del XIX secolo Erice era molto decaduta; parecchie
famiglie si trasferirono a Trapani o altrove; nel 1846 parte
del suo contado - ossia Baida e Inici - venne assegnato a Castellammare
del Golfo e un’ampia fascia della popolazione si trasferì nelle
campagne e nei villaggi dell’agro ericino.

Nel maggio 1860,
Erice contribuì alla vittoriosa spedizione dei Mille inviando a Giuseppe
Garibaldi un contingente di 875 uomini sotto il comando di Giuseppe
Coppola.
In seguito
all'Unità d'Italia alla popolazione ericina, e a quella siciliana in
generale, furono imposte le scelte politiche del governo piemontese, tra cui
una pesante pressione fiscale e la leva militare obbligatoria.
Nel primo
dopoguerra le elezioni amministrative videro la vittoria dei socialisti e
l'elezione del sindaco Sebastiano Bonfiglio che dovette muoversi
in un contesto politico caratterizzato da profonde divisioni ideologiche e
tensioni sociali, rimanendo vittima di sicari prezzolati il 10 giugno 1922.
Il 26
agosto dello stesso anno, nella chiesa di s. Alberto dei Bianchi gremita di
fascisti e simpatizzanti, veniva costituita la sezione locale del partito
fascista e nominato il direttorio provvisorio. Le direttive date dal
direttorio trapanese erano chiare: nessuna tregua nel contrastare i
socialisti. Così, la seconda domenica di settembre, i fascisti ericini
impedirono che il corteo socialista giunto a Erice dalla borgata di san
Marco - alla testa del quale erano il sindaco, la giunta e i consiglieri -
esponesse al balcone del municipio la bandiera rossa; e a dicembre irruppero
nella casa comunale costringendo il vicesindaco a consegnare loro la chiavi
del municipio, che furono date al comandante dei carabinieri. Il governo
nominò commissario regio il capitano Giuseppe Pellegrino.
Nel 1934,
anno dell’ultimo censimento prima della seconda guerra mondiale,
Erice contava globalmente 35000 abitanti, di cui 3000 nel capoluogo. La
maggior parte della popolazione risiedeva stabilmente ormai nei numerosi
centri agricoli facenti capo a San Vito lo Capo, Custonaci, Buseto Palizzolo
e Valderice. In quell’anno la denominazione di Monte San Giuliano fu
definitivamente abbandonata e venne ripristinato l’antico nome di Erice.
Nel
dopoguerra, costituitisi i comuni autonomi di Valderice, Custonaci, Buseto
Palizzolo e San Vito Lo Capo, la cittadina di Erice, esaurita la
sua antica funzione storica che la rendeva unico centro aggregante della
popolazione dell'agro ericino, per il suo clima salubre e il suo ricco
patrimonio artistico ha conosciuto una nuova vocazione come centro culturale
e turistico.
Dal 1963 è
sede del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, istituito per
iniziativa del professor Antonino Zichichi, che richiama gli studiosi
più qualificati del mondo per la trattazione scientifica di problemi che
interessano diversi settori: dalla medicina al diritto, dalla storia
all'astronomia, dalla filologia alla chimica. Per questo alla cittadina è
stato attribuito l'appellativo "città della scienza".
Dal 1972 l'ex
convento di s. Carlo fu sede della Associazione Artistica Culturale La
Salerniana, fondata dal poeta Giacomo Tranchida, che conservava opere di Carla
Accardi, Gianni Asdrubali, Pietro Consagra, Antonio
Sanfilippo, Emilio Tadini tra gli altri, e dove furono organizzate
mostre d'arte contemporanea curate da critici di rilievo come Palma
Bucarelli, Achille Bonito Oliva, Luciano Caramel e Giulio
Carlo Argan.

Mura
ciclopiche
Le antiche
mura, in pietra calcarea, furono originariamente edificate sul lato Nord-Est
del sito, nell’VIII sec. a.C. dagli Elimi, popolazione di origine incerta;
successivamente, nel VI sec. a.C., furono rinforzate dai Punici e,
dopo rifacimenti di epoca romana, furono completate dai Normanni.
I resti si
sviluppano lungo un percorso di circa 700 metri e si adattano al diverso
rilievo del terreno (dai 682 m ai 729 m s.l.m.).
A causa
delle gigantesche dimensioni vengono definite
“ciclopiche”; lo storico greco Diodoro Siculo, inoltre, ha indicato
Dedalo come primo costruttore.
Le mura
erano dotate di torri di avvistamento, di un camminamento cui si accedeva
con ripide scalette e di piccole aperture, denominate postierle. Per le loro
gigantesche dimensioni le mura vengono denominate «ciclopiche». Lungo la
cortina muraria, utilizzata come struttura difensiva fino a tutto il
Medioevo, sono attualmente visibili: 16 torri quadrangolari, 5 porte e 8
postierle. Sui notevoli blocchi calcarei di epoca elima, lasciati allo stato
naturale per fare da base, poggiano filari di conci ben squadrati e simili
tra loro del periodo fenicio-punico. Nei livelli superiori la costruzione
continua con altri filari medievali dall’andamento orizzontale, costituiti
da piccole pietre di forma irregolare, tenute insieme da malta e zeppe in
pietra verticali.
Lungo la
cortina muraria sono attualmente visibili:
-16 torri
quadrangolari (inizialmente ve ne erano 25) collegate con robuste cortine
intermedie, dalla lunghezza media di 45 metri e di 2,30 metri circa di
spessore;
– 3 porte
denominate Trapani, Carmine e Spada;
– 6
postierle.
La
postierla è un varco discreto, poco evidente perché camuffato o
disimpegnato in qualche modo. Uscita sicura in caso di attacchi nemici o per
il passaggio degli abitanti e il trasporto dei viveri. Delle otto, ci
arrivano meglio conservate quelle più antiche sovrapposte da grosse
architravi monolitiche, mentre le altre sono sormontate da falsi
archi.
Le
postierle sono aperte perpendicolarmente nello spessore della cortina e si
trovano in uno stato di conservazione diverso l’una dall’altra. Due
mancano della copertura e di alcuni blocchi degli stipiti, mentre le altre
hanno mantenuto la parte superiore pur essendo state ripristinate in diverse
epoche.
La
postierla ubicata in via Rabatà, nei pressi di Porta Carmine, presenta un
architrave monolitica in prossimità dell’uscita verso l’esterno. Il
grosso blocco che costituisce l’architrave, presenta il margine inferiore
rettilineo, mentre quello superiore è sagomato seguendo una forma convessa.
Su alcuni massi che compongono la postierla sono presenti alcuni simboli
punici.
In
prossimità di alcune postierle si trovano incise le lettere dell’alfabeto
punico:
“beth”
che equivale a “casa”
“ain”
che significa “occhio”
“phe”
che significa “bocca”.
Queste
lettere potrebbero racchiudere il significato di: “Le mura hanno occhi per
vedere il nemico, bocca per mangiarselo in caso di aggressione e
sono la casa sicura per gli abitanti”. La presenza di tali
lettere conferma, dal punto di vista cronologico, l’intervento fenicio.
I numerosi
ripristini e rifacimenti di epoca romana e medievale, caratterizzati dalle
piccole dimensioni del materiale di utilizzo, hanno alterato l’aspetto
originario delle mura oltre quello delle tre porte d’ingresso alla città.
In origine erano cinque. Porta Cappuccini è stata demolita nel 1811 durante
i lavori di costruzione della strada per Trapani. Di Porta Castellammare
rimangono i ruderi.
PORTA
TRAPANI è così chiamata perché ubicata di fronte alla città di Trapani.
E’ attribuita al periodo medievale dallo schema a tenaglia sulla quale si
apre, tipica caratteristica delle fortificazioni del tempo. Si configura con
un arco ogivale ed è incassata tra due robusti bastioni. All’interno
della porta è collocata una cappelletta con la statua lignea di San
Cristoforo con Gesù bambino. In basso si trova un’incisione sul marmo
relativa ad una richiesta d’indulgenza.
PORTA SPADA
è situata a nord, il suo nome deriva da «Patula» spada. La tradizione
popolare ricorda che qui, nel 1282, è accaduto l’eccidio dei francesi
durante la Guerra del Vespro Siciliano. Questa ipotesi non è comprovata da
nessun documento. Dalla parte esterna della cortina muraria è possibile
leggere le tre fasi costruttive, con gli enormi macigni nella parte
inferiore, le così dette mura ciclopiche.
PORTA
CARMINE è posizionata nella piazza antistante la Chiesa del Carmine, è
sovrastata da una grande nicchia recante la statua acefala in calcare di S.
Alberto. Sulla torre a sinistra si trova una lapide murata posta nella
ricorrenza del bimillenario del poeta Virgilio. Ricorda l’incontro fra
Enea ed Aceste, re di Erice e i ludi in memoria di Anchise narrati nel
mitico scenario di questi luoghi nel III e V libro dell’Eneide.
PORTA
CASTELLAMMARE, scoperta durante gli scavi del 2010/2011, è così chiamata
perché localizzata lungo la via che guarda nella direzione di
Castellammare, a levante. Si trova ad una quota più bassa di 35 metri e
svolgeva un ruolo di controllo sulla piana sottostante, dove vi era il porto
di Erice. Questo settore doveva essere molto protetto perché, in relazione
alla sua pendenza, consentiva l’accesso facilitato al monte e di
conseguenza alla città.
Castello
di Venere
Il castello
di Venere è un castello di fattura
normanna del XII secolo che sorge su una rupe isolata
nell'angolo sud-orientale della vetta del Monte
Erice. Al suo fianco vi sono le Torri del Balio.
Lo
vediamo dominare il panorama quasi volesse impressionare anche il cielo e
dall’alto scrutare fiero l’orizzonte, ma bisogna ricordare che prima di
esso in quello stesso posto sorgeva un santuario a cielo aperto dedicato a
Venere Ericina/Afrodite, il thémenos.
A farlo erigere fu Erice, fondatore della città e figlio di Bute e della
dea: in tale periodo, a quanto si racconta, nel thémenos
i marinai viandanti erano soliti congiungersi carnalmente con le
sacerdotesse del tempio (le
jeròdulai) in una sorta di amplesso in qualche modo correlato a
riti sacri. Si dice che questo luogo di piacere pagano sia crollato proprio
nel giorno della nascita di Gesù,
ma si sente altresì dire che a distruggere il tempio fu Costantino.
Il
tempio stesso era circondato da fortificazioni, in modo da costituire una
cittadella, ben distinta dalla città sottostante. Nell’alto medioevo gran
parte dei resti del santuario erano andati perduti, e nell’area venne
edificata una piccola chiesa dedicata a Santa Maria della Neve, in
concomitanza con la costruzione del castello da parte dei Normanni (fine
XI-XII sec.).
La
fortezza fu chiamata appunto Castello di Venere; una piccola parte delle
costruzioni è tutto ciò che resta dell'antico edificio, ma alcune colonne
di granito fine, ancora esistenti in altre parti della città, sono senza
dubbio appartenute originariamente al tempio. Per la costruzione furono
utilizzati anche frammenti dell'antichissimo santuario, e del tempio di
epoca romana.
La
fortezza fu "piazza reale" per i viceré aragonesi fino al XVI
secolo. Con i Borbone divenne carcere. Nei primi decenni del XIX secolo
passò al comune, che alla fine del secolo lo diede in concessione al
conte Agostino
Pepoli in cambio di un restauro. Furono effettuati degli
scavi archeologici alla ricerca del tempio dal Cultrera nel 1934-36. Gran
parte dei ritrovamenti sono conservati al conservata nel Museo
Pepoli di Trapani.
I
Normanni
contribuirono sensibilmente a dare forma e contenuto nel XII secolo a
un edificio recante molto del materiale recuperato dalle rovine del tempio,
cosicché nel Medioevo il fortilizio ricopriva il ruolo di sede
amministrativa e dimora tra gli altri del Castellano,
figura chiave per le dinamiche legislative, l’esattorato e la giustizia
civile. Fino al XVI secolo la struttura venne utilizzata come presidio
militare spagnolo e passò al comune soltanto in concomitanza con la riforma
borbonica, e cioè nel 1819.
A Erice nell'antichissimo
santuario, il culto della divinità femminile della fecondità assunse, con
il passare dei secoli e dei popoli, nomi diversi. Prima il culto fenicio
della dea Astarte,
adorata dagli Elimi. Diodoro
Siculo scrisse che "Erice",
figlio di Bute e
di Afrodite stessa,
aveva eretto il tempio dedicato alla propria madre e fondato la
città. Poi narra l'arrivo di Liparo, figlio di Ausonio, alle Isole
Eolie, aggiungendo che i Sicani "abitavano
le alte vette dei monti e adoravano Venere Ericina". Fu saccheggiato
da Amilcare
Barca.
Il
castello era collegato al resto della vetta da un ponte levatoio,
successivamente sostituito dall'attuale gradinata. La facciata del castello,
volta ad occidente, è sovrastata da merli ghibellini, e il muro del
complesso segue, con rientranze e sporgenze il contorno della rupe. È
osservabile l'imboccatura di una galleria segreta, che era sotterranea
rispetto agli edifici scomparsi e conduceva fuori dal castello. Nella ripida
parete rocciosa, a tramontana, si innalza un muro, attribuito a Dedalo,
composto di dodici filari orizzontali di pietre pulitamente squadrate e
sovrapposte ad opus rectum.
La
Rocca, così come la si vede oggi, è naturalmente il frutto di una
riqualificazione voluta dal colto mecenate Agostino
Pepoli, il quale nell’Ottocento non si accontentò di far
risuscitare le Torri del Balio e l’intera cortina merlata perimetrale
realizzando peraltro il giardino
pubblico interno in stile inglese, ma pensò più in grande
restituendo tutta l’area d’insorgenza all’antico splendore, inserendo
poi un nuovo elemento posizionato a nord-ovest della rupe, ovvero la Torretta
Pepoli, divenuto un "Osservatorio della Pace". Seguirono scavi
archeologici per svelare il tracciato del vecchio fossato e ritrovare
i resti del santuario, reperti conservati nel Museo
Pepoli presso Trapani.
Piacevole scoperta è costituita dal Pozzo
di Venere, una cisterna scavata nella roccia per raccogliere
l’acqua: il suo nome deriva dal fatto che, secondo il mito, qui usava
farsi il bagno nientemeno che la dea Venere, una credenza che infonde
un’affascinante suggestione agli avventori.
Gli
scavi hanno fatto emergere inoltre un’area
termale d’epoca romana, cui erano connessi il calidarium,
un pavimento a mosaico in tessere bianche e il prefurnium,
interessante perché esso rappresentava l’ambiente ove si produceva
l’aria calda atta a investire le terme. Il motivo dell’ubicazione di
un’antica “spa” in prossimità del santuario è frutto di una
deduzione, secondo la quale essa doveva fungere da anticamera di
purificazione prima dell’accesso al tempio.
Nella parte nord-orientale della rocca s’intravede un breve tratto murario
in blocchi squadrati lungo 7 metri e alto 4,80. Anche in tal caso le ipotesi
si sprecano e la più accreditata lo indica come segmento sopravvissuto
dell’antico muro
di Dedalo, citato da Diodoro
Siculo come autore di una barriera di contenimento realizzata per
evitare che le case circostanti il tempio cadessero nel precipizio per
quanto alto era lo sperone di roccia.
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