Erice (Borgo)
(Trapani)

 

 

Nel centro cittadino che è posto sulla vetta dell'omonimo Monte Erice, sono residenti solo 1024 abitanti (popolazione che si decuplica nel periodo estivo), mentre la maggior parte della popolazione si concentra a valle, nell'abitato di Casa Santa, contiguo alla città di Trapani. Il nome di Erice deriva da Erix, un personaggio mitologico, figlio di Afrodite e di Bute, ucciso da Eracle.

Erice si ritiene sia stata fondata dagli Elimi, e dopo Segesta ed Entella, fu la terza fondata dagli Elimi. Il primo nucleo abitativo dovrebbe risalire alla fine del II millennio a.C./inizio del primo.

Altri ritengono che la città sia stata fondata dai Troiani (insieme con Segesta). Scrisse Tucidide che i Troiani, in fuga dopo la presa di Ilio, approdarono in Sicilia e vennero a stabilirsi in vicinanza dei Sicani e che loro città furono Erice e Segesta.

Diodoro siculo riportò l’antica tradizione che voleva fondatore della città Erice, figlio di Venere e di Bute, il quale avrebbe innalzato nella rocca di questa città un tempio alla madre. Molti e autorevoli storici hanno abbracciato tale tradizione.  

Per quanto riguarda poi l’origine del nome Erice, l’Amari suppone che esso abbia origine sicana; il Loidio ritiene che derivi dal nome usato dai Cartaginesi per indicare il monte sul quale sorge la città: ossia Harucas o Hareces. Il Pierio sostenne che la voce Erice non solo si riferisse al fondatore sicano della città, ma che derivasse altresì dalla voce greca ὲρινος, ossia fortezza. Antonino Salinas, studiando una moneta punico-sicula ericina, vi scoprì incisa la parola Erech: dichiarò quindi essere Erice nome di origine fenicia. Il nome greco fu Eryx.

Nel XII secolo, dai normanni la città venne ribattezzata Monte San Giuliano, poiché - secondo la leggenda - durante l’assedio condotto da Ruggero I d'Altavilla, sarebbe apparso quel santo, il quale avrebbe infuso nuovo coraggio nell’animo del Gran Conte e in quello dei suoi soldati impegnati ad espugnare la città: ed è in seguito a questo episodio che il conte Ruggero avrebbe stabilito di chiamarla col nome del santo. Tale nome venne mantenuto fino al 1934: a partire da quell’anno la città si chiamò nuovamente Erice.

Se si vuole indagare l’epoca della dominazione sicana di Erice si incontra una lacuna, dovuta alla quasi totale assenza di fonti: tace infatti la storiografia e né Diodoro Siculo né Erodoto narrano gli eventi di questo periodo. Dionigi di Alicarnasso, Tucidide e altri storici attestano essere i Sicani popolazione iberica e tale ipotesi è avallata da molti autorevoli storici delle epoche successive, tra i quali il Fazello, Cesare Balbo e Atto Vannucci. Tucidide attesta che i Sicani dettero all’isola il nome di Sicania, chiamata - prima del loro arrivo - Trinacria. Benché in un primo momento possedessero tutta l’isola, successivamente si spostarono nella parte occidentale, dove edificarono alcune rocche. A quest’epoca risale, secondo il Castronovo, la fondazione di Erice. Quando i Siculi, che - secondo Tucidide, Dionigi di Alicarnasso e Antioco di Siracusa - erano popolazione italica, giunsero in Sicilia, ne occuparono i territori a levante e ne scacciarono i Sicani, respingendoli nelle parti meridionali e occidentali dell’isola.  

Giunti in Sicilia, gli Elimi ne occuparono la parte occidentale dove, eccettuata Erice, non pare vi fossero altri rilevanti insediamenti umani. Colonizzarono la città e stabilirono la loro principale sede nella vicina Segesta.

Nel XII secolo a.C., fuggiaschi dalla loro patria distrutta, i Troiani vennero a stabilirsi nei territori abitati dai Sicani. Si fusero con questo popolo e con quello degli Elimi, adottando il nome dei secondi.  

I Fenici predilessero gli Elimi come partner commerciali, poiché i territori da essi abitati erano quelli bagnati dal Canale di Sicilia e quindi i più vicini a Cartagine. Quando si compì la fusione dei Fenici - di essa parla Giovanni Fraccia - con il popolo Elimo-Troiano, ne nacque un unico popolo, denominato Elimo-Fenicio, che si stabilì nei territori degli Elimi: Erice divenne Elimo-Punica e fu soggetta alla dominazione cartaginese.  

In seguito alla battaglia di Imera, nonostante la vittoria sui Cartaginesi dei Greci di Sicilia delle città alleate di Agrigento e Siracusa, le città Elimo-Puniche, tra cui Erice, non si fusero con quelle greche, rimanendo soggette a Cartagine. E tuttavia queste città cominciarono a mescolare alle proprie le usanze greche, abbracciando e facendo propri alcuni elementi di quella civiltà.

All’inizio de IV secolo a.C. Dionisio I di Siracusa dichiarò guerra a Cartagine e si portò con il suo esercito nella Sicilia occidentale, dove concluse con successo l’assedio di Mozia. Erice allora si consegnò spontaneamente al tiranno di Siracusa inviandogli anche aiuti militari, ma la reazione cartaginese non si fece attendere e dopo non molti anni il generale cartaginese Imilcone venne in Sicilia, dove sbaragliò facilmente il contingente di Sicelioti lasciato a guardia di Mozia da Dionisio e rioccupò le città che erano passate sotto il controllo di costui, tra le quali Erice.

Nel 368 a.C. Dionisio I tentò nuovamente di scacciare i Punici dalla Sicilia: forte di un esercito di 30.000 fanti e 3.000 cavalieri riconquistò Erice, Selinunte ed Entella e assediò Lilibeo, ma in soccorso della città sopraggiunse una flotta cartaginese che sconfisse e mandò in rotta quella greca. Erice tornò sotto il gioco punico.

Nel 278 a.C. Pirro, che era genero di Agatocle tiranno di Siracusa, avendone sposato la figlia Lanassa, accolse di buon grado l’invito rivoltogli da Siracusa di intervenire militarmente nell’isola per scacciare i Cartaginesi, e giunse in Sicilia con il suo esercito: Eraclea Minoa, Selinunte, Alicia e Segesta gli si arresero; Erice gli oppose resistenza e il sovrano epirota dovette cingerla d'assedio nel 277 a.C., riuscendo ad espugnarla. Nel 276 a.C. assediò Lilibeo, ma invano. Il suo atteggiamento dispotico gli alienò la simpatia dei Sicelioti che gli fecero mancare il loro appoggio. I Cartaginesi ripresero il sopravvento ed Erice con le altre città elime tornarono in loro possesso.  

In seguito alla conquista di Milazzo da parte dei siracusani guidati da Gerone II, i Mamertini, i quali avevano il controllo di Messana, per difendersi dall’attacco di quel tiranno chiesero aiuto sia a Cartagine sia a Roma: è il casus belli della Prima guerra punica. In questi anni Erice cade in mano ora dell’una ora dell’altra potenza.

Il console Gaio Duilio, dopo aver sconfitto Cartagine nella battaglia di Milazzo, tornò a Roma, e Amilcare Barca ne approfittò per conquistare parecchie città in Sicilia, tra cui Erice, già passata ai Romani, i cui abitanti furono costretti a trasferirsi nel loro emporio, Drepanon.

Nel 249 a.C. il console Lucio Giunio Pullo riconquista Erice e costruisce sulla sua montagna due campi fortificati per garantire a Roma non solo il controllo della città ma anche di tutto il monte. Nonostante queste difese, Amilcare riuscì ad aggirare le due guarnigioni romane, assalendo e occupando la città: la spopola nuovamente e vi si asserraglia. I Romani stavano trincerati alla base della montagna, i Cartaginesi resistevano sulla cima.

L’arrivo dei consoli Gaio Fundanio Fundulo e Gaio Sulpicio Gallo non determinò un mutamento della situazione. Nel 242 a.C. Gaio Lutazio Catulo giunse in Sicilia e si impadronì dei porti di Drepanon e Lilibeo. I Cartaginesi inviarono nell’isola una flotta sotto il comando di Annone: il generale cartaginese progettava di accorrere in aiuto della guarnigione di stanza ad Erice, rifornirla di viveri e rafforzare la sua armata navale con gli agguerriti veterani che Amilcare gli avrebbe dati. Lutazio, avendo intuito il piano divisato dal cartaginese, veleggiò alla volta di Favignana e sconfisse Annone nella battaglia delle Isole Egadi. I Cartaginesi si trovarono nell’impossibilità di inviare ad Erice vettovaglie e soccorsi. L’armata di Amilcare rimase così isolata e al generale venne dato pieno potere di condurre le operazioni militari nel modo che ritenesse più opportuno: egli, resosi conto che resistere era diventato impossibile, si mostrò disposto a condurre trattative e negoziazioni e inviò a Lutazio degli ambasciatori che proponessero di addivenire alla pace. Il console accolse la proposta di pace alle seguenti condizioni: che i Cartaginesi sgombrassero interamente la Sicilia; che non facessero più guerra ai Siracusani o ai loro alleati; che rendessero, senza pretendere alcun riscatto, tutti i prigionieri; che pagassero un’indennità di guerra. Così Erice fu liberata dal giogo di Cartagine.  

Nel 214 a.C. ha inizio la dominazione romana in Sicilia e per lo spazio di tempo che va da quell’anno al 210 a.C. non vi è alcuna notizia di Erice come città. Nel 214 a.C. una flotta cartaginese comparve in vista delle isole Egadi, minacciando Lilibeo, ma di Erice non viene fatta menzione; nel 210 a.C. Marco Valerio Levino, per scacciare dall’isola tutti gli occupanti Cartaginesi dovette impossessarsi di molte città, ma non di Erice. Da quando infatti Amilcare l’aveva ceduta ai Romani, essi la occuparono stabilmente, e non risulta che i Cartaginesi avessero tentato di riconquistarla.

I Romani, quali discendenti di Enea, collegando la loro stirpe alla dea che era adorata sull’Erice, le tributarono onori e ne venerarono il tempio, accordando ad esso notevoli privilegi: era frequente che i consoli e i pretori, giungendo in questa provincia, si recassero a visitarlo.

Cicerone, nelle Verrine, enumera quasi tutte le città di Sicilia, ma non parla mai della città di Erice, né dei suoi cittadini. Parla sovente del Monte Erice, del suo tempio e del culto di Venere Erycina.

Nell’età di Augusto, il geografo Strabone, da Capo Peloro a Pachino trovava solo Messina, Tauromenio, Catania e Siracusa; da Pachino a Lilibeo solo Agrigento e la stessa Lilibeo; da Lilibeo a Capo Peloro, scarse di abitanti Erice ed Himera e con pochi abitanti Palermo, e ancora meno popolosi gli empori di Cefaledio, Alesa e Tindari; sotto Tiberio Erice risulta quasi disabitata e il suo tempio, scarso di sacerdoti, in parte distrutto: Tacito scrive che in quell’epoca la cura del tempio era affidata ai Segestani, poiché ad Erice non restava che un forte presidiato dai Romani. Nel 25 d.C. l’imperatore fece ristrutturare il tempio. Del lungo periodo romano sono concreta testimonianza il gran numero di monete rinvenute in gran numero nella città e nel suo contado.

Plinio il Vecchio, descrivendo la Sicilia durante il principato di Vespasiano, menziona fra gli altri popoli dell’isola gli ericini, chiamandoli stipendiarii, cioè tributari dell’Impero.

Con l’introduzione del Cristianesimo il tempio di Venere Erycina venne abbandonato.

Nel 440, con la conquista dell'isola ad parte del re Genserico, iniziò la dominazione vandala della Sicilia, alla quale seguì la dominazione ostrogota, che iniziò nel 493 e si concluse nel 555, con la definitiva conquista dell’isola da parte dei bizantini in seguito alla guerra greco-gotica.  

Per la sua vicinanza con l’Africa, già dal VII secolo la Sicilia era vessata dalle incursioni mussulmane. Tra il 652 e il 827 si susseguirono aggressioni e saccheggi, non conquiste durevoli. Nell’827, dopo che il ribelle Eufemio da Messina ebbe chiesto il loro aiuto, i mussulmani sbarcarono a Mazara del Vallo. Nel 902 la Sicilia era mussulmana.

Si ignora l’anno preciso in cui Erice cadde in mano mussulmana: la conquista della città avvenne tra l’831 e l’841. Pochissimo si sa di Erice in questa epoca: nella storia della città si incontra una lacuna di quasi due secoli e mezzo. Monsignor Alfonso Airoldi annovera, fra le altre città siciliane in epoca mussulmana, anche Erice, che chiama Ailigi o Erik, riferendo che la sua popolazione era di 5321 abitanti: eppure questa notizia non viene ripresa né dal Caruso, né dal Gregorio, né dal Lanza, né dal Martorana né dall’Amari. Non si trova nessun'altra fonte che attesti lo stato di Erice in quest’epoca. Il Castronovo avverte che se in quest’epoca non era una città popolosa, restava comunque un’importante fortezza, e aggiunge che il suo contado fu disseminato di casali e popolato da numerosi coloni. Molte contrade dell’agro ericino conservano ancora oggi i nomi di origine mussulmana.

Nel 1077 i normanni comandati da Giordano d'Altavilla conquistarono Trapani, mentre i mussulmani si asserragliavano nella fortezza di Gebel-Hamed. Sopraggiunto il Gran Conte Ruggero, li avrebbe cinti d’assedio. Poiché quelli resistevano strenuamente, Ruggero avrebbe implorato l’aiuto divino invocando, tra gli altri santi, anche San Giuliano: si racconta che, all’alba, sarebbe apparso ai normanni impetranti un cavaliere sopra un bianco destriero, armato alla leggera, con un mantello rosso, che brandiva una spada con la destra, teneva sulla sinistra un falcone ed era accompagnato da una muta di cani. Spronato il destriero, sguinzagliati i cani e scappellato il falcone, il cavaliere avrebbe cominciato ad incalzare i mussulmani che, impalliditi e terrorizzati, sarebbero fuggiti, abbandonando la città. I normanni, parandosi loro davanti, ne avrebbero fatto quindi carneficina. Grato all’aiuto divino, Ruggero fece edificare un chiesa che intitolò a San Giuliano e comandò che Erice si chiamasse da quel momento in poi Monte San Giuliano.

Quella dedicata a S. Giuliano fu la prima chiesa sorta ad Erice dopo l’espulsione dei mussulmani; stando a un'antica tradizione riportata dall’arciprete Vito Carvini, la seconda fu quella di Sant'Ippolito, chiesa rupestre ancora esistente.

In epoca normanna Erice ebbe grande importanza e taluni storici ritennero che essa sia stata in parte edificata in questo periodo. Il Castronovo sosteneva che i normanni ne avessero restaurato le mura, rendendola la città considerevole descritta da Ibn Jubayr, e ne avessero ricostruito la fortezza.

Michele Amari nota - non senza meraviglia - che durante il regno di Guglielmo il Malo la città era abbandonata e il suo castello senza guarnigione. Guglielmo il Buono concesse ad Erice il possesso di un amplissimo contado con un diploma che poi sarebbe stato richiamato nel privilegio di Federico II di Svevia del 1241.

Nel 1185, durante il regno di questo sovrano, la città veniva definita considerevole dal viaggiatore Ibn Jubayr e la sua fortezza inespugnabile. Egli non poté tuttavia visitarla poiché l’accesso ai mussulmani era vietato: l’ammirò da lontano, da Trapani.  

Marcaldo, balio e procuratore di Federico II, confermò agli ericini il possesso del vasto contado già loro assegnato da Guglielmo il Buono, e nel 1241 l’imperatore ratificò tale possesso con un diploma.

Nel 1258 il re Manfredi di Sicilia nominò presidente del Regno Federico Lanza: ad Erice e in altre città dell’isola scoppiarono sommosse. Nel maggio dello stesso anno il Lanza raggiunse la città a capo di un esercito e sedò nel sangue la rivolta costringendo la popolazione ad emigrare a valle. Tuttavia già alla fine di luglio Manfredi mitigò tali condizioni, consentendo agli ericini di tornare nella loro città, ripopolandola.  

Durante il regno di Carlo I d'Angiò Erice fu afflitta dalla politica autoritaria e oppressiva del sovrano francese. Fu questo il contesto in cui Palmiero e Riccardo Abate a Trapani e Gerardo Abate ad Erice ordirono insieme ad altri nobili siciliani una congiura, fomentando la rivolta del Vespro siciliano del 1282 contro gli Angioini. In questi anni Erice fu saccheggiata dal presidio angioino di stanza nel suo castello: la reazione della popolazione non si fece attendere e presso la porta settentrionale della città, che tuttora è detta Porta Spada, fece carneficina degli occupanti francesi. Riconquistata l’autonomia, ad Erice veniva nominato governatore Niccolò Perollo.

Dopo la cacciata degli Angioini, Erice e la Sicilia passarono agli Aragonesi. Con la conclusione del Trattato di Anagni, Giacomo II di Aragona acconsentì a cedere la Sicilia ritirandosi dalla guerra con Carlo I d'Angiò: i baroni siciliani rifiutarono il trattato e consegnarono il Regno di Trinacria a Federico, fratello minore di Giacomo. Federico venne incoronato nella Cattedrale di Palermo il 25 marzo 1296, giorno di Pasqua.

Nel 1314 Roberto d'Angiò raggiunse con una potente flotta la costa siciliana sbarcò tra Carini e Castellammare del Golfo. Si diresse verso Trapani e la cinse d’assedio. Il re Federico reagì immediatamente: ordinò a suo cugino Ferdinando d’Aragona, figlio del re Giacomo II di Maiorca, di raggiungere Erice per impedire ai nemici di devastare quel ricco territorio e inviò a Trapani l’ammiraglio Giovanni Chiaramonte; egli stesso vi si portò con il suo esercito, accampandosi sul Monte Erice per meglio studiare le mosse degli Angioini, posizionando la cavalleria sul versante nord della montagna. Nel corso della battaglia che seguì, alla quale prese parte anche un contingente di ericini, Roberto venne sconfitto e chiese una tregua, che fu accordata nel gennaio 1315 ai piedi dell’Erice. Venne così sciolto il terzo assedio angioino di Trapani. Dopo la vittoria il re Federico si trattenne qualche tempo ad Erice, dove fece ingrandire la piccola chiesa occidentale dedicata a Maria, e la elevò a chiesa matrice.

Durante il regno di Pietro II di Sicilia l’isola fu fiaccata dalla lotta che vide contrapposte la Fazione dei Catalani a quella dei Latini. Al figlio di Pietro Ludovico di Sicilia si ribellarono i Chiaramonte, cospicua famiglia latina, che occuparono la Val di Mazara. Grazie all’intervento di Riccardo Abbate, Erice, Trapani, Calatafimi e altre terre vicine tornarono fedeli al re. Quando poi Ludovico visitò varie città del regno passò da Erice, e qui ricevette giuramento di fedeltà.

Alla morte di Federico IV di Sicilia nel 1377 gli successe la figlia Maria, che fu posta sotto la tutela del Consiglio di quattro Vicari che amministrassero il Regno: Artale I Alagona, Guglielmo Peralta, Francesco II Ventimiglia e Manfredi III Chiaramonte. In quest’epoca Niccolò Abbate fu capitano sia di Trapani sia di Erice.

Nel 1391 Maria sposò Martino il Giovane figlio di Martino I di Aragona duca di Montblanc. Quando Martino invitò le universitates a presentare le loro richieste ed esporre le loro problematiche, gli ericini descrissero lo stato penoso in cui si trovava la propria città: le sue mura erano per la maggior parte in rovina e gran parte della popolazione era migrata altrove lasciando le proprie case in stato di abbandono. Martino stabilì che le mura fossero riparate e che, se i cittadini che si erano trasferiti altrove non avessero restaurate le proprie abitazioni entro un anno, ne avrebbero perso la proprietà e l’universitas avrebbe potuto concederle gratuitamente a nuovi abitanti. Nel 1393 Martino decretò che la Terra et Castrum Montis Sancti Juliani fosse dichiarata in perpetuo demaniale.

Nel 1394 Guglielmo Peralta occupò proditoriamente Erice e altre città, impadronendosene. Gli ericini, resisi conto dell’inganno, cacciarono il Peralta con la forza, ottenendo dai sovrani Martino e Maria la conferma dei loro antichi privilegi e la conferma di nuovi.

Alla morte di Martino I di Sicilia nel 1409 gli successe il padre Martino il Vecchio, che morì l’anno successivo, senza eredi. Nel 1412, a seguito del Compromesso di Caspe venne scelto come sovrano della corona d'Aragona e re di Sicilia Ferdinando I d’Aragona: l’isola perdeva la sua indipendenza. Questo re concesse ad Erice due privilegi con cui si favoriva lo sviluppo e l’incremento dell’agricoltura. A Ferdinando successe il figlio Alfonso, che confermò i tali privilegi e ne concesse un altro, con cui stabiliva che Erice non potesse essere ceduta dal demanio, attribuendo agli ericini la facoltà, qualora si fosse contravvenuto a questo decreto, di ricorrere alle armi senza macchiarsi del delitto di fellonia.

Ad Alfonso successe Giovanni II d'Aragona e a quest’ultimo Ferdinando il Cattolico. Giovanni concesse ad Erice il diritto di costruire un porto nel golfo di Bonagia e Ferdinando confermò tale diritto.  

Morto Ferdinando II la Sicilia passò a suo nipote Carlo V d'Asburgo: la successione di Carlo al trono si accompagnò ad un’ondata di malessere che sfociò nella rivolta del 1516: a Palermo e in altre città dell’isola scoppiarono gravi tumulti. Ad Erice i cittadini si divisero in fazioni che vennero spesso alle armi. Carlo incaricò di sedare la rivolta il viceré di Sicilia Ettore Pignatelli il quale inviò ad Erice il barone di Castellammare che, giunto di notte alle porte della città, vi entrò di soppiatto con un manipolo di soldati: con l’aiuto dei regi ufficiali catturò cinque dei più sediziosi tumultuanti e li fece impiccare, emanando un bando di indulto per gli altri rivoltosi, purché si sottomettessero.

Nel 1535, in occasione della spedizione di Tunisi Erice sborsò 1000 onze per armare una galea. 

Nel 1555, per far fronte alle ingenti spese militari, Carlo V si risolse a vendere Erice con il suo vasto territorio: l’universitas, per impedire tale vendita, offrì all’erario 4000 scudi, impegnandosi ad esborsarne altri 2000 quando il sovrano ne avesse confermati gli antichi privilegi. Il governo accettò tale somma, confermò i privilegi e stabilì che da quel momento in poi Erice non si chiamasse più terra ma città, e che godesse di tutti i privilegi, immunità e franchigie di cui godevano tutte le altre città demaniali dell’isola.

Durante il regno di Filippo II d’Asburgo la piazza d'armi di Erice era presidiata da 1000 soldati, come risulta da varie ordinanze del viceré di Sicilia Carlo d'Aragona Tagliavia.

Nel 1599, regnando Filippo III d’Asburgo, scoppiò ad Erice una nuova sommossa popolare e due giurati vennero uccisi. Nel giugno 1624 Erice fu colpita dalla peste; il morbo durò nove mesi e ne morirono un migliaio di persone.

Nel 1645 Filippo IV d’Asburgo, perennemente bisognoso di denaro, decise di vendere Erice e il suo territorio ad un mercante fiorentino, tale Pandolfo Malagonelli, per la cifra di 22.000 scudi. L’universitas ottenne la facoltà di riscattarsi entro quaranta giorni mediante l’esborso di 14.000 scudi. Nel 1647, scongiurato il pericolo di diventare città feudale, ad Erice vennero confermati gli antichi diritti e privilegi.  

Con il trattato di Utrecht la corona di Sicilia fu consegnata a Vittorio Amedeo II di Savoia che nel 1714 nominò Annibale Maffei viceré. In questi anni l’universitas di Monte San Giuliano conobbe un periodo di grandi ristrettezze economiche, ai cittadini furono imposti nuovi balzelli e la produzione agricola risentì dell’alienazione di alcune terre del demanio per pagare i donativi ordinari: nonostante queste misure Erice rimase debitrice di alcune centinaia di onze.

A seguito della Guerra della Quadruplice Alleanza, conclusa con il Trattato dell’Aia, la Sicilia venne consegnata a Carlo VI d'Asburgo, che la tenne fino al 1734.

Nel 1735 Carlo di Borbone conquistò la Sicilia e il 3 luglio fu incoronato rex utriusque Siciliae nella Cattedrale di Palermo. Nel 1742, regnando Carlo di Borbone, Erice fu dichiarata città di comarca e città di consolato e, in occasione del censimento del 1748, il sovrano dichiarò estinto il suo grosso debito.

Il figlio Ferdinando di Borbone emanò nel 1789 un decreto con cui si ordinava di censire le terre patrimoniali delle singole universitates e assegnarle, contro il pagamento di piccole rate, ai coltivatori diretti. Tale decreto aveva esecuzione in Monte San Giuliano nel 1791, ma - prevalendo l’interesse privato su quello generale - non ebbe concreta applicazione.

Influenzati dalla propaganda rivoluzionaria - nel 1799 - gli artigiani di Monte San Giuliano, prendendo come pretesto il costo eccessivo dei beni di prima necessità, scatenarono un tumulto pretendendo di abbassare a loro arbitrii prezzi. Re Ferdinando spedì ad Erice il commissario Gabriele Lavaggi con il compito di riportare la città all’ordine. Questi non ebbe però equilibrio nel punire i colpevoli e, giunto in Monte San Giuliano il 29 gennaio 1800, condannava cinque dei principali rivoltosi all’ergastolo facendoli prima portare su degli asini per le vie della città, e altri a vari anni di reclusione.

Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo cominciarono le operazioni di frazionamento degli ex feudi in piccoli lotti e la distribuzione di essi ad assegnatari che avevano l'obbligo di trasferirsi dal capoluogo a San Vito Lo Capo e Custonaci, località fino a quel tempo assai scarsamente popolate. Nel corso di tale operazione non mancarono speculazioni e si manifestarono problemi legati dell'incapacità degli assegnatari a gestire il proprio lotto, alla mancanza di capitali, alla sterilità del terreno.

Nonostante si stesse aprendo un periodo di lenta e graduale decadenza, Erice godeva ancora nei primi anni del XIX secolo di un certo prestigio. Vi risiedevano numerose famiglie patrizie di antica nobiltà; il suo magistrato urbano occupava il posto ventinovesimo nel Parlamento siciliano; vi era una Corte di giustizia civile e una penale; possedeva un contado molto vasto, all’interno del quale erano le tre illustri baronie di Baida, Inici e Arcodaci; ad Erice si tenevano due grandi mercati annuali: uno presso il duomo, in occasione della festa dell’Assunta, l’altro presso la chiesa di sant’Orsola, per la festa della Visitazione; vi era un Collegio degli Studi con otto cattedre; vi era un ospedale per gli infermi presso la chiesa di san Francesco di Paola e uno per i pellegrini nella chiesa di san Giovanni.

La Sicilia, anticamente suddivisa in valli, fu divisa con un decreto del 14 ottobre 1817 in sette province, suddivise in distretti, e questi in circondari e comuni. Le antiche istituzioni vennero abolite. Posto in vigore il 1º settembre 1819, il nuovo Codice introdusse a Monte San Giuliano un conciliatore e un giudice di circondario, rendendola in ogni cosa dipendente da Trapani, capoluogo dell’omonima provincia.

Nella seconda metà del XIX secolo Erice era molto decaduta; parecchie famiglie si trasferirono a Trapani o altrove; nel 1846 parte del suo contado - ossia Baida e Inici - venne assegnato a Castellammare del Golfo e un’ampia fascia della popolazione si trasferì nelle campagne e nei villaggi dell’agro ericino.

Nel maggio 1860, Erice contribuì alla vittoriosa spedizione dei Mille inviando a Giuseppe Garibaldi un contingente di 875 uomini sotto il comando di Giuseppe Coppola.

In seguito all'Unità d'Italia alla popolazione ericina, e a quella siciliana in generale, furono imposte le scelte politiche del governo piemontese, tra cui una pesante pressione fiscale e la leva militare obbligatoria.

Nel primo dopoguerra le elezioni amministrative videro la vittoria dei socialisti e l'elezione del sindaco Sebastiano Bonfiglio che dovette muoversi in un contesto politico caratterizzato da profonde divisioni ideologiche e tensioni sociali, rimanendo vittima di sicari prezzolati il 10 giugno 1922.

Il 26 agosto dello stesso anno, nella chiesa di s. Alberto dei Bianchi gremita di fascisti e simpatizzanti, veniva costituita la sezione locale del partito fascista e nominato il direttorio provvisorio. Le direttive date dal direttorio trapanese erano chiare: nessuna tregua nel contrastare i socialisti. Così, la seconda domenica di settembre, i fascisti ericini impedirono che il corteo socialista giunto a Erice dalla borgata di san Marco - alla testa del quale erano il sindaco, la giunta e i consiglieri - esponesse al balcone del municipio la bandiera rossa; e a dicembre irruppero nella casa comunale costringendo il vicesindaco a consegnare loro la chiavi del municipio, che furono date al comandante dei carabinieri. Il governo nominò commissario regio il capitano Giuseppe Pellegrino.

Nel 1934, anno dell’ultimo censimento prima della seconda guerra mondiale, Erice contava globalmente 35000 abitanti, di cui 3000 nel capoluogo. La maggior parte della popolazione risiedeva stabilmente ormai nei numerosi centri agricoli facenti capo a San Vito lo Capo, Custonaci, Buseto Palizzolo e Valderice. In quell’anno la denominazione di Monte San Giuliano fu definitivamente abbandonata e venne ripristinato l’antico nome di Erice.

Nel dopoguerra, costituitisi i comuni autonomi di Valderice, Custonaci, Buseto Palizzolo e San Vito Lo Capo, la cittadina di Erice, esaurita la sua antica funzione storica che la rendeva unico centro aggregante della popolazione dell'agro ericino, per il suo clima salubre e il suo ricco patrimonio artistico ha conosciuto una nuova vocazione come centro culturale e turistico.

Dal 1963 è sede del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, istituito per iniziativa del professor Antonino Zichichi, che richiama gli studiosi più qualificati del mondo per la trattazione scientifica di problemi che interessano diversi settori: dalla medicina al diritto, dalla storia all'astronomia, dalla filologia alla chimica. Per questo alla cittadina è stato attribuito l'appellativo "città della scienza".

Dal 1972 l'ex convento di s. Carlo fu sede della Associazione Artistica Culturale La Salerniana, fondata dal poeta Giacomo Tranchida, che conservava opere di Carla Accardi, Gianni Asdrubali, Pietro Consagra, Antonio Sanfilippo, Emilio Tadini tra gli altri, e dove furono organizzate mostre d'arte contemporanea curate da critici di rilievo come Palma Bucarelli, Achille Bonito Oliva, Luciano Caramel e Giulio Carlo Argan.

Mura ciclopiche

Le antiche mura, in pietra calcarea, furono originariamente edificate sul lato Nord-Est del sito, nell’VIII sec. a.C. dagli Elimi, popolazione di origine incerta; successivamente, nel VI sec. a.C.,  furono rinforzate dai Punici e, dopo rifacimenti di epoca romana, furono completate dai Normanni.

I resti si sviluppano lungo un percorso di circa 700 metri e si adattano al diverso rilievo del terreno (dai 682 m ai 729 m s.l.m.).

A causa delle gigantesche dimensioni   vengono  definite “ciclopiche”; lo storico greco Diodoro Siculo, inoltre, ha indicato Dedalo come primo costruttore.

Le mura erano dotate di torri di avvistamento, di un camminamento cui si accedeva con ripide scalette e di piccole aperture, denominate postierle. Per le loro gigantesche dimensioni le mura vengono denominate «ciclopiche». Lungo la cortina muraria, utilizzata come struttura difensiva fino a tutto il Medioevo, sono attualmente visibili: 16 torri quadrangolari, 5 porte e 8 postierle. Sui notevoli blocchi calcarei di epoca elima, lasciati allo stato naturale per fare da base, poggiano filari di conci ben squadrati e simili tra loro del periodo fenicio-punico. Nei livelli superiori la costruzione continua con altri filari medievali dall’andamento orizzontale, costituiti da piccole pietre di forma irregolare, tenute insieme da malta e zeppe in pietra verticali. 

Lungo la cortina  muraria sono attualmente visibili:

-16 torri quadrangolari (inizialmente ve ne erano 25) collegate con robuste cortine intermedie, dalla lunghezza media di 45 metri  e di 2,30 metri circa di spessore;

– 3 porte denominate Trapani, Carmine e Spada;

– 6 postierle.

La postierla è un varco discreto, poco evidente perché camuffato o disimpegnato in qualche modo. Uscita sicura in caso di attacchi nemici o per il passaggio degli abitanti e il trasporto dei viveri. Delle otto, ci arrivano meglio conservate quelle più antiche sovrapposte da grosse architravi monolitiche, mentre le altre sono sormontate da falsi archi. 

Le postierle sono aperte perpendicolarmente nello spessore della cortina e si trovano in uno stato di conservazione diverso l’una dall’altra. Due mancano della copertura e di alcuni blocchi degli stipiti, mentre le altre hanno mantenuto la parte superiore pur essendo state ripristinate in diverse epoche. 

La postierla ubicata in via Rabatà, nei pressi di Porta Carmine, presenta un architrave monolitica in prossimità dell’uscita verso l’esterno. Il grosso blocco che costituisce l’architrave, presenta il margine inferiore rettilineo, mentre quello superiore è sagomato seguendo una forma convessa. Su alcuni massi che compongono la postierla sono presenti alcuni simboli punici. 

In prossimità di alcune postierle si trovano incise le lettere dell’alfabeto punico:

“beth” che equivale a “casa”

“ain” che significa “occhio”

“phe” che significa “bocca”.

Queste lettere potrebbero racchiudere il significato di: “Le mura hanno occhi per vedere il nemico, bocca per mangiarselo in caso di aggressione e sono la casa sicura per gli abitanti”. La presenza di tali lettere conferma, dal punto di vista cronologico, l’intervento fenicio.

I numerosi ripristini e rifacimenti di epoca romana e medievale, caratterizzati dalle piccole dimensioni del materiale di utilizzo, hanno alterato l’aspetto originario delle mura oltre quello delle tre porte d’ingresso alla città. In origine erano cinque. Porta Cappuccini è stata demolita nel 1811 durante i lavori di costruzione della strada per Trapani. Di Porta Castellammare rimangono i ruderi.

PORTA TRAPANI è così chiamata perché ubicata di fronte alla città di Trapani. E’ attribuita al periodo medievale dallo schema a tenaglia sulla quale si apre, tipica caratteristica delle fortificazioni del tempo. Si configura con un arco ogivale ed è incassata tra due robusti bastioni. All’interno della porta è collocata una cappelletta con la statua lignea di San Cristoforo con Gesù bambino. In basso si trova un’incisione sul marmo relativa ad una richiesta d’indulgenza. 

PORTA SPADA è situata a nord, il suo nome deriva da «Patula» spada. La tradizione popolare ricorda che qui, nel 1282, è accaduto l’eccidio dei francesi durante la Guerra del Vespro Siciliano. Questa ipotesi non è comprovata da nessun documento. Dalla parte esterna della cortina muraria è possibile leggere le tre fasi costruttive, con gli enormi macigni nella parte inferiore, le così dette mura ciclopiche. 

PORTA CARMINE è posizionata nella piazza antistante la Chiesa del Carmine, è sovrastata da una grande nicchia recante la statua acefala in calcare di S. Alberto. Sulla torre a sinistra si trova una lapide murata posta nella ricorrenza del bimillenario del poeta Virgilio. Ricorda l’incontro fra Enea ed Aceste, re di Erice e i ludi in memoria di Anchise narrati nel mitico scenario di questi luoghi nel III e V libro dell’Eneide. 

PORTA CASTELLAMMARE, scoperta durante gli scavi del 2010/2011, è così chiamata perché localizzata lungo la via che guarda nella direzione di Castellammare, a levante. Si trova ad una quota più bassa di 35 metri e svolgeva un ruolo di controllo sulla piana sottostante, dove vi era il porto di Erice. Questo settore doveva essere molto protetto perché, in relazione alla sua pendenza, consentiva l’accesso facilitato al monte e di conseguenza alla città. 

Castello di Venere

Il castello di Venere è un castello di fattura normanna del XII secolo che sorge su una rupe isolata nell'angolo sud-orientale della vetta del Monte Erice. Al suo fianco vi sono le Torri del Balio.

Lo vediamo dominare il panorama quasi volesse impressionare anche il cielo e dall’alto scrutare fiero l’orizzonte, ma bisogna ricordare che prima di esso in quello stesso posto sorgeva un santuario a cielo aperto dedicato a Venere Ericina/Afrodite, il thémenos. A farlo erigere fu Erice, fondatore della città e figlio di Bute e della dea: in tale periodo, a quanto si racconta, nel thémenos i marinai viandanti erano soliti congiungersi carnalmente con le sacerdotesse del tempio (le jeròdulai) in una sorta di amplesso in qualche modo correlato a riti sacri. Si dice che questo luogo di piacere pagano sia crollato proprio nel giorno della nascita di Gesù, ma si sente altresì dire che a distruggere il tempio fu Costantino

Il tempio stesso era circondato da fortificazioni, in modo da costituire una cittadella, ben distinta dalla città sottostante. Nell’alto medioevo gran parte dei resti del santuario erano andati perduti, e nell’area venne edificata una piccola chiesa dedicata a Santa Maria della Neve, in concomitanza con la costruzione del castello da parte dei Normanni (fine XI-XII sec.).

La fortezza fu chiamata appunto Castello di Venere; una piccola parte delle costruzioni è tutto ciò che resta dell'antico edificio, ma alcune colonne di granito fine, ancora esistenti in altre parti della città, sono senza dubbio appartenute originariamente al tempio. Per la costruzione furono utilizzati anche frammenti dell'antichissimo santuario, e del tempio di epoca romana.

La fortezza fu "piazza reale" per i viceré aragonesi fino al XVI secolo. Con i Borbone divenne carcere. Nei primi decenni del XIX secolo passò al comune, che alla fine del secolo lo diede in concessione al conte Agostino Pepoli in cambio di un restauro. Furono effettuati degli scavi archeologici alla ricerca del tempio dal Cultrera nel 1934-36. Gran parte dei ritrovamenti sono conservati al conservata nel Museo Pepoli di Trapani.

I Normanni contribuirono sensibilmente a dare forma e contenuto nel XII secolo a un edificio recante molto del materiale recuperato dalle rovine del tempio, cosicché nel Medioevo il fortilizio ricopriva il ruolo di sede amministrativa e dimora tra gli altri del Castellano, figura chiave per le dinamiche legislative, l’esattorato e la giustizia civile. Fino al XVI secolo la struttura venne utilizzata come presidio militare spagnolo e passò al comune soltanto in concomitanza con la riforma borbonica, e cioè nel 1819. 

Erice nell'antichissimo santuario, il culto della divinità femminile della fecondità assunse, con il passare dei secoli e dei popoli, nomi diversi. Prima il culto fenicio della dea Astarte, adorata dagli ElimiDiodoro Siculo scrisse che "Erice", figlio di Bute e di Afrodite stessa, aveva eretto il tempio dedicato alla propria madre e fondato la città. Poi narra l'arrivo di Liparo, figlio di Ausonio, alle Isole Eolie, aggiungendo che i Sicani "abitavano le alte vette dei monti e adoravano Venere Ericina". Fu saccheggiato da Amilcare Barca.

Il castello era collegato al resto della vetta da un ponte levatoio, successivamente sostituito dall'attuale gradinata. La facciata del castello, volta ad occidente, è sovrastata da merli ghibellini, e il muro del complesso segue, con rientranze e sporgenze il contorno della rupe. È osservabile l'imboccatura di una galleria segreta, che era sotterranea rispetto agli edifici scomparsi e conduceva fuori dal castello. Nella ripida parete rocciosa, a tramontana, si innalza un muro, attribuito a Dedalo, composto di dodici filari orizzontali di pietre pulitamente squadrate e sovrapposte ad opus rectum.

La Rocca, così come la si vede oggi, è naturalmente il frutto di una riqualificazione voluta dal colto mecenate Agostino Pepoli, il quale nell’Ottocento non si accontentò di far risuscitare le Torri del Balio e l’intera cortina merlata perimetrale realizzando peraltro il giardino pubblico interno in stile inglese, ma pensò più in grande restituendo tutta l’area d’insorgenza all’antico splendore, inserendo poi un nuovo elemento posizionato a nord-ovest della rupe, ovvero la Torretta Pepoli, divenuto un "Osservatorio della Pace". Seguirono scavi archeologici per svelare il tracciato del vecchio fossato e ritrovare i resti del santuario, reperti conservati nel Museo Pepoli presso Trapani.

Piacevole scoperta è costituita dal Pozzo di Venere, una cisterna scavata nella roccia per raccogliere l’acqua: il suo nome deriva dal fatto che, secondo il mito, qui usava farsi il bagno nientemeno che la dea Venere, una credenza che infonde un’affascinante suggestione agli avventori.

Gli scavi hanno fatto emergere inoltre un’area termale d’epoca romana, cui erano connessi il calidarium, un pavimento a mosaico in tessere bianche e il prefurnium, interessante perché esso rappresentava l’ambiente ove si produceva l’aria calda atta a investire le terme. Il motivo dell’ubicazione di un’antica “spa” in prossimità del santuario è frutto di una deduzione, secondo la quale essa doveva fungere da anticamera di purificazione prima dell’accesso al tempio.

Nella parte nord-orientale della rocca s’intravede un breve tratto murario in blocchi squadrati lungo 7 metri e alto 4,80. Anche in tal caso le ipotesi si sprecano e la più accreditata lo indica come segmento sopravvissuto dell’antico muro di Dedalo, citato da Diodoro Siculo come autore di una barriera di contenimento realizzata per evitare che le case circostanti il tempio cadessero nel precipizio per quanto alto era lo sperone di roccia.  

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