Castello
Svevo
Il
nome della città proviene dal titolo imperiale di "Augusto" di
Federico II di Svevia, l'imperatore, poeta quando nel 1232 la fondò,
sfruttando la deportazione dei cittadini di Centuripe e Montalbano Elicona.
Federico II, dopo aver visitato la zona circostante, pensò che quello fosse
il luogo adatto per erigere una fortezza che dominasse dall'alto il mare e
la terra. ll castello sorge sulla parte settentrionale dell'isola che ospita
Augusta.
L'aspetto
originario del castello, circondato dalle imponenti opere bastionate del XVI
e XVII secolo, appare fortemente alterato dalle numerose e profonde
trasformazioni e modifiche subite all'esterno e all'interno dal complesso
nel corso dei secoli, fino alla recente utilizzazione carceraria cui si deve
la sopraelevazione e la copertura complessiva delle ali edilizie con grandi
spioventi di tegole. A pianta quadrata di m. 62 di lato con spessore delle
murature di m. 2,60 e con ambienti che si dispongono attorno a un vasto
cortile centrale, lungo il quale si disponevano tre ali edilizie parallele
alle mura perimetrali per tutta la loro lunghezza sui lati nord, est ed
ovest.
Tre
torri angolari a pianta quadrata si ergono a nord-ovest, sud-ovest, sud-est;
la torre di sud-ovest è stata inglobata e chiusa dalle modifiche dovute
alla utilizzazione carceraria del complesso; quella di nord-est, in origine
esistente, è andata distrutta. Due torri di cortina rettangolari aggettano
a metà dei lati ovest ed est. A metà del lato sud, a difesa dell'ingresso
al castello, si erge un torrione attualmente a pianta pentagonale (lato
centrale m. 5,70; lati minori m. 4,60; lati mediani m. 5; larghezza
complessiva m. 12,30): si imposta su base a scarpa (fortemente interrata) e presenta
un bellissimo paramento bugnato. Secondo le ultime ricerche il torrione era
in origine un mastio ottagonale costruito quindi a cavallo del muro di cinta
sul lato meridionale del castello; la sua attuale altezza è quasi
certamente di molto inferiore a quella originaria e si deve, probabilmente,
ad un intervento di cimatura cinquecentesco.
La
costruzione del torrione è invece coeva a quella del castello. Un'altra
torre mediana, rettangolare, doveva ergersi sulla cortina settentrionale, in
corrispondenza del torrione poligonale. Dall'ingresso, che si apre a ovest
del torrione, si accede all'ampio cortile interno di perimetro rettangolare
(m. 26 a nord e sud, m. 32 a ovest ed est), fiancheggiato lungo i lati est,
nord e ovest da un portico ad arcature ogivali, pilastri e volte a crociera
costolonate. Il portico era aperto fino alla metà del '600; attualmente
risulta completamente libera solo la nave del lato ovest che presenta nove
campate scompartite da archi acuti e caratterizzate da costoloni ad angolo
abbattuto: archi e costoloni scaricano sulle mura perimetrali a mezzo di capitelli
a goccia con abaco a profilo di semiottagono.
La
data di costruzione di questo portico non è del tutto certa: potrebbe
essere coevo all'impianto originario ma anche successivo di qualche
decennio, risalendo quindi ad età angioina o al '300.

Sopra
il portico incombono attualmente i piani delle celle che risalgono
all'adattamento a penitenziario del 1890 e le coperture a spiovente, di
recente restaurate. E' però probabile che un piano superiore fosse previsto
fin dal progetto originario, si presume infatti che esso esistesse almeno
fin dal XIV secolo, quando è attestata l'utilizzazione residenziale del
castello. Si era inoltre ipotizzata l'esistenza di un piano superiore
medioevale ed il suo abbattimento in epoca spagnola, per adeguare il
castello alle nuove esigenze dettate dall'uso dell'artiglieria. Nell'ala
edilizia occidentale, al piano terreno, si può in parte ammirare la
configurazione interna originaria dell'edificio svevo: si tratta di una
lunga navata, suddivisa in sette crociere a base quadrata di m. 7,40 di
lato, compartite da grossi archi ogivali alla cui imposta è una cornice
bianca a profilo di semiottagono da cui si dipartono anche i robusti
costoloni ad angoli abbattuti dalle volte.
Per
un lungo periodo il Castello è stato utilizzato come carcere. La
costruzione, più volte ampliata e rimaneggiata, purtroppo, oggi si presenta
al pubblico in un pessimo stato di conservazione tanto da impedire la visita
di uno dei maggiori colossi architettonici svevi.
Tra
gli altri edifici difensivi cittadini ricordiamo il Forte Avalon, il Forte
Garcia e quello Vittoria edificati nel corso del 1500. L'ingresso della
cittadella è segnato dalla Porta Spagnola, una costruzione risalente al
1681, chiusa da due imponenti bastioni. La città vecchia è tagliata da
nord a sud dal commerciale corso Principe Umberto.

Porta
Spagnola
Correva
l’anno 1681. I conquistatori spagnoli tenevano saldo il potere in Sicilia.
Nell’Isola a rappresentare il re “cattolicissimo” Carlo II era il
conte Francesco di Benavides, uno di quei nobili carichi di titoli che
potevano aspirare a svolgere la funzione di viceré. Benavides, nel 1680,
vide bene di persona in quale stato miserando era ridotta Augusta,
dopo circa un triennio di occupazione francese (agosto 1675-marzo
1678), e decise di porre riparo alla situazione , provvedendo
specialmente a un nuovo sistema difensivo. Già all’epoca, il
viceré stimava il porto di Augusta come uno dei più importanti dei
domini reali spagnoli e, quindi, era necessario provvedere alla sua difesa.
Per la tutela della città e del suo porto, Benavides incaricò Carlos De
Grunembergh, un nobile di chiara fama come ingegnere.
De
Grunembergh apportò molte migliorie alle fortificazioni esistenti e
progettò due monumentali porte di terra: della prima, detta del
Rivellino o Quintana (dal nome di un consigliere del viceré, che diresse i
lavori) rimangono parte dello stipite sinistro e la colonna
tortile,che ricorda, cioè, una spirale, che aveva funzione eminentemente
decorativa; la seconda è rimasta praticamente integra, sopravvissuta
alla voracità del tempo e a quella degli uomini: è l’arco, sotto cui,
fino a vent’anni fa, era obbligatorio passare per entrare in Augusta. E’
la Porta Spagnola, simbolo riconosciuto di Augusta, come il teatro greco lo
è di Siracusa e la statua dell’elefante di Catania.

Fin a
quando ha avuto vita la Banca popolare di Augusta (oggi di proprietà della
Banca agricola popolare di Ragusa), il profilo della Porta Spagnola era
riprodotto sugli assegni e sulle copertine dei bilanci dell’istituto
di credito, come segno distintivo per indicare l’indissolubile
nesso tra banca e città, dov’era nata alla fine dell’Ottocento.
Nel 1681, dunque, la monumentale porta, progettata da De Grunembergh,
fu portata a termine con piena soddisfazione degli augustani che
si sentivano più sicuri, più protetti da ben tre porte (della
prima, quella più vicina al centro abitato, denominata Porta Madre di Dio,
non sono visibili resti), ma, soprattutto, con il legittimo orgoglio del
fedele viceré spagnolo , in onore del quale fu incisa la seguente
epigrafe in latino:
D.O.M.
CAROLO II HISPANIARVM AC SICILIAE REGE IMPERANTE DON FRANCISCVS BENAVIDES
COMES SANTISTEVAN SICILIAE PROREX IN TANTI PORTVS LITORE MVNIENDO NON SOLVM
SICILIAE SED TOTIVS ITALIAE ET CHRISTIANI NOMINIS INCOLVMITATI CONSVLERE
EXISTIMAVIT ANNO M DC XXCI.
L’acronimo
D.O.M. sta per a Dio Ottimo Massimo e immediatamente richiama alla
memoria un’analoga iscrizione romana, laddove in luogo di Dio si deve
leggere Giove. L’epigrafe riferisce che:
REGNANDO
CARLO II IN SPAGNA E IN SICILIA, DON FRANCESCO BENAVIDES, CONTE DI
SANTOSTEFANO E VICERE’ DI SICILIA, NEL FORTIFICARE IL LITORALE DI UN
COSI’ GRANDE PORTO, STIMO’ DI PROVVEDERE ALLA SALVEZZA NON SOLO
DELLA SICILIA, MA DELL’ITALIA INTERA E DELLA CRISTIANITA’ (1681).
Dopo
gl’interventi di pulitura e di restauro, portati a termine qualche anno
fa, sotto la tutela della soprintendente Mariella Muti, l’epigrafe è oggi
maggiormente leggibile nella lapide marmorea murata sopra un
mascherone posto in rilievo nella chiave dell’arco e sotto l’enorme
scudo regio di Carlo II. Questo stemma imperiale, collocato al vertice
della Porta Spagnola è sostenuto ai lati da due grifoni e
circondato dal collare del prestigioso ordine cavalleresco spagnolo
del Toson d’oro, conferito ai nobili che erano in grado di difendere
la chiesa cattolica e garantire sicurezza alla cosa pubblica Del Toson
d’oro si sono fregiati gli Asburgo d’Austria e di Spagna e Carlo II è
stato proprio l’ultimo Asburgo a regnare in Spagna.
In
posizione decisamente inferiore, ma posti al di sopra dei pilastri
laterali della Porta gli stemmi nobiliari del viceré Benavides che
sovrastano due altri mascheroni, di dimensioni inferiori a quello centrale.
Megara
Hyblaea
Megara
Hyblaea è il nome latino di Megara Iblea. Il primo nome di questa
colonia sarebbe stato Hybla Mikrà, ossia piccola Ibla (per
distinguerla dall'Ibla Maggiore e dall'Ibla Erea).
I Megaresi
dell'Ellade derivarono l'appellativo di "Iblea" perché la loro
polis, sorgendo nel territorio del re Iblone, si fece continuatrice del nome
siculo in segno di riconoscimento verso il sovrano autoctono che aveva loro
concesso la terra. Secondo lo storico Pausania invece l'origine del
nome Ibla a sua volta si riferirebbe all'omonima divinità
sicula.
In età
classica fu detta invece Mègara Hyblàia. Il nome Mègara deriva dal fatto
che i colonizzatori greci vollero perpetuare il nome della propria città d'origine,
in Attica.
Secondo
alcuni testi, quando Erodoto e Tucidide parlano di Hybla
Gheleàtis, ossia Ibla Geleate, si riferiscono sempre a Mègara Hyblàia,
come confermerebbe la notizia del bizantino Stefano che lega tale
popolazione agli indovini detti per l'appunto Galeoti; per altri invece
il nome Ibla Geleate sarebbe attribuibile ad una sub-colonia di Gela che
sorgeva nel territorio dell'attuale Piazza Armerina.
Quando la
città terminò la sua storia di colonia indipendente e passò sotto il
dominio romano, venne denominata in Latino Megara Hyblaea,
latinizzazione del termine greco usato in età classica. Oggi in Italiano il
termine con il quale la colonia è più conosciuta e citata nei testi di
Storia, nei vocabolari e nelle enciclopedie è Mègara Iblea.

Fu fondata
nel 728 a.C. da colonizzatori megaresi, i quali in
precedenza si erano insediati nei pressi di Trotilon (l'attuale Brucoli),
a Leontini ed a Thapsos.
Tucidide narra
che venne fondata da un gruppo di coloni guidati dall'ecista Lamis (greco
antico: Λάμις), proveniente da Megara Nisea. e
che morirà nella poco distante Thapsos. I coloni arrivarono nello
stesso periodo in cui fu fondata Leontini dai coloni calcidesi,
stabilendosi prima vicino alla foce del fiume Pantagias, in un luogo
chiamato Trotilon (l'odierna Brucoli). Da lì si stabilirono
a Leontini, dove vi abitarono insieme ai calcidesi; ma furono presto
espulsi, e successivamente si stabilirono sul promontorio o sulla penisola
di Thapsos, vicino a Siracusa. Dopo la morte di Lamis e, su
suggerimento di Hyblon, un capo dei siculi, si stabilirono nell'odierna
Hyblaean Megara. In segno di gratitudine la nuova città assunse anche
l'appellativo di Iblea.
Scimno di
Chio segue una tradizione diversa, in quanto descrive l'arrivo dei
calcidesi a Naxos e quella dei Megaresi a Hybla come
contemporanei, ma entrambi precedenti alla fondazione di Siracusa, nel 734
a.C. Anche Strabone adotta lo stesso punto di vista,
rappresentando Megara come fondata all'incirca nello stesso periodo di Naxos
(735 a.C.) e prima di Siracusa. È impossibile conciliare le due
datazioni, ma quella di Tucidide è probabilmente la più
affidabile. Quindi la fondazione di Megara potrebbe essere collocata intorno
al 726 a.C. La professoressa Miller, nella sua nuova ricerca nelle fonti
antiche ha notato le varie date di fondazione dal 758 a.C. (per Chronikon di Eusebio)
al 728 a.C. (dalle sue ricostruzioni delle date di Tucidide).
Della
storia successiva abbiamo scarse informazioni, sembrerebbe aver raggiunto
una condizione fiorente, in quanto 100 anni dopo la sua fondazione ha
fondato, la colonia di Selinunte nell'altra estremità della
Sicilia. Una polis destinata ad avere a un potere molto maggiore rispetto
alla sua città madre. Per il resto non è mai sembrata essere una città
di rilevante importanza e non ha mai tratto alcun vantaggio dalla sua
posizione.
Nulla è più
noto di Megara fino al periodo della sua distruzione da parte di Gelone
di Siracusa, intorno al 483 a.C., che, dopo un lungo assedio, divenne
padrone della città per capitolazione. Sembra che anche le sue mura furono
rase al suolo. Ma, nonostante ciò, fece sì che la maggior parte degli
abitanti venisse venduta in schiavitù, mentre stabilì i cittadini più
ricchi e nobili a Siracusa. Tra le persone giunte a Siracusa c'era il
celebre poeta comico Epicarmo, che aveva ricevuto la sua istruzione a
Megara, sebbene non fosse originario di quella città. Secondo
Tucidide, questo evento ebbe luogo 245 anni dopo la fondazione di Megara, e
potrebbe quindi essere collocato intorno al 483 a.C. La città quindi
viene in qualche modo collegata a quella evoluzione che portò il canto di
bisboccia (komos) ad evolversi in mimica farsesca fino a delineare un nuovo genere
letterario, la commedia greca.
È certo
che Megara non ha mai recuperato potere e indipendenza. Tucidide allude
distintamente ad essa come non esistente ai suoi tempi come città, ma
menziona ripetutamente la località, sulla costa del mare, che a quel tempo
era occupata dai siracusani seppur quasi del tutto disabitata, e il generale
ateniese Lamaco, durante la spedizione contro Siracusa (415–413
a.C.), propose di farne il quartier generale della loro flotta; il suo
consiglio non fu preso in considerazione e nella primavera successiva i
siracusani la fortificarono.
Da questo
momento ci incontriamo ripetutamente con menzione di un luogo chiamato
Megara o Megaris, che sembra impossibile separare da Hybla, ed è probabile
che le due fossero, in effetti, identiche. Il sito di questa Megara o Hybla
in seguito potrebbe essere collocato, senza dubbio, alla foce del fiume
Alabo (la moderna Cantera); ma sembra che ci siano molte ragioni per
supporre che l'antica città, l'originale colonia greca, fosse situata
vicino al promontorio ora occupato dalla città di Augusta. È
difficile credere che questa posizione, il cui porto sia almeno uguale a
quello di Siracusa, mentre la stessa penisola aveva gli stessi vantaggi di
quella di Ortigia e avrebbe dovuto essere del tutto trascurata nei
tempi antichi; mentre tale località sarebbe servita agli scopi per i quali
Lamaco sollecitò i generali all'occupazione del sito vacante di Megara.
Venne in
seguito rifondata da Timoleonte che dopo la metà del IV secolo
decise di far venire in Sicilia nuovi coloni dalla Grecia promettendo loro
case e campi. Nel III sec. a.C. faceva parte del regno di Gerone II.
Nel corso
della seconda guerra punica venne distrutta dalle truppe del
console Marco Claudio Marcello che andava ad assediare Siracusa.
La città non venne mai più ricostruita ed in epoche successive soltanto
isolate fattorie si insediarono sul suo territorio.

Nel 1867 i
lavori di sbancamento per la costruzione della ferrovia
Catania-Siracusa tagliarono in due il sito archeologico nella parte
delle fortificazioni e in parte dell'abitato. Gli scavi condotti nel 1891
degli archeologi francesi Georges Vallet e François Villard
portarono alla scoperta della parte settentrionale della cinta muraria
nord-occidentale, che in parte serviva da terrapieno contro le alluvioni:
apparentemente era più evidente al tempo di Filippo Cluverio, di una
vasta necropoli, di cui sono state esplorate circa 1500 tombe, e di un
deposito di oggetti votivi da un tempio. La città era lambita a nord dal
porto ed aveva una necropoli contenente circa un migliaio di tombe.
La
necropoli nord venne in parte coperta durante la costruzione della raffineria
RASIOM nel 1949. Gli interventi della Soprintendenza di Siracusa
diretta da Bernabò Brea permisero il salvataggio di alcuni
reperti tra cui la famosa statua della Kourotrophos rinvenuta in pezzi
il 30 ottobre del 1952 e poi restaurata. Interventi decisi della
soprintendenza e dell'Ecole francaise permisero il salvataggio della parte
entro la cinta muraria ellenistica.
I numerosi
resti archeologici, tuttora visibili sul sito, sono frutto degli scavi
effettuati nell'immediato dopoguerra, grazie al grande contributo dei già
citati Vallet e Villard e degli archeologi italiani Luigi Bernabò Brea e Gino
Vinicio Gentili. La conservazione della sua struttura urbanistica originaria
è stata permessa dalla mancata urbanizzazione in epoca moderna.
A metà del
VII secolo, la città fu organizzata secondo un piano regolarizzato.
Un'agora emerse con stoa sui lati nord e est. Questa è una delle prime
agora conosciute.
Sul sito
sono ancora visibili: l'agorà con
i resti di due portici, i
bagni ellenistici, l'heroon, i resti delle mura di
cinta, i resti di un
tempio ellenistico, le
fondamenta di un tempio arcaico, il pritaneo, un'officina
metallurgica, i resti
di decine di case.

L'agorà ed i
portici - Oltrepassato
il cancello di ingresso, un sinuoso sentiero sterrato ci conduce attraverso
i campi (sotto i quali insistono ancora i resti dell'antica Megara da
scavare) fino all'inizio delle rovine. Un pannello esplicativo ci illustra
una pianta della città antica, poi la scaletta ci permette di scendere tra
le viuzze dell'antica cittadina greca fino a raggiungere un grande spiazzo
rettangolare. Si trattava dell'agorà, la piazza principale della città.
Dando un'occhiata ci accorgiamo che una sorta di "scalone" in
cemento taglia in due la piazza. Fu messo dagli archeologi per
distinguere le due fasi di vita della città: quella arcaica (fino al 484
a.C.) circa e quella ellenistica (dalla metà del IV sec. a.C. alla fine del
III sec. a.C.) Il livello del terreno più basso è quello che corrisponde
alla città arcaica. Quattro paletti rossi e un pannello ci permettono
anche di individuare le fondamenta di uno dei due porticati che abbellivano
la piazza. Una seconda stoà era perpendicolare a questa. Sulla
piazza vi sono anche resti di vari pozzi ed altari e si affacciano vari
edifici importanti. Subito di fronte al porticato nord troviamo ad esempio
l'ingresso del santuario ellenistico
Il
Santuario ellenistico - Il
santuario ellenistico è facilmente riconoscibile per la sua forma. Sulla
piazza si notano subito delle pietre disposte a formare un semicerchio che
poi danno all'ingresso di una stanza. Era la stanza di culto di questo
piccolo santuario di epoca ellenistica che poi continuava con diversi altri
ambienti ancora oggi visibili, tra cui una piccola fornace per cuocere la
ceramica votiva. La stanza principale doveva avere un ingresso monumentale,
come si deduce dai resti di modanature architettoniche ai lati
dell'ingresso. All'interno della stanza, si riconoscono ancora vari oggetti
che erano legati al culto: diversi bacili di pietra e terracotta per la
raccolta di liquidi e tre pietre laviche tondeggianti poste una accanto
all'altra. Purtroppo gli scavi non hanno permesso di identificare la divinità
a cui questo luogo era dedicato.
Il
tempietto ellenistico
- Dopo
il santuario, attraversiamo nuovamente la piazza e saliamo su una piccola
scaletta metallica, questa scavalca i resti di un secondo porticato, più
grande, la stoà di epoca ellenistica. Proseguendo, sulla sinistra si notano
i resti delle umili casette dei primi coloni: dei monolocali dotati di un
piccolo orto, come illustrato dai pannelli, sulla sinistra invece quanto
rimane di un tempietto costruito nel IV sec. a.C. Probabilmente si
trattava di uno degli edifici religiosi più belli dell'antica città ma
venne totalmente raso al suolo quando i romani, nel 214 a.C. conquistarono
la città. Secoli dopo la pietra venne utilizzata ancora per produrre della
calce. Rimangono sparsi numerosi resti architettonici come resti
dell'architrave, rocchi ri colonne, triglifi, che ci fanno capire la cura
che venne messa nel realizzare questo tempio ispirandosi ai più famosi
edifici della Grecia. Alcune delle bellissime modanature del tempio sono
oggi conservate al museo archeologico "Paolo Orsi" di Siracusa.
Le terme
ellenistiche e l'heroon - Ritornati
nell'agorà rimangono ancora da vedere alcuni edifici che si affacciano su
di essa. Prime fra tutti le terme. I Romani raggiunsero la perfezione in
questo campo ma già i Greci avevano i loro edifici adibiti a tale scopo. Le
stanze, piccole per non disperdere il calore, avevano un pavimento in
cocciopesto, cioè un impasto cementizio decorato con pietre e ceramica
bianca per renderlo più gradevole esteticamente. Restano anche visibili
parti dell'intonaco impermeabile che serviva a non far sfuggire il calore.
Questi bagni erano composti da diverse stanze. Delle canalette sul pavimento
assicuravano il deflusso dell'acqua sporca e tramite un forno era possibile
scaldare continuamente l'acqua che serviva. Poco distante dalle terme si
trovava l'heroon, un edificio di culto, dedicato appunto ad un eroe. Gli
archeologi l'hanno identificato come un luogo dedicato al culto dell'ecista,
il fondatore della città che gli scritti antichi ci dicono essere stato
Lamis.
Le
fortificazioni occidentali - Ci
su può a questo punto allontanare dalla piazza percorrendo la via che porta
verso ovestL Da li a poco si incontrano i resti delle mura della città. E'
ancora riconoscibile la porta occidentale con il suo fermo centrale ed i
battenti e le fortificazioni ad essa collegate. In realtà si tratta delle
fortificazioni dell'ultima fase di vita della città in quanto la Megara di
epoca ellenistica aveva dimensioni molto maggiori. I resti delle mura
arcaiche sono ancora visibili vicino alla necropoli. Le mura di epoca
ellenistica vennero invece costruite "in fretta e furia" nel 214
a.C. per difendere la città dall'imminente attacco romano. Prova ne è il
fatto che il materiale edile usato è costituito da blocchi recuperato
smontando altri edifici. Lungo le mura erano disposte varie torri di cui si
vedono ancora le tracce.
L'officina
metallurgica, la villa romana, il pritaneo
- Divertiamoci
a vagare ancora liberamente per la città, aiutandoci con i pannelli che ci
spiegano gli edifici di maggior rilievo oppure semplicemente andando ad
intuito e cercando di indovinare la funzione dei vari edifici. Potremmo così
incontrare i resti di un'officina metallurgica con tanto di banco di lavoro
fatto in pietra lavica oppure una villa romana con terme private ed il nome
del proprietario "Gnaiou Modiou" scritto in lettere greche a
mosaico sul pavimento. E ancora il pritaneo, un edifico di uso pubblico o i
resti del ginnasio per l'educazione dei giovani. Insomma un vero e proprio
tuffo nella storia, quello possibile in questa piccola Pompei.
La porta
a tenaglia
- Al
limite meridionale della città, troviamo i resti di una seconda porta,
strutturata in maniera diversa: si tratta di una porta a tenaglia. Questa
porta risulta più grande della precedente, era quella che immetteva sulla
strada per Siracusa. Sul lato sinistro tende ad allargarsi mentre lungo il
lato destro corre un lungo muro che culmina con una torre. Da qui gli
arcieri potevano tirare sul lato più indifeso dell'esercito attaccante
La
necropoli - Come
tutte le città greche, anche Megara Iblea aveva numerose necropoli che
circondavano la città. Una parte dei sarcofagi di pietra delle necropoli
sono ancora oggi conservati e visibili al limitare della zona archeologica.
Li, sotto i pini, una lunga fila di sepolcri. Accanto ad essi quanto rimane
delle mura delle città arcaiche che, come possiamo renderci conto, era
molto più estesa della città di epoca ellenistica, quando Megara faceva
ormai parte dei domini di Siracusa. Nella necropoli sono stati trovati
alcuni tra i più bei reperti visibili nel settore B del museo archeologico
Paolo Orsi di Siracusa: La Kourotrophos, una statua di una donna con due
bambini dallo stile indigeno e che venne soltanto miracolosamente salvata e
ricomposta dopo che un martello pneumatico la aveva distrutta. Altra
importante statua è il kouros di Megara, statua di giovinetto in marmo che
reca ancora una dedica in lettere greche scolpita sulla coscia.
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