Augusta
(Siracusa)

   

Castello Svevo

Il nome della città proviene dal titolo imperiale di "Augusto" di Federico II di Svevia, l'imperatore, poeta quando nel 1232 la fondò, sfruttando la deportazione dei cittadini di Centuripe e Montalbano Elicona. Federico II, dopo aver visitato la zona circostante, pensò che quello fosse il luogo adatto per erigere una fortezza che dominasse dall'alto il mare e la terra. ll castello sorge sulla parte settentrionale dell'isola che ospita Augusta. 

L'aspetto originario del castello, circondato dalle imponenti opere bastionate del XVI e XVII secolo, appare fortemente alterato dalle numerose e profonde trasformazioni e modifiche subite all'esterno e all'interno dal complesso nel corso dei secoli, fino alla recente utilizzazione carceraria cui si deve la sopraelevazione e la copertura complessiva delle ali edilizie con grandi spioventi di tegole. A pianta quadrata di m. 62 di lato con spessore delle murature di m. 2,60 e con ambienti che si dispongono attorno a un vasto cortile centrale, lungo il quale si disponevano tre ali edilizie parallele alle mura perimetrali per tutta la loro lunghezza sui lati nord, est ed ovest.

Tre torri angolari a pianta quadrata si ergono a nord-ovest, sud-ovest, sud-est; la torre di sud-ovest è stata inglobata e chiusa dalle modifiche dovute alla utilizzazione carceraria del complesso; quella di nord-est, in origine esistente, è andata distrutta. Due torri di cortina rettangolari aggettano a metà dei lati ovest ed est. A metà del lato sud, a difesa dell'ingresso al castello, si erge un torrione attualmente a pianta pentagonale (lato centrale m. 5,70; lati minori m. 4,60; lati mediani m. 5; larghezza complessiva m. 12,30): si imposta su base a scarpa (fortemente interrata) e presenta un bellissimo paramento bugnato. Secondo le ultime ricerche il torrione era in origine un mastio ottagonale costruito quindi a cavallo del muro di cinta sul lato meridionale del castello; la sua attuale altezza è quasi certamente di molto inferiore a quella originaria e si deve, probabilmente, ad un intervento di cimatura cinquecentesco. 

La costruzione del torrione è invece coeva a quella del castello. Un'altra torre mediana, rettangolare, doveva ergersi sulla cortina settentrionale, in corrispondenza del torrione poligonale. Dall'ingresso, che si apre a ovest del torrione, si accede all'ampio cortile interno di perimetro rettangolare (m. 26 a nord e sud, m. 32 a ovest ed est), fiancheggiato lungo i lati est, nord e ovest da un portico ad arcature ogivali, pilastri e volte a crociera costolonate. Il portico era aperto fino alla metà del '600; attualmente risulta completamente libera solo la nave del lato ovest che presenta nove campate scompartite da archi acuti e caratterizzate da costoloni ad angolo abbattuto: archi e costoloni scaricano sulle mura perimetrali a mezzo di capitelli a goccia con abaco a profilo di semiottagono.

La data di costruzione di questo portico non è del tutto certa: potrebbe essere coevo all'impianto originario ma anche successivo di qualche decennio, risalendo quindi ad età angioina o al '300.

Sopra il portico incombono attualmente i piani delle celle che risalgono all'adattamento a penitenziario del 1890 e le coperture a spiovente, di recente restaurate. E' però probabile che un piano superiore fosse previsto fin dal progetto originario, si presume infatti che esso esistesse almeno fin dal XIV secolo, quando è attestata l'utilizzazione residenziale del castello. Si era inoltre ipotizzata l'esistenza di un piano superiore medioevale ed il suo abbattimento in epoca spagnola, per adeguare il castello alle nuove esigenze dettate dall'uso dell'artiglieria. Nell'ala edilizia occidentale, al piano terreno, si può in parte ammirare la configurazione interna originaria dell'edificio svevo: si tratta di una lunga navata, suddivisa in sette crociere a base quadrata di m. 7,40 di lato, compartite da grossi archi ogivali alla cui imposta è una cornice bianca a profilo di semiottagono da cui si dipartono anche i robusti costoloni ad angoli abbattuti dalle volte.

Per un lungo periodo il Castello è stato utilizzato come carcere. La costruzione, più volte ampliata e rimaneggiata, purtroppo, oggi si presenta al pubblico in un pessimo stato di conservazione tanto da impedire la visita di uno dei maggiori colossi architettonici svevi.

Tra gli altri edifici difensivi cittadini ricordiamo il Forte Avalon, il Forte Garcia e quello Vittoria edificati nel corso del 1500. L'ingresso della cittadella è segnato dalla Porta Spagnola, una costruzione risalente al 1681, chiusa da due imponenti bastioni. La città vecchia è tagliata da nord a sud dal commerciale corso Principe Umberto.

Porta Spagnola

Correva l’anno 1681. I conquistatori spagnoli tenevano saldo il potere in Sicilia. Nell’Isola a rappresentare il re “cattolicissimo” Carlo II era il conte Francesco di Benavides, uno di quei nobili carichi di titoli che potevano aspirare a svolgere la funzione di viceré. Benavides, nel 1680, vide bene di persona in quale stato miserando era ridotta Augusta, dopo  circa un triennio di occupazione francese (agosto 1675-marzo 1678), e decise di porre riparo alla situazione , provvedendo specialmente  a un nuovo sistema difensivo. Già all’epoca, il viceré stimava  il porto di Augusta come uno dei più importanti dei domini reali spagnoli e, quindi, era necessario provvedere alla sua difesa. Per la tutela della città e del suo porto, Benavides incaricò Carlos De Grunembergh, un nobile di chiara fama come ingegnere. 

De Grunembergh apportò molte migliorie alle fortificazioni esistenti e progettò due monumentali porte di terra:  della prima, detta del Rivellino o Quintana (dal nome di un consigliere del viceré, che diresse i lavori)  rimangono  parte dello stipite sinistro e la colonna tortile,che ricorda, cioè, una spirale, che aveva funzione eminentemente decorativa; la seconda è rimasta praticamente integra,  sopravvissuta alla voracità del tempo e a quella degli uomini: è l’arco, sotto cui, fino a vent’anni fa, era obbligatorio passare per entrare in Augusta. E’ la Porta Spagnola, simbolo riconosciuto di Augusta, come il teatro greco lo è di Siracusa e la statua dell’elefante di Catania. 

Fin a quando ha avuto vita la Banca popolare di Augusta (oggi di proprietà della Banca agricola popolare di Ragusa), il profilo della Porta Spagnola era riprodotto sugli assegni  e sulle copertine dei bilanci dell’istituto di credito,  come  segno distintivo per indicare l’indissolubile nesso tra banca e città, dov’era nata alla fine dell’Ottocento.  Nel 1681, dunque, la monumentale porta, progettata da De Grunembergh,  fu portata a termine con  piena  soddisfazione degli augustani che si sentivano più sicuri,  più protetti da ben tre porte  (della prima, quella più vicina al centro abitato, denominata Porta Madre di Dio, non sono visibili resti), ma, soprattutto, con il legittimo orgoglio del fedele  viceré spagnolo , in onore del quale fu incisa la seguente epigrafe in latino:

D.O.M. CAROLO II HISPANIARVM AC SICILIAE REGE IMPERANTE DON FRANCISCVS BENAVIDES COMES SANTISTEVAN SICILIAE PROREX IN TANTI PORTVS LITORE MVNIENDO NON SOLVM SICILIAE SED TOTIVS ITALIAE ET CHRISTIANI NOMINIS INCOLVMITATI CONSVLERE EXISTIMAVIT ANNO M DC XXCI.

L’acronimo D.O.M. sta per a Dio Ottimo Massimo  e immediatamente richiama alla memoria un’analoga iscrizione romana, laddove in luogo di Dio si deve leggere Giove.  L’epigrafe riferisce che:

REGNANDO CARLO II IN SPAGNA E IN SICILIA,  DON FRANCESCO BENAVIDES, CONTE DI SANTOSTEFANO E VICERE’ DI SICILIA, NEL FORTIFICARE IL LITORALE DI UN COSI’ GRANDE PORTO, STIMO’ DI PROVVEDERE  ALLA SALVEZZA NON SOLO DELLA SICILIA, MA DELL’ITALIA INTERA  E DELLA CRISTIANITA’ (1681).

Dopo gl’interventi di pulitura e di restauro, portati a termine qualche anno fa, sotto la tutela della soprintendente Mariella Muti, l’epigrafe è oggi maggiormente leggibile nella lapide marmorea  murata sopra un mascherone posto in rilievo nella chiave dell’arco e sotto l’enorme scudo regio di Carlo II.  Questo stemma imperiale, collocato al vertice della Porta Spagnola  è sostenuto ai lati da due grifoni  e circondato dal collare del prestigioso ordine cavalleresco  spagnolo del Toson d’oro, conferito  ai nobili che erano in grado di difendere la chiesa cattolica e garantire sicurezza alla cosa pubblica Del Toson d’oro si sono fregiati gli Asburgo d’Austria e di Spagna e Carlo II è stato proprio l’ultimo Asburgo a regnare in Spagna.

In posizione decisamente inferiore, ma posti  al di sopra dei pilastri laterali  della Porta gli stemmi nobiliari del viceré Benavides che sovrastano due altri mascheroni, di dimensioni inferiori a quello centrale.

 

Megara Hyblaea

Megara Hyblaea è il nome latino di Megara Iblea. Il primo nome di questa colonia sarebbe stato Hybla Mikrà, ossia piccola Ibla (per distinguerla dall'Ibla Maggiore e dall'Ibla Erea).

I Megaresi dell'Ellade derivarono l'appellativo di "Iblea" perché la loro polis, sorgendo nel territorio del re Iblone, si fece continuatrice del nome siculo in segno di riconoscimento verso il sovrano autoctono che aveva loro concesso la terra. Secondo lo storico Pausania invece l'origine del nome Ibla a sua volta si riferirebbe all'omonima divinità sicula.

In età classica fu detta invece Mègara Hyblàia. Il nome Mègara deriva dal fatto che i colonizzatori greci vollero perpetuare il nome della propria città d'origine, in Attica.

Secondo alcuni testi, quando Erodoto e Tucidide parlano di Hybla Gheleàtis, ossia Ibla Geleate, si riferiscono sempre a Mègara Hyblàia, come confermerebbe la notizia del bizantino Stefano che lega tale popolazione agli indovini detti per l'appunto Galeoti; per altri invece il nome Ibla Geleate sarebbe attribuibile ad una sub-colonia di Gela che sorgeva nel territorio dell'attuale Piazza Armerina.

Quando la città terminò la sua storia di colonia indipendente e passò sotto il dominio romano, venne denominata in Latino Megara Hyblaea, latinizzazione del termine greco usato in età classica. Oggi in Italiano il termine con il quale la colonia è più conosciuta e citata nei testi di Storia, nei vocabolari e nelle enciclopedie è Mègara Iblea.

Fu fondata nel 728 a.C. da colonizzatori megaresi, i quali in precedenza si erano insediati nei pressi di Trotilon (l'attuale Brucoli), a Leontini ed a Thapsos.

Tucidide narra che venne fondata da un gruppo di coloni guidati dall'ecista Lamis (greco antico: Λάμις), proveniente da Megara Nisea. e che morirà nella poco distante Thapsos. I coloni arrivarono nello stesso periodo in cui fu fondata Leontini dai coloni calcidesi, stabilendosi prima vicino alla foce del fiume Pantagias, in un luogo chiamato Trotilon (l'odierna Brucoli). Da lì si stabilirono a Leontini, dove vi abitarono insieme ai calcidesi; ma furono presto espulsi, e successivamente si stabilirono sul promontorio o sulla penisola di Thapsos, vicino a Siracusa. Dopo la morte di Lamis e, su suggerimento di Hyblon, un capo dei siculi, si stabilirono nell'odierna Hyblaean Megara. In segno di gratitudine la nuova città assunse anche l'appellativo di Iblea.

Scimno di Chio segue una tradizione diversa, in quanto descrive l'arrivo dei calcidesi a Naxos e quella dei Megaresi a Hybla come contemporanei, ma entrambi precedenti alla fondazione di Siracusa, nel 734 a.C. Anche Strabone adotta lo stesso punto di vista, rappresentando Megara come fondata all'incirca nello stesso periodo di Naxos (735 a.C.) e prima di Siracusa. È impossibile conciliare le due datazioni, ma quella di Tucidide è probabilmente la più affidabile. Quindi la fondazione di Megara potrebbe essere collocata intorno al 726 a.C. La professoressa Miller, nella sua nuova ricerca nelle fonti antiche ha notato le varie date di fondazione dal 758 a.C. (per Chronikon di Eusebio) al 728 a.C. (dalle sue ricostruzioni delle date di Tucidide).

Della storia successiva abbiamo scarse informazioni, sembrerebbe aver raggiunto una condizione fiorente, in quanto 100 anni dopo la sua fondazione ha fondato, la colonia di Selinunte nell'altra estremità della Sicilia. Una polis destinata ad avere a un potere molto maggiore rispetto alla sua città madre. Per il resto non è mai sembrata essere una città di rilevante importanza e non ha mai tratto alcun vantaggio dalla sua posizione.

Nulla è più noto di Megara fino al periodo della sua distruzione da parte di Gelone di Siracusa, intorno al 483 a.C., che, dopo un lungo assedio, divenne padrone della città per capitolazione. Sembra che anche le sue mura furono rase al suolo. Ma, nonostante ciò, fece sì che la maggior parte degli abitanti venisse venduta in schiavitù, mentre stabilì i cittadini più ricchi e nobili a Siracusa. Tra le persone giunte a Siracusa c'era il celebre poeta comico Epicarmo, che aveva ricevuto la sua istruzione a Megara, sebbene non fosse originario di quella città. Secondo Tucidide, questo evento ebbe luogo 245 anni dopo la fondazione di Megara, e potrebbe quindi essere collocato intorno al 483 a.C. La città quindi viene in qualche modo collegata a quella evoluzione che portò il canto di bisboccia (komos) ad evolversi in mimica farsesca fino a delineare un nuovo genere letterario, la commedia greca.

È certo che Megara non ha mai recuperato potere e indipendenza. Tucidide allude distintamente ad essa come non esistente ai suoi tempi come città, ma menziona ripetutamente la località, sulla costa del mare, che a quel tempo era occupata dai siracusani seppur quasi del tutto disabitata, e il generale ateniese Lamaco, durante la spedizione contro Siracusa (415–413 a.C.), propose di farne il quartier generale della loro flotta; il suo consiglio non fu preso in considerazione e nella primavera successiva i siracusani la fortificarono.

Da questo momento ci incontriamo ripetutamente con menzione di un luogo chiamato Megara o Megaris, che sembra impossibile separare da Hybla, ed è probabile che le due fossero, in effetti, identiche. Il sito di questa Megara o Hybla in seguito potrebbe essere collocato, senza dubbio, alla foce del fiume Alabo (la moderna Cantera); ma sembra che ci siano molte ragioni per supporre che l'antica città, l'originale colonia greca, fosse situata vicino al promontorio ora occupato dalla città di Augusta. È difficile credere che questa posizione, il cui porto sia almeno uguale a quello di Siracusa, mentre la stessa penisola aveva gli stessi vantaggi di quella di Ortigia e avrebbe dovuto essere del tutto trascurata nei tempi antichi; mentre tale località sarebbe servita agli scopi per i quali Lamaco sollecitò i generali all'occupazione del sito vacante di Megara.  

Venne in seguito rifondata da Timoleonte che dopo la metà del IV secolo decise di far venire in Sicilia nuovi coloni dalla Grecia promettendo loro case e campi. Nel III sec. a.C. faceva parte del regno di Gerone II.

Nel corso della seconda guerra punica venne distrutta dalle truppe del console Marco Claudio Marcello che andava ad assediare Siracusa. La città non venne mai più ricostruita ed in epoche successive soltanto isolate fattorie si insediarono sul suo territorio.

Nel 1867 i lavori di sbancamento per la costruzione della ferrovia Catania-Siracusa tagliarono in due il sito archeologico nella parte delle fortificazioni e in parte dell'abitato. Gli scavi condotti nel 1891 degli archeologi francesi Georges Vallet e François Villard portarono alla scoperta della parte settentrionale della cinta muraria nord-occidentale, che in parte serviva da terrapieno contro le alluvioni: apparentemente era più evidente al tempo di Filippo Cluverio, di una vasta necropoli, di cui sono state esplorate circa 1500 tombe, e di un deposito di oggetti votivi da un tempio. La città era lambita a nord dal porto ed aveva una necropoli contenente circa un migliaio di tombe.

La necropoli nord venne in parte coperta durante la costruzione della raffineria RASIOM nel 1949. Gli interventi della Soprintendenza di Siracusa diretta da Bernabò Brea permisero il salvataggio di alcuni reperti tra cui la famosa statua della Kourotrophos rinvenuta in pezzi il 30 ottobre del 1952 e poi restaurata. Interventi decisi della soprintendenza e dell'Ecole francaise permisero il salvataggio della parte entro la cinta muraria ellenistica.

I numerosi resti archeologici, tuttora visibili sul sito, sono frutto degli scavi effettuati nell'immediato dopoguerra, grazie al grande contributo dei già citati Vallet e Villard e degli archeologi italiani Luigi Bernabò Brea e Gino Vinicio Gentili. La conservazione della sua struttura urbanistica originaria è stata permessa dalla mancata urbanizzazione in epoca moderna.

A metà del VII secolo, la città fu organizzata secondo un piano regolarizzato. Un'agora emerse con stoa sui lati nord e est. Questa è una delle prime agora conosciute.

Sul sito sono ancora visibili: l'agorà con i resti di due portici, i bagni ellenistici, l'heroon, i resti delle mura di cinta, i resti di un tempio ellenistico, le fondamenta di un tempio arcaico, il pritaneo, un'officina metallurgica, i resti di decine di case.  

L'agorà ed i portici - Oltrepassato il cancello di ingresso, un sinuoso sentiero sterrato ci conduce attraverso i campi (sotto i quali insistono ancora i resti dell'antica Megara da scavare) fino all'inizio delle rovine. Un pannello esplicativo ci illustra una pianta della città antica, poi la scaletta ci permette di scendere tra le viuzze dell'antica cittadina greca fino a raggiungere un grande spiazzo rettangolare. Si trattava dell'agorà, la piazza principale della città. Dando un'occhiata ci accorgiamo che una sorta di "scalone" in cemento taglia in due la piazza. Fu messo dagli archeologi per distinguere le due fasi di vita della città: quella arcaica (fino al 484 a.C.) circa e quella ellenistica (dalla metà del IV sec. a.C. alla fine del III sec. a.C.) Il livello del terreno più basso è quello che corrisponde alla città arcaica. Quattro paletti rossi e un  pannello ci permettono anche di individuare le fondamenta di uno dei due porticati che abbellivano la piazza. Una seconda stoà era perpendicolare a questa. Sulla piazza vi sono anche resti di vari pozzi ed altari e si affacciano vari edifici importanti. Subito di fronte al porticato nord troviamo ad esempio l'ingresso del santuario ellenistico

Il Santuario ellenistico - Il santuario ellenistico è facilmente riconoscibile per la sua forma. Sulla piazza si notano subito delle pietre disposte a formare un semicerchio che poi danno all'ingresso di una stanza. Era la stanza di culto di questo piccolo santuario di epoca ellenistica che poi continuava con diversi altri ambienti ancora oggi visibili, tra cui una piccola fornace per cuocere la ceramica votiva. La stanza principale doveva avere un ingresso monumentale, come si deduce dai resti di modanature architettoniche ai lati dell'ingresso. All'interno della stanza, si riconoscono ancora vari oggetti che erano legati al culto: diversi bacili di pietra e terracotta per la raccolta di liquidi e tre pietre laviche tondeggianti poste una accanto all'altra. Purtroppo gli scavi non hanno permesso di identificare la divinità a cui questo luogo era dedicato.

Il tempietto ellenistico - Dopo il santuario, attraversiamo nuovamente la piazza e saliamo su una piccola scaletta metallica, questa scavalca i resti di un secondo porticato, più grande, la stoà di epoca ellenistica. Proseguendo, sulla sinistra si notano i resti delle umili casette dei primi coloni: dei monolocali dotati di un piccolo orto, come illustrato dai pannelli, sulla sinistra invece quanto rimane di un tempietto costruito nel IV sec. a.C.  Probabilmente si trattava di uno degli edifici religiosi più belli dell'antica città ma venne totalmente raso al suolo quando i romani, nel 214 a.C. conquistarono la città. Secoli dopo la pietra venne utilizzata ancora per produrre della calce. Rimangono sparsi numerosi resti architettonici come resti dell'architrave, rocchi ri colonne, triglifi, che ci fanno capire la cura che venne messa nel realizzare questo tempio ispirandosi ai più famosi edifici della Grecia. Alcune delle bellissime modanature del tempio sono oggi conservate al museo archeologico "Paolo Orsi" di Siracusa.

Le terme ellenistiche e l'heroon - Ritornati nell'agorà rimangono ancora da vedere alcuni edifici che si affacciano su di essa. Prime fra tutti le terme. I Romani raggiunsero la perfezione in questo campo ma già i Greci avevano i loro edifici adibiti a tale scopo. Le stanze, piccole per non disperdere il calore, avevano un pavimento in cocciopesto, cioè un impasto cementizio decorato con pietre e ceramica bianca per renderlo più gradevole esteticamente. Restano anche visibili parti dell'intonaco impermeabile che serviva a non far sfuggire il calore. Questi bagni erano composti da diverse stanze. Delle canalette sul pavimento assicuravano il deflusso dell'acqua sporca e tramite un forno era possibile scaldare continuamente l'acqua che serviva. Poco distante dalle terme si trovava l'heroon, un edificio di culto, dedicato appunto ad un eroe. Gli archeologi l'hanno identificato come un luogo dedicato al culto dell'ecista, il fondatore della città che gli scritti antichi ci dicono essere stato Lamis.

Le fortificazioni occidentali - Ci su può a questo punto allontanare dalla piazza percorrendo la via che porta verso ovestL Da li a poco si incontrano i resti delle mura della città. E' ancora riconoscibile la porta occidentale con il suo fermo centrale ed i battenti e le fortificazioni ad essa collegate. In realtà si tratta delle fortificazioni dell'ultima fase di vita della città in quanto la Megara di epoca ellenistica aveva dimensioni molto maggiori. I resti delle mura arcaiche sono ancora visibili vicino alla necropoli. Le mura di epoca ellenistica vennero invece costruite "in fretta e furia" nel 214 a.C. per difendere la città dall'imminente attacco romano. Prova ne è il fatto che il materiale edile usato è costituito da blocchi recuperato smontando altri edifici. Lungo le mura erano disposte varie torri di cui si vedono ancora le tracce.

L'officina metallurgica, la villa romana, il pritaneo - Divertiamoci a vagare ancora liberamente per la città, aiutandoci con i pannelli che ci spiegano gli edifici di maggior rilievo oppure semplicemente andando ad intuito e cercando di indovinare la funzione dei vari edifici. Potremmo così incontrare i resti di un'officina metallurgica con tanto di banco di lavoro fatto in pietra lavica oppure una villa romana con terme private ed il nome del proprietario "Gnaiou Modiou" scritto in lettere greche a mosaico sul pavimento. E ancora il pritaneo, un edifico di uso pubblico o i resti del ginnasio per l'educazione dei giovani. Insomma un vero e proprio tuffo nella storia, quello possibile in questa piccola Pompei.      

La porta a tenaglia - Al limite meridionale della città, troviamo i resti di una seconda porta, strutturata in maniera diversa: si tratta di una porta a tenaglia. Questa porta risulta più grande della precedente, era quella che immetteva sulla strada per Siracusa. Sul lato sinistro tende ad allargarsi mentre lungo il lato destro corre un lungo muro che culmina con una torre. Da qui gli arcieri potevano tirare sul lato più indifeso dell'esercito attaccante

La necropoli - Come tutte le città greche, anche Megara Iblea aveva numerose necropoli che circondavano la città. Una parte dei sarcofagi di pietra delle necropoli sono ancora oggi conservati e visibili al limitare della zona archeologica. Li, sotto i pini, una lunga fila di sepolcri. Accanto ad essi quanto rimane delle mura delle città arcaiche che, come possiamo renderci conto, era molto più estesa della città di epoca ellenistica, quando Megara faceva ormai parte dei domini di Siracusa. Nella necropoli sono stati trovati alcuni tra i più bei reperti visibili nel settore B del museo archeologico Paolo Orsi di Siracusa: La Kourotrophos, una statua di una donna con due bambini dallo stile indigeno e che venne soltanto miracolosamente salvata e ricomposta dopo che un martello pneumatico la aveva distrutta. Altra importante statua è il kouros di Megara, statua di giovinetto in marmo che reca ancora una dedica in lettere greche scolpita sulla coscia.

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