Scicli
si estende su una larga pianura incastonata all'interno di tre valli
strette ed incassate dette Cave (le valli di Modica, di Santa Maria La
Nova, e di San Bartolomeo), originate da fratture tettoniche di epoca
remotissima e divenute letto di corsi d'acqua torrentizi. Le sue origini
sono molto antiche e risalgono, con ogni probabilità, al periodo
siculo, quindi oltre tremila anni fa.
Il nome Scicli si pensa che derivi da Šiclis, uno degli appellativi
utilizzati per indicare i Siculi, i famosi popoli del mare che gli
egiziani chiamavano Sheklesh.
La
presenza umana nel territorio di Scicli risale addirittura al periodo
eneolitico, come dimostrano i ritrovamenti della Grotta Maggiore situata
vicino all'Ospedale Busacca, datati fra l'età del rame e l'età del
bronzo antico (III-II millennio a.C. - XVIII-XV secolo a.C.
La
caratteristica conformazione del territorio con la presenza di cave e
grotte carsiche, ha favorito la nascita di numerosi insediamenti
rupestri. Oltre a quello preistorico di Grotta Maggiore, ricordiamo
anche l'insediamento tardo bizantino del VII secolo d.C. sito in località
Castellaccio, e l'insediamento rupestre bizantino (VIII secolo d.C.) e
medievale (X-XI secolo d.C.) in località Chiafura, visibile sino ai
nostri giorni.
Ritrovamenti
archeologici, in particolare i resti di un abitato greco presso la foce
dell'Irminio, testimoniano la presenza, o comunque dei contatti di
primaria importanza con i greci. Così come Comiso e Ispica, Scicli
vanta la propria discendenza dalla città greca-siracusana Casmene,
fondata nel VII secolo a.C. Per motivi topografici l'ipotesi che Scicli
possa discendere da Casmene è da considerare comunque non realistica.
Oltre ai resti greci sono state trovate tracce che testimoniano la
presenza dei cartaginesi, presenti nell'isola fino alla conquista romana
avvenuta nel III secolo a.C. Sotto il dominio romano Scicli divenne città
"decumana", ovvero città sottoposta al tributo della
"decima" consistente nel pagamento di un decimo del raccolto.
Dopo la caduta dell'impero romano Scicli passò ai bizantini e subì,
come altre città dell'Isola, le incursioni dei Barbari.
La città antica sorgeva sul colle di San Matteo, dove ancora oggi si
trovano i resti di un Castello che rendeva l'antico abitato difficile da
espugnare. Una struttura fortificata doveva comunque esistere già nel
periodo bizantino come si evince da fonti arabe:" l'anno
duecentocinquanta (864-65)... I Musulmani, assediata Scicli, la
presero".
L'assedio da parte degli arabi fa presupporre la presenza di un sistema
di difesa fortificato a salvaguardia dell'abitato. Verso la metà del
XIV secolo esistevano due Castelli: il Castellaccio "castrum
magnum" ed il Castello dei tre Cantoni "castrum parvum"
ambedue in contrada Castellaccio.

Si fa risalire all'anno 1091 la liberazione definitiva di Scicli dal
dominio saraceno per opera di Ruggero d'Altavilla e il passaggio al
dominio normanno. A questa battaglia, avvenuta nella Piana dei Milici è
legata la leggenda della Madonna delle Milizie. Si narra che la
battaglia finale, avvenuta nel marzo 1091, fu vinta dai Cristiani per
l'intercessione della Vergine Maria scesa su un bianco cavallo a difesa
di Scicli. Nella località dell'avvenimento venne costruita la chiesetta
della Madonna dei Milici. La battaglia è ricordata ogni anno con la Festa delle Milizie, una
delle principali attrazioni folcloristiche di Scicli.
I Normanni (1090-1195) introdussero il sistema feudale già diffuso
altrove, e Scicli ed altre città vicine, furono considerate cittá
demaniali. Nel 1093 Scicli viene ricordata come dipendente dalla diocesi
di Siracusa.
Ai Normanni successero gli Hohenstaufen (Enrico VI del Sacro Romano
Impero si impossessò del trono di Sicilia nel 1194). Nel 1255 durante
la lotta dei Papi contro la casa Sveva, Papa Alessandro VI concesse
alcuni territori tra cui Scicli, Modica e Palazzolo, a titolo di Feudo,
a Ruggiero Fimeta "Rogerio Finente de Leontino" che si era
ribellato agli Svevi. Ruggiero non arrivò mai a prendere il possesso
della città perché fu sconfitto.
Anche sotto gli Hohenstaufen, Scicli conservò il privilegio di città demaniale. La sua storia segue quella della Sicilia, per cui con la
caduta dei Hohenstaufen avvenuta nel 1266, passò sotto la dominazione
Angioina, mal tollerata, a causa della politica di Carlo I d'Angiò che,
diversamente dai suoi predecessori normanni e svevi, considerava il
Regno di Sicilia territorio di conquista e di vantaggi economici e
finanziari. La politica di Carlo D'Angiò fu causa di un'insurrezione in
tutta la Sicilia, nota come i Vespri Siciliani. Il 5 aprile 1282 Scicli,
insieme a Modica e Ragusa insorge contro le guarnigioni francesi del
luogo cacciandole e ponendosi sotto la protezione di Pietro III
d'Aragona.
Fu sotto la dominazione aragonese che si formò la contea di Modica, e
Scicli ne venne a far parte, seguendone le sorti sotto i Mosca (1283-
1296), i Chiaramonte (1296-1392), i Cabrera (1392-1477) e gli
Enriquez-Cabrera (1477-1742). Dal 1535 al 1754 Scicli fu anche capoluogo
di Sede d'Armi (circoscrizioni militari che erano dieci in tutta la
Sicilia) e nel 1860, con un plebiscito, proclamò la sua annessione al
Piemonte.
Scicli, con un passaggio graduale dal colle al piano, assunse la sua
forma topografica tra il XIV ed il XVI secolo. La popolazione era
aumentata notevolmente ma la peste del 1626 la ridusse drasticamente di
quasi due terzi portandola da 11000 a 4000 abitanti circa. Dopo la
peste, anche grazie ad agevolazioni economiche a favore di chi decideva
di risiedere in città, si ebbe un nuovo sviluppo demografico, ma il
tremendo terremoto del 1693 causò 3000 morti e la distruzione di gran
parte della città. Da quelle macerie, Scicli rinacque in chiave
barocca, e oggi è caratterizzata da numerosi edifici settecenteschi.
In
giro per la città
Tante
le opere d'arte di
Scicli, le chiese e i palazzi; basta girare senza fretta per le sue stradine
per scoprire angoli sempre nuovi. Centro della città
è
l'ampia e scenografica piazza Italia, circondata da bellissimi
palazzi settecenteschi e dominata dalla imponente rupe calcarea sulla quale
sorge l'antica chiesa di S. Matteo.
Su
un lato della piazza si staglia la settecentesca chiesa Matrice,
dedicata a S. Ignazio. La bella facciata barocca è ricca di statue e di
sculture che ne fanno un vero gioiello d'arte. Sul grandioso portale
centrale si legge la data 1751, forse quella della ricostruzione dato che la
chiesa era già esistente prima del terremoto del 1693.
Il
grandioso interno, a pianta basilicale a tre navate, è
adorno di stucchi dorati; nella navata centrale alcuni affreschi di
Bartolomeo Militello del 1935 descrivono episodi della vita di Gesù. La
chiesa custodisce interessanti quadri tra cui una vivace rappresentazione
della "Battaglia fra i Turchi e i Cristiani" avvenuta nel 1091,
realizzata verso la fine del 700 dal Pascucci. Vi si conserva anche il
simulacro della "Madonna delle Milizie", in cartapesta. Altre
opere di una certa importanza sono l'arca di San Guglielmo, laminata
in argento, contenente le reliquie del santo; l'altare maggiore, con marmi
intarsiati; una statua di Cristo Re; un pulpito in noce scolpito; un
prezioso organo barocco.
Sul
lato opposto della piazza sorge Palazzo Fava, classico
esempio di architettura barocca del 700, dall'ampio portale e dai bellissimi
balconi. Il portone d'ingresso ha colonne laterali su plinti e capitelli
corinzi, coronati da volti di cherubini; sull'arco un volto con foglie
d'acanto al posto dei capelli. Decoratissimo anche il balcone, con un
magnifico stemma nobiliare nella parte centrale ed inferriate panciute,
caratteristiche del barocco, arricchite da fioroni in ferro battuto. Tra gli
altri balconi, tutti riccamente decorati, risalta quello che si affaccia
sulla via S. Bartolomeo sostenuto da mensoloni che rappresentano cavalli al
galoppo, grifi alati e figure fantastiche cavalcate da puttini alati.
La
piazza, con il suo giardino, è
il luogo di passeggio e di incontro dei cittadini. Risalendo la via S.
Bartolomeo, sotto cui scorre l'omonimo torrente, si staglia davanti agli
occhi del visitatore l'imponente mole della settecentesca chiesa di San
Bartoloneo,
la cui solenne facciata spicca sulle torreggianti rupi calcaree della cava.
La chiesa, risalente ai primi anni del XV sec, è l'unico tempio che fu
risparmiato dal tremendo sisma del 1693. Nel 1824, con la copertura del
torrente, fu realizzato il vasto piazzale antistante la chiesa. Ricca di
sorprese sarà la passeggiata nell'adiacente quartiere. Mediante scale, vie
con mattonelle di calcare, vicoli, si giunge ad una chiesetta rupestre ai
bordi della cava, dove lattonieri e artigiani hanno ricavato le loro
botteghe entro le grotte.
Ritornando
in piazza e prendendo via Nazionale, alla prima traversa a destra, dopo
pochi metri, si può
ammirare il barocco palazzo Beneventano,
uno dei monumenti più rappresentativi della città e, senza dubbio, uno dei
più caratteristici della provincia. L'angolo sormontato da un cornicione
continuo che delimita in altezza il palazzo è forse la parte più bella
dell'intero edificio; esso è caratterizzato dalle artistiche decorazioni
delle lesene bugnate, arricchite da due teste di mori in alto e da un
"San Giuseppe" in basso. Splendidi i balconi dalle belle
inferriate panciute sostenuti da mensoloni che raffigurano animali
fantastici. Le finestre del
piano inferiore presentano, nell'arco di volta, mascheroni e caricature
umane che denotano la mano di un abile artista influenzato dal gusto
manieristico di quel periodo.
Le
espressioni pietrificate dei grotteschi, spaventosi faccioni che si
osservano levando lo sguardo ai balconi del Palazzo, costituiscono un
esempio perfetto del barocco siciliano. I caratteri di questo stile
artistico vengono declinati in chiave particolarmente spettacolare e
scenografica, accentuando i cromatismi e l'espressività dei soggetti
rappresentati.
Proseguendo
sulla via Nazionale si nota in uno slargo, dove inizia la via Mormino Penna,
il Palazzo Comunale,
costruito nel 1906. L'edificio, pur non avendo uno stile unitario, mostra
una linea sobria ed elegante. La via Mormino Penna è
la perfetta realizzazione della concezione urbanistica barocca in cui
spazio, luce ed armonia costituiscono un unico equilibratissimo insieme. I
palazzi nobiliari, i monumenti ecclesiali, gli scorci prospettici rendono
questa via un "unicum" nel suo genere.
Al
palazzo Comunale segue la chiesa di San Giovanni, dall'elegante
facciata concavo-convessa armonizzata da una serie di doppie semicolonne
che, nella parte centrale, arrivano fino al terzo ordine conferendole
slancio e maestosità.
Il secondo ordine e i finestroni del terzo sono vivacizzati da ornatissime
inferriate in ferro battuto. L'interno, a pianta ellittica, preceduto da un
vestibolo e terminante con un'abside semicircolare, è ricchissimo di
decorazioni, stucchi, dorature ed elementi architettonici che ne fanno un
piccolo capolavoro d'arte barocca. Spiccano, in modo particolare, le agili
colonne che creano effetti di dilatazione spaziale, le quattro cappelle, la
bellissima cupola con una tela centrale di don Vincenzo Signorelli. I lavori
di costruzione della chiesa iniziarono a metà del XVIII sec. e durarono
sino al 1803; attualmente il tempio è adibito a Sacrario dei Caduti. Lungo
la via F. Mormino Penna, poco dopo il palazzo Cartia, si trova palazzo
Spadaro, caratterizzato da una bella serie di balconi, mensoloni
lavorati, inferriate e sculture.
Nel
piccolo spiazzo antistante si eleva la facciata della stupenda chiesa di
S. Michele, a tre ordini scanditi da semicolonne e lesene. Nel bello e
luminoso interno sono pregevoli gli stucchi che riproducono, sui due cori
laterali, strumenti musicali.
Conclude
questa meravigliosa via la chiesa di Santa Teresa, dalla stupenda
facciata artisticamente decorata. L'interno, ricco di opere barocche, è
utilizzato come sala per conferenze e concerti.
Ritornando
in via Nazionale si può raggiungere piazza Busacca, dominata dalla
grandiosa chiesa del Carmine e da un monumento al Busacca, ricco
mercante sciclitano, realizzato dal Civiletti. Nel 1882 fu costruito il
palazzo degli uffici dell'amministrazione che reca sulla sommità
un orologio tra due sirene. Qui ha sede il Circolo Busacca e, nella
sala delle conferenze, si possono ammirare meravigliosi affreschi sulla
volta con stucchi e fini decorazioni; alle pareti i quadri del re e della
regina ed una tela raffigurante Busacca a figura intera.
Nella
stessa piazza prospetta la bella chiesa del Carmine che, con l'annesso convento
dei Carmelitani, può essere considerato uno dei complessi
architettonici più interessanti della zona. Il tempio fu costruito sotto la
guida di fra' Alberto Maria di S. Giovanni nel 1751. Il prospetto, a tre
ordini divisi da zoccoli e scanditi da lesene con capitelli compositi, è
arricchito da alcune statue poste su piedistalli, uno splendido portale ed
un'ampia finestra del secondo ordine. All'interno, ad una navata, è
custodita una "Madonna del Carmine", laminata in argento, posta
nella nicchia dell'altare maggiore. Il convento ha una facciata imponente;
l'ordine inferiore è costituito da una successione di finestre e da un
balcone centrale. Il cortile interno, in stato d'abbandono, presenta
sculture negli archi e statue di santi. La chiesa è fiancheggiata da un
torrente incassato fra possenti argini e superato da ponti che creano scorci
veramente pittoreschi.
Seguendo
il torrente verso monte si incontra la chiesa di Santa Maria della
Consolazione. La facciata barocca, in chiara pietra calcarea, si erge su
una breve scalinata in basole di calcare ed è
arricchita da uno svelto campanile dalla cuspide rivestita da mattonelle di
maiolica. All'interno si possono ammirare un simulacro del 1560
rappresentante Cristo alla colonna e il bel coro decorato con stucchi
settecenteschi.
Più
avanti, quasi in fondo alla cava omonima, si erge una delle più grandi
chiese della città: Santa Maria La Nova. La chiesa sorge alla base
della parete calcarea della cava, in un ambiente urbanistico ben conservato.
Tutto il rione è caratterizzato da viuzze strette in salita, gradini,
casette, spiazzi e scorci veramente suggestivi. L'imponente e
suggestiva facciata della chiesa è
una delle poche opere architettoniche in stile neoclassico realizzate in
questa zona. La chiesa risale al XV secolo ma fu ingrandita nel 1642 e
ricostruita nel 1816 nello stile e nella forma attuale. Le bellissime cupole
laterali armonizzano e rendono più proporzionata l'imponente massa
volumetrica della chiesa. L'interno è
ricco di stucchi di Maiuri di Mineo. Splendidi gli affreschi della volta,
opera di Di Stefano di Chiaramonte, che rappresentano scene della vita di
Gesù, e la grande pala di Sebastiano Conca, rappresentante la "Natività
della Vergine" e posta all'altare maggiore.
Sulla
rupe che la sovrasta sorge un'altra chiesa, quella del Rosario che dà
il nome a tutto il rione circostante.
Palazzo
Spadaro
Il palazzo
appartenuto alla famiglia Spadaro, di origine modicana trasferitasi a Scicli
nel XVII secolo, fu costruito a più riprese durante il 1700.
Questo
sviluppa il suo prospetto tardobarocco in lunghezza, assecondando
l'andamento curvilineo che la strada assume in questo tratto e mantenendo
perpendicolare al portone la scalinata interna.
La facciata
presenta otto balconi con inferriate convesse in ferro battuto con
particolari modanature rococò a motivi geometrici e floreali. Questa
particolarità delle inferriate è dovuta ad un'esigenza di ergonomicità
per facilitare le dame ad affacciarsi dai balconi visti gli abiti sontuosi
dell'epoca.
La parte
sottostante presenta otto aperture tra i due portali intagliati con eleganti
modanature. Il portone principale, antistante la chiesa di San Michele
Arcangelo presenta una decorazione ricca dove si può vedere il simbolo
della famiglia Spadaro, ovvero un leone rampante. Tutta la facciata è
impaginata in un telaio di lesene ad ordine gigante.
Il
prospetto posteriore di via Spadaro (che prende il nome dal palazzo) si
presenta più povero, forse usato come ingresso della servitù viste anche
le decorazioni. I due balconi, sempre con inferriate convesse anche se di
minore ampiezza, sono decorati con mascheroni che rappresentano un vecchio
che stringe tra le gambe un quadrupede e un giovane dalla chioma fluente che
porta alla bocca un frutto e due galli che sono posti ai lati. Vi è inoltre
un terrazzino che collega l'edificio principale con un altro, sul lato
opposto della via, formando un ponticello frequentato un tempo dagli
innamorati (e proprio il barone Spadaro era solito sbirciarli dai balconi
soprastanti).
L'ingresso
principale presenta un'elegante scala a due rampe detta "a
tenaglia" opera del capomastro Giorgio Vindigni di Modica, satura di
decorazioni policrome sulle pareti e sul soffitto.

Le
sopraporte del pianerottolo e i lati delle porte d'ingresso sono collocate
quattro tele che raffigurano piatti dorati con teste di profilo tra fasce
spiraliformi, festoni, ghirlande e puttini.
Sulla rampa
destra è collocato un dipinto su tela realizzato tra il 1926 e il 1930 da
Raffaele Scalia (pittore nativo di Avola che si ispira alla pittura della
seconda metà dell'800), raffigurante una donna e tre bambini con la mano
tesa per chiedere l'elemosina. Sempre dallo Scalia è la tela collocata
dall'altro lato della scala raffigurante una madre con due ragazze nel pieno
della tranquillità familiare.
La
collocazione delle due tele non è casuale. La prima intitolata "Povertà"
è stata collocata a lato dell'ingresso utilizzato dalla servitù, la
seconda a cui è stato dato il titolo "Ricchezza" si trova a lato
dell'ingresso usato dalla famiglia Spadaro.
La
distribuzione spaziale delle sale al primo piano presenta otto ambienti
comunicanti "ad infilata", che si affacciano sulla via Francesco
Mormina Penna mentre nell'ala Nord vi sono dei vani di disimpegno, usati
probabilmente come sala del fumo e sala del the. L'ultimo ambiente dell'ala
Nord è stato riconosciuto come il luogo dove era collocata la piccola
cappella della famiglia di cui non resta alcuna traccia se non due
crocifissi del 1400 (in legno e in cartapesta) recentemente restaurati.
Viene ricordato che l'altare presente nella cappella riproduceva in scala
ridotta l'altare maggiore in marmo intarsiato della chiesa di san Matteo.
Tutte
le stanze erano pavimentate con maioliche di Caltagirone che richiamavano i
colori delle pareti e dei soffitti. La carta da parati che attualmente
riveste i muri e i tendaggi riecheggiano i tessuti nel periodo di splendore
del palazzo. Della mobilia rimane esclusivamente un credenzone in legno a
vetro arricchito da colonne tortili con cornice intarsiata, nonostante fino
a poco tempo fa si trovassero, quando ancora il palazzo era di proprietà
Spadaro, una collezione di vasi greci e siculi, un medagliere greco-romano e
una pinacoteca, nonché parte della mobilia originale.
In situ
sono una tela sulla volta del salone centrale, adibito in origine a salone
da ballo, col tema di Apollo e le Muse (XIX sec), di autore ignoto, e una
tela appesa alla parete di fondo che raffigura una scena con Venere e Marte,
opera anch'essa dello Scalia, originariamente collocata sul soffitto della
scalinata principale. Spicca per la policromia degli stucchi e degli
apparati decorativi, la volta a guscio scandita da cornici che inquadrano la
tela centrale.
Il punto
d'incontro tra le pareti e la volta è determinato da una cornice
perimetrale verde smeraldo affastellata da stucchi fogliacei che assumono
sembianze zoomorfi nella tonalità oro zecchino. Ai quattro angoli della
volta, entro cornici a mandorla, prendono vita ritratti di statue
mitologiche. Ai lati del soffitto sono evidenti medaglioni ovali con temi
allegorici e mitologici. L'imponente lampadario della sala da ballo è in
cristallo di rocca abbellito con gocce pendenti.
Di recente
sulla volta sud è stato collocato un arazzo raffigurante l'antico stemma
araldico della Contea di Modica (al centro) consistente in un'aquila con le
ali spiegate che tiene tra le zampe un nastro con i titoli della sergenzia
di Scicli. Ai lati sono presenti due stemmi analoghi della città di Scicli
con il leone rampante sui tre colli.
L'unico
ambiente che si conserva nella fattura originaria è la camera da letto. Si
tratta di un piccolo vano quadrato dove è ricavata un'alcova per ospitare
l'antico letto a baldacchino. Rimane intatta la pavimentazione in ceramica
di Caltagirone nelle tonalità del verde, azzurro, rosa e giallo, e le tele
collocate sui sopraporta che raffigurano le virtù familiari. Sul lato
sinistro dell'alcova è presente una porticina che permetteva una fuga
veloce a chi volesse uscire dal palazzo senza essere visto.
Considerato
che prossimamente il palazzo verrà adibito come sede della pinacoteca
comunale fin da adesso si possono ammirare alcuni dipinti realizzati dagli
artisti del "Gruppo di Scicli".

Palazzo
Beneventano
Eretto agli
inizi del Settecento, alle pendici del colle San Matteo, Palazzo Beneventano
venne costruito subito dopo il terremoto che, nel 1693, sconvolse la
Sicilia. Oggi, il palazzo fa parte dei siti dichiarati Patrimonio Mondiale
dell’Umanità dall’UNESCO.
Ciò che, a
primo impatto, colpisce di più lo spettatore sono le decorazioni
grottesche e appariscenti che dominano i balconi. Ogni balcone è sostenuto
da mensoloni raffiguranti animali fantastici e mascheroni antropomorfi.
Grazie ai ghirigori ricurvi in ferro battuto, i balconi dominano la scena,
creando degli interessantissimi giochi di luce che movimentano tutta la
struttura. Degne di interesse sono le teste di moro che contornano lo stemma
della famiglia Beneventano e la raffigurazione di S. Giuseppe in basso.
I
mascheroni, le espressive decorazioni e i mensoloni sembrano seguire un
filone narrativo che rimanda alle scorribande dei Saraceni e dei pirati
del Mediterraneo e alla loro conseguente cattura. Allo scopo di
rappresentare la crudeltà di questi avvenimenti, la maggior parte delle
sculture ha espressioni aggressive, quasi spaventose, proprio a voler
narrare a chi li osserva la paura di quei momenti.
I colori
tenui della facciata, che si contrappongono al colore scuro del ferro
battuto, rendono questa costruzione leggera, elegante, sofisticata e allo
stesso tempo bizzarra e fantastica.
Palazzo
Fava
Palazzo
Fava presenta un prospetto tardo-settecentesco caratterizzato e impreziosito
dalla ricca decorazione del portale centrale.
Un elemento
singolare di singolare importanza e bellezza è dato dalle mensole poste a
sostegno del balcone che si affaccia sulla Via San Bartolomeo: esse
presentano due grifi e due cavalli alati con code pisciformi, sostenute da
teste barbute e databili intorno al 1730.
Palazzo
Municipio
Il primo
edificio che si incontra percorrendo la via Francesco Mormina Penna è il
Palazzo Comunale, realizzato tra il 1902 e il 1906 nel luogo dove
anticamente si trovava il Monastero delle Benedettine, annesso alla Chiesa
di San Giovanni Evangelista.
Nonostante
il contrasto dei volumi tra la struttura municipale che si estende seguendo
un'immaginaria linea verticale e l'attigua Chiesa di San Giovanni
Evangelista l'intero complesso non appare dissonante. Un telaio di lesene e
semicolonne su alti piedistalli incornicia il prospetto dell'edificio
ulteriormente scandito da bugne lisce spezzate dalle finestre a bifora del
primo piano. Questo è l'unico monumento civile all'interno di uno spazio
religioso e aristocratico.
Per far
risaltare l’edificio civile più rappresentativo della città rispetto al
contesto architettonico tardo barocco della via, l’ingegnera Sergio
Sallicano fece realizzare la facciata in uno stile eclettico.
Le
linee orizzontali di bugnato liscio ne scandiscono la superficie, interrotte
da lesene su alti plinti, concluse da capitelli corinzi; tra di esse,
disposte in asse, vi sono le aperture: semplici finestre al piano terra;
bifore di sapore rinascimentale al piano superiore.
Al
centro del prospetto è il portale d’ingresso, preceduto da una scalinata
ed affiancato da due semicolonne addossate alle colonne.
Negli
ultimi anni è diventato, come gran parte del territorio sciclitano, set
privilegiato per il film, fiction e documentari girati da registi d’ogni
parte del mondo. La stanza del sindaco, per esempio, viene utilizzata come
“Ufficio del Questore” nella serie televisiva del Commissario
Montalbano, ormai cittadino onorario di Scicli.

Palazzo
Veneziano-Sgarlata
Questo
edificio, realizzato nella seconda metà del '700, apre la serie dei palazzi
patrizi che si affacciano lungo la via Francesco Mormina Penna. Un ruolo
preponderante è svolto dal portone centrale e dal sovrastante
balcone.
Capitelli
compositi, mensole con motivi floreali, maschere come grondaie, inferriate
concavo - convesse in ferro battuto vivacizzano e ammorbidiscono il rigido
schema geometrico.
Palazzo
Conti
Il disegno
della facciata è neoclassico, va pertanto collocato negli ultimi decenni
del XIX secolo.
Particolarmente
caratterizzato è il portale d'ingresso, con due colonne libere tuscaniche e
un fregio con metope e triglifi, mentre i timpani e le mensole dei balconi
laterali hanno un esemplificato disegno geometrico.
Palazzo
Papaleo
E' il
risultato dell'unione di due edifici del XIX secolo; l'interno è stato
ristrutturato in maniera unitaria nei primi decenni del 1900, mentre
all'esterno sono leggibili i due palazzi nella loro diversità stilistica.
Palazzo
Bonelli
Fu
costruito nell'ultimo decennio del 1800. Il prospetto a due ordini è molto
sobrio con modanature manualistiche. L'interno invece è ricco di stucchi,
di pregiati mobili prodotti a metà del 1900 e di dipinti realizzati da
Raffaele Scalia.
Chiafura
Chiafura (XII-XIII
sec. d.C.) è un antico quartiere, diventato oggi un parco archeologico,
scavato nella roccia della città di Scicli.
Anticamente l'area era adibita a necropoli,
e fu progressivamente trasformata in abitato trogloditico nel periodo Altomedievale,
coincidente con la Conquista
Araba, e occupata senza soluzione di continuità fino alla metà del
'900.
L'origine
del nome di Chiafura, menzionato per la prima volta nel 1684 è
certamente oscuro e sembra appartenere ad una denominazione topografica.
L'ipotesi più plausibile, infatti, è che il nome derivi dalla corruzione
di una frase, della quale l'unico elemento chiaro potrebbe essere il
“fora” finale, come ad indicare probabilmente “un quartiere fuori
dalla città”.
Tra
il V-VII
secolo d.C., nel finire del periodo
antico e dell'era
bizantina, l'attuale area di Chiafura era adibita a cimitero. Il
periodo altomedievale,
coincidente con la Conquista
araba dell'Isola, è quello cui si devono le testimonianze più
interessanti di Chiafura.
La
vera e propria nascita del quartiere urbano avvenne infatti tra l'VIII e
il XV secolo d.C.
come conseguenza del processo di incasellamento avviatosi
dall'età
bizantina. A causa della pericolosità delle fasce costiere, infatti,
le popolazioni isolane cominciano a lasciare le città marine per insediarsi
in modo stabile nell'entroterra, proprio nelle cave, creando anche delle
strutture difensive di una certa importanza. Una di queste fortezze di
piccole dimensioni può essere rintracciabile proprio in quella dei “Tre
Cantoni”, che fu impiantata nell'attuale località di Scicli,
chiamata S.
Matteo, per controllare il punto di confluenza delle tre cave del
torrente di Modica,
di S. Maria
La Nova, di S.
Bartolomeo.
Dopo
la conquista
araba (Scicli cadde
nell'864/865), le strutture difensive furono rilevate dagli invasori e
riutilizzate, ma l'importanza militare di San
Matteo continuò fino a quando, nel 1091 la città non passò
sotto il dominio dei Normanni,
e la fortezza divenne
sede di un insediamento chiamato Sciclum o Scicla.

Lo
sviluppo del centro abitato in questo periodo probabilmente favorì il
fenomeno del trogloditismo, già presente in Sicilia nell'VIII e IX
secolo. Nonostante, infatti, tale fenomeno avesse preso piede
nell'Isola con la conquista
araba e l'arrivo di popolazioni dal Nordafrica,
esso aumentò ulteriormente dopo la conquista
normanna, probabilmente a causa dell'arrivo di immigrati da aree
trogloditiche dell'Italia
meridionale (Puglia,
Materano) che trovavano nell'Isola un habitat simile a quello dell'area di
origine.
Probabilmente
è proprio con l'arrivo di queste popolazioni nordeuropee che il sito di
Chiafura comincia ad essere abitato in modo sistematico, anche se le prime
testimonianze di una situazione abitativa rupestre si hanno nel XIV
secolo, quando il sito viene a configurarsi come un quartiere con una
fisionomia del tutto simile a quella di altri settori del paese. A partire
dall'inizio del XV
secolo, però, anche se in modo lento, l'abitato comincia ad
estendersi a valle, nonostante i pericoli posti dal carattere torrentizio
delle acque, particolarmente violento in inverno, e si assiste alla
progressiva adozione dell'architettura
in elevato.
In
questo stesso periodo vennero costruite le seconde mura
della città che controllavano l'entrata alla città bassa, mentre le prime
racchiudevano il castello,
la chiesa di
San Matteo e le balze più alte di Chiafura.
Fino
ai primi secoli dell'età
moderna (1500-1600) il quartiere di Chiafura riveste ancora una
importanza cruciale. Nel XVIII
secolo, con lo sviluppo di Scicli,
l'abitato rupestre di Chiafura comincia invece a perdere importanza
all'interno della gerarchia urbana tanto che alla fine del ‘700 la
“contrada di Chiafura”, è nota per le grotte un
tempo abitate.
Altre
informazioni sulla situazione rupestre del tempo chiariscono che “un
quinto dei cittadini di Scicli alloggia
sul pendio di
queste rocce, in grotte che risalgono alla più remota antichità”.
Nell'800
però comincia il declino di Scicli e
della zona rupestre si parla come di un quartiere “abbellito di ricchi
palagi tra gli spechi cadenti ricettacolo di povera gente”. Ciò
nonostante in piena epoca
borbonica, l'insediamento rupestre restava ancora densamente abitato.
Lentamente,
dalla fine dell'800 alla metà del secolo scorso, con lo stabilimento della
popolazione a valle, il sito viene
progressivamente abbandonato.

Le
notizie circa la situazione di Chiafura in epoca protostorica sono
scarsissime, ed è solo ipotizzabile la presenza di necropoli “a
grotticella”, attraverso un'attenta lettura di alcune abitazioni
rupestri che sembrano delle riutilizzazioni medioevali e da qualche
frammento, databile alla Antica
Età del Bronzo (2200-1450 a.C.). Non si hanno maggiori notizie
di abitazioni in epoca
greca. Nonostante la certa presenza di comunità grecofone a Scicli,
esse pare occupassero un sito differente
da quello di Chiafura, ovvero il versante di San
Bartolomeoe quello opposto di Santa
Maria la Nova.
Sul
colle San
Matteo, inoltre, abitato sin dalla antica Età
del Bronzo siciliana, si registra una continuità di vita, seppur in
misura minore, nell'Età
del Bronzo Medio (1450-1270 a.C.), come dimostrano alcuni
ritrovamenti archeologici.
Le
sole attestazioni che confermino una frequentazione del colle anche in
questa fase sono i pochi frammenti ceramici attribuibili alla facies
di Thapsos,
recuperati fortuitamente in superficie lungo i pendii e sul pianoro
sommitale.
Altri
frammenti di ceramica dipinta, datati al VII-VI
secolo a.C., indiziano un ulteriore periodo di frequentazione, dopo
un'apparente lacuna relativa ai periodi dell'Età
del Bronzo Tarda e Finale, alla prima Età
del Ferro.
Prima
di essere trasformata in abitato rupestre, l'area, in età
bizantina, era adibita a necropoli,
com'è testimoniato dalla presenza di tombe ad arcosolio, poi trasformate in
abitazioni.
Una
delle strutture tombali più interessanti, però, è quella di tre ipogei funerari,
di Età tardo
romana. I tre ipogei, facenti parte di una consistente necropoli
quasi
scomparsa in seguito all'abrasione della roccia
carbonatica ed ai successivi riutilizzi, soprattutto perché il
sito, rientrante nel settore superiore della contrada Chiafura, fu sede
dell'insediamento trogloditico arabo-normanno, sono stati localizzati a meno
di cento metri dal Castellaccio,
nel costone sottostante alla trazzera che lo unisce al Castelluccio.
In
detti ipogei è
dato riconoscere le «tre grotte cimiteriali» menzionate dal Carioti. Uno,
difatti, trovandosi con l'ingresso a livello del piano di campagna, è stato
soggetto, oltre ai danni del tempo, all'opera di trasformazione dell'uomo,
che lo ha adattato prima ad abitazione, poi a stalla od ovile. Gli altri
due, pur essendo di difficile accesso, mancano della parte anteriore,
scomparsa per sfaldamento.
L'abitato
rupestre di Chiafura si articola in balze e gradoni sul crinale del
Colle di San Matteo. Le case-grotta|grotte, scavate nella roccia e
costituite da uno o due vani rettangolari, di 4-5 metri di lato, sono spesso
precedute sempre da un piccolo terreno fertile che i documenti
medioevali chiamano: “raffo”.
L'organizzazione
interna di ogni grotta è rudimentale; si trova spesso un forno, dei fori
scavati nella roccia, qualche nicchia per
riporvi le suppellettili e, talvolta, una mangiatoia, spesso ricavata da un
originario sepolcro.
In alcune grotte è possibile trovare una cisterna probabilmente di
origine altomedievale,
mentre in situazioni abitative più “ricche” si trova un collegamento
interno tra due grotte.
La
situazione strutturata in epoca medievale e moderna si
è in seguito ampliata con la costruzione di ambienti in muratura
immediatamente all'esterno dell'imbocco dell'antro. Altre volte, invece, si
notano interventi di Età
antica che intervenivano a qualificare l'ambiente
ipogeico con la giustapposizione di locali coperti da volte
a botte.
La
cosiddetta città trogloditica, corrisponde ad un abitato di dimensioni
considerevoli, su pareti
terrazzate e speroni formati dalla confluenza di almeno due
cave, spesso culminante con la costruzione di una cittadella in
muratura.
Particolarmente
interessante è la disposizione delle grotte, spesso ad anfiteatro in
luoghi soleggiati o protetti e frequentemente accoglienti interi quartieri
rupestri (Chiafura a Scicli,
Catena a Modica).
La difesa delle città troglodite è assicurata dall'occupazione dello
sperone di confluenza tra due cave, ponendosi quasi come una sorta di
naturale torre di
vedetta per la città retrostante.
Il
cosiddetto Ddieri, è tipico della Sicilia sud-orientale e
corrisponde ad un insediamento scavato in una parete dirupa, con filari
sovrapposti di grotte dove la viabilità orizzontale veniva assicurata
da ballatoi,
gallerie e cunicoli al buio, mentre quella verticale da pozzi tra le grotte
stesse.
Gli
insediamenti con le grotte allineate su un unico filare mancanti di elementi
difensivi, hanno un carattere essenzialmente aperto e sembrano essere
all'origine dei tipici casali
altomedioevali e normanno-svevi.

Forse
la più antica delle poche fonti, a citare il quartiere è Antonino Carioti,
al quale è attribuita anche una veduta: La veduta realistica della Scicli
del XVII
secolo, dalla quale risulta ben riconoscibile il quartiere di
Chiafura, in cui sono visibili le mura, le vie, le porte e le abitazioni in
grotta, è un disegno ad inchiostro su carta non firmato né datato. È
stata reperita, assieme ad altre carte dell'arciprete sciclitano,
all'interno di un gruppo di manoscritti raccolti da Vito
Amico (1697-1762)
Un
primo tentativo di analisi storica ed etimologica del quartiere risale
invece ai primi del Novecento, grazie allo storico sciclitano Mario
Pluchinotta, che individua in Chiafura il primo quartiere a sorgere fuori
dalle mura della vecchia Scicli dando
origine alla lenta e graduale discesa della città a valle e di cui,
addirittura, azzarda una etimologia intendendola come “luogo da dove si
vede un vasto orizzonte” secondo la lingua araba.
Documenti
preziosi per la ricostruzione del quartiere intorno alla metà
dell'Ottocento sono i manoscritti dello storico sciclitano Giovanni Pacetto che,
nelle sue Memorie storiche della città di Scicli,
redatte fra il 1855 e il 1870, descrive in modo molto dettagliato l'abitato
rupestre di Scicli e
in particolare di Chiafura. Le grotte, secondo lo storico, sono “incavate
le une sopra le altre, cominciando (nel lato di Chiafura) quasi dalle radici
della Collina sino alla sommità della stessa, ed offrono una varia
dimensione: osservandosi nelle medesime tracce di stalle e di anelli per
legarsi gli animali, finestre e rialti per servir di letto: scorgendosi in
tutte il travaglio dell'uomo; colla differenza che le grandi Grotte
servirono di abitazione e le piccole di tombe”.
Infine,
quasi ad indicare le potenzialità “turistiche” del sito, il Pacetto
conclude la descrizione osservando che “se le nostre grotte fossero state
visitate da quei medesimi viaggiatori che hanno osservato le altre Grotte
del Val di
Noto (intendo accennare al Principe
di Biscari, il chiarissimo Munter, l'erudito Sayve ed altri
oltremontani viaggiatori) certo che le grotte di Scicli si
fossero acquistata l'uguale celebrità”.
Specchio
di una realtà insediativa precaria, anche dal punto di vista
igienico-sanitario, è la relazione del 1888, volta al risanamento di Scicli,
dovuta all'ingegnere Filadelfo Fichera. Da essa risulta che i quartieri
sulla roccia e sul conglomerato fossero più “salubri” rispetto a quelli
sull'argilla, dall'altro che la via di accesso a Chiafura era ancora, alla
fine dell'Ottocento, una delle arterie principali della città.

Agosto
2019
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