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Maison
de la Weissenhof-Seidlung
Il
quartiere Weissenhof (in tedesco Weißenhofsiedlung)
è un quartiere costruito a Stoccarda nel 1927,
in occasione dell'esposizione organizzata dal Deutscher
Werkbund. È stato una sorta di
"vetrina" internazionale, per mostrare
le innovazioni (architettoniche e sociali)
proposte dal Movimento moderno.
Il
comprensorio includeva ventun edifici, per un
totale di sessanta abitazioni, progettate da
sedici architetti europei, la maggior parte dei
quali tedeschi. Mies van der Rohe era
stato incaricato della gestione del progetto, in
qualità di direttore architettonico del
Werkbund, e fu lui a scegliere gli architetti, a
distribuire i lotti e i fondi, e a
supervisionare l'intero progetto.
Le
Corbusier ottenne due lotti diretti verso la
città e il budget più ampio. Gli edifici non
variano molto nella forma, presentando una
grande coerenza progettuale; si tratta di case
a schiera, villette e blocchi di appartamenti.
Le caratteristiche comuni agli edifici sono le
facciate essenziali, i tetti piani, adibiti
a terrazza, le finestre a nastro, la
cosiddetta "pianta libera" e l'elevato
livello di prefabbricazione, che permise
l'edificazione del complesso in soli cinque
mesi.
L'esposizione
aprì al pubblico il 23 luglio 1927, con
una notevole partecipazione di pubblico.
Dei
ventuno edifici originari, attualmente ne
sopravvivono undici.
Musée
National des Beaux-Arts de l’Occident

Il Museo
nazionale d'arte occidentale -
noto anche con il nome inglese National
Museum of Western Art, sigla NMWA -
è un museo di Tokyo,
situato nel distretto museale del parco
di Ueno.
Si tratta dell'unico museo nazionale
interamente dedicato all'arte
occidentale in
un paese non occidentale.
Il
museo nacque nell'aprile del 1959 come
organizzazione per l'esposizione al pubblico
della collezione Matsukata, restituita qualche
anno prima dal governo francese. L'apertura al
pubblico risale al giugno di quell'anno. Kojiro
Matsukata, presidente delle industrie
navali Kawasaki per
32 anni, fu un grande collezionista d'arte sulla
scena europea, amico di intellettuali e pittori
soprattutto a Parigi (tra i quali Monet e Rodin),
che desiderava offrire al suo popolo la
possibilità di ammirare direttamente i
capolavori dell'arte occidentale, con la
prospettiva quindi di creare un museo in patria.
All'epoca era infatti difficile, per i
giapponesi, visitare l'estero e la circolazione
di opere d'arte tramite prestiti ed esposizioni
temporanee era cosa molto rara, tanto più in
Giappone. Dopo aver raccolto una vasta
collezione di arte europea, che spaziava dal
medioevo ai post-impressionisti, e circa
ottomila esemplari di Ukiiyo-e giapponesi
(dal 1944 al Museo
nazionale di Tokyo),
nel 1920 spedì
una prima parte della sua collezione nel suo
paese di origine, dove fu esposta con un grande
successo di pubblico e di critica.
Tuttavia,
nel marzo 1927,
il fallimento della Banca
Jugo,
che finanziava le industrie Kawasaki, portò la
compagnia sull'orlo del fallimento, che venne
arginato tramite la vendita delle opere d'arte
di Matsukata già in Giappone. Una consistente
parte delle collezioni dell'imprenditore era però
ancora in Europa, tenuta in un deposito a Londra
e uno a Parigi. Quando Matsukata si preparava a
spedire questi due nuclei superstiti, venne a
mancare la disponibilità immediata di denaro
contante per finanziare la spedizione e, poco
dopo, scoppiò la seconda
guerra mondiale,
complicando estremamente le vicende della
collezione. La parte londinese andò infatti
distrutta in un incendio, mentre quella parigina
venne infine confiscata dal governo francese,
che la dichiarò di sua proprietà come parte di
indennizzo nei confronti di un Paese sconfitto:
tale atto venne ratificato dal trattato
di San Francisco
nel 1951,
un anno dopo che Matsukata era deceduto.
Già
in quell'occasione però, il primo ministro
giapponese Shigeru
Yoshida avviò una serie di contatti
e trattative per ottenere la restituzione della
collezione Matsukata al popolo giapponese. I
negoziati tra i due paesi proseguirono per molti
anni, con fasi di stallo. Infine, con un decreto
firmato da Charles
de Gaulle,
la Francia decise di fare dono unilateralmente
al Giappone della collezione Matsukata, tenendo
tuttavia solo qualche esemplare volto a coprire
particolari lacune nelle collezioni d'arte dei
musei nazionali francesi. 365 pezzi d'arte (di
cui 196 dipinti, 80 disegni, 26 stampe e 63
sculture) furono destinate così al Giappone nel 1957 e,
nel clima di relazioni amichevoli tra i due
paesi, il direttore del Louvre Georges
Salles propose
che fosse Le
Corbusier a
disegnare l'edificio museale per ospitare la
collezione, cosa effettivamente venne messa in
pratica, grazie anche all'intermediazione di tre
studenti giapponesi assistenti di Le Corbusier: Kunio
Maekawa, Junzo Itakura e Takamasa Yoshisaka,
ciascuno poi diventato un architetto di rilievo
nel campo dell'architettura contemporanea
giapponese. Le condizioni finanziarie del
governo giapponese all'epoca, impegnato nella
ricostruzione postbellica, permisero tuttavia
che solo una parte del progetto di Le Corbusier
fosse creata, ottenendo una superficie
espositiva totale di circa 1533 metri quadri,
compreso il cortile antistante l'edificio in cui
trovarono posto copie della Porta
dell'inferno, Il
pensatore e
altri bronzi di Rodin.
L'istituzione
vera e propria del museo, come già accennato,
avvenne nell'aprile del 1959, quando le opere
d'arte arrivarono dalla Francia,
e a giugno avvenne l'apertura al pubblico, che
rappresentò uno straordinario successo: nei
primi dieci mesi di apertura furono registrati
più di 500.000 visitatori.
Negli
anni successivi la collezione si arricchì di
altre donazioni e di acquisti, rendendo
necessario l'ampliamento dell'edificio,
progettato nel 1967/1968 da
Maekawa e completato nel 1979, in occasione del
XX° anniversario dall'apertura. La nuova ala
aggiunse 1525 metri quadri all'esposizione,
permettendo, ad esempio, di destinare alcune
sale alla mostra a rotazione di opere della
collezione grafica. Nel 1993 si
progettò poi la creazione di uno spazio per le
esposizioni temporanee, che venne completato nel 1997,
mentre nel 1999 venne
portato a termine l'isolamento sismico
dell'intera struttura museale e delle sue opere
monumentali come La
porta dell'inferno.
Nel
dicembre 2007 il museo possedeva più di 4500
pezzi d'arte, di cui 370 dipinti, 136 acquarelli
e stampe, più di 3700 stampe, 101 sculture e
176 opere di altri media. Il percorso espositivo
è fondamentalmente diviso in due tronconi, che
rispecchiano la struttura della collezione
Matsukata. Il primo, quello più consistente, è
dedicato alla pittura francese del XIX e XX
secolo, con opere di pittori della scuola
di Barbizon, impressionisti, post-impressionisti, simbolisti e fauves,
a cui si aggiungono una serie di opere di
pittori più legate all'accademismo o alle mode
floreali
in voga negli anni di Matsukata, solo di
recente rivalutate. Fanno parte di questa
sezione opere di Delacroix, Courbet, Füssli, Corot, Millet, Manet, Monet (11
opere, nell'arco intero della sua produzione),
Renoir (3
opere), Gauguin (3
opere), Van
Gogh, Cézanne, Dante
Gabriel Rossetti, Signac.
Aggiunte successive, con opere di Picasso, Fernand
Léger, Max
Ernst, Joan
Miró, Jackson
Pollock e
altri, portano il percorso museale fino agli
anni cinquanta del Novecento.
L'altra
sezione, la prima che si incontra nel percorso
espositivo, documenta l'arte
europea dal Basso
Medioevo (un'icona
greca di Andreas
Ritzos,
un San Michele di scuola
senese e
altre opere), attraverso il Rinascimento,
il secolo
d'oro olandese e il barocco,
fino al XVIII secolo. Sebbene non in grado di
competere con le collezioni delle grandi
istituzioni europee e americane, la raccolta
documenta tutto lo sviluppo dell'arte
occidentale e
tutte le principali scuole (italiana, fiamminga,
olandese, tedesca, francese, spagnola), con
opere di Cranach
il Vecchio, Tintoretto, Veronese, Vasari, El
Greco, Guercino, Guido Reni, Rubens, Van
Dyck, Jusepe de
Ribera, Murillo, Georges
de La Tour, Claude
Lorrain, Tiepolo, Fragonard.
A
parte è la collezione di sculture,
prevalentemente di Auguste
Rodin,
di cui Matsukata possedeva ben 59 esemplari:
tranne alcuni bozzetti, le statue esposte sono
tutte fusioni tratte fedelmente dagli originali,
rimasti in Francia.
Complexe
du Capitole

Chandigarh,
la “Città d’argento”, è un insediamento
urbano di nuova fondazione per 150mila abitanti
(oggi 650mila), adagiato a 320 metri di
altitudine sul Punjab-Haryana Plains, un vasto
altopiano desertico ai piedi delle Shivalik
Ranges nelle quali si stemperano le prime
pendici himalayane.
È
concepito come un organismo funzionale, ovvero
come un gigantesco corpo umano metaforico e
reale. Il tronco, a sud, è una scacchiera a
maglia ortogonale di circa cinquanta isolati o
“settori” lunghi ciascuno 1200 metri e
larghi 800, numerati a scendere dalla testa
(manca il tredici, per rispettare la
tradizionale superstizione), e distribuiti su
114 chilometri quadrati; ciascun Sector di circa
cento ettari è parzialmente autosufficiente e
suddiviso in zone corrispondenti alle classi
sociali che, secondo una consuetudine antica,
dividono la popolazione indiana.
All’interno
di questa griglia urbanistica concepita per
potersi espandere, come poi è successo, secondo
necessità, i polmoni sono i parchi verdi che
forniscono ossigeno, e le vene e le arterie sono
l’ordinatissimo sistema di grandi viali che
garantiscono il fluire della circolazione
secondo un razionale schema viario reticolare
gerarchico nel quale i percorsi automobilistici
e quelli pedonali sono separati.
Qui
Le Corbusier applica la sua “teoria delle
sette vie”, codificata nel 1948 ma già
preconizzata nella Carta d’Atene del 1933
(pubblicata nel 1941): la V1, arteria nazionale,
collega Chandigarh con Delhi, Simla e Lahore;
dalla V1 si stacca la V2, strada di spina
orizzontale sulla quale nel primo tratto si
affacciano installazioni commerciali a scala
regionale e nel secondo musei, università e
svaghi di massa. Un’altra V2 verticale e
ortogonale, larga 100 metri, sale al
Campidoglio, attraversa a metà percorso il
centro degli affari sotto cui piega a gomito e
sfocia in una via che costituisce il limite
originale della città dei 150mila abitanti.
Ogni
settore, poi, è circondato da una V3, riservata
alla circolazione automobilistica veloce e priva
di accessi pedonali: ogni 400 metri la via si
apre in un parcheggio che consente il contatto
con l’interno dei settori.
La
V4, invece, attraversa orizzontalmente i vari
settori ed è la strada commerciale e
artigianale della tradizione indiana, a traffico
misto pedonale e automobilistico lento, da cui
si staccano le V5 e le V6 che arrivano davanti
alle abitazioni.
Le
V7, infine, sono vie pedonali e si snodano
attraverso le larghe fasce verdi dei parchi che
solcano in senso verticale ogni settore. I
visceri, in ultimo, sono invece i quartieri
degli insediamenti produttivi che forniscono le
energie per la vita della città.
A
nord, alla sommità di questo corpo e in
direzione delle montagne, c’è la testa che è
costituita dal quartiere degli edifici
amministrativi pubblici del Capitol Complex, che
controllano l’intero organismo. Si dice che
per disegnare la struttura organica e funzionale
di Chandigarh Le Corbusier avesse preso a
modello gli Champs-Elysées del barone Eugène
Haussmann, prefetto della Senna, l’Acropoli di
Atene e il Campidoglio di Roma, che visitò tra
il 1906 e il 1914 in un Grand Tour di studi
dell’architettura classica: una visione
d’insieme che, per la verità, è apprezzabile
solo in volo, o nel meraviglioso plastico di
progetto che oggi occupa buona parte
dell’ufficio del supervisore architettonico
alla città, il Chief Architect.
Lo
straordinario capolavoro indiano di Le Corbusier
ripropone nell’età moderna il mito
rinascimentale della città ideale, che
racchiude gli edifici di maggiore significato
architettonico; a destra, il Parlamento.
All’interno
dei settori gli edifici residenziali sono
“democraticamente” tutti uguali, e sono la
replica della celeberrima Unité d’habitation,
un nuovo tipo edilizio teorizzato e realizzato a
Marsiglia tra il 1947 e il 1952 3 nel quale gli
elementi tecnico-architettonici codificati dal
grande architetto svizzero (struttura sollevata
su pilotis, finestra a nastro, frangisole,
tetto-terrazza, lontananza dalla strada, spazi
verdi sotto l’edificio) vengono riorganizzati
socialmente nella logica ergonomica del Modulor
in edifici seriali ciascuno da trecentosessanta
alloggi, muniti di servizi comuni.
Le
cellule-appartamento, di tagli diversi per
rispondere alle esigenze di persone sole, di
coppie senza figli o di famiglie con due o più
figli, sono disegnate per dare la quantità
minima di spazio necessario alla vita privata,
perché la maggior parte delle funzioni si
svolge in modo comunitario. A metà
dell’altezza dell’edificio, infatti, corre
una “strada” interna lungo la quale sono
disposti i servizi collettivi e comuni:
ristoranti, bar, negozi, camere d’albergo per
visitatori e locali per ricreazione; altre
strutture di carattere sociale sono ospitate
all’ultimo piano e sul tetto-terrazzo, dove ci
sono asili-nido, spazi per il gioco dei bambini,
solarium, piscine e palestre.

Oggi
queste lunghe stecche sono state
“indianizzate” dai residenti che non sanno
di abitare in un luogo mitico
dell’architettura che è su tutti i libri di
storia dell’arte, e si presentano in un triste
stato di degrado: obiettivamente dicono poco a
chi non sia un cultore della materia.
Straordinaria è invece la testa o Sector 1, cioè
il Campidoglio (Capitol Complex), che contiene
il Segretariato, realizzato tra il 1952 e il
1958 e sede dei governi degli Stati del Punjab e
dell’Haryana, il Palazzo dell’assemblea o
Parlamento (Assembly, o Vidhan Sabha) che
ospita, a giorni alterni, gli organi legislativi
dei due Stati, e il Palazzo di giustizia o Alta
corte (High Court).
Insieme
al Palazzo del governatore, previsto anch’esso
nella testa ma mai realizzato, questi imponenti
edifici – i soli di tutta la città che
superano i quattro piani – sono disposti nello
spazio rarefatto della spianata del Campidoglio
intorno a una gigantesca piazza che corona a
nord la città verso l’Himalaya, movimentata
da numerosi interventi paesistici e simbolici
con vasche d’acqua dalle quali si erge una
grande scultura raffigurante una mano aperta in
pacifico segno di saluto: alta ventisei metri,
di metallo, libera di girare al vento su un
lungo perno, l’icona della città e del grande
maestro è la mano dell’uomo del Modulor, una
mano aperta per ricevere e donare, come scrisse
Le Corbusier che la disegnò nel 1964, un anno
prima di morire.
L’insieme
è notevole, e per chi sente il fascino
dell’architettura moderna è una visita che dà
i brividi; l’interno del Palazzo
dell’assemblea, retto da pilastri altissimi
che sfidano le leggi della statica e sovrastato
nella sala centrale da un immenso lucernario
sostenuto da un iperboloide di cemento armato,
così come la copertura dell’edificio
dell’Alta corte di giustizia, protetta da un
lastrico sospeso di calcestruzzo che è metafora
del “riparo” della Legge, sono esercizi
arditi e sublimi di altissima ingegneria,
visioni di enorme e incontrollabile emozione.
Immeuble
Clarté

Questo
edificio alla Rue Saint-Laurent 2-4 del
quartiere Villereuse potrà forse sembrare
datato, ma alla sua costruzione (1931-32) sotto
il grande architetto svizzero Le Corbusier era
un'opera d'avanguardia, tutto in acciaio e
vetro. Lo scheletro metallico ha liberato le
pareti interne da qualsiasi funzione portante.
Nel
1932, l'architetto si associa a un fabbricante
di oggetti in ferro battuto al fine di
realizzare l'edificio «La Clarté», le cui
pareti di vetro lasciano trasparire la luce.
Vero
e proprio capolavoro avanguardista, questo
edificio è oggi classificato monumento storico.
Fatto in materia al contempo rigida e fragile,
questo edificio è chiamato altresì «casa di
vetro».
Situato nella parte alta del quartiere des
Eaux-Vives, l'edificio ospita 48 appartamenti e
uffici.
Petite
villa au bord du Lac Léman
Questa
è la petite
maison, progettata nel 1923-24
da Le Corbusier insieme a suo cugino Pierre
Jeanneret per i suoi genitori.
È una
piccola abitazione di 64 mq che sorge sulla riva
del lago Corseaux in Svizzera.
In
questo caso si può parlare di un’architettura “a
priori”. Infatti è il progetto a precedere
il luogo, non è questo ad influenzare il primo.
L’abitazione è la chiara sintesi di alcuni
dei punti che diventeranno essenziali
nell’architettura di Le Corbusier.
Non
è un caso se a Villa Le Lac si
associa il termine “essenziale e purista”.
Di quei punti espressi quattro anni più tardi
in Ville Savoye, questo progetto prodromico ne
esprime già tre: il roof garden, il piano
libero e la finestra a nastro.
L’architetto
concepisce la casa, da sempre considerata
l’intimo spazio legato al primitivo gesto del
ripararsi, come una macchina, all’interno
della quale ogni ambiente è dimensionato e
proporzionato in relazione all’uomo.

In
questo progetto Le Corbusier pone il punto su
alcuni elementi che per lui saranno
importanti, come l’attenzione rigorosa alla
proporzione, l’uso del piano libero per
interni (ottenuto con l’uso del calcestruzzo
armato) la funzionalità di ogni spazio,
l’orientamento legato all’uso della finestra
a nastro e il giardino pensile.
Quindi
è proprio questo che spinge alla progettazione
di un edifico “puro”: funzioni specifiche
connesse a spazi calibrati in base alle necessità.
La petite
maison è un lungo
fabbricato (16x4m) su un unico livello. Tutte
le attività quotidiane di una coppia di anziani
sono state pensate secondo uno spazio minimo,
preciso e misurato: soggiorno, camera da letto,
sala da bagno, salotto, cucina, lavanderia e
guardaroba.
La
finestra a nastro di 11 m, posta a sud, permette
al sole di entrare in tutte le stanze principali
e incornicia lo scenario del lago, della valle
del Rodano e delle Alpi, rendendoli
protagonisti di questi spazi.
Se
all’interno dell’abitazione il paesaggio
partecipa in maniera quasi prepotente, ponendosi
in continuità con l’abitazione,
all’esterno, paradossalmente, la situazione si
ribalta.
Nella
stanza all’aperto, al contrario, vi è un alto
muro su cui si apre una sola bucatura di forma
quadrata, come ad incorniciare un dipinto sul
paesaggio, invitando alla contemplazione dello
stesso.
La petite
maison di Le Corbusier è
espressione dell’essenza dell’abitare,
problema a cui l’architetto trova risposta con
semplici punti, ponendo grande attenzione
sull’uomo, unico vero protagonista dell’atto
in sè.
Riconosciuto
il grande valore architettonico, la villa nel
1962 è stata dichiarata monumento storico,
aperto ai visitatori, proprietà della Fondazione
Le Corbusier in gestione al comune di
Corseaux.
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