Louvre
-
Pittura
italiana
I
primitivi
e
il
primo
Rinascimento
-
La
rivoluzione
innescatasi
nei
vari
campi
del
pensiero
e
dell'arte
è
caratterizzata
dal
ritorno
alla
lezione
dell'Antichità,
ai
modelli
greci
e
romani.
Iniziata
a
partire
dal
XIV
secolo,
essa
si
definisce
nella
seconda
metà
del
XV.
La
solenne
Maestà
di
Cimabue
(1270)
annuncia
una
prima
reazione
alla
ieraticità
dei
modelli
bizantini.
Al
grafismo
formalista
di
Bisanzio,
l'artista
sostituisce
una
dolce
modulazione
dei
volumi,
una
posa
più
libera
dei
personaggi,
annunciando
le
grandi
pale
di
Duccio
e
di
dotto.
Durante
il
Quattrocento,
sotto
la
duplice
influenza
dell'architettura
(Brunelleschi)
e
della
scultura
(Donatello,
Ghiberti),
la
pittura
italiana
s'incammina
verso
il
Rinascimento.
Gli
artisti
della
scuola
fiorentina,
la
più
rinomata
dell'epoca,
spiccano
soprattutto
per
il
loro
genio
plastico
e
il
loro
insaziabile
spirito
di
ricerca,
soprattutto
nell'ambito
della
prospettiva
lineare,
decisiva
innovazione
che
determinerà
per
diversi
secoli
il
linguaggio
pittorico.
Tre
pittori
definiscono
i
tratti
dominanti
di
questa
scuola:
Masaccio
stabilisce
nella
sua
interezza
l'ideale
plastico
e
umanista
del
Rinascimento;
Paolo
Uccello
da
alla
sua
Battaglia
di
San
Romano
la
monumentalità
di
un
altorilievo
per
mezzo
di
scorci
audaci
e
d'una
stilizzazione
decorativa
delle
forme,
sottolineate
da
colori
freddi;
Fra
Giovanni
Angelico
integra
l'universo
ancora
medievale
della
sua
Incoronazione
della
Vergine
con
le
nuove
scoperte
sulla
forma
e
il
movimento:
ampiezza
ed
equilibrio
della
struttura,
rispetto
della
prospettiva.
Tali
ricerche
portano,
a
metà
del
secolo,
ad
una
perfetta
maestria
nei
volumi
e
nella
prospettiva,
i
cui
più
grandi
rappresentanti
sono
Piero
della
Francesca,
Andrea
Mantegna
(San
Sebastiano),
Antonello
da
Messina
(Il
condottiero)
e
Giovanni
Bellini.
Dimenticati
nei
secoli
classicisti,
questi
pittori
erano
assenti
dalle
collezioni
reali.
Il
merito
delle
prime
acquisizioni
del
Louvre
spetta
a
Vivant
Denon,
Direttore
dei
Musei
sotto
Napoleone.
Nel
1811
si
recò
personalmente
in
Italia
per
scegliervi,
da
Cimabue
a
Fra
Angelico,
tutta
una
serie
di
tavole
che
furono
esposte
al
Louvre
dopo
il
1815.
Ma
la
moda
dei
Primitivi
in
Francia
porta
la
data
dell'acquisizione
della
collezione
Campana
da
parte
di
Napoleone
III,
che
fece
entrare
un
centinaio
di
quadri
al
Louvre,
mentre
il
resto
costituisce
oggi
il
museo
del
Petit
Palais
ad
Avignone.
L'alto
Rinascimento
-
All'inizio
del
XVI
secolo
la
Roma
dei
Papi
recuperava
il
proprio
ruolo
di
capitale
artistica
che
aveva
perduto
dopo
l'antichità.
Intorno
al
monumentale
progetto
di
San
Pietro
si
organizzarono
tutte
le
ricerche
e
le
realizzazioni
di
Bramante,
Michelangelo,
Raffaello.
Questo
secolo
vede
anche
la
nascita
della
scuola
veneta
presso
la
quale
trionfa
il
colorismo,
di
cui
Giorgione
è
l'ispiratore
e
il
suo
allievo
Tiziano
il
più
illustre
rappresentante.
La
sezione
dedicata
alle
opere
di
questi
artisti
costituisce
uno
dei
più
insostituibili
tesori
del
Louvre,
innanzitutto
per
la
presenza
d'un
insieme
unico
al
mondo
di
opere
di
Leonardo
da
Vinci.
Su
invito
di
Francesco
I
Leonardo
si
stabilisce
nel
castello
di
Clos
Lucé,
presso
Amboise,
nel
1516.
Alla
sua
morte
Francesco
I
acquista
diverse
sue
opere
(in
particolare
la
Gioconda
e
la
Vergine
delle
Rocce)
attorno
alle
quali
sono
raccolti
altri
capolavori
del
Rinascimento
italiano
(la
Sacra
Famiglia
e
la
Bella
Giardiniera
di
Raffaello,
la
Carità
di
Andrea
del
Sarto,
ecc).
Questo
primo
fondo,
conservato
a
lungo
presso
il
castello
di
Fontainebleau,
finisce
per
arricchirsi
in
maniera
considerevole
nel
momento
in
cui
Luigi
XIV
acquisterà
una
parte
della
galleria
del
cardinale
Mazarino
(1661)
e
di
quella
del
banchiere
Jabach
(1662-1671):
fanno
così
il
loro
ingresso
al
Louvre
opere
come
il
Ritratto
di
Baldassarre
Castiglione
di
Raffaello,
il
Concerto
campestre
e
la
Donna
allo
specchio
di
Tiziano,
il
Sogno
d'Antiope
del
Correggio.
L'essenza
del
Rinascimento
è
cosi
rappresentata
al
Louvre
all'epoca
della
sua
creazione,
nel
1793.
Dell'immenso
afflusso
di
quadri
requisiti
in
Italia
sotto
la
Rivoluzione
e
l'impero,
il
museo
conserverà
poche
opere,
ma
di
grande
importanza,
come
le
Nozze
di
Cana
del
Veronese.
Il
XVII
e
il
XVIII
secolo
-
Al
termine
del
Cinquecento
si
apre
in
Italia
un
nuovo
capitolo
dell'arte
pittorica.
Il
Caravaggio,
con
la
sua
estetica
e
la
sua
tecnica,
esercitò
una
profonda
influenza
sull'arte
europea.
La
Morte
della
Vergine,
acquistata
da
Luigi
XIV,
fece
all'epoca
scandalo
per
il
realismo
della
scena
e
per
la
troppo
accentuata
drammatizzazione
dei
contrasti
di
luce
e
d'ombra.
In
seguito,
numerose
pitture
della
scuola
bolognese
(i
Carracci,
Reni,
Guercino,
Domenichino)
acquistate
o
regalate
a
Luigi
XIV
da
amatori
italiani,
arricchirono
il
gabinetto
reale.
Nel
XVIII
secolo
la
pittura
italiana
ebbe
il
suo
ultimo
splendore
a
Venezia.
Disgraziatamente
questo
periodo
è
rappresentato
al
Louvre
in
maniera
frammentaria,
nonostante
un
importante
insieme
di
tele
di
Pannini,
acquisite
sotto
Luigi
Filippo,
e
l'ingresso,
dovuto
alle
confische
della
Rivoluzione,
dell'ammirevole
serie
delle
Feste
veneziane
di
Francesco
Guardi,
che
illustrano
le
cerimonie
dell'elezione
del
doge
Alvise
Mocenigo
nel
1763.
Dopo
l'ultima
guerra,
la
collezione
si
è
ulteriormente
sviluppata
e
conta
ormai
opere
di
Canaletto,
Tiepolo,
Piazzetta,
Pietro
Longhi
e
Crespi.
**
Cimabue
-
Maestà
-
1270
-
Il
dipinto
è
stato
prelevato
nel
1811
nella
chiesa
di
San
Francesco
di
Pisa
da
Dominique-Vivant
Denon,
commissario
alle
Belle
Arti
di
Napoleone.
Le
convenzioni
di
Vienna
del
1815
stipularono
la
restituzione
della
maggior
parte
delle
opere
d'arte
sottratte
dai
francesi.
Alcune,
tuttavia,
rimasero
in
Francia:
tra
queste
la
Maestà,
che
i
commissari
fiorentini
acconsentirono
a
lasciare
al
Louvre
su
richiesta
di
Lavallée,
allora
segretario
generale
del
museo.
Verso
il
1280
Cimabue
eseguì
la
Maestà
del
Louvre,
ritenuta
anteriore
alla
Maestà
di
Santa
Trinita.
Il
trono
è
infatti
disegnato
con
un'assonometria
intuitiva,
non
con
la
pseudo-prospettiva
frontale
come
nell'altra
tavola.
È
simile
a
quello
della
Maestà
dipinta
da
Cimabue
stesso
nella
Basilica
inferiore
di
Assisi
(databile
tra
il
1278
e
il
1280),
con
i
gradini
in
primo
piano
che
invece
seguono
una
prospettiva
frontale
ribaltata,
che
suscita
un
certo
senso
di
instabilità
e
piattezza.
Gli
angeli
invece
sono
disposti
in
piani
successivi,
dando
il
senso
di
scansione
spaziale,
sebbene
rispetto
ad
Assisi
siano
più
schematici:
ciò
ha
fatto
pensare
a
una
datazione
anteriore
o
alla
presenza
di
un
collaboratore.
Appaiono
disposti
ritmicamente
attorno
alla
divinità
secondo
precisi
schemi
di
simmetria,
con
l'inclinazione
ritmica
delle
teste
e
senza
un
interesse
verso
la
loro
disposizione
illusoria
nello
spazio:
levitano
infatti
l'uno
sopra
l'altro
(non
l'uno
"dietro"
l'altro).
Maria
poggia
fiaccamente
la
mano
destra
sulla
gamba
del
bambino,
mentre
lo
cinge
con
l'altra,
infilando
le
lunghe
dita
affusolate
nella
sua
veste
e
alzando
il
ginocchio
destro
per
sostenerne
la
figura.
Il
volto
di
Maria
mostra
un
addolcimento
duccesco,
mentre
pare
estraneo
a
quel
misto
di
espressività
vivace
e
dolcezza
di
altre
opere
di
Cimabue.
Gesù,
come
consueto
per
l'epoca,
appare
come
un
giovane
filosofo
vestito
all'antica,
che
rivela
la
sua
natura
divina
benedicendo
come
un
adulto.
nella
mano
sinistra
impugna
un
rotolo
delle
sacre
scritture,
un
chiaro
elemento
di
matrice
orientale
che
rivela
l'origine
bizantina
del
modello.
Molto
fine
è
il
modo
con
cui
i
panneggi
avvolgono
il
corpo
delle
figure,
soprattutto
della
Madonna,
che
crea
un
realistico
volume
fisico.
Non
vi
è
usata
l'agemina
(le
striature
dorate).
La
pala
è
incorniciata
da
un
nastro
di
fitte
decorazioni
fitomorfe,
intervallato
da
ventisei
tondi
bordati
d'oro,
con
busti
di
Cristo
(in
cima),
di
angeli
(nella
simasa),
di
profeti
e
di
santi
(ai
lati
e
nel
bordo
inferiore).
Cimabue
con
quest'opera
stabilì
un
nuovo
canone
per
l'iconografia
tradizionale
della
Madonna
col
Bambino,
con
il
quale
si
dovettero
confrontare
i
pittori
successivi:
la
Maestà
è
il
modello
più
diretto
per
la
Madonna
Rucellai
di
Duccio
di
Buoninsegna,
già
in
Santa
Maria
Novella
e
oggi
agli
Uffizi
(con
un
trono
analogo,
e
con
una
cornice
con
testine
di
santi
quasi
identica),
che
viene
per
questo
attribuita
a
pochi
anni
dopo,
verso
il
1285
circa.

**
Giotto
di
Bondone
-
San
Francesco
riceve
le
stimmate
-
1290-1295
-
Sottratta
nel
1814
dai
commissari
alle
Belle
Arti
di
Napoleone
nel
camposanto
di
Pisa,
dove
giunse
dalla
chiesa
del
convento
di
San
Francesco
per
il
quale
era
stata
originariamente
dipinta,
la
tavola
fa
parte
delle
opere
lasciate
a
Parigi,
come
la
Maestà
di
Cimabue,
in
seguito
alle
convenzioni
di
Vienna
nel
1815.
Su
un'unica
tavola
sono
distribuite
la
raffigurazione
principale
-
in
cui
Francesco
d'Assisi
riceve
le
stimmate
sul
monte
della
Verna
-
e,
nella
predella
in
basso,
tre
storie
che
raffigurano
il
Sogno
di
Innocenzo
III,
la
Conferma
della
Regola
francescana,
e
Francesco
che
predica
agli
uccelli.
Insieme
alla
storia
principale,
le
scene
alla
base
sono
liberamente
tratte
dalle
figurazioni
del
ciclo
pittorico
dedicato
al
santo
titolare
nella
Basilica
superiore
di
San
Francesco
ad
Assisi,
eseguite
da
Giotto
tra
il
1297
e
il
1300,
e
mostrano
un'alta
qualità
pittorica.
L'importante
tavola
del
Louvre
rappresenta
la
"riprova
inoppugnabile"
(Toesca)
della
paternità
giottesca
del
ciclo
francescano
di
Assisi,
con
il
quale
ha
sorprendenti
affinità
stilistiche
e
iconografiche.
Ciò
ha
perfino
fatto
pensare
che
il
disegno
delle
storie
già
eseguite
sulle
pareti
francescane
fosse
stato
ingegnosamente
studiato
dal
maestro
per
la
trasposizione
al
formato
minore
della
tavola,
che
si
aggancia
in
sicura
successione
temporale
al
ciclo
di
Assisi.
La
firma
dell'autore
rappresenta
un
ulteriore
fattore
d'interesse
della
tavola
parigina,
se
si
considera
che
di
Giotto
sono
conosciute
soltanto
altre
due
opere
siglate
(il
polittico
della
Pinacoteca
di
Bologna
e
l'Incoronazione
Baroncelli
nella
chiesa
di
Santa
Croce
a
Firenze).
Questo
è
un
elemento
significativo
che,
unito
all'intensità
del
modellato,
alla
solidità
plastica,
all'eleganza,
e
alla
gentilezza
delle
mani
di
Francesco,
pone
l'opera
tra
le
più
interessanti
del
Louvre.
**
Paolo
Uccello
-
Battaglia
di
San
Romano
-
1436-1440
-
La
tavola
illustra
l'episodio
dell'Intervento
nella
battaglia
di
Micheletto
da
Cotignola
e
fa
parte
di
un
trittico
diviso
tra
la
National
Gallery
di
Londra
(Niccolò
da
Tolentino
alla
testa
dell'esercito
fiorentino)
e
la
Galleria
degli
Uffizi
di
Firenze
(Le
milizie
fiorentine
sbaragliano
le
truppe
senesi).
Commissionate
dal
patrizio
fiorentino
Leonardo
Bartolini
Salimbeni,
che
le
conservava
nel
suo
palazzo
cittadino,
i
dipinti
delle
battaglie
entrarono
nel
1484
nella
collezione
di
Lorenzo
il
Magnifico,
che
le
collocò
nella
"camera
grande
terrena"
del
palazzo
Medici
di
via
Larga
(attuale
via
Cavour)
del
capoluogo
toscano,
dove
mantenevano
ancora
la
lunetta
alla
sommità,
poi
decurtata.
Il
dipinto
è
stato
acquisito
dal
Louvre
nel
1863.
Durante
la
guerra
di
Lucca
(1430-1433)
-
combattuta
da
fiorentini
e
veneziani
contro
viscontei,
imperiali
e
senesi
—
il
1°
giugno
1432
nei
pressi
di
San
Romano
si
verificò
uno
scontro
in
campo
aperto.
La
battaglia,
che
i
fiorentini
chiamarono
"rotta
di
San
Romano",
non
fu
risolutiva
per
l'esito
della
guerra,
ma
ebbe
una
notevole
importanza
propagandistica
e
politica
per
l'ascesa
di
Cosimo
il
Vecchio,
che
aveva
ingaggiato
i
capitani
delle
truppe
fiorentine.
L'azione
della
tavola
parigina
è
imperniata
su
due
gruppi
di
cavalieri:
quello
sulla
destra
attende
l'ordine
del
condottiero,
mentre
la
compagnia
di
soldati
sulla
sinistra
si
è
già
lanciata
alla
carica.
In
questo
gruppo
il
movimento
della
lancia
dei
cinque
soldati
sembra
la
scomposizione
del
gesto
di
un
unico
cavaliere.
La
superficie
pittorica
presenta
in
questa
parte
alcune
lacune:
sono
raffigurate
cinque
lance,
cinque
selle
e
cintole,
mentre
le
teste
visibili
sono
solo
quattro,
e
il
terzo
soldato
manovra
due
lance;
i
pennacchi
visibili
sono
tre,
il
secondo
galleggia
nel
vuoto.
Lo
spazio
è
segnato
dai
volumi
pittorici
dei
corpi,
la
profondità
di
campo
è
suggerita
dai
due
cavalli
in
scorcio
in
primo
piano
sulla
destra,
mentre
il
mazzocchio
del
balestriere
è
il
centro
di
gravitazione
delle
figure
circostanti.
**
Antonello
da
Messina
-
Cristo
alla
colonna
-
1476
-
Il
dipinto
è
stato
acquistato
nel
1863
a
Granada
da
sir
Charles
Robinson
(1824-1913),
che
tra
il
1852
e
il
1869
rivestì
la
carica
di
soprintendente
delle
collezioni
londinesi
di
South
Kensington
e
successivamente
quella
di
primo
responsabile
delle
raccolte
della
regina
d'Inghilterra.
Robinson
fu
anche
consulente
degli
acquisti
di
opere
d'arte
di
sir
Francis
Cook,
che
comprò
questo
quadro
da
lui
nel
1868.
Il
dipinto
è
stato
alienato
nel
1989
dagli
eredi
di
quest'ultimo
e
acquistato
dal
Louvre
tre
anni
più
tardi.
Si
tratta
della
migliore
versione
nota
di
questo
soggetto,
di
cui
sono
conosciute
almeno
altre
quattro
varianti,
sulle
quali
la
critica
si
è
variamente
espressa.
L'opera
pervenne
al
Louvre
attribuita
al
pittore
lombardo
Andrea
Solario
(posteriore
di
una
generazione
ad
Antonello),
e
soltanto
dagli
anni
Trenta
del
secolo
scorso
venne
stabilita
la
paternità
dell'artista
siciliano,
oggi
unanimemente
accettata.
Raffigurazione
diretta
e
compassionevole
del
dolore
dell'uomo,
l'immagine
rinnova
l'iconografia
religiosa
per
l'audacia
della
presentazione
ravvicinata
e
di
tre
quarti,
per
il
busto
schiacciato
alla
colonna
(a
cui
rimanda
la
corda
che
scivola
sotto
il
collo),
per
il
viso
riverso
all'indietro
e
colto
prospetticamente
dal
basso
verso
l'alto.
I
dettagli,
quali
la
bocca
socchiusa,
le
lacrime,
le
gocce
di
sangue
procurate
dalle
ferite
della
corona
di
spine
e
la
resa
minuziosa
della
barba
e
dei
capelli,
contribuiscono
a
rendere
altamente
emotivo
questo
volto.
A
questo
risultato
il
maestro
"giunge
con
uno
studio
attento
e
profondo
della
tecnica
pittorica.
La
bianchezza
e
il
rosato
delle
carni
hanno
una
freddezza
speciale,
che
li
rende
consistenti
e
forti.
In
questa
espressione
delle
carni
è
forse
l'indizio
più
chiaro
del
classicismo
di
Antonello"
(L.
Venturi).

**
Domenico
Ghirlandaio
-
Ritratto
di
vecchio
con
nipote
-
1490-1493
-
Non
si
conosce
l'identità
degli
effigiati
né
le
circostanze
della
commissione
del
dipinto,
che
viene
datato,
in
base
ad
affinità
stilistiche,
alla
fase
matura
della
produzione
dell'artista,
vicino
agli
affreschi
della
Cappella
Sassetti
e
all'Adorazione
dei
pastori,
con
la
quale
condivide
lo
stile
del
paesaggio.
Gli
evidenti
graffi
sulla
fronte
del
vecchio
(eliminati
da
un
recente
restauro
ma
presenti
in
numerose
riproduzioni
fotografiche)
vennero
procurati,
con
tutta
probabilità,
da
un
chiodo
che
affiorava
in
una
cassa
dove
il
dipinto
venne
trasportato
a
cavallo.
Nel
Nationalmuseet
di
Stoccolma
si
conserva
un
disegno
preparatorio
dell'opera,
in
cui
l'anziano
ha
gli
occhi
chiusi,
facendo
supporre
che
l'uomo
fosse
morto
al
tempo
della
realizzazione
dell'opera.
La
fedeltà
alla
realtà
fa
pensare
comunque
a
un
ritratto
sicuramente
destinato
alla
fruizione
privata,
essendo
privo
di
ogni
retorica
ufficiale.
Venne
acquistato
dal
museo
sul
mercato
antiquario
nel
1880.
Sullo
sfondo
di
una
parete,
dove
si
apre
una
finestra
che
dà
su
un
paesaggio
montano,
un
uomo
anziano
è
ritratto
a
mezzobusto
vestito
con
la
tunica
rossa
bordata
di
pelliccia
di
volpe,
tipica
delle
classi
agiate
del
XV
secolo.
Verso
di
lui
si
slancia
un
fanciullo,
probabilmente
il
nipote,
creando
un
tenero
abbraccio
tra
i
due.
L'atmosfera
familiare
e
il
profondo
legame
affettivo
sono
sottolineati
anche
dal
contatto
visivo
tra
i
due,
che
si
guardano
con
serena
intensità.
La
diagonale
creata
dalle
direzioni
degli
sguardi
bilancia
perfettamente
la
composizione
con
lo
squarcio
paesistico
aperto
sulla
destra,
nel
quale
si
vede
una
strada
sinuosa
che
si
inerpica
tra
una
collina,
con
una
chiesetta,
e
una
montagna
che
sembra
elevarsi
da
un
lago.
Lumeggiature
dorate
danno
luce
alla
vegetazione,
mentre
in
lontananza
i
rilievi
più
lontani
si
perdono
nella
foschia
sfumando
in
toni
azzurrini.
Il
ritratto
è
esemplare
della
tradizione
fiorentina
che
puntava
direttamente
alla
resa
realistica
del
personaggio.
L'uomo
infatti
è
raffigurato
anche
nei
suoi
difetti,
come
l'acne
deformante
sul
naso
bitorzoluto
(rhinophyma),
la
canizie
e
il
neo
sporgente,
ma
nonostante
ciò
niente
intacca
il
senso
di
dignità,
della
sagacia
e
della
saggezza
dell'anziano.
Straordinaria
è
la
resa
dei
capelli
grigi,
così
reali
da
emulare
le
opere
fiamminghe.
Di
fattura
meno
pregiata
è
il
fanciullo,
forse
opera
di
aiuti,
che
possiede
comunque
un
bel
disegno
del
profilo,
con
l'espressione
tipicamente
infantile
a
bocca
dischiusa.
La
luce
illumina
i
due
personaggi
in
maniera
complementare,
dal
centro
verso
i
bordi,
con
l'uso
di
tonalità
simili
che
amplificano
il
legame
tra
le
due
generazioni
a
confronto.
**
Andrea
Mantegna
-
San
Sebastiano
-
1482-1485
-
Il
dipinto
giunse
in
Francia
probabilmente
in
seguito
alle
nozze
di
Chiara
Gonzaga,
figlia
del
marchese
Federico,
con
Gilbert
de
Bourbon,
conte
di
Montpensier
e
delfino
di
Alvernia.
Le
nozze
vennero
celebrate
nel
1481,
e
Chiara
lasciò
Mantova
nel
giugno
di
quello
stesso
anno
per
trasferirsi
nel
castello
di
Aigueperse,
all'epoca
ancora
in
costruzione,
a
cui
era
annessa
una
Sainte
Chapelle.
Tra
la
fine
del
Seicento
e
gli
inizi
del
secolo
successivo,
il
dipinto
è
ricordato
nella
Sainte
Chapelle
di
Aigueperse
in
Alvernia,
fondata
nel
1475
da
Luigi
I
di
Borbone.
Dopo
la
Rivoluzione
l'opera
si
trovava
ancora
ad
Aigueperse,
ma
venne
trasportata
nella
chiesa
locale
di
Notre-Dame
da
dove,
nel
1910,
raggiunse
il
Louvre.
La
datazione
della
tela
dovrebbe
risalire
al
tempo
delle
nozze
di
Chiara
e
Gilbert,
poiché
il
San
Sebastiano
sembra
stilisticamente
prossimo
agli
affreschi
della
Camera
pietà.
Quest'ultima
fu
dipinta
da
Mantegna
tra
il
1465
e
il
1474
nel
Palazzo
Ducale
di
Mantova
su
commissione
di
Ludovico
Gonzaga
e
condivide
con
l'opera
del
Louvre
i
toni
coloristici
chiari
e
luminosi.
L'opera
è
coerente
con
lo
sviluppo
formale
del
maestro,
che
enfatizza
la
figura
del
santo
conferendole
un
effetto
monumentale,
raggiunto
utilizzando
un
punto
di
vista
ribassato.
Il
dipinto
raffigura
il
santo
trafitto
dalle
frecce
del
martirio
e
legato
alla
colonna
di
un'imponente
costruzione
architettonica
all'antica,
ormai
diroccata
e
in
rovina.
Ai
suoi
piedi
stanno
vari
frammenti
classici,
tra
cui
il
piede
d'una
statua:
Mantegna
era
infatti
appassionato
di
reperti
antichi,
che
collezionava
e
inseriva
spesso
nelle
sue
opere.
In
primo
piano,
nell'angolo
in
basso
a
destra,
si
notano
i
due
giustizieri,
l'arciere
e
un
compagno,
che
sono
raffigurati
con
quell'insistenza
chiaroscurale
sui
solchi
del
viso
tipica
delle
opere
di
Mantegna
più
espressive.
Alcuni
dettagli
grotteschi
(come
l'espressione
truce
dell'arciere
o
la
finezza
con
cui
sono
disegnati
uno
per
uno
i
peli
della
sua
barba)
rimandano
ad
opere
fiamminghe,
in
particolare
alla
lezione
di
Rogier
van
der
Weyden
che
Mantegna
ebbe
modo
di
assimilare
in
gioventù.
Il
santo,
come
consueto
nelle
rappresentazioni
dalla
seconda
metà
del
Quattrocento
in
poi,
diede
l'opportunità
al
pittore
di
eseguire
una
virtuosa
rappresentazione
anatomica
del
nudo
maschile,
con
il
torace
trattato
con
una
particolare
morbidezza
di
toni,
su
cui
spicca
per
contrasto
la
durezza
quasi
marmorea
del
panneggio
del
perizoma.
Le
frecce,
a
differenza
della
tavola
viennese,
entrano
ed
escono
da
corpo
martirizzato,
scorrendo
talvolta
sottopelle,
per
aumentare
il
senso
tragico
di
dolore
del
martirio,
che
Sebastiano
sembra
tra
l'altro
sopportare
con
pietosa
rassegnazione
grazie
alla
fede
religiosa,
come
suggerisce
il
suo
viso
rivolto
al
cielo.
Da
notare
alcuni
virtuosismi,
come
l'effetto
delle
corde
che
stringono
le
carni
con
grande
realismo,
come
sul
braccio
destro.
Lo
sfondo
è
occupato
da
un
lontano
paesaggio
montuoso,
con
un
capriccio
di
architetture,
antiche
e
moderne,
che,
in
ossequio
alla
forma
della
tela,
si
svolge
in
maniera
più
che
altro
verticale,
sullo
sfondo
di
un
cielo
sereno
attraversato
da
gonfie
nuvole.
Il
monte
è
dominato
in
alto
da
un
castello,
appoggiato
su
uno
sperone
roccioso,
sotto
il
quale
sta
un'altra
rocca.
Più
in
basso
si
trova
la
città
(visibile
anche
a
sinistra),
sotto
la
quale
spicca
una
piazza
lastricata
circondata
da
monumenti
romani
in
rovina:
una
porta-arco
di
trionfo
con
alto
attico
(le
mura
superiori
richiamano
le
aggiunte
tipicamente
medievali
come
nell'arco
di
Augusto
di
Rimini)
e
una
sorta
di
tempio
con
mozziconi
di
colonna
e
una
parapetto
scolpito
a
bassorilievi,
che
si
erge
sopra
un
porticato
in
grossi
blocchi
di
pietra.
Non
si
tratta
più
delle
ricostruzioni
in
stile
che
avevano
caratterizzato
le
opere
giovanili
come
la
Cappella
Ovetari,
ma
di
un'interpretazione
più
inquieta,
con
le
rovine
che
simboleggiano
la
caducità
del
mondo
antico.
**
Andrea
Mantegna
-
Crocifissione
-
1456-1459
-
Si
tratta
del
pannello
centrale
della
predella
(che
comprendeva
anche
le
raffigurazioni
dell'Orazione
nell'orto
e
della
Resurrezione,
entrambe
al
Musée
des
Beaux-Arts
di
Tours)
del
polittico
con
La
Madonna,
il
Bambino,
angeli
e
santi
(detta
Vaia
di
San
Zeno)
che
si
conserva
nella
chiesa
di
San
Zeno
a
Verona,
luogo
per
il
quale
venne
dipinta
all'origine.
È
una
delle
più
significative
realizzazioni
di
Mantegna
per
l'unitarietà
dell'impianto
compositivo;
il
pittore
fornì
probabilmente
anche
il
disegno
della
cornice,
che
è
ancora
quella
originale.
Il
polittico
fu
requisito
nel
1797
dai
commissari
di
Bonaparte
e
trasportato
a
Parigi
dove,
in
seguito
alle
riconsegne
del
1815,
restarono
solo
i
pannelli
della
predella
che,
nel
frattempo,
era
stata
smembrata.
Il
dipinto
per
la
chiesa
veronese
venne
commissionato
dal
protonotario
Gregorio
Correr,
colto
intellettuale
avviato
alla
carriera
ecclesiastica
dallo
zio
cardinale
Antonio
Correr.
Trascorsi
diversi
anni
a
Padova,
egli
si
trasferì
a
Verona,
dove
divenne
rettore
del
monastero
di
San
Zeno,
carica
che
precedentemente
era
stata
dello
zio.
Mantegna
lavorò
al
dipinto
tra
il
1456
e
il
1459,
mentre
il
pagamento
finale
dell'opera
si
data
al
gennaio
dell'anno
successivo.
L'attenzione
per
i
particolari
e
la
resa
miniaturistica
dei
dettagli,
unite
al
realismo
con
cui
sono
rappresentati
i
personaggi,
raggiungono
effetti
di
forte
intensità.
La
Crocifissione
è
divisibile
in
due
registri:
uno
inferiore,
dove
si
trovano
i
soldati,
il
gruppo
delle
pie
donne,
san
Giovanni
e
altri
spettatori,
e
uno
superiore,
dove
si
trovano
i
tre
crocifissi
sullo
sfondo
del
cielo
terso,
che
si
schiarisce
verso
l'orizzonte.
Alla
fiera
sopportazione
del
dolore
di
Cristo
fanno
da
contraltare
le
espressive
pose
contorte
dei
due
ladroni.
La
scena
mostra
la
comprensione
delle
opere
di
Donatello,
con
la
profonda
penetrazione
psicologica
dei
personaggi
(si
pensi
allo
straziante
dolore
di
Maria)
e
con
l'effetto
di
rappresentazione
casuale
della
vita
sotto
i
nostri
occhi,
con
la
presenza
di
comparse
come
i
due
personaggi
dimezzati
in
primo
piano,
che
sembrano
colti
di
sorpresa
nel
loro
passaggio
casuale.
La
profonda
partecipazione
dei
personaggi
ricorda
anche
le
opere
di
Rogier
van
der
Weyden,
che
Mantegna
aveva
probabilmente
visto
a
Ferrara.
Numerosi
sono
i
dettagli
di
grande
valore,
dalla
città
sullo
sfondo,
rappresentazione
ideale
di
Gerusalemme,
alle
guardie
che
si
giocano
a
dadi
la
veste
di
Cristo,
su
un
tabellone
colorato
di
forma
circolare.
I
teschi,
che
si
vedono
di
lato
e
sotto
la
croce
di
Cristo,
ricordano
l'inevitabilità
della
morte.

**
Leonardo
da
Vinci
-
La
Vergine
delle
rocce
-
1483-1486
-
La
prima
versione
della
Vergine
delle
Rocce
è
un
dipinto
a
olio
su
tavola
trasportato
su
tela
(199x122
cm),
databile
al
1483-1486.
Il
25
aprile
1483
Bartolomeo
Scorione,
priore
della
Confraternita
milanese
dell'Immacolata
Concezione,
stipulò
un
contratto
per
una
pala
da
collocare
sull'altare
della
cappella
della
Confraternita
nella
chiesa
di
San
Francesco
Grande
col
giovane
artista
arrivato
circa
un
anno
prima
da
Firenze.
Per
Leonardo
era
la
prima
commissione
che
otteneva
a
Milano,
dove
era
stato
accolto
tiepidamente.
Al
contratto
presenziarono
anche
i
più
noti
fratelli
pittori
Evangelista
e
Giovanni
Ambrogio
De
Predis,
che
ospitavano
Leonardo
nella
loro
abitazione
vicino
Porta
Ticinese.
Il
dettagliatissimo
contratto
prevedeva
un
trittico.
Nella
pala
centrale
la
Madonna
con
un
ricco
abito,
Dio
Padre
in
alto,
un
gruppo
di
angeli
e
due
profeti.
Nelle
due
parti
laterali
i
confratelli
chiedevano
quattro
angeli.
Le
tavole
laterali,
affidate
ai
De
Predis,
dovevano
mostrare
angeli
in
gloria,
il
tutto
per
un
compenso
di
ottocento
lire
imperiali
da
pagarsi
a
rate
fino
al
febbraio
1485.
L'intelaiatura
lignea
venne
invece
affidata
a
Giacomo
del
Maiale.
Non
è
chiaro
perché
Leonardo
cambiò
il
soggetto
della
tavola,
optando
piuttosto
per
il
leggendario
incontro
tra
i
piccoli
Gesù
e
Giovanni
narrato
nella
Vita
di
Giovanni
secondo
Scipione
e
in
altri
testi
sull'infanzia
di
Cristo.
Potrebbe
essere
stato
Leonardo
a
decidere
arbitrariamente
le
modifiche,
ma
è
possibile
che,
viste
le
consuetudini
dell'epoca,
siano
state
le
richieste
dei
committenti
a
cambiare
anche
in
considerazione
dello
stile
un
po'
"arcaico"
della
prima
richiesta.
Giovanni
Battista
infatti
era
il
protettore,
assieme
a
san
Francesco,
della
Confraternita
dell'Immacolata,
che
quindi
si
riconosceva
nella
figura
del
Battista
inginocchiata
davanti
a
Gesù
e
da
lui
benedetta,
nonché,
allo
stesso
tempo,
protetta
dalla
Vergine
Maria.
Spesso
si
è
letto
che,
a
causa
dell'inadempienza
contrattuale
legata
al
soggetto,
la
Confraternita
contestò
il
dipinto
considerandolo
incompiuto,
o
addirittura
inadatto
poiché
eretico.
Studi
più
precisi,
basati
sui
documenti
d'archivio
relativi
alla
controversia
legale
che
oppose
gli
artisti
ai
committenti,
hanno
permesso
di
delineare
una
vicenda
diversa.
In
una
supplica
al
Duca
di
Milano,
databile
tra
il
1493
e
il
1494,
Leonardo
da
Vinci
e
Ambrogio
de
Predis
(Evangelista
era
nel
frattempo
morto
alla
fine
del
1490
o
all'inizio
del
1491)
richiedevano
che
l'opera
dovesse
essere
pagata
più
della
cifra
pattuita
inizialmente
(200
ducati)
in
quanto
la
realizzazione,
soprattutto
a
causa
della
complessa
ancona
dorata
e
intagliata,
sarebbe
stata
molto
più
laboriosa
e
dispendiosa.
Gli
artisti
dunque
chiedevano
un
conguaglio
di
100
ducati
per
il
dipinto
centrale,
ma
se
ne
videro
offrire
solo
25.
Proposero
allora
che
venissero
nominati
degli
"esperti
dell'Arte"
che
giudicassero
il
lavoro.
La
diatriba
tra
Leonardo
e
la
Confraternita
si
trascinò
così
per
molti
anni
e
fu
chiusa
nel
1506
da
una
sentenza
con
cui
l'opera
venne
dichiarata
ufficialmente
"incompiuta".
Leonardo
era
tenuto
a
portarla
a
termine
entro
due
anni,
ma
gli
venne
riconosciuto
un
conguaglio
di
200
lire
(corrispondenti
a
50
ducati,
la
metà
di
quanto
aveva
inizialmente
richiesto).
Nel
frattempo
Leonardo
aveva
abbandonato
Milano,
era
tornato
a
Firenze
ed
aveva
visitato
numerose
città.
La
seconda
versione
della
pala,
che
mitiga
alcuni
aspetti
più
rivoluzionari
dell'opera,
doveva
essere
già
avviata
prima
della
partenza
di
Leonardo
(1499),
venendo
poi
completata
in
occasione
del
suo
secondo
soggiorno
milanese,
nel
1506.
Nella
seconda
versione
la
Madonna
appare
più
grande
e
maestosa,
i
due
bambini
sono
più
riconoscibili
e
soprattutto
è
sparito
l'inconsueto
gesto
della
mano
dell'angelo,
che
nella
prima
versione
indicava
Giovanni,
e
il
suo
sguardo
diretto
allo
spettatore.
I
classici
attributi
della
iconografia
tradizionale,
come
le
aureole
e
il
bastone
con
la
croce
del
Battista,
sarebbero
stati
aggiunti
molti
anni
più
tardi,
probabilmente
nei
primi
decenni
del
XVII
secolo.
Secondo
un'ipotesi
recente[10]
le
due
versioni
della
Vergine
delle
Rocce
sarebbero
state
realizzate
per
due
diversi
luoghi
e
committenti
nella
stessa
città
di
Milano:
la
prima
per
la
cappella
palatina
della
chiesa
di
San
Gottardo,
e
la
seconda
per
la
cappella
dell'Immacolata
nella
chiesa
di
San
Francesco
Grande.
La
versione
londinese
si
trovava
sicuramente
a
San
Francesco
poco
prima
che
la
chiesa
venisse
demolita
nel
1576;
trasportata
nella
sede
della
confraternita,
vi
rimase
fino
alla
soppressione
del
1785,
quando
venne
venduta
al
pittore
inglese
Gavin
Hamilton
che
la
portò
in
Inghilterra.
Il
destino
della
prima
versione,
quella
parigina,
è
più
incerto
e
nessuna
delle
diverse
ipotesi
sull'arrivo
dell'opera
in
Francia
ha
ancora
trovato
una
conferma
documentale.
Nell'ipotesi
più
accreditata,
durante
la
lunga
disputa
legale
che
vide
contrapposti
Leonardo
e
Ambrogio
de
Predis
alla
Confraternita
dell'Immacolata,
la
prima
versione
sarebbe
stata
venduta
a
qualcuno
che
aveva
fatto
generose
offerte
d'acquisto,
forse
lo
stesso
duca
Ludovico
il
Moro
che
l'avrebbe
esposta
nella
cappella
del
palazzo
ducale,
e
sarebbe
poi
caduta
nelle
mani
dei
francesi
assieme
a
tutte
le
sue
proprietà.
Altri
studiosi
sostengono
che
la
pala
oggi
al
Louvre
sarebbe
identificabile
con
la
Maestà
inviata
in
dono
da
Ludovico
il
Moro
a
Massimiliano
d'Asburgo
in
occasione
delle
nozze
dell'imperatore
con
Bianca
Maria
Sforza
(1493),
e
il
passaggio
in
Francia
sarebbe
avvenuto
molti
anni
più
tardi,
in
occasione
di
altre
nozze,
quelle
di
Eleonora,
nipote
di
Massimiliano,
con
Francesco
I
di
Francia.
In
ogni
caso
la
prima
documentata
presenza
del
dipinto
nelle
collezioni
francesi
risale
al
1625,
quando
Cassiano
dal
Pozzo,
che
aveva
accompagnato
il
cardinal
Barberini
nella
sua
legazione
in
Francia,
la
vide
a
Fontainebleau
nella
galleria
delle
pitture.
Il
dipinto
si
trovava
poi
nel
catalogo
del
Musée
Royal
nel
1830
e
ai
primi
del
XIX
secolo
venne
effettuato
il
trasporto
su
tela
dal
restauratore
François
Toussaint
Hacquin,
secondo
pratica
allora
molto
frequente.
La
scena
del
dipinto
si
svolge
in
un
umido
paesaggio
roccioso,
orchestrato
architettonicamente,
in
cui
dominano
fiori
e
piante
acquatiche,
descritti
con
minuzia
da
botanico;
da
lontano
si
intravede
un
corso
d'acqua.
Al
centro
Maria
allunga
la
mano
destra
a
proteggere
il
piccolo
san
Giovanni
in
preghiera,
inginocchiato
e
rivolto
a
Gesù
Bambino,
che
si
trova
più
in
basso,
a
destra,
in
atto
di
benedirlo
e
con
il
corpo
in
torsione.
Dietro
di
lui
si
trova
un
angelo,
con
un
vaporoso
mantello
rosso,
che
guarda
direttamente
verso
lo
spettatore
con
un
lieve
sorriso,
coinvolgendolo
nella
rappresentazione,
e
con
la
mano
destra
indica
il
Battista,
rinviando
lo
sguardo
verso
il
punto
di
partenza
in
una
carambola
di
linee
di
forza.
La
mano
sinistra
di
Maria
si
protende
in
avanti
come
a
proteggere
il
figlio,
con
un
forte
scorcio.
Due
cavità
si
aprono
ad
arte
nello
sfondo,
rivelando
interessanti
vedute
di
speroni
rocciosi
e
gruppi
di
rocce
irte,
che
a
sinistra
sfumano
in
lontananza
per
effetto
della
foschia,
secondo
la
tecnica
della
prospettiva
aerea
di
cui
Leonardo
è
considerato
l'iniziatore.
In
alto
invece
il
cielo
si
fa
cupo,
quasi
notturno,
con
l'incombere
minaccioso
della
grotta,
punteggiata
da
innumerevoli
pianticelle.
Le
figure
emergono
dallo
sfondo
scuro,
con
una
luce
diffusa
tipica
dello
sfumato
leonardesco,
che
crea
un'atmosfera
avvolgente,
di
"pacata
Rivelazione".
Inoltre
usa
lo
schema
piramidale
che
riprende
in
molte
sue
altre
opere.
L'opera
sembra
celare
infatti
il
mistero
dell'Immacolata
concezione,
con
l'arido
scenario
montuoso,
oscuro
e
simbolico,
che
evoca,
con
la
manifestazione
delle
viscere
della
natura
in
cui
la
Vergine
sembra
incastrarsi
a
perfezione,
il
senso
del
mistero
legato
alla
maternità.
I
colori
sono
più
cupi
di
quelli
utilizzati
da
Leonardo
nella
versione
successiva,
ma
la
luce
è
decisamente
più
calda
di
quella
asettica
e
tagliente
di
Londra.

**
Leonardo
da
Vinci
-
La
Gioconda
-
1503-1504
e
1510-1515
-
La
Gioconda,
nota
anche
come
Monna
Lisa,
è
un
dipinto
a
olio
su
tavola
di
pioppo
(77 cm
×
53
cm)
di
Leonardo
da
Vinci,
databile
al
1503-1514
circa.
Opera
emblematica
ed
enigmatica,
si
tratta
sicuramente
del
ritratto
più
celebre
del
mondo,
nonché
di
una
delle
opere
d'arte
più
note
in
assoluto,
oggetto
di
infiniti
omaggi,
ma
anche
parodie
e
sberleffi.
Il
sorriso
impercettibile
della
Gioconda,
col
suo
alone
di
mistero,
ha
ispirato
tantissime
pagine
di
critica,
di
letteratura,
di
opere
di
immaginazione,
di
studi
anche
psicoanalitici.
Sfuggente,
ironica
e
sensuale,
la
Monna
Lisa
è
stata
di
volta
in
volta
amata,
idolatrata,
ma
anche
derisa
o
aggredita.
Vera
e
propria
icona
della
pittura,
è
vista
ogni
giorno
da
migliaia
di
persone,
tanto
che
nella
grande
sala
in
cui
è
esposta
un
cordone
deve
tenere
a
notevole
distanza
i
visitatori:
nella
lunga
storia
del
dipinto
non
sono
mancati
i
tentativi
di
vandalismo,
nonché
un
furto
rocambolesco
che
in
un
certo
senso
ne
ha
alimentato
la
leggenda.
L'opera
rappresenta
tradizionalmente
Lisa
Gherardini,
cioè
"Monna"
Lisa
(un
diminutivo
di
"Madonna"
che
oggi
avrebbe
lo
stesso
significato
di
"Signora"),
moglie
di
Francesco
del
Giocondo
(quindi
la
"Gioconda").
Leonardo
dopotutto,
in
quel
periodo
del
suo
terzo
soggiorno
fiorentino,
abitava
nelle
case
accanto
a
Palazzo
Gondi
(oggi
distrutte)
a
pochi
passi
da
piazza
della
Signoria,
che
erano
proprio
di
un
ramo
della
famiglia
Gherardini
di
Montagliari.
Questa,
apparentemente
di
facile
identificazione,
ha
come
fonti
antiche
un
documento
del
1525
in
cui
vengono
elencati
alcuni
dipinti
che
si
trovano
tra
i
beni
di
Gian
Giacomo
Caprotti
detto
"Salaì",
allievo
di
Leonardo
che
seguì
il
maestro
in
Francia,
dove
l'opera
è
menzionata
per
la
prima
volta
"la
Joconda"
Fu
Leonardo
stesso
a
portare
con
sé
in
Francia,
nel
1516,
la
Gioconda,
che
potrebbe
essere
stata
poi
acquistata,
assieme
ad
altre
opere,
da
Francesco
I.
Si
sa
che
un
secolo
dopo,
nel
1625,
un
ritratto
chiamato
"la
Gioconda"
fu
descritto
da
Cassiano
dal
Pozzo
tra
le
opere
delle
collezioni
reali
francesi.
Altri
indizi
fanno
pensare
che
fin
dal
1542
si
trovasse
tra
le
decorazioni
della
Salle
du
bain
del
castello
di
Fontainebleau.
Più
tardi
Luigi
XIV
fece
trasferire
il
dipinto
a
Versailles.
Dopo
la
Rivoluzione
francese,
venne
spostato
al
Louvre.
Napoleone
Bonaparte
lo
fece
mettere
nella
sua
camera
da
letto,
ma
successivamente
tornò
al
Louvre.
Durante
la
guerra
Franco-Prussiana
del
1870-1871
fu
messo
al
riparo
in
un
sito
nascosto.
Il
furto
della
Gioconda
avvenne
la
notte
tra
domenica
20
e
lunedì
21
agosto
1911,
prima
di
un
giorno
di
chiusura
del
museo;
della
sottrazione
si
accorse
lunedì
stesso
un
copista,
Louis
Béroud,
che
aveva
avuto
il
permesso
per
riprodurre
l'opera
a
porte
chiuse.
La
notizia
del
furto
fu
ufficializzata
solo
il
giorno
dopo,
anche
perché
all'epoca
non
era
infrequente
che
le
opere
venissero
temporaneamente
rimosse
per
essere
fotografate.
Era
la
prima
volta
che
un
dipinto
veniva
rubato
da
un
museo,
per
di
più
dell'importanza
del
Louvre,
e
a
lungo
la
polizia
brancolò
nel
buio.
Fu
sospettato
il
poeta
francese
Guillaume
Apollinaire
che
venne
arrestato
e
condotto
in
prigione
il
7
settembre:
il
suo
arresto
si
basava
su
una
calunnia
da
parte
dell'amante
Honoré
Géri
Pieret,
che
lo
accusò
di
aver
ricettato
alcune
statuette
antiche
rubate
dal
museo.
Anche
Pablo
Picasso
venne
interrogato
in
merito,
ma,
come
Apollinaire,
fu
in
seguito
rilasciato.
Sospetti
caddero
anche
sull'Impero
tedesco,
nemico
della
Francia,
ipotizzando
un
furto
di
Stato.
Mentre
crescevano
sospetti
e
polemiche,
si
iniziò
a
ritenere
il
capolavoro
perso
per
sempre:
Franz
Kafka
vide
una
cornice
vuota
e
dopo
un
po'
il
posto
lasciato
dalla
Gioconda
sulla
parete
fu
preso
dal
Ritratto
di
Baldassarre
Castiglione
di
Raffaello.
In
realtà
un
ex-impiegato
del
Louvre,
Vincenzo
Peruggia,
originario
di
Dumenza,
cittadina
nei
pressi
di
Luino,
convinto
che
il
dipinto
appartenesse
all'Italia
e
non
dovesse
quindi
restare
in
Francia,
lo
aveva
rubato,
rinchiudendosi
nottetempo
in
uno
sgabuzzino
e,
trascorsavi
la
notte,
uscendo
dal
museo
a
piedi
con
il
quadro
sotto
il
cappotto:
egli
stesso
ne
aveva
montato
la
teca
in
vetro,
quindi
sapeva
come
sottrarlo.
Uscì
in
tutta
calma:
chiese
anche
a
un
idraulico
un
aiuto
per
uscire
dal
museo,
essendo
sparita
la
maniglia
del
portone
d'ingresso,
e
all'uscita
sbagliò
tram,
optando
poi
per
un
più
comodo
taxi.
Messa
l'opera
in
una
valigia,
posta
sotto
il
letto
di
una
pensione
di
Parigi,
la
custodì
per
ventotto
mesi
e
successivamente
la
portò
nel
suo
paese
d'origine,
a
Luino,
con
l'intenzione
di
"regalarlo
all'Italia",
ottenendo
da
qualcuno
delle
garanzie
che
il
quadro
sarebbe
rimasto
nel
suo
paese:
riteneva
infatti,
erroneamente,
che
l'opera
fosse
stata
rubata
durante
le
spoliazioni
napoleoniche.
Ingenuamente
nel
1913
si
recò
a
Firenze,
per
rivendere
l'opera
per
pochi
spiccioli.
Il
ladro,
processato,
venne
definito
"mentalmente
minorato"
e
condannato
ad
una
pena
di
un
anno
e
quindici
giorni
di
prigione,
poi
ridotti
a
sette
mesi
e
quindici
giorni.
Approfittando
del
clima
amichevole
che
allora
regnava
nei
rapporti
tra
Italia
e
Francia,
il
dipinto
recuperato
venne
esibito
in
tutta
Italia:
prima
agli
Uffizi
a
Firenze,
poi
all'ambasciata
di
Francia
di
Palazzo
Farnese
a
Roma,
infine
alla
Galleria
Borghese,
prima
del
suo
definitivo
rientro
al
Louvre.
Durante
la
prima
e
la
seconda
guerra
mondiale
il
dipinto
venne
di
nuovo
rimosso
dal
Louvre
e
conservato
in
luoghi
sicuri.
Durante
il
secondo
conflitto
in
particolare
fu
depositata
al
castello
di
Chambord,
poi
ad
Amboise,
a
cui
seguirono
l'abbazia
di
Loc-Dieu,
il
Museo
Ingres
di
Montauban
e
di
nuovo
Chambord,
prima
di
finire
sotto
il
letto
del
conservatore
del
Louvre
nel
castello
di
Montal
e
tornare
a
Parigi
nel
1945.
Nel
1956,
la
parte
inferiore
del
dipinto
venne
seriamente
danneggiata
a
seguito
di
un
attacco
con
dell'acido.
Diversi
mesi
dopo
qualcuno
lanciò
un
sasso
contro
il
dipinto:
attualmente
viene
esposto
dietro
un
vetro
di
sicurezza.
Nel
1962
il
quadro
fu
prestato
agli
Stati
Uniti
dove,
fu
esposto
alla
National
Gallery
di
Washington
e
al
Metropolitan
Museum
di
New
York,
dove
attrasse
un
milione
e
settecentomila
visitatori;
nel
1974
fece
la
sua
ultima
tournée,
con
tappe
a
Tokyo
e
a
Mosca.
Studi
del
settembre
2006,
effettuati
dal
Centro
Nazionale
di
Ricerca
e
Restauro
dei
Musei
di
Francia,
hanno
rilevato
come
in
un
primo
tempo
tutto
il
volto
della
donna
dovesse
essere
ricoperto
da
un
sottile
velo,
velo
che
all'epoca
era
portato
dalle
donne
in
attesa
o
che
avevano
appena
dato
alla
luce
un
figlio;
inoltre
dietro
il
dipinto
si
è
potuto
vedere
uno
schizzo
inciso
sul
legno
da
Leonardo,
il
quale
prima
di
dipingere
il
quadro
ne
avrebbe
abbozzato
la
struttura:
nello
schizzo
la
figura
femminile
indossa
una
cuffia,
poi
oggetto
di
un
ripensamento.
Per
evitare
il
deterioramento
causato
dai
numerosi
flash
che
colpiscono
l'opera,
è
stata
inserita
una
protezione
in
vetro
di
fabbricazione
italiana
resistente
oltretutto
a
vari
tipi
di
esplosivi
e
a
qualsiasi
agente
corrosivo.

Il
ritratto
mostra
una
donna
seduta
a
mezza
figura,
girata
a
sinistra
ma
con
il
volto
pressoché
frontale,
ruotato
verso
lo
spettatore.
Le
mani
sono
dolcemente
adagiate
in
primo
piano,
mentre
sullo
sfondo,
oltre
una
sorta
di
parapetto,
si
apre
un
vasto
paesaggio
fluviale,
con
il
consueto
repertorio
leonardesco
di
picchi
rocciosi
e
speroni.
Indossa
una
pesante
veste
scollata,
secondo
la
moda
dell'epoca,
con
un
ricamo
lungo
il
petto
e
maniche
in
tessuto
diverso;
in
testa
indossa
un
velo
trasparente
che
tiene
fermi
i
lunghi
capelli
sciolti,
ricadendo
poi
sulla
spalla
dove
si
trova
appoggiato
anche
un
leggero
drappo
a
mo'
di
sciarpa.
Il
quadro
di
Leonardo
fu
uno
dei
primi
ritratti
a
rappresentare
il
soggetto
davanti
a
un
panorama
ritenuto,
dai
più,
immaginario.
Una
caratteristica
interessante
del
panorama
è
che
non
è
uniforme.
La
parte
di
sinistra
è
evidentemente
posta
più
in
basso
rispetto
a
quella
destra.
Questo
fatto
ha
portato
alcuni
critici
a
ritenere
che
sia
stata
aggiunta
successivamente.
La
Gioconda
si
trova
in
una
specie
di
loggia
panoramica,
come
dimostrano
le
basi
di
due
colonne
laterali
sul
parapetto;
una
copia
seicentesca
mostrerebbe
la
composizione
originaria
in
cui
è
visibile
la
parte
architettonica
successivamente
mutilata.
Considerando
la
grande
cura
di
Leonardo
per
i
dettagli,
molti
esperti
ritengono
che
non
si
tratti
di
uno
sfondo
inventato,
ma
rappresenti
anzi
un
punto
molto
preciso
della
Toscana,
cioè
là
dove
l'Arno
supera
le
campagne
di
Arezzo
e
riceve
le
acque
della
Val
di
Chiana.
C'è
un
indizio
preciso
sulla
destra
della
Gioconda
oltre
la
spalla,
è
un
ponte
basso,
a
più
arcate,
cioè
un
ponte
antico,
a
schiena
d'asino
di
stile
romanico,
un
ponte
identico
al
ponte
a
Buriano
che
scavalca
tutt'oggi
l'Arno
e
che
venne
costruito
in
pieno
Medioevo,
a
metà
del
XIII
secolo,
quando
Arezzo
attraversava
un
periodo
di
grande
prosperità.
Sopra
le
sue
arcate
passa
l'antica
via
Cassia
che
collega
Roma,
Chiusi,
Arezzo
e
Firenze.
Leonardo
conosceva
bene
questo
ponte,
perché
aveva
studiato
a
fondo
questa
zona,
come
testimonia
un
disegno
datato
tra
il
1502
e
il
1503
che
descrive
il
bacino
idrico
della
Val
di
Chiana,
in
cui
si
intravede
anche
il
ponte
a
Buriano;
è
una
prova
che
Leonardo
aveva
ben
in
mente
la
geografia
di
questi
luoghi.
Poco
distante
dal
ponte,
l'Arno
riceve
le
acque
di
un
immissario,
il
canale
della
Chiana
nel
quale
confluiscono
le
acque
dell'omonima
valle.
Se
si
risale
il
corso
di
questo
canale,
andando
a
ritroso,
bisogna
superare
una
serie
di
meandri
e
poi
ci
si
infila
in
una
gola,
la
Gola
di
Pratantico.
Se
si
osserva
il
lato
sinistro
della
Gioconda,
si
vede
un
corso
d'acqua
con
meandri
che
si
infila
in
una
stretta
gola.
Inoltre
i
rilievi
a
sinistra
della
Gioconda
sono
verticali,
aguzzi,
scavati
dall'erosione
e
in
effetti,
oltre
il
ponte,
continuando
la
vecchia
via
Cassia,
si
arriva
in
un'area
in
cui
si
possono
osservare
i
calanchi,
delle
bizzarre
formazioni
rocciose,
erose
dalle
piogge
e
dai
millenni.
**
Carlo
Braccesco
-
Annunciazione
-
1490-1450
-
Acquistato
nel
1806
in
un
oratorio
di
Genova
da
Dominique-Vivant
Denon,
il
quadro
raggiunse
il
primo
museo
francese
con
il
nome
di
Giusto
d'Alemagna
e
in
questa
stessa
sede
venne
poi
attribuito
a
"Scuola
del
Nord
Italia
verso
1500".
Il
critico
Roberto
Longhi
lo
attribuì
al
pittore
lombardo
Carlo
Braccesco,
attivo
in
Liguria
nella
seconda
metà
del
Quattrocento.
"Carlo
da
Milano"
firmò
il
polittico
con
la
Madonna
e
santi
oggi
nella
parrocchia
di
Montegrazie
di
Imperia,
ma
la
sua
attività
è
documentata
anche
nel
capoluogo
ligure.
Datato
da
Longhi
alla
fase
matura
di
Braccesco,
l'opera
del
Louvre
è
un
capolavoro
eccezionale
dell'arte
figurativa
dell'Italia
settentrionale.
La
tela
raffigura,
caso
unico
nella
storia
dell'arte
italiana,
la
Vergine
che,
spaventata
dall'apparizione
dell'angelo,
con
una
mano
afferra
la
colonna
per
non
cadere,
mentre
con
l'altra
tenta
di
coprirsi.
Il
gesto
della
Vergine
è
di
squisita
fattura,
l'esecuzione
tecnica
e
pittorica
è
di
grande
livello
e
gli
ori
sono
stati
utilizzati
senza
economia.
L'alto
profilo
stilistico
dell'opera
mostra
un
artista
di
notevole
spessore
culturale,
educato
in
Lombardia
ma
al
corrente
anche
della
produzione
pittorica
delle
Fiandre,
della
Francia
meridionale,
del
Sud
d'Italia
e
legato
al
ricco
e
complesso
tessuto
culturale
genovese
di
quegli
anni.
**
Vittore
Carpaccio
-
Predica
di
santo
Stefano
-
1514
-
L'opera
faceva
parte
di
un
ciclo
di
quattro
tele
(eseguito
tra
il
1511
e
il
1520)
commissionate
dalla
Scuola
di
Santo
Stefano
a
Venezia,
una
confraternita
insediatasi
in
un
edificio
di
fronte
alla
chiesa
dedicata
a
Santo
Stefano,
che
con
il
tempo
venne
denominata
dei
lanieri,
perché
vi
avevano
aderito
molti
lavoranti
della
lana.
Nel
1806
la
Scuola
venne
soppressa
e
la
Predica
di
santo
Stefano
e
la
Disputa
tra
i
dottori
furono
portate
alla
Pinacoteca
di
Brera
a
Milano,
dove
quest'ultima
si
conserva
ancora
oggi.
Insieme
ad
altre
opere
della
galleria
lombarda,
la
Predica
divenne
invece
oggetto
di
scambio
tra
Dominique-Vivant
Denon,
commissario
alle
Belle
Arti
di
Napoleone,
e
Andrea
Appiani,
direttore
della
pinacoteca
milanese
e
raggiunse
il
Louvre
nel
1813.
Il
santo
è
raffigurato
in
piedi
sopra
una
sorta
di
pilastro
classico
e
predica
al
popolo,
che
si
riunisce
intorno
a
lui.
Sulla
sinistra
sono
effigiati
di
spalle
due
orientali,
resi
con
cura
nei
loro
abiti
e
turbanti,
mentre
sulla
destra
delle
donne
sono
sedute
e
assorte
in
pacata
attenzione.
Su
un
ampio
spazio
erboso
si
trova
un
viottolo
che
conduce
ai
margini
della
città,
dove
gruppi
isolati
di
popolo
minuto
danno
il
senso
della
vita
che
scorre.
L'arte
del
pittore
Veneto
si
orienta
qui
verso
un
rinnovato
senso
del
paesaggio
e
raggiunge
uno
dei
suoi
momenti
più
alti.
Si
è
discusso
molto
sulla
veridicità
della
riproduzione
della
Città
Santa,
e
sulla
possibilità
di
un
viaggio
in
Oriente
di
Carpaccio.
L'invio
di
una
grande
veduta
di
Gerusalemme,
destinata
a
Francesco
Gonzaga
nel
1511,
ha
portato
alcuni
critici
a
ritenerlo
plausibile,
mentre
altri
ritengono
che
la
verosimiglianza
delle
architetture
(riprodotte
tuttavia
anche
in
numerosi
altri
dipinti
di
artisti
operosi
nella
città
lagunare)
non
sia
una
prova
del
soggiorno,
di
cui
non
vi
è
traccia
nemmeno
tra
i
disegni
noti
di
Carpaccio.
**
Raffaello
-
Madonna
col
Bambino
e
san
Giovannino
-
1507
-
La
Belle
Jardinière
è
un
dipinto
a
olio
su
tavola
(122
x
80
cm).
La
firma
si
trova
sull'orlo
del
mantello
della
Vergine:
"RAPHAELLO
URB."
(sopra
il
piede)
e
"MDVII"
(vicino
al
gomito).
La
tavola
venne
identificata,
sulla
base
della
descrizione
fattane
da
Giorgio
Vasari,
con
la
Madonna
lasciata
incompiuta
dal
maestro;
Ridolfo
del
Ghirlandaio
(1483-1561)
avrebbe
aggiunto
"un
panno
azzurro
che
vi
mancava".
Fu
eseguita
per
Filippo
Sergardi,
nobile
senese
e
chierico
di
camera
del
pontefice
Leone
X.
Le
indagini
radiografiche
hanno
invece
rilevato
la
perfetta
omogeneità
stilistica
del
manto
azzurro
con
il
resto
del
dipinto,
cosa
che
potrebbe
contraddire
l'identificazione
con
la
tavola
Sergardi.
Le
radiografie
hanno
inoltre
mostrato
la
presenza
di
alcuni
frammenti
d'oro
che
potrebbero
interpretarsi
come
l'ultima
lettera
romana
della
data
("i"),
forse
leggibile
come
1507.
Acquistato
a
Siena
per
conto
di
Francesco
I,
appartenne
per
un
periodo
non
determinabile
alla
collezione
di
Luigi
XIV,
ed
entrò
nelle
raccolte
del
Louvre
nel
1783.
Il
cartone
preparatorio
e
alcuni
studi
illustrano
la
progettazione
del
complesso
schema
piramidale,
già
impiegato
da
Raffaello
nella
Madonna
del
Belvedere
(Vienna,
Kunsthistorisches
Museum)
e
nella
Madonna
del
Cardellino
(Firenze,
Galleria
degli
Uffizi),
e
arricchito
da
rimandi
leonardeschi
e
michelangioleschi.
Il
nome
del
dipinto,
inventato
nell'Ottocento,
si
riferisce
alla
bellezza
della
figura
di
Maria
assisa
in
un
prato
che
assomiglia
a
un
giardino.
Immersi
in
un
ampio
paesaggio
lacustre
dall'orizzonte
particolarmente
alto,
punteggiato
da
alberelli
e
da
segni
della
presenza
umana,
si
trovano
la
Madonna
seduta
su
una
roccia,
con
appoggiato
alle
gambe
Gesù
Bambino,
mentre
san
Giovannino
si
trova
inginocchiato
a
destra,
mentre
dirige
uno
sguardo
intenso
a
Gesù.
La
composizione,
sciolta
e
di
forma
piramidale,
con
i
protagonisti
legati
dalla
concatenazione
di
sguardi
e
gesti,
deriva
con
evidenza
da
modelli
leonardeschi,
come
la
Sant'Anna,
la
Vergine
e
il
Bambino
con
l'agnellino,
ma
se
ne
distacca
sostituendo,
al
senso
di
mistero
e
all'inquietante
carica
di
allusioni
e
suggestioni,
un
sentimento
fresco
di
calma
e
spontanea
familiarità.
Al
posto
dei
"moti
dell'animo"
reconditi,
Raffaello
mise
in
atto
una
rappresentazione
dell'affettuosità,
con
l'abbraccio
tra
madre
e
figlio
e
le
carezze
di
quest'ultimo
sul
ginocchio
di
lei,
mentre
il
Battista
si
genuflette
con
rispettosa
devozione.
A
Leonardo
rimandano
anche
il
bruno
del
terreno,
punteggiato
da
specie
botaniche
indagate
con
cura,
e
la
resa
atmosferica
del
paesaggio
di
fondo,
che
si
perde
nei
vapori
della
lontananza.
Ricordano
invece
Michelangelo
alcuni
dettagli
come
il
piedino
di
Gesù
su
quello
della
madre,
presente
anche
nella
statua
della
Madonna
di
Bruges.
Le
pose
delle
figure
sono
attentamente
studiate
a
"contrapposto".
Maria
è
ruotata
verso
sinistra
e
fa
per
abbracciare
con
naturalezza
il
figlio,
il
quale
si
allunga
per
prendere
il
libro
che
essa
ha
in
grembo.
Gesù
mostra
un
elegante
classicismo,
con
rimandi
alla
scultura
dell'epoca
come
la
Madonna
di
Bruges
di
Michelangelo.
La
fine
eleganza,
l'intensa
carica
espressiva
e
l'armonia
della
composizione
inducono
a
considerarla
la
più
bella
tra
le
Madonne
eseguite
durante
l'attività
fiorentina
di
Raffaello.

**
Raffaello
-
Ritratto
di
Baldassar
Castiglione
-
1514-1515
-
Conservato
nella
casa
mantovana
dell'effigiato,
il
dipinto
venne
donato
nel
1588
da
Camillo
Castiglione
a
Francesco
Maria
Della
Rovere,
duca
di
Urbino.
Fu
poi
acquistato
da
Lucas
van
Uffel,
mercante
e
collezionista
fiammingo
morto
nel
1637.
Nel
1639
passò
nella
collezione
di
Alfonso
Lopez,
consigliere
del
re
di
Spagna
ad
Amsterdam,
e
fu
studiato
da
Rembrandt
in
uno
schizzo
conservato
all'Albertina
di
Vienna.
Entrato
nelle
collezioni
del
cardinale
Mazzarino
dopo
il
1653,
passò
in
quelle
di
Luigi
XIV,
e
giunse
al
Louvre
nel
1793.
Abile
diplomatico
e
fine
letterato,
Castiglione
scrisse
il
noto
Cortegiano,
una
delle
opere
che
ispirarono
l'educazione
e
il
comportamento
di
molti
aristocratici
e
ricchi
borghesi
del
XVI
secolo.
Lo
scrittore
fu
legato
fin
dal
1504
da
rapporti
di
amicizia
e
da
una
profonda
affinità
intellettiva
a
Raffaello,
che
lo
ritrasse
probabilmente
tra
il
1514
e
il
1515,
durante
un
soggiorno
invernale
a
Roma,
dove
si
trovava
come
ambasciatore
della
corte
di
Urbino.
Su
uno
sfondo
scuro
e
uniforme,
attraversato
dall'ombra
del
soggetto,
Baldassarre
Castiglione
è
ritratto
a
mezza
figura,
voltato
di
tre
quarti
verso
sinistra
e
col
volto
ruotato
verso
lo
spettatore.
Ricco
è
l'abbigliamento,
con
una
giacca
nera
sulla
camicia
bianca,
maniche
di
pelliccia
e
un
vistoso
cappello
scuro,
con
tagli
alla
moda.
Il
volto
è
ovale,
con
la
barba
lunga
come
andava
di
moda
nei
primi
decenni
del
Cinquecento,
e
con
gli
occhi
azzurri
che
fissano
intensamente
il
riguardante,
instaurando
un
rapporto
psicologico
profondo.
La
sua
figura
arriva
così
a
incarnare
quell'ideale
di
perfezione
estetica
e
spirituale
della
cortigianeria
espressa
nel
suo
celebre
trattato.
L'alta
qualità
e
la
combinazione
magistrale
di
elementi
pittorici
che
contraddistinguono
il
dipinto,
quali
l'espressione
di
affetto
sul
volto
calmo
e
intelligente
di
Castiglione,
hanno
fatto
anche
pensare
che
l'umanista
abbia
in
qualche
modo
partecipato
all'esecuzione
dell'opera:
in
realtà
è
piuttosto
da
legare
all'eccezionale
affinità
spirituale
e
comunanza
d'ideali
tra
il
soggetto
e
il
pittore.
**
Caravaggio
-
La
morte
della
Vergine
-
1604
-
Commissionata
dal
giurista
Laerzio
Cherubini
per
l'altare
della
propria
cappella
dedicata
al
Transito
della
Vergine
nella
chiesa
di
Santa
Maria
della
Scala
in
Trastevere
a
Roma,
la
pala
venne
rifiutata,
a
detta
dei
primi
biografi,
per
l'assenza
di
"decoro".
La
stessa
accusa
aveva
già
colpito
la
prima
versione
del
San
Matteo
della
cappella
Contarelli
in
San
Luigi
dei
Francesi
a
Roma
(distrutto),
e
anche
la
Madonna
dei
Palafrenieri
(Roma,
Galleria
Borghese).
Secondo
l'interpretazione
più
diffusa,
il
Caravaggio
si
sarebbe
avvalso
del
cadavere
di
un'annegata.
Messa
in
vendita
da
Cherubini,
la
tela
venne
acquistata
per
conto
di
Vincenzo
I
Gonzaga
da
Pieter
Paul
Rubens,
agente
del
duca
di
Mantova.
Passata
nel
1627
nella
collezione
di
Carlo
I
d'Inghilterra,
l'opera
venne
successivamente
acquistata
dal
banchiere
Everhard
Jabach,
dal
quale
nel
1671
giunse
nelle
raccolte
di
Luigi
XIV.
Il
quadro
fu
però
prontamente
rifiutato,
perché
la
Madonna
non
rispettava
la
sua
iconografia
classica:
era
anzi
priva
di
qualsiasi
tributo
mistico,
con
la
faccia
terrea,
un
braccio
abbandonato
e
il
ventre
gonfio.
Addirittura
si
dice
che
Caravaggio
scelse
una
prostituta
trovata
morta
nel
Tevere,
per
ritrarre
la
Vergine.
Molto
scandalo,
in
particolare,
fecero
i
piedi
ritratti
nudi
fino
alla
caviglia.
La
scena
è
inserita
in
un
ambiente
umile
con
al
centro
il
corpo
morto
della
Vergine,
in
primo
piano
la
Maddalena,
seduta
su
una
semplice
sedia,
che
piange
con
la
testa
tra
le
mani,
intorno
gli
Apostoli
addolorati,
l'intonazione
cromatica
molto
scura
è
illuminata
dal
rosso
della
veste
della
morta
e
della
tenda,
elemento
di
una
scenografia
povera.
Stupenda
inoltre,
oltre
all'illuminazione,
è
la
composizione:
gli
apostoli,
allineati
davanti
al
feretro,
formano,
in
linea
col
corpo
e
col
braccio
di
Maria,
una
croce
perfetta.
Per
comprendere
il
quadro
dobbiamo
tener
presente
che
Caravaggio
era
vicino
alle
posizioni
pauperistiche
di
molti
movimenti
religiosi
contemporanei,
come
gli
Oratoriani
o
il
Cardinale
Federico
Borromeo,
il
quale
predicava
l'assoluta
povertà
del
clero,
e
viveva
egli
stesso
in
una
casa
molto
misera,
avente
appena
una
Bibbia
e
le
mobilia
necessarie,
e
a
cui
rassomiglia
molto
l'ambientazione
del
quadro;
le
sue
varianti
iconografiche
vennero
realizzate
tenendo
presenti
le
esigenze
devozionali
di
questi
movimenti:
la
Vergine
è
ritratta
come
una
giovane,
perché
rappresenta
allegoricamente
la
Chiesa
immortale,
mentre
il
ventre
gonfio,
rappresenta
la
grazia
divina
di
cui
è
"gravida".
Da
quest'ultimo
particolare,
ritenuto
sconveniente
dai
più,
nacque
la
leggenda
che
vuole
l'artista
essersi
ispirato
ad
una
prostituta
annegata
nel
Tevere.
Il
rifiuto
di
questo
capolavoro
e,
di
lì
a
poco,
l'omicidio
di
Ranuccio
Tommasoni
in
una
rissa,
costringeranno
Caravaggio
a
lasciare
Roma.
Il
dipinto
del
Caravaggio
nella
chiesa
trasteverina
fu
sostituito
della
ben
più
canonica
tela
di
analogo
tema
di
Carlo
Saraceni,
tuttora
in
loco.
**
Tiziano
-
Concerto
campestre
-
1509-1510
-
Questa
tela,
"uno
dei
più
alti
raggiungimenti
della
pittura
veneziana
del
primo
Cinquecento"
(Pedrocco),
è
stata
acquistata
nel
1671
da
Luigi
XIV
dalla
raccolta
del
banchiere
Eberhard
Jabach.
Esposta
per
lungo
tempo
a
Versailles,
è
giunta
al
Louvre
nel
1793.
Fin
dalla
fine
dell'Ottocento
gli
storici
hanno
espresso
pareri
discordi
sulla
paternità,
variamente
assegnata
a
Giorgione
o
a
Tiziano,
in
altri
casi
collocata
tra
le
opere
lasciate
incompiute
da
Giorgione
(morto
a
Venezia
nel
1510)
e
portate
a
compimento
da
Tiziano.
Le
indagini
radiografiche
compiute
sulla
tela
hanno
concluso
che
la
materia
pittorica
di
tutto
il
quadro
è
unitaria
e
coerente
e,
quindi,
opera
di
un
unico
artista.
L'opera
si
può
considerare
un
"manifesto"
dello
sviluppo
stilistico
della
pittura
veneta
all'aprirsi
del
Cinquecento,
con
la
sensibilissima
sovrapposizione
di
velature
di
colore,
un
contenuto
ricorso
al
disegno
e
una
linea
di
contorno
sfumata,
elementi
chiave
del
tonalismo.
Vi
sono
raffigurati
tre
giovani
seduti
su
un
prato
che
suonano,
mentre
vicino
ad
essi
una
donna
in
piedi
versa
dell'acqua
in
una
vasca
marmorea.
Le
due
donne
presenti
sono
entrambe
nude,
coperte
appena
da
mantelli
che
scivolano
via,
mentre
i
due
uomini,
che
parlano
tra
di
loro,
sono
vestiti
in
costumi
dell'epoca.
Nell'ampio
sfondo
si
vede
un
pastore
e
un
paesaggio
che,
tra
quinte
vegetali,
si
distende
a
perdita
d'occhio.
Il
soggetto
dovrebbe
essere
un'allegoria
della
poesia
e
della
musica,
con
le
due
donne
dalla
bellezza
ideale,
che
sono
come
due
apparizioni
irreali
generate
dalla
fantasia
e
l'ispirazione
dei
due
giovani.
La
nudità
dopotutto
è
legata
all'essenza
divina
e
la
donna
col
vaso
di
vetro
sarebbe
la
musa
della
poesia
tragica
superiore,
mentre
quella
col
flauto
la
musa
della
poesia
pastorale.
Tra
i
due
giovani,
quello
ben
vestito
che
suona
il
liuto
sarebbe
il
poeta
del
lirismo
esaltato,
mentre
quello
col
capo
scoperto
sarebbe
un
paroliere
ordinario,
secondo
la
distinzione
operata
da
Aristotele
nella
Poetica.
Alcuni
hanno
identificato
la
rappresentazione
anche
come
un'evocazione
dei
quattro
elementi
che
compongono
il
mondo
naturale
(acqua,
fuoco,
terra,
aria)
e
del
loro
relazionarsi
armonioso.
Inoltre
l'accordo
tra
il
liuto,
strumento
colto
e
"cittadino",
e
il
flauto,
strumento
rustico
e
campestre,
era
un
tema
legato
alla
teoria
musicale
neoplatonica,
che
nell'incontro
degli
opposti
indicava
la
via
per
realizzare
una
conoscenza
superiore.
La
donna
che
mischia
le
acque
sarebbe
quindi
da
leggere
come
simbolo
di
purificazione,
ma
anche
di
mescolanza,
cioè
armonia,
dei
suoni
nell'accordo
musicale,
arrivando
a
quella
concordanza
tra
musica
mondana
e
musica
celeste
dei
pitagorici.
Tale
teorie
erano
comuni
nei
circoli
umanistici
veneziani,
animati
da
personalità
come
Pietro
Bembo,
Mario
Equicola
e
Leone
Ebreo.
L'arrivo
del
pastore
da
destra,
inferiore
per
classe
e
per
cultura,
avrebbe
dunque
interrotto
il
concerto
delle
muse
e
dei
due
nobili,
che
si
scambierebbero
un'occhiata
di
perplessa
circostanza.
La
tonalità
calda
e
dorata
della
luce
del
tramonto
contribuisce
a
creare
un'atmosfera
da
sogno.
L'attenzione
al
dato
vegetale
in
primo
piano,
ancora
una
volta,
rimanda
alla
mai
dimenticata
lezione
di
Leonardo
da
Vinci.

**
Rosso
Fiorentino
-
Pietà
-
1530-1535
-
L'opera,
secondo
la
testimonianza
di
Vasari,
fu
commissionata
subito
dopo
la
decorazione
della
Galleria
di
Francesco
I
nel
castello
di
Fontainebleau.
Lo
storico
aretino
indicò
come
committente
il
connestabile
Anne
de
Montmorency,
il
cui
armoriale
si
trova
anche
sul
cuscino
su
cui
è
appoggiato
Cristo;
la
Pietà
si
trovava
proprio
nel
suo
castello
d'Écouen
(appesa
sulla
porta
della
cappella),
dal
quale
è
poi
pervenuta
nel
museo
parigino,
alla
fine
del
XVIII
secolo.
Sotto
i
corpi
di
Gesù
e
di
Giovanni
sono
stati
trovati
ai
raggi
X
i
segni
di
una
composizione
inizialmente
pensata
all'arrovescio,
che
fu
coperta
con
lo
sfondo
scuro.
Il
corpo
di
Cristo
è
rappresentato
in
primo
piano
e,
semidisteso,
occupa
tutta
la
superficie
del
dipinto.
Gli
fa
eco
Maria
che,
disperata,
allarga
le
braccia
arrivando
a
sfiorare
i
bordi
del
dipinto
e
rivivendo,
simbolicamente,
il
martirio
della
crocifissione.
Essa
è
retta
da
una
pia
donna
col
capo
coperto
da
un
pesante
velo
rosso,
mentre
Gesù
è
tenuto
ai
piedi
dalla
Maddalena,
dall'abbigliamento
e
l'acconciatura
raffinatissimi,
e
da
Giovanni
apostolo,
rappresentato
inginocchiato
di
spalle
a
destra
in
una
complessa
torsione,
complementare
a
quella
della
Maddalena.
Le
figure
occupano
praticamente
tutto
il
campo
a
disposizione,
lasciando
poco
spazio
allo
sfondo
scuro
che
simula
il
sepolcro
aperto.
Esse
hanno
un
tono
eroico
e
drammatico,
evidenziato
dalla
gestualità,
ma
tutto
sommato
austeramente
contenuto,
che
Antonio
Natali
ha
definito
"da
coro
di
tragedia
greca".
La
luce
si
sofferma
radente
sul
primo
piano
della
composizione,
lasciando
lo
sfondo
nelle
tenebre,
e
accendendo
varie
tonalità
di
rosso
negli
abbigliamenti
dei
personaggi,
alle
quali
fa
da
contrasto
la
fascia
bianca
che
avvolge
il
collo
e
la
testa
di
Maria,
nonché
il
giallo
della
veste
della
Maddalena
e
il
candore
delle
sue
trine.
Le
pieghe
dei
panni
appaiono
dure,
quasi
scolpite,
più
che
mai
taglienti.
Più
che
allo
stile
sofisticato
delle
opere
di
Fontainebleau,
la
Pietà
ricorda
i
tormenti
di
opere
come
la
Deposizione
di
Sansepolcro,
specialmente
nella
posa
delle
figure:
ciò
ha
fatto
ipotizzare
una
datazione
più
anticipata
di
quella
tradizionale,
all'inizio
del
soggiorno
francese.
L'ipotesi
però
contrasta
con
i
documenti
che
ricordano
la
costruzione
della
cappella
del
Connestabile,
completata
proprio
negli
anni
quaranta.

**
Veronese
-
Nozze
di
Cana
-
1563
-
Il
6
giugno
1562
Veronese
fu
incaricato
di
dipingere
la
parete
di
fondo
del
refettorio
benedettino
del
complesso
architettonico
progettato
da
Andrea
Palladio
sull’Isola
di
San
Giorgio
Maggiore.
La
grande
intesa
tra
Veronese
e
Palladio
fu
determinante
per
il
formidabile
risultato
finale,
la
cui
enorme
fama
si
diffuse
presto
per
tutta
Europa.
Tanto
che,
nel
1797,
Napoleone
Bonaparte
fu
inesorabilmente
determinato
nel
volersene
appropriare
come
risarcimento
delle
spese
di
guerra.
La
tela
fu
smontata
dalla
parete
l’11
settembre
di
quell’anno,
fu
tagliata
in
diversi
pezzi
e
spedita
a
Parigi
al
Musée
du
Louvre,
dove
è
tuttora
conservata.
Il
dipinto
mostra
l'episodio
della
tramutazione
dell'acqua
in
vino
durante
un
matrimonio
a
Cana,
contenuto
nel
Vangelo
secondo
Giovanni;
la
scena
è
ricca
di
particolari
e
mostra
nella
sua
ambientazione
una
commistione
di
dettagli
antichi
e
contemporanei.
L'architettura
è
certamente
classica,
caratterizzata
da
due
vasti
colonnati
ai
lati
del
dipinto;
al
centro
si
apre
invece
un
cortile
sormontato
da
una
zona
rialzata,
cinta
da
una
balaustra.
Lo
sfondo
mostra
un
cielo
azzurro
macchiato
da
alcune
nuvole
bianche,
nel
quale
si
staglia
una
torre
anch'essa
in
stile
classico.
Al
centro,
in
primo
piano,
si
trovano
dei
musicisti
intenti
ad
intrattenere
i
convitati;
due
di
questi,
l'uomo
vestito
di
bianco
con
la
viola
da
gamba
e
il
personaggio
con
una
tunica
rossa
e
contrabbasso
sarebbero
secondo
la
tradizione
Veronese
stesso
e
Tiziano.
Altri
personaggi
celebri
presenti
nel
dipinto
sono,
secondo
diverse
interpretazioni
dei
critici,
Eleonora
d'Asburgo,
Francesco
I
di
Francia,
Maria
I
d'Inghilterra,
Solimano
il
Magnifico,
Vittoria
Colonna,
Carlo
V,
Marcantonio
Barbaro,
Daniele
Barbaro,
Giulia
Gonzaga,
Reginald
Pole,
Triboulet
e
Mehmed
Pascià
Sokolovič.
Le
vesti
dei
personaggi
sono
sontuose
ed
eleganti,
dai
colori
brillanti
e
motivi
ricercati;
al
centro
della
tavolata
siede
Cristo
vicino
alla
madre,
entrambi
sono
ritratti
composti
e
calmi,
il
Gesù
guarda
fisso
verso
l'osservatore
della
tela.
Il
formato
monumentale
e
la
complessità
compositiva
della
parte
architettonica
implicano
l'impiego
di
numerosi
collaboratori,
ed
è
probabile
che,
nonostante
il
restauro
abbia
valorizzato
l'alta
qualità
pittorica
di
alcuni
dettagli
e
l'autografia
della
maggioranza
dei
ritratti,
Paolo
si
sia
avvalso
di
aiutanti
e
inprimis
del
fratello
Benedetto.

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