Rive della Senna a Parigi, tra Pont de Sully e Pont d’Iéna
Francia 

PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1991

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Louvre - Pittura italiana

I primitivi e il primo Rinascimento - La rivoluzione innescatasi nei vari campi del pensiero e dell'arte è caratterizzata dal ritorno alla lezione dell'Antichità, ai modelli greci e romani. Iniziata a partire dal XIV secolo, essa si definisce nella seconda metà del XV.

La solenne Maestà di Cimabue (1270) annuncia una prima reazione alla ieraticità dei modelli bizantini. Al grafismo formalista di Bisanzio, l'artista sostituisce una dolce modulazione dei volumi, una posa più libera dei personaggi, annunciando le grandi pale di Duccio e di dotto.

Durante il Quattrocento, sotto la duplice influenza dell'architettura (Brunelleschi) e della scultura (Donatello, Ghiberti), la pittura italiana s'incammina verso il Rinascimento. Gli artisti della scuola fiorentina, la più rinomata dell'epoca, spiccano soprattutto per il loro genio plastico e il loro insaziabile spirito di ricerca, soprattutto nell'ambito della prospettiva lineare, decisiva innovazione che determinerà per diversi secoli il linguaggio pittorico. Tre pittori definiscono i tratti dominanti di questa scuola: Masaccio stabilisce nella sua interezza l'ideale plastico e umanista del Rinascimento; Paolo Uccello da alla sua Battaglia di San Romano la monumentalità di un altorilievo per mezzo di scorci audaci e d'una stilizzazione decorativa delle forme, sottolineate da colori freddi; Fra Giovanni Angelico integra l'universo ancora medievale della sua Incoronazione della Vergine con le nuove scoperte sulla forma e il movimento: ampiezza ed equilibrio della struttura, rispetto della prospettiva. Tali ricerche portano, a metà del secolo, ad una perfetta maestria nei volumi e nella prospettiva, i cui più grandi rappresentanti sono Piero della Francesca, Andrea Mantegna (San Sebastiano), Antonello da Messina (Il condottiero) e Giovanni Bellini. Dimenticati nei secoli classicisti, questi pittori erano assenti dalle collezioni reali. Il merito delle prime acquisizioni del Louvre spetta a Vivant Denon, Direttore dei Musei sotto Napoleone. Nel 1811 si recò personalmente in Italia per scegliervi, da Cimabue a Fra Angelico, tutta una serie di tavole che furono esposte al Louvre dopo il 1815. Ma la moda dei Primitivi in Francia porta la data dell'acquisizione della collezione Campana da parte di Napoleone III, che fece entrare un centinaio di quadri al Louvre, mentre il resto costituisce oggi il museo del Petit Palais ad Avignone.

L'alto Rinascimento - All'inizio del XVI secolo la Roma dei Papi recuperava il proprio ruolo di capitale artistica che aveva perduto dopo l'antichità. Intorno al monumentale progetto di San Pietro si organizzarono tutte le ricerche e le realizzazioni di Bramante, Michelangelo, Raffaello. Questo secolo vede anche la nascita della scuola veneta presso la quale trionfa il colorismo, di cui Giorgione è l'ispiratore e il suo allievo Tiziano il più illustre rappresentante.

La sezione dedicata alle opere di questi artisti costituisce uno dei più insostituibili tesori del Louvre, innanzitutto per la presenza d'un insieme unico al mondo di opere di Leonardo da Vinci. Su invito di Francesco I Leonardo si stabilisce nel castello di Clos Lucé, presso Amboise, nel 1516. Alla sua morte Francesco I acquista diverse sue opere (in particolare la Gioconda e la Vergine delle Rocce) attorno alle quali sono raccolti altri capolavori del Rinascimento italiano (la Sacra Famiglia e la Bella Giardiniera di Raffaello, la Carità di Andrea del Sarto, ecc). Questo primo fondo, conservato a lungo presso il castello di Fontainebleau, finisce per arricchirsi in maniera considerevole nel momento in cui Luigi XIV acquisterà una parte della galleria del cardinale Mazarino (1661) e di quella del banchiere Jabach (1662-1671): fanno così il loro ingresso al Louvre opere come il Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello, il Concerto campestre e la Donna allo specchio di Tiziano, il Sogno d'Antiope del Correggio. L'essenza del Rinascimento è cosi rappresentata al Louvre all'epoca della sua creazione, nel 1793. Dell'immenso afflusso di quadri requisiti in Italia sotto la Rivoluzione e l'impero, il museo conserverà poche opere, ma di grande importanza, come le Nozze di Cana del Veronese.

Il XVII e il XVIII secolo - Al termine del Cinquecento si apre in Italia un nuovo capitolo dell'arte pittorica. Il Caravaggio, con la sua estetica e la sua tecnica, esercitò una profonda influenza sull'arte europea. La Morte della Vergine, acquistata da Luigi XIV, fece all'epoca scandalo per il realismo della scena e per la troppo accentuata drammatizzazione dei contrasti di luce e d'ombra. In seguito, numerose pitture della scuola bolognese (i Carracci, Reni, Guercino, Domenichino) acquistate o regalate a Luigi XIV da amatori italiani, arricchirono il gabinetto reale.

Nel XVIII secolo la pittura italiana ebbe il suo ultimo splendore a Venezia. Disgraziatamente questo periodo è rappresentato al Louvre in maniera frammentaria, nonostante un importante insieme di tele di Pannini, acquisite sotto Luigi Filippo, e l'ingresso, dovuto alle confische della Rivoluzione, dell'ammirevole serie delle Feste veneziane di Francesco Guardi, che illustrano le cerimonie dell'elezione del doge Alvise Mocenigo nel 1763. Dopo l'ultima guerra, la collezione si è ulteriormente sviluppata e conta ormai opere di Canaletto, Tiepolo, Piazzetta, Pietro Longhi e Crespi.

** Cimabue - Maestà - 1270 - Il dipinto è stato prelevato nel 1811 nella chiesa di San Francesco di Pisa da Dominique-Vivant Denon, commissario alle Belle Arti di Napoleone. Le convenzioni di Vienna del 1815 stipularono la restituzione della maggior parte delle opere d'arte sottratte dai francesi. Alcune, tuttavia, rimasero in Francia: tra queste la Maestà, che i commissari fiorentini acconsentirono a lasciare al Louvre su richiesta di Lavallée, allora segretario generale del museo.

Verso il 1280 Cimabue eseguì la Maestà del Louvre, ritenuta anteriore alla Maestà di Santa Trinita. Il trono è infatti disegnato con un'assonometria intuitiva, non con la pseudo-prospettiva frontale come nell'altra tavola. È simile a quello della Maestà dipinta da Cimabue stesso nella Basilica inferiore di Assisi (databile tra il 1278 e il 1280), con i gradini in primo piano che invece seguono una prospettiva frontale ribaltata, che suscita un certo senso di instabilità e piattezza.

Gli angeli invece sono disposti in piani successivi, dando il senso di scansione spaziale, sebbene rispetto ad Assisi siano più schematici: ciò ha fatto pensare a una datazione anteriore o alla presenza di un collaboratore. Appaiono disposti ritmicamente attorno alla divinità secondo precisi schemi di simmetria, con l'inclinazione ritmica delle teste e senza un interesse verso la loro disposizione illusoria nello spazio: levitano infatti l'uno sopra l'altro (non l'uno "dietro" l'altro).

Maria poggia fiaccamente la mano destra sulla gamba del bambino, mentre lo cinge con l'altra, infilando le lunghe dita affusolate nella sua veste e alzando il ginocchio destro per sostenerne la figura. Il volto di Maria mostra un addolcimento duccesco, mentre pare estraneo a quel misto di espressività vivace e dolcezza di altre opere di Cimabue. Gesù, come consueto per l'epoca, appare come un giovane filosofo vestito all'antica, che rivela la sua natura divina benedicendo come un adulto. nella mano sinistra impugna un rotolo delle sacre scritture, un chiaro elemento di matrice orientale che rivela l'origine bizantina del modello.

Molto fine è il modo con cui i panneggi avvolgono il corpo delle figure, soprattutto della Madonna, che crea un realistico volume fisico. Non vi è usata l'agemina (le striature dorate).

La pala è incorniciata da un nastro di fitte decorazioni fitomorfe, intervallato da ventisei tondi bordati d'oro, con busti di Cristo (in cima), di angeli (nella simasa), di profeti e di santi (ai lati e nel bordo inferiore).

Cimabue con quest'opera stabilì un nuovo canone per l'iconografia tradizionale della Madonna col Bambino, con il quale si dovettero confrontare i pittori successivi: la Maestà è il modello più diretto per la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, già in Santa Maria Novella e oggi agli Uffizi (con un trono analogo, e con una cornice con testine di santi quasi identica), che viene per questo attribuita a pochi anni dopo, verso il 1285 circa.

** Giotto di Bondone - San Francesco riceve le stimmate - 1290-1295 - Sottratta nel 1814 dai commissari alle Belle Arti di Napoleone nel camposanto di Pisa, dove giunse dalla chiesa del convento di San Francesco per il quale era stata originariamente dipinta, la tavola fa parte delle opere lasciate a Parigi, come la Maestà di Cimabue, in seguito alle convenzioni di Vienna nel 1815.

Su un'unica tavola sono distribuite la raffigurazione principale - in cui Francesco d'Assisi riceve le stimmate sul monte della Verna - e, nella predella in basso, tre storie che raffigurano il Sogno di Innocenzo III, la Conferma della Regola francescana, e Francesco che predica agli uccelli. Insieme alla storia principale, le scene alla base sono liberamente tratte dalle figurazioni del ciclo pittorico dedicato al santo titolare nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, eseguite da Giotto tra il 1297 e il 1300, e mostrano un'alta qualità pittorica. 

L'importante tavola del Louvre rappresenta la "riprova inoppugnabile" (Toesca) della paternità giottesca del ciclo francescano di Assisi, con il quale ha sorprendenti affinità stilistiche e iconografiche. Ciò ha perfino fatto pensare che il disegno delle storie già eseguite sulle pareti francescane fosse stato ingegnosamente studiato dal maestro per la trasposizione al formato minore della tavola, che si aggancia in sicura successione temporale al ciclo di Assisi.

La firma dell'autore rappresenta un ulteriore fattore d'interesse della tavola parigina, se si considera che di Giotto sono conosciute soltanto altre due opere siglate (il polittico della Pinacoteca di Bologna e l'Incoronazione Baroncelli nella chiesa di Santa Croce a Firenze). Questo è un elemento significativo che, unito all'intensità del modellato, alla solidità plastica, all'eleganza, e alla gentilezza delle mani di Francesco, pone l'opera tra le più interessanti del Louvre.

** Paolo Uccello - Battaglia di San Romano - 1436-1440 - La tavola illustra l'episodio dell'Intervento nella battaglia di Micheletto da Cotignola e fa parte di un trittico diviso tra la National Gallery di Londra (Niccolò da Tolentino alla testa dell'esercito fiorentino) e la Galleria degli Uffizi di Firenze (Le milizie fiorentine sbaragliano le truppe senesi). Commissionate dal patrizio fiorentino Leonardo Bartolini Salimbeni, che le conservava nel suo palazzo cittadino, i dipinti delle battaglie entrarono nel 1484 nella collezione di Lorenzo il Magnifico, che le collocò nella "camera grande terrena" del palazzo Medici di via Larga (attuale via Cavour) del capoluogo toscano, dove mantenevano ancora la lunetta alla sommità, poi decurtata. Il dipinto è stato acquisito dal Louvre nel 1863.

Durante la guerra di Lucca (1430-1433) - combattuta da fiorentini e veneziani contro viscontei, imperiali e senesi — il 1° giugno 1432 nei pressi di San Romano si verificò uno scontro in campo aperto. La battaglia, che i fiorentini chiamarono "rotta di San Romano", non fu risolutiva per l'esito della guerra, ma ebbe una notevole importanza propagandistica e politica per l'ascesa di Cosimo il Vecchio, che aveva ingaggiato i capitani delle truppe fiorentine.

L'azione della tavola parigina è imperniata su due gruppi di cavalieri: quello sulla destra attende l'ordine del condottiero, mentre la compagnia di soldati sulla sinistra si è già lanciata alla carica. In questo gruppo il movimento della lancia dei cinque soldati sembra la scomposizione del gesto di un unico cavaliere. La superficie pittorica presenta in questa parte alcune lacune: sono raffigurate cinque lance, cinque selle e cintole, mentre le teste visibili sono solo quattro, e il terzo soldato manovra due lance; i pennacchi visibili sono tre, il secondo galleggia nel vuoto. Lo spazio è segnato dai volumi pittorici dei corpi, la profondità di campo è suggerita dai due cavalli in scorcio in primo piano sulla destra, mentre il mazzocchio del balestriere è il centro di gravitazione delle figure circostanti.

** Antonello da Messina - Cristo alla colonna - 1476 - Il dipinto è stato acquistato nel 1863 a Granada da sir Charles Robinson (1824-1913), che tra il 1852 e il 1869 rivestì la carica di soprintendente delle collezioni londinesi di South Kensington e successivamente quella di primo responsabile delle raccolte della regina d'Inghilterra. Robinson fu anche consulente degli acquisti di opere d'arte di sir Francis Cook, che comprò questo quadro da lui nel 1868. Il dipinto è stato alienato nel 1989 dagli eredi di quest'ultimo e acquistato dal Louvre tre anni più tardi.

Si tratta della migliore versione nota di questo soggetto, di cui sono conosciute almeno altre quattro varianti, sulle quali la critica si è variamente espressa. L'opera pervenne al Louvre attribuita al pittore lombardo Andrea Solario (posteriore di una generazione ad Antonello), e soltanto dagli anni Trenta del secolo scorso ven­ne stabilita la paternità dell'artista siciliano, oggi unanimemente accettata.

Raffigurazione diretta e compassionevole del dolore dell'uomo, l'immagine rinnova l'iconografia religiosa per l'audacia della presentazione ravvicinata e di tre quarti, per il busto schiacciato alla colonna (a cui rimanda la corda che scivola sotto il collo), per il viso riverso all'indietro e colto prospetticamente dal basso verso l'alto. I dettagli, quali la bocca socchiusa, le lacrime, le gocce di sangue procurate dalle ferite della corona di spine e la resa minuziosa della barba e dei capelli, contribuiscono a rendere altamente emotivo questo volto. A questo risultato il maestro "giunge con uno studio attento e profondo della tecnica pittorica. La bianchezza e il rosato delle carni hanno una freddezza speciale, che li rende consistenti e forti. In questa espressione delle carni è forse l'indizio più chiaro del classicismo di Antonello" (L. Venturi).

** Domenico Ghirlandaio - Ritratto di vecchio con nipote - 1490-1493 - Non si conosce l'identità degli effigiati né le circostanze della commissione del dipinto, che viene datato, in base ad affinità stilistiche, alla fase matura della produzione dell'artista, vicino agli affreschi della Cappella Sassetti e all'Adorazione dei pastori, con la quale condivide lo stile del paesaggio.

Gli evidenti graffi sulla fronte del vecchio (eliminati da un recente restauro ma presenti in numerose riproduzioni fotografiche) vennero procurati, con tutta probabilità, da un chiodo che affiorava in una cassa dove il dipinto venne trasportato a cavallo. Nel Nationalmuseet di Stoccolma si conserva un disegno preparatorio dell'opera, in cui l'anziano ha gli occhi chiusi, facendo supporre che l'uomo fosse morto al tempo della realizzazione dell'opera. La fedeltà alla realtà fa pensare comunque a un ritratto sicuramente destinato alla fruizione privata, essendo privo di ogni retorica ufficiale. Venne acquistato dal museo sul mercato antiquario nel 1880.

Sullo sfondo di una parete, dove si apre una finestra che dà su un paesaggio montano, un uomo anziano è ritratto a mezzobusto vestito con la tunica rossa bordata di pelliccia di volpe, tipica delle classi agiate del XV secolo. Verso di lui si slancia un fanciullo, probabilmente il nipote, creando un tenero abbraccio tra i due. L'atmosfera familiare e il profondo legame affettivo sono sottolineati anche dal contatto visivo tra i due, che si guardano con serena intensità. La diagonale creata dalle direzioni degli sguardi bilancia perfettamente la composizione con lo squarcio paesistico aperto sulla destra, nel quale si vede una strada sinuosa che si inerpica tra una collina, con una chiesetta, e una montagna che sembra elevarsi da un lago. Lumeggiature dorate danno luce alla vegetazione, mentre in lontananza i rilievi più lontani si perdono nella foschia sfumando in toni azzurrini.

Il ritratto è esemplare della tradizione fiorentina che puntava direttamente alla resa realistica del personaggio. L'uomo infatti è raffigurato anche nei suoi difetti, come l'acne deformante sul naso bitorzoluto (rhinophyma), la canizie e il neo sporgente, ma nonostante ciò niente intacca il senso di dignità, della sagacia e della saggezza dell'anziano. Straordinaria è la resa dei capelli grigi, così reali da emulare le opere fiamminghe.

Di fattura meno pregiata è il fanciullo, forse opera di aiuti, che possiede comunque un bel disegno del profilo, con l'espressione tipicamente infantile a bocca dischiusa. La luce illumina i due personaggi in maniera complementare, dal centro verso i bordi, con l'uso di tonalità simili che amplificano il legame tra le due generazioni a confronto.

** Andrea Mantegna - San Sebastiano - 1482-1485 - Il dipinto giunse in Francia probabilmente in seguito alle nozze di Chiara Gonzaga, figlia del marchese Federico, con Gilbert de Bourbon, conte di Montpensier e delfino di Alvernia. Le nozze vennero celebrate nel 1481, e Chiara lasciò Mantova nel giugno di quello stesso anno per trasferirsi nel castello di Aigueperse, all'epoca ancora in costruzione, a cui era annessa una Sainte Chapelle. Tra la fine del Seicento e gli inizi del secolo successivo, il dipinto è ricordato nella Sainte Chapelle di Aigueperse in Alvernia, fondata nel 1475 da Luigi I di Borbone. Dopo la Rivoluzione l'opera si trovava ancora ad Aigueperse, ma venne trasportata nella chiesa locale di Notre-Dame da dove, nel 1910, raggiunse il Louvre.

La datazione della tela dovrebbe risalire al tempo delle nozze di Chiara e Gilbert, poiché il San Sebastiano sembra stilisticamente prossimo agli affreschi della Camera pietà. Quest'ultima fu dipinta da Mantegna tra il 1465 e il 1474 nel Palazzo Ducale di Mantova su commissione di Ludovico Gonzaga e condivide con l'opera del Louvre i toni coloristici chiari e luminosi. L'opera è coerente con lo sviluppo formale del maestro, che enfatizza la figura del santo conferendole un effetto monumentale, raggiunto utilizzando un punto di vista ribassato. 

Il dipinto raffigura il santo trafitto dalle frecce del martirio e legato alla colonna di un'imponente costruzione architettonica all'antica, ormai diroccata e in rovina. Ai suoi piedi stanno vari frammenti classici, tra cui il piede d'una statua: Mantegna era infatti appassionato di reperti antichi, che collezionava e inseriva spesso nelle sue opere. In primo piano, nell'angolo in basso a destra, si notano i due giustizieri, l'arciere e un compagno, che sono raffigurati con quell'insistenza chiaroscurale sui solchi del viso tipica delle opere di Mantegna più espressive. Alcuni dettagli grotteschi (come l'espressione truce dell'arciere o la finezza con cui sono disegnati uno per uno i peli della sua barba) rimandano ad opere fiamminghe, in particolare alla lezione di Rogier van der Weyden che Mantegna ebbe modo di assimilare in gioventù.

Il santo, come consueto nelle rappresentazioni dalla seconda metà del Quattrocento in poi, diede l'opportunità al pittore di eseguire una virtuosa rappresentazione anatomica del nudo maschile, con il torace trattato con una particolare morbidezza di toni, su cui spicca per contrasto la durezza quasi marmorea del panneggio del perizoma. Le frecce, a differenza della tavola viennese, entrano ed escono da corpo martirizzato, scorrendo talvolta sottopelle, per aumentare il senso tragico di dolore del martirio, che Sebastiano sembra tra l'altro sopportare con pietosa rassegnazione grazie alla fede religiosa, come suggerisce il suo viso rivolto al cielo. Da notare alcuni virtuosismi, come l'effetto delle corde che stringono le carni con grande realismo, come sul braccio destro.

Lo sfondo è occupato da un lontano paesaggio montuoso, con un capriccio di architetture, antiche e moderne, che, in ossequio alla forma della tela, si svolge in maniera più che altro verticale, sullo sfondo di un cielo sereno attraversato da gonfie nuvole. Il monte è dominato in alto da un castello, appoggiato su uno sperone roccioso, sotto il quale sta un'altra rocca. Più in basso si trova la città (visibile anche a sinistra), sotto la quale spicca una piazza lastricata circondata da monumenti romani in rovina: una porta-arco di trionfo con alto attico (le mura superiori richiamano le aggiunte tipicamente medievali come nell'arco di Augusto di Rimini) e una sorta di tempio con mozziconi di colonna e una parapetto scolpito a bassorilievi, che si erge sopra un porticato in grossi blocchi di pietra. Non si tratta più delle ricostruzioni in stile che avevano caratterizzato le opere giovanili come la Cappella Ovetari, ma di un'interpretazione più inquieta, con le rovine che simboleggiano la caducità del mondo antico.

** Andrea Mantegna - Crocifissione - 1456-1459 - Si tratta del pannello centrale della predella (che comprendeva anche le raffigurazioni dell'Orazione nell'orto e della Resurrezione, entrambe al Musée des Beaux-Arts di Tours) del polittico con La Madonna, il Bambino, angeli e santi (detta Vaia di San Zeno) che si conserva nella chiesa di San Zeno a Verona, luogo per il quale venne dipinta all'origine. È una delle più significative realizzazioni di Mantegna per l'unitarietà dell'impianto compositivo; il pittore fornì probabilmente anche il disegno della cornice, che è ancora quella originale. Il polittico fu requisito nel 1797 dai commissari di Bonaparte e trasportato a Parigi dove, in seguito alle riconsegne del 1815, restarono solo i pannelli della predella che, nel frattempo, era stata smembrata.

Il dipinto per la chiesa veronese venne commissionato dal protonotario Gregorio Correr, colto intellettuale avviato alla carriera ecclesiastica dallo zio cardinale Antonio Correr. Trascorsi diversi anni a Padova, egli si trasferì a Verona, dove divenne rettore del monastero di San Zeno, carica che precedentemente era stata dello zio.

Mantegna lavorò al dipinto tra il 1456 e il 1459, mentre il pagamento finale dell'opera si data al gennaio dell'anno successivo. L'attenzione per i particolari e la resa miniaturistica dei dettagli, unite al realismo con cui sono rappresentati i personaggi, raggiungono effetti di forte intensità. 

La Crocifissione è divisibile in due registri: uno inferiore, dove si trovano i soldati, il gruppo delle pie donne, san Giovanni e altri spettatori, e uno superiore, dove si trovano i tre crocifissi sullo sfondo del cielo terso, che si schiarisce verso l'orizzonte. Alla fiera sopportazione del dolore di Cristo fanno da contraltare le espressive pose contorte dei due ladroni.

La scena mostra la comprensione delle opere di Donatello, con la profonda penetrazione psicologica dei personaggi (si pensi allo straziante dolore di Maria) e con l'effetto di rappresentazione casuale della vita sotto i nostri occhi, con la presenza di comparse come i due personaggi dimezzati in primo piano, che sembrano colti di sorpresa nel loro passaggio casuale. La profonda partecipazione dei personaggi ricorda anche le opere di Rogier van der Weyden, che Mantegna aveva probabilmente visto a Ferrara.

Numerosi sono i dettagli di grande valore, dalla città sullo sfondo, rappresentazione ideale di Gerusalemme, alle guardie che si giocano a dadi la veste di Cristo, su un tabellone colorato di forma circolare. I teschi, che si vedono di lato e sotto la croce di Cristo, ricordano l'inevitabilità della morte.

** Leonardo da Vinci - La Vergine delle rocce - 1483-1486 - La prima versione della Vergine delle Rocce è un dipinto a olio su tavola trasportato su tela (199x122 cm), databile al 1483-1486.

Il 25 aprile 1483 Bartolomeo Scorione, priore della Confraternita milanese dell'Immacolata Concezione, stipulò un contratto per una pala da collocare sull'altare della cappella della Confraternita nella chiesa di San Francesco Grande col giovane artista arrivato circa un anno prima da Firenze. Per Leonardo era la prima commissione che otteneva a Milano, dove era stato accolto tiepidamente. Al contratto presenziarono anche i più noti fratelli pittori Evangelista e Giovanni Ambrogio De Predis, che ospitavano Leonardo nella loro abitazione vicino Porta Ticinese.

Il dettagliatissimo contratto prevedeva un trittico. Nella pala centrale la Madonna con un ricco abito, Dio Padre in alto, un gruppo di angeli e due profeti. Nelle due parti laterali i confratelli chiedevano quattro angeli. Le tavole laterali, affidate ai De Predis, dovevano mostrare angeli in gloria, il tutto per un compenso di ottocento lire imperiali da pagarsi a rate fino al febbraio 1485. L'intelaiatura lignea venne invece affidata a Giacomo del Maiale.

Non è chiaro perché Leonardo cambiò il soggetto della tavola, optando piuttosto per il leggendario incontro tra i piccoli Gesù e Giovanni narrato nella Vita di Giovanni secondo Scipione e in altri testi sull'infanzia di Cristo. Potrebbe essere stato Leonardo a decidere arbitrariamente le modifiche, ma è possibile che, viste le consuetudini dell'epoca, siano state le richieste dei committenti a cambiare anche in considerazione dello stile un po' "arcaico" della prima richiesta. Giovanni Battista infatti era il protettore, assieme a san Francesco, della Confraternita dell'Immacolata, che quindi si riconosceva nella figura del Battista inginocchiata davanti a Gesù e da lui benedetta, nonché, allo stesso tempo, protetta dalla Vergine Maria.

Spesso si è letto che, a causa dell'inadempienza contrattuale legata al soggetto, la Confraternita contestò il dipinto considerandolo incompiuto, o addirittura inadatto poiché eretico. Studi più precisi, basati sui documenti d'archivio relativi alla controversia legale che oppose gli artisti ai committenti, hanno permesso di delineare una vicenda diversa.

In una supplica al Duca di Milano, databile tra il 1493 e il 1494, Leonardo da Vinci e Ambrogio de Predis (Evangelista era nel frattempo morto alla fine del 1490 o all'inizio del 1491) richiedevano che l'opera dovesse essere pagata più della cifra pattuita inizialmente (200 ducati) in quanto la realizzazione, soprattutto a causa della complessa ancona dorata e intagliata, sarebbe stata molto più laboriosa e dispendiosa. Gli artisti dunque chiedevano un conguaglio di 100 ducati per il dipinto centrale, ma se ne videro offrire solo 25. Proposero allora che venissero nominati degli "esperti dell'Arte" che giudicassero il lavoro. La diatriba tra Leonardo e la Confraternita si trascinò così per molti anni e fu chiusa nel 1506 da una sentenza con cui l'opera venne dichiarata ufficialmente "incompiuta". Leonardo era tenuto a portarla a termine entro due anni, ma gli venne riconosciuto un conguaglio di 200 lire (corrispondenti a 50 ducati, la metà di quanto aveva inizialmente richiesto).

Nel frattempo Leonardo aveva abbandonato Milano, era tornato a Firenze ed aveva visitato numerose città. La seconda versione della pala, che mitiga alcuni aspetti più rivoluzionari dell'opera, doveva essere già avviata prima della partenza di Leonardo (1499), venendo poi completata in occasione del suo secondo soggiorno milanese, nel 1506. Nella seconda versione la Madonna appare più grande e maestosa, i due bambini sono più riconoscibili e soprattutto è sparito l'inconsueto gesto della mano dell'angelo, che nella prima versione indicava Giovanni, e il suo sguardo diretto allo spettatore. I classici attributi della iconografia tradizionale, come le aureole e il bastone con la croce del Battista, sarebbero stati aggiunti molti anni più tardi, probabilmente nei primi decenni del XVII secolo.

Secondo un'ipotesi recente[10] le due versioni della Vergine delle Rocce sarebbero state realizzate per due diversi luoghi e committenti nella stessa città di Milano: la prima per la cappella palatina della chiesa di San Gottardo, e la seconda per la cappella dell'Immacolata nella chiesa di San Francesco Grande.

La versione londinese si trovava sicuramente a San Francesco poco prima che la chiesa venisse demolita nel 1576; trasportata nella sede della confraternita, vi rimase fino alla soppressione del 1785, quando venne venduta al pittore inglese Gavin Hamilton che la portò in Inghilterra.

Il destino della prima versione, quella parigina, è più incerto e nessuna delle diverse ipotesi sull'arrivo dell'opera in Francia ha ancora trovato una conferma documentale. Nell'ipotesi più accreditata, durante la lunga disputa legale che vide contrapposti Leonardo e Ambrogio de Predis alla Confraternita dell'Immacolata, la prima versione sarebbe stata venduta a qualcuno che aveva fatto generose offerte d'acquisto, forse lo stesso duca Ludovico il Moro che l'avrebbe esposta nella cappella del palazzo ducale, e sarebbe poi caduta nelle mani dei francesi assieme a tutte le sue proprietà.

Altri studiosi sostengono che la pala oggi al Louvre sarebbe identificabile con la Maestà inviata in dono da Ludovico il Moro a Massimiliano d'Asburgo in occasione delle nozze dell'imperatore con Bianca Maria Sforza (1493), e il passaggio in Francia sarebbe avvenuto molti anni più tardi, in occasione di altre nozze, quelle di Eleonora, nipote di Massimiliano, con Francesco I di Francia.

In ogni caso la prima documentata presenza del dipinto nelle collezioni francesi risale al 1625, quando Cassiano dal Pozzo, che aveva accompagnato il cardinal Barberini nella sua legazione in Francia, la vide a Fontainebleau nella galleria delle pitture. Il dipinto si trovava poi nel catalogo del Musée Royal nel 1830 e ai primi del XIX secolo venne effettuato il trasporto su tela dal restauratore François Toussaint Hacquin, secondo pratica allora molto frequente.

La scena del dipinto si svolge in un umido paesaggio roccioso, orchestrato architettonicamente, in cui dominano fiori e piante acquatiche, descritti con minuzia da botanico; da lontano si intravede un corso d'acqua. Al centro Maria allunga la mano destra a proteggere il piccolo san Giovanni in preghiera, inginocchiato e rivolto a Gesù Bambino, che si trova più in basso, a destra, in atto di benedirlo e con il corpo in torsione. Dietro di lui si trova un angelo, con un vaporoso mantello rosso, che guarda direttamente verso lo spettatore con un lieve sorriso, coinvolgendolo nella rappresentazione, e con la mano destra indica il Battista, rinviando lo sguardo verso il punto di partenza in una carambola di linee di forza. La mano sinistra di Maria si protende in avanti come a proteggere il figlio, con un forte scorcio.

Due cavità si aprono ad arte nello sfondo, rivelando interessanti vedute di speroni rocciosi e gruppi di rocce irte, che a sinistra sfumano in lontananza per effetto della foschia, secondo la tecnica della prospettiva aerea di cui Leonardo è considerato l'iniziatore. In alto invece il cielo si fa cupo, quasi notturno, con l'incombere minaccioso della grotta, punteggiata da innumerevoli pianticelle.

Le figure emergono dallo sfondo scuro, con una luce diffusa tipica dello sfumato leonardesco, che crea un'atmosfera avvolgente, di "pacata Rivelazione". Inoltre usa lo schema piramidale che riprende in molte sue altre opere. L'opera sembra celare infatti il mistero dell'Immacolata concezione, con l'arido scenario montuoso, oscuro e simbolico, che evoca, con la manifestazione delle viscere della natura in cui la Vergine sembra incastrarsi a perfezione, il senso del mistero legato alla maternità.

I colori sono più cupi di quelli utilizzati da Leonardo nella versione successiva, ma la luce è decisamente più calda di quella asettica e tagliente di Londra.

** Leonardo da Vinci - La Gioconda - 1503-1504 e 1510-1515 - La Gioconda, nota anche come Monna Lisa, è un dipinto a olio su tavola di pioppo (77 cm × 53 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1503-1514 circa. Opera emblematica ed enigmatica, si tratta sicuramente del ritratto più celebre del mondo, nonché di una delle opere d'arte più note in assoluto, oggetto di infiniti omaggi, ma anche parodie e sberleffi.

Il sorriso impercettibile della Gioconda, col suo alone di mistero, ha ispirato tantissime pagine di critica, di letteratura, di opere di immaginazione, di studi anche psicoanalitici. Sfuggente, ironica e sensuale, la Monna Lisa è stata di volta in volta amata, idolatrata, ma anche derisa o aggredita. Vera e propria icona della pittura, è vista ogni giorno da migliaia di persone, tanto che nella grande sala in cui è esposta un cordone deve tenere a notevole distanza i visitatori: nella lunga storia del dipinto non sono mancati i tentativi di vandalismo, nonché un furto rocambolesco che in un certo senso ne ha alimentato la leggenda.

L'opera rappresenta tradizionalmente Lisa Gherardini, cioè "Monna" Lisa (un diminutivo di "Madonna" che oggi avrebbe lo stesso significato di "Signora"), moglie di Francesco del Giocondo (quindi la "Gioconda"). Leonardo dopotutto, in quel periodo del suo terzo soggiorno fiorentino, abitava nelle case accanto a Palazzo Gondi (oggi distrutte) a pochi passi da piazza della Signoria, che erano proprio di un ramo della famiglia Gherardini di Montagliari.

Questa, apparentemente di facile identificazione, ha come fonti antiche un documento del 1525 in cui vengono elencati alcuni dipinti che si trovano tra i beni di Gian Giacomo Caprotti detto "Salaì", allievo di Leonardo che seguì il maestro in Francia, dove l'opera è menzionata per la prima volta "la Joconda"

Fu Leonardo stesso a portare con sé in Francia, nel 1516, la Gioconda, che potrebbe essere stata poi acquistata, assieme ad altre opere, da Francesco I. Si sa che un secolo dopo, nel 1625, un ritratto chiamato "la Gioconda" fu descritto da Cassiano dal Pozzo tra le opere delle collezioni reali francesi. Altri indizi fanno pensare che fin dal 1542 si trovasse tra le decorazioni della Salle du bain del castello di Fontainebleau.

Più tardi Luigi XIV fece trasferire il dipinto a Versailles. Dopo la Rivoluzione francese, venne spostato al Louvre. Napoleone Bonaparte lo fece mettere nella sua camera da letto, ma successivamente tornò al Louvre. Durante la guerra Franco-Prussiana del 1870-1871 fu messo al riparo in un sito nascosto.

Il furto della Gioconda avvenne la notte tra domenica 20 e lunedì 21 agosto 1911, prima di un giorno di chiusura del museo; della sottrazione si accorse lunedì stesso un copista, Louis Béroud, che aveva avuto il permesso per riprodurre l'opera a porte chiuse. La notizia del furto fu ufficializzata solo il giorno dopo, anche perché all'epoca non era infrequente che le opere venissero temporaneamente rimosse per essere fotografate. Era la prima volta che un dipinto veniva rubato da un museo, per di più dell'importanza del Louvre, e a lungo la polizia brancolò nel buio. Fu sospettato il poeta francese Guillaume Apollinaire che venne arrestato e condotto in prigione il 7 settembre: il suo arresto si basava su una calunnia da parte dell'amante Honoré Géri Pieret, che lo accusò di aver ricettato alcune statuette antiche rubate dal museo. Anche Pablo Picasso venne interrogato in merito, ma, come Apollinaire, fu in seguito rilasciato. Sospetti caddero anche sull'Impero tedesco, nemico della Francia, ipotizzando un furto di Stato. Mentre crescevano sospetti e polemiche, si iniziò a ritenere il capolavoro perso per sempre: Franz Kafka vide una cornice vuota e dopo un po' il posto lasciato dalla Gioconda sulla parete fu preso dal Ritratto di Baldassarre Castiglione di Raffaello.

In realtà un ex-impiegato del Louvre, Vincenzo Peruggia, originario di Dumenza, cittadina nei pressi di Luino, convinto che il dipinto appartenesse all'Italia e non dovesse quindi restare in Francia, lo aveva rubato, rinchiudendosi nottetempo in uno sgabuzzino e, trascorsavi la notte, uscendo dal museo a piedi con il quadro sotto il cappotto: egli stesso ne aveva montato la teca in vetro, quindi sapeva come sottrarlo. Uscì in tutta calma: chiese anche a un idraulico un aiuto per uscire dal museo, essendo sparita la maniglia del portone d'ingresso, e all'uscita sbagliò tram, optando poi per un più comodo taxi. Messa l'opera in una valigia, posta sotto il letto di una pensione di Parigi, la custodì per ventotto mesi e successivamente la portò nel suo paese d'origine, a Luino, con l'intenzione di "regalarlo all'Italia", ottenendo da qualcuno delle garanzie che il quadro sarebbe rimasto nel suo paese: riteneva infatti, erroneamente, che l'opera fosse stata rubata durante le spoliazioni napoleoniche.

Ingenuamente nel 1913 si recò a Firenze, per rivendere l'opera per pochi spiccioli. Il ladro, processato, venne definito "mentalmente minorato" e condannato ad una pena di un anno e quindici giorni di prigione, poi ridotti a sette mesi e quindici giorni. 

Approfittando del clima amichevole che allora regnava nei rapporti tra Italia e Francia, il dipinto recuperato venne esibito in tutta Italia: prima agli Uffizi a Firenze, poi all'ambasciata di Francia di Palazzo Farnese a Roma, infine alla Galleria Borghese, prima del suo definitivo rientro al Louvre. 

Durante la prima e la seconda guerra mondiale il dipinto venne di nuovo rimosso dal Louvre e conservato in luoghi sicuri. Durante il secondo conflitto in particolare fu depositata al castello di Chambord, poi ad Amboise, a cui seguirono l'abbazia di Loc-Dieu, il Museo Ingres di Montauban e di nuovo Chambord, prima di finire sotto il letto del conservatore del Louvre nel castello di Montal e tornare a Parigi nel 1945. Nel 1956, la parte inferiore del dipinto venne seriamente danneggiata a seguito di un attacco con dell'acido. Diversi mesi dopo qualcuno lanciò un sasso contro il dipinto: attualmente viene esposto dietro un vetro di sicurezza. 

Nel 1962 il quadro fu prestato agli Stati Uniti dove, fu esposto alla National Gallery di Washington e al Metropolitan Museum di New York, dove attrasse un milione e settecentomila visitatori; nel 1974 fece la sua ultima tournée, con tappe a Tokyo e a Mosca.

Studi del settembre 2006, effettuati dal Centro Nazionale di Ricerca e Restauro dei Musei di Francia, hanno rilevato come in un primo tempo tutto il volto della donna dovesse essere ricoperto da un sottile velo, velo che all'epoca era portato dalle donne in attesa o che avevano appena dato alla luce un figlio; inoltre dietro il dipinto si è potuto vedere uno schizzo inciso sul legno da Leonardo, il quale prima di dipingere il quadro ne avrebbe abbozzato la struttura: nello schizzo la figura femminile indossa una cuffia, poi oggetto di un ripensamento.

Per evitare il deterioramento causato dai numerosi flash che colpiscono l'opera, è stata inserita una protezione in vetro di fabbricazione italiana resistente oltretutto a vari tipi di esplosivi e a qualsiasi agente corrosivo. 

Il ritratto mostra una donna seduta a mezza figura, girata a sinistra ma con il volto pressoché frontale, ruotato verso lo spettatore. Le mani sono dolcemente adagiate in primo piano, mentre sullo sfondo, oltre una sorta di parapetto, si apre un vasto paesaggio fluviale, con il consueto repertorio leonardesco di picchi rocciosi e speroni. Indossa una pesante veste scollata, secondo la moda dell'epoca, con un ricamo lungo il petto e maniche in tessuto diverso; in testa indossa un velo trasparente che tiene fermi i lunghi capelli sciolti, ricadendo poi sulla spalla dove si trova appoggiato anche un leggero drappo a mo' di sciarpa.

Il quadro di Leonardo fu uno dei primi ritratti a rappresentare il soggetto davanti a un panorama ritenuto, dai più, immaginario. Una caratteristica interessante del panorama è che non è uniforme. La parte di sinistra è evidentemente posta più in basso rispetto a quella destra. Questo fatto ha portato alcuni critici a ritenere che sia stata aggiunta successivamente.

La Gioconda si trova in una specie di loggia panoramica, come dimostrano le basi di due colonne laterali sul parapetto; una copia seicentesca mostrerebbe la composizione originaria in cui è visibile la parte architettonica successivamente mutilata.

Considerando la grande cura di Leonardo per i dettagli, molti esperti ritengono che non si tratti di uno sfondo inventato, ma rappresenti anzi un punto molto preciso della Toscana, cioè là dove l'Arno supera le campagne di Arezzo e riceve le acque della Val di Chiana. C'è un indizio preciso sulla destra della Gioconda oltre la spalla, è un ponte basso, a più arcate, cioè un ponte antico, a schiena d'asino di stile romanico, un ponte identico al ponte a Buriano che scavalca tutt'oggi l'Arno e che venne costruito in pieno Medioevo, a metà del XIII secolo, quando Arezzo attraversava un periodo di grande prosperità. Sopra le sue arcate passa l'antica via Cassia che collega Roma, Chiusi, Arezzo e Firenze.

Leonardo conosceva bene questo ponte, perché aveva studiato a fondo questa zona, come testimonia un disegno datato tra il 1502 e il 1503 che descrive il bacino idrico della Val di Chiana, in cui si intravede anche il ponte a Buriano; è una prova che Leonardo aveva ben in mente la geografia di questi luoghi. Poco distante dal ponte, l'Arno riceve le acque di un immissario, il canale della Chiana nel quale confluiscono le acque dell'omonima valle. Se si risale il corso di questo canale, andando a ritroso, bisogna superare una serie di meandri e poi ci si infila in una gola, la Gola di Pratantico. Se si osserva il lato sinistro della Gioconda, si vede un corso d'acqua con meandri che si infila in una stretta gola. Inoltre i rilievi a sinistra della Gioconda sono verticali, aguzzi, scavati dall'erosione e in effetti, oltre il ponte, continuando la vecchia via Cassia, si arriva in un'area in cui si possono osservare i calanchi, delle bizzarre formazioni rocciose, erose dalle piogge e dai millenni.

** Carlo Braccesco - Annunciazione - 1490-1450 - Acquistato nel 1806 in un oratorio di Genova da Dominique-Vivant Denon, il quadro raggiunse il primo museo francese con il nome di Giusto d'Alemagna e in questa stessa sede venne poi attribuito a "Scuola del Nord Italia verso 1500". Il critico Roberto Longhi lo attribuì al pittore lombardo Carlo Braccesco, attivo in Liguria nella seconda metà del Quattrocento.

"Carlo da Milano" firmò il polittico con la Madonna e santi oggi nella parrocchia di Montegrazie di Imperia, ma la sua attività è documentata anche nel capoluogo ligure. Datato da Longhi alla fase matura di Braccesco, l'opera del Louvre è un capolavoro eccezionale dell'arte figurativa dell'Italia settentrionale. La tela raffigura, caso unico nella storia dell'arte italiana, la Vergine che, spaventata dall'apparizione dell'angelo, con una mano afferra la colonna per non cadere, mentre con l'altra tenta di coprirsi. Il gesto della Vergine è di squisita fattura, l'esecuzione tecnica e pittorica è di grande livello e gli ori sono stati utilizzati senza economia. L'alto profilo stilistico dell'opera mostra un artista di notevole spessore culturale, educato in Lombardia ma al corrente anche della produzione pittorica delle Fiandre, della Francia meridionale, del Sud d'Italia e legato al ricco e complesso tessuto culturale genovese di quegli anni.  

** Vittore Carpaccio - Predica di santo Stefano - 1514 - L'opera faceva parte di un ciclo di quattro tele (eseguito tra il 1511 e il 1520) commissionate dalla Scuola di Santo Stefano a Venezia, una confraternita insediatasi in un edificio di fronte alla chiesa dedicata a Santo Stefano, che con il tempo venne denominata dei lanieri, perché vi avevano aderito molti lavoranti della lana. Nel 1806 la Scuola venne soppressa e la Predica di santo Stefano e la Disputa tra i dottori furono portate alla Pinacoteca di Brera a Milano, dove quest'ultima si conserva ancora oggi. Insieme ad altre opere della galleria lombarda, la Predica divenne invece oggetto di scambio tra Dominique-Vivant Denon, commissario alle Belle Arti di Napoleone, e Andrea Appiani, direttore della pinacoteca milanese e raggiunse il Louvre nel 1813.

Il santo è raffigurato in piedi sopra una sorta di pilastro classico e predica al popolo, che si riunisce intorno a lui. Sulla sinistra sono effigiati di spalle due orientali, resi con cura nei loro abiti e turbanti, mentre sulla destra delle donne sono sedute e assorte in pacata attenzione. Su un ampio spazio erboso si trova un viottolo che conduce ai margini della città, dove gruppi isolati di popolo minuto danno il senso della vita che scorre. L'arte del pittore Veneto si orienta qui verso un rinnovato senso del paesaggio e raggiunge uno dei suoi momenti più alti. Si è discusso molto sulla veridicità della riproduzione della Città Santa, e sulla possibilità di un viaggio in Oriente di Carpaccio. L'invio di una grande veduta di Gerusalemme, destinata a Francesco Gonzaga nel 1511, ha portato alcuni critici a ritenerlo plausibile, mentre altri ritengono che la verosimiglianza delle architetture (riprodotte tuttavia anche in numerosi altri dipinti di artisti operosi nella città lagunare) non sia una prova del soggiorno, di cui non vi è traccia nemmeno tra i disegni noti di Carpaccio.  

** Raffaello - Madonna col Bambino e san Giovannino - 1507 - La Belle Jardinière è un dipinto a olio su tavola (122 x 80 cm). La firma si trova sull'orlo del mantello della Vergine: "RAPHAELLO URB." (sopra il piede) e "MDVII" (vicino al gomito). La tavola venne identificata, sulla base della descrizione fattane da Giorgio Vasari, con la Madonna lasciata incompiuta dal maestro; Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561) avrebbe aggiunto "un panno azzurro che vi mancava". Fu eseguita per Filippo Sergardi, nobile senese e chierico di camera del pontefice Leone X. Le indagini radiografiche hanno invece rilevato la perfetta omogeneità stilistica del manto azzurro con il resto del dipinto, cosa che potrebbe contraddire l'identificazione con la tavola Sergardi. Le radiografie hanno inoltre mostrato la presenza di alcuni frammenti d'oro che potrebbero interpretarsi come l'ultima lettera romana della data ("i"), forse leggibile come 1507. Acquistato a Siena per conto di Francesco I, appartenne per un periodo non determinabile alla collezione di Luigi XIV, ed entrò nelle raccolte del Louvre nel 1783.

Il cartone preparatorio e alcuni studi illustrano la progettazione del complesso schema piramidale, già impiegato da Raffaello nella Madonna del Belvedere (Vienna, Kunsthistorisches Museum) e nella Madonna del Cardellino (Firenze, Galleria degli Uffizi), e arricchito da rimandi leonardeschi e michelangioleschi. 

Il nome del dipinto, inventato nell'Ottocento, si riferisce alla bellezza della figura di Maria assisa in un prato che assomiglia a un giardino. Immersi in un ampio paesaggio lacustre dall'orizzonte particolarmente alto, punteggiato da alberelli e da segni della presenza umana, si trovano la Madonna seduta su una roccia, con appoggiato alle gambe Gesù Bambino, mentre san Giovannino si trova inginocchiato a destra, mentre dirige uno sguardo intenso a Gesù.

La composizione, sciolta e di forma piramidale, con i protagonisti legati dalla concatenazione di sguardi e gesti, deriva con evidenza da modelli leonardeschi, come la Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, ma se ne distacca sostituendo, al senso di mistero e all'inquietante carica di allusioni e suggestioni, un sentimento fresco di calma e spontanea familiarità. Al posto dei "moti dell'animo" reconditi, Raffaello mise in atto una rappresentazione dell'affettuosità, con l'abbraccio tra madre e figlio e le carezze di quest'ultimo sul ginocchio di lei, mentre il Battista si genuflette con rispettosa devozione. A Leonardo rimandano anche il bruno del terreno, punteggiato da specie botaniche indagate con cura, e la resa atmosferica del paesaggio di fondo, che si perde nei vapori della lontananza. Ricordano invece Michelangelo alcuni dettagli come il piedino di Gesù su quello della madre, presente anche nella statua della Madonna di Bruges.

Le pose delle figure sono attentamente studiate a "contrapposto". Maria è ruotata verso sinistra e fa per abbracciare con naturalezza il figlio, il quale si allunga per prendere il libro che essa ha in grembo. Gesù mostra un elegante classicismo, con rimandi alla scultura dell'epoca come la Madonna di Bruges di Michelangelo.

La fine eleganza, l'intensa carica espressiva e l'armonia della composizione inducono a considerarla la più bella tra le Madonne eseguite durante l'attività fiorentina di Raffaello.  

** Raffaello - Ritratto di Baldassar Castiglione - 1514-1515 - Conservato nella casa mantovana dell'effigiato, il dipinto venne donato nel 1588 da Camillo Castiglione a Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino. Fu poi acquistato da Lucas van Uffel, mercante e collezionista fiammingo morto nel 1637. Nel 1639 passò nella collezione di Alfonso Lopez, consigliere del re di Spagna ad Amsterdam, e fu studiato da Rembrandt in uno schizzo conservato all'Albertina di Vienna. Entrato nelle collezioni del cardinale Mazzarino dopo il 1653, passò in quelle di Luigi XIV, e giunse al Louvre nel 1793. 

Abile diplomatico e fine letterato, Castiglione scrisse il noto Cortegiano, una delle opere che ispirarono l'educazione e il comportamento di molti aristocratici e ricchi borghesi del XVI secolo. Lo scrittore fu legato fin dal 1504 da rapporti di amicizia e da una profonda affinità intellettiva a Raffaello, che lo ritrasse probabilmente tra il 1514 e il 1515, durante un soggiorno invernale a Roma, dove si trovava come ambasciatore della corte di Urbino. 

Su uno sfondo scuro e uniforme, attraversato dall'ombra del soggetto, Baldassarre Castiglione è ritratto a mezza figura, voltato di tre quarti verso sinistra e col volto ruotato verso lo spettatore. Ricco è l'abbigliamento, con una giacca nera sulla camicia bianca, maniche di pelliccia e un vistoso cappello scuro, con tagli alla moda. Il volto è ovale, con la barba lunga come andava di moda nei primi decenni del Cinquecento, e con gli occhi azzurri che fissano intensamente il riguardante, instaurando un rapporto psicologico profondo. La sua figura arriva così a incarnare quell'ideale di perfezione estetica e spirituale della cortigianeria espressa nel suo celebre trattato.

L'alta qualità e la combinazione magistrale di elementi pittorici che contraddistinguono il dipinto, quali l'espressione di affetto sul volto calmo e intelligente di Castiglione, hanno fatto anche pensare che l'umanista abbia in qualche modo partecipato all'esecuzione dell'opera: in realtà è piuttosto da legare all'eccezionale affinità spirituale e comunanza d'ideali tra il soggetto e il pittore.

** Caravaggio - La morte della Vergine - 1604 - Commissionata dal giurista Laerzio Cherubini per l'altare della propria cappella dedicata al Transito della Vergine nella chiesa di Santa Maria della Scala in Trastevere a Roma, la pala venne rifiutata, a detta dei primi biografi, per l'assenza di "decoro". La stessa accusa aveva già colpito la prima versione del San Matteo della cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma (distrutto), e anche la Madonna dei Palafrenieri (Roma, Galleria Borghese). Secondo l'interpretazione più diffusa, il Caravaggio si sarebbe avvalso del cadavere di un'annegata.

Messa in vendita da Cherubini, la tela venne acquistata per conto di Vincenzo I Gonzaga da Pieter Paul Rubens, agente del duca di Mantova. Passata nel 1627 nella collezione di Carlo I d'Inghilterra, l'opera venne successivamente acquistata dal banchiere Everhard Jabach, dal quale nel 1671 giunse nelle raccolte di Luigi XIV.  

Il quadro fu però prontamente rifiutato, perché la Madonna non rispettava la sua iconografia classica: era anzi priva di qualsiasi tributo mistico, con la faccia terrea, un braccio abbandonato e il ventre gonfio. Addirittura si dice che Caravaggio scelse una prostituta trovata morta nel Tevere, per ritrarre la Vergine. Molto scandalo, in particolare, fecero i piedi ritratti nudi fino alla caviglia.

La scena è inserita in un ambiente umile con al centro il corpo morto della Vergine, in primo piano la Maddalena, seduta su una semplice sedia, che piange con la testa tra le mani, intorno gli Apostoli addolorati, l'intonazione cromatica molto scura è illuminata dal rosso della veste della morta e della tenda, elemento di una scenografia povera. Stupenda inoltre, oltre all'illuminazione, è la composizione: gli apostoli, allineati davanti al feretro, formano, in linea col corpo e col braccio di Maria, una croce perfetta.

Per comprendere il quadro dobbiamo tener presente che Caravaggio era vicino alle posizioni pauperistiche di molti movimenti religiosi contemporanei, come gli Oratoriani o il Cardinale Federico Borromeo, il quale predicava l'assoluta povertà del clero, e viveva egli stesso in una casa molto misera, avente appena una Bibbia e le mobilia necessarie, e a cui rassomiglia molto l'ambientazione del quadro; le sue varianti iconografiche vennero realizzate tenendo presenti le esigenze devozionali di questi movimenti: la Vergine è ritratta come una giovane, perché rappresenta allegoricamente la Chiesa immortale, mentre il ventre gonfio, rappresenta la grazia divina di cui è "gravida".

Da quest'ultimo particolare, ritenuto sconveniente dai più, nacque la leggenda che vuole l'artista essersi ispirato ad una prostituta annegata nel Tevere.

Il rifiuto di questo capolavoro e, di lì a poco, l'omicidio di Ranuccio Tommasoni in una rissa, costringeranno Caravaggio a lasciare Roma. Il dipinto del Caravaggio nella chiesa trasteverina fu sostituito della ben più canonica tela di analogo tema di Carlo Saraceni, tuttora in loco.

** Tiziano - Concerto campestre - 1509-1510 - Questa tela, "uno dei più alti raggiungimenti della pittura veneziana del primo Cinquecento" (Pedrocco), è stata acquistata nel 1671 da Luigi XIV dalla raccolta del banchiere Eberhard Jabach. Esposta per lungo tempo a Versailles, è giunta al Louvre nel 1793. Fin dalla fine dell'Ottocento gli storici hanno espresso pareri discordi sulla paternità, variamente assegnata a Giorgione o a Tiziano, in altri casi collocata tra le opere lasciate incompiute da Giorgione (morto a Venezia nel 1510) e portate a compimento da Tiziano. Le indagini radiografiche compiute sulla tela hanno concluso che la materia pittorica di tutto il quadro è unitaria e coerente e, quindi, opera di un unico artista. 

L'opera si può considerare un "manifesto" dello sviluppo stilistico della pittura veneta all'aprirsi del Cinquecento, con la sensibilissima sovrapposizione di velature di colore, un contenuto ricorso al disegno e una linea di contorno sfumata, elementi chiave del tonalismo.

Vi sono raffigurati tre giovani seduti su un prato che suonano, mentre vicino ad essi una donna in piedi versa dell'acqua in una vasca marmorea. Le due donne presenti sono entrambe nude, coperte appena da mantelli che scivolano via, mentre i due uomini, che parlano tra di loro, sono vestiti in costumi dell'epoca. Nell'ampio sfondo si vede un pastore e un paesaggio che, tra quinte vegetali, si distende a perdita d'occhio.

Il soggetto dovrebbe essere un'allegoria della poesia e della musica, con le due donne dalla bellezza ideale, che sono come due apparizioni irreali generate dalla fantasia e l'ispirazione dei due giovani. La nudità dopotutto è legata all'essenza divina e la donna col vaso di vetro sarebbe la musa della poesia tragica superiore, mentre quella col flauto la musa della poesia pastorale. Tra i due giovani, quello ben vestito che suona il liuto sarebbe il poeta del lirismo esaltato, mentre quello col capo scoperto sarebbe un paroliere ordinario, secondo la distinzione operata da Aristotele nella Poetica. Alcuni hanno identificato la rappresentazione anche come un'evocazione dei quattro elementi che compongono il mondo naturale (acqua, fuoco, terra, aria) e del loro relazionarsi armonioso.

Inoltre l'accordo tra il liuto, strumento colto e "cittadino", e il flauto, strumento rustico e campestre, era un tema legato alla teoria musicale neoplatonica, che nell'incontro degli opposti indicava la via per realizzare una conoscenza superiore. La donna che mischia le acque sarebbe quindi da leggere come simbolo di purificazione, ma anche di mescolanza, cioè armonia, dei suoni nell'accordo musicale, arrivando a quella concordanza tra musica mondana e musica celeste dei pitagorici. Tale teorie erano comuni nei circoli umanistici veneziani, animati da personalità come Pietro Bembo, Mario Equicola e Leone Ebreo.

L'arrivo del pastore da destra, inferiore per classe e per cultura, avrebbe dunque interrotto il concerto delle muse e dei due nobili, che si scambierebbero un'occhiata di perplessa circostanza.

La tonalità calda e dorata della luce del tramonto contribuisce a creare un'atmosfera da sogno. L'attenzione al dato vegetale in primo piano, ancora una volta, rimanda alla mai dimenticata lezione di Leonardo da Vinci.

** Rosso Fiorentino - Pietà - 1530-1535 - L'opera, secondo la testimonianza di Vasari, fu commissionata subito dopo la decorazione della Galleria di Francesco I nel castello di Fontainebleau. Lo storico aretino indicò come committente il connestabile Anne de Montmorency, il cui armoriale si trova anche sul cuscino su cui è appoggiato Cristo; la Pietà si trovava proprio nel suo castello d'Écouen (appesa sulla porta della cappella), dal quale è poi pervenuta nel museo parigino, alla fine del XVIII secolo.

Sotto i corpi di Gesù e di Giovanni sono stati trovati ai raggi X i segni di una composizione inizialmente pensata all'arrovescio, che fu coperta con lo sfondo scuro.

Il corpo di Cristo è rappresentato in primo piano e, semidisteso, occupa tutta la superficie del dipinto. Gli fa eco Maria che, disperata, allarga le braccia arrivando a sfiorare i bordi del dipinto e rivivendo, simbolicamente, il martirio della crocifissione. Essa è retta da una pia donna col capo coperto da un pesante velo rosso, mentre Gesù è tenuto ai piedi dalla Maddalena, dall'abbigliamento e l'acconciatura raffinatissimi, e da Giovanni apostolo, rappresentato inginocchiato di spalle a destra in una complessa torsione, complementare a quella della Maddalena. Le figure occupano praticamente tutto il campo a disposizione, lasciando poco spazio allo sfondo scuro che simula il sepolcro aperto. Esse hanno un tono eroico e drammatico, evidenziato dalla gestualità, ma tutto sommato austeramente contenuto, che Antonio Natali ha definito "da coro di tragedia greca".

La luce si sofferma radente sul primo piano della composizione, lasciando lo sfondo nelle tenebre, e accendendo varie tonalità di rosso negli abbigliamenti dei personaggi, alle quali fa da contrasto la fascia bianca che avvolge il collo e la testa di Maria, nonché il giallo della veste della Maddalena e il candore delle sue trine. Le pieghe dei panni appaiono dure, quasi scolpite, più che mai taglienti.

Più che allo stile sofisticato delle opere di Fontainebleau, la Pietà ricorda i tormenti di opere come la Deposizione di Sansepolcro, specialmente nella posa delle figure: ciò ha fatto ipotizzare una datazione più anticipata di quella tradizionale, all'inizio del soggiorno francese. L'ipotesi però contrasta con i documenti che ricordano la costruzione della cappella del Connestabile, completata proprio negli anni quaranta.

** Veronese - Nozze di Cana - 1563 - Il 6 giugno 1562 Veronese fu incaricato di dipingere la parete di fondo del refettorio benedettino del complesso architettonico progettato da Andrea Palladio sull’Isola di San Giorgio Maggiore. La grande intesa tra Veronese e Palladio fu determinante per il formidabile risultato finale, la cui enorme fama si diffuse presto per tutta Europa. Tanto che, nel 1797, Napoleone Bonaparte fu inesorabilmente determinato nel volersene appropriare come risarcimento delle spese di guerra. La tela fu smontata dalla parete l’11 settembre di quell’anno, fu tagliata in diversi pezzi e spedita a Parigi al Musée du Louvre, dove è tuttora conservata.

Il dipinto mostra l'episodio della tramutazione dell'acqua in vino durante un matrimonio a Cana, contenuto nel Vangelo secondo Giovanni; la scena è ricca di particolari e mostra nella sua ambientazione una commistione di dettagli antichi e contemporanei.

L'architettura è certamente classica, caratterizzata da due vasti colonnati ai lati del dipinto; al centro si apre invece un cortile sormontato da una zona rialzata, cinta da una balaustra. Lo sfondo mostra un cielo azzurro macchiato da alcune nuvole bianche, nel quale si staglia una torre anch'essa in stile classico.

Al centro, in primo piano, si trovano dei musicisti intenti ad intrattenere i convitati; due di questi, l'uomo vestito di bianco con la viola da gamba e il personaggio con una tunica rossa e contrabbasso sarebbero secondo la tradizione Veronese stesso e Tiziano. Altri personaggi celebri presenti nel dipinto sono, secondo diverse interpretazioni dei critici, Eleonora d'Asburgo, Francesco I di Francia, Maria I d'Inghilterra, Solimano il Magnifico, Vittoria Colonna, Carlo V, Marcantonio Barbaro, Daniele Barbaro, Giulia Gonzaga, Reginald Pole, Triboulet e Mehmed Pascià Sokolovič.

Le vesti dei personaggi sono sontuose ed eleganti, dai colori brillanti e motivi ricercati; al centro della tavolata siede Cristo vicino alla madre, entrambi sono ritratti composti e calmi, il Gesù guarda fisso verso l'osservatore della tela.

Il formato monumentale e la complessità compositiva della parte architettonica implicano l'impiego di numerosi collaboratori, ed è probabile che, nonostante il restauro abbia valorizzato l'alta qualità pittorica di alcuni dettagli e l'autografia della maggioranza dei ritratti, Paolo si sia avvalso di aiutanti e inprimis del fratello Benedetto.  

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