La
città di Monreale nacque con i verso l'XI
secolo. Distante dalla città normanna sorgeva un antico
villaggio arabo Balharā. situato alle pendici del Monte
Caputo a 310 m sul livello del mare.
Era
in questo luogo in cui i re
normanni si ritiravano per riposare dalle fatiche della
guerra e dal governo della Sicilia. Fu in una notte del 1171 che
re Guglielmo II detto
il Buono, ebbe in sogno l'apparizione della Madonna che gli svelava il
posto dove era nascosto un immenso tesoro (bottino di guerra di suo
padre), con il quale Guglielmo avrebbe dovuto erigere un tempio a lei
dedicato. Il re diede inizio senza indugi alla costruzione del tempio,
del Palazzo Arcivescovile e del chiostro. Dispose che cento monaci della Badia
di Cava, con a capo l'abate Teobaldo, si trasferissero a Monreale
per officiare nel tempio. Essi giunsero a Monreale il 20 marzo 1176 e
l'abate Teobaldo venne
insignito del titolo di "Signore della Città".
Il
5 febbraio 1182, Lucio III,
su richiesta dello stesso Guglielmo, elevò la chiesa di Monreale a
"Cattedrale Metropolitana". Primo arcivescovo della diocesi di
Monreale è stato fra' Guglielmo del monastero dei Benedettini. Alla
fine del XVII secolo l'Arcivescovo
di Monreale possedeva 72 feudi. Dalla elevazione a
Cattedrale Metropolitana ad oggi, la sede di Monreale ha avuto 54
arcivescovi e, tra questi, 14 cardinali della Chiesa.
Già
prima che il Duomo fosse finito, il mondo ne parlava con meraviglia: lo
stesso papa Alessandro III,
in una bolla inviata al sovrano nel 1174,
esprimeva tutta la sua gioia per la solennità del monumento.

Duomo
Il
Duomo
di Monreale
merita una grande attenzione perché è davvero uno dei templi più
belli del mondo. Dopo Santa Sofia, a Istanbul (Costantinopoli), è la più
vasta opera musiva bizantina che esiste al mondo. La parola
“mosaico”, infatti, deriva dal greco e significa «opera paziente,
degna delle Muse».
Delle
cose belle più che parlarne bisogna solamente imparare a guardarle,
attivando i sensi spirituali, ecco allora delle piccole indicazioni su
come effettuare una visita e soprattutto dove puntare gli occhi. Si
entra attraverso la porta laterale, dunque per prima cosa
dirigetevi davanti all’ingresso principale e fermatevi a guardare
l’orientamento della basilica.
La
pianta della chiesa è a tre navate che terminano nelle tre absidi in
fondo. Secondo i canoni della teologia Orientale: l’ingresso è ad
Ovest, l’Abside col Presbiterio e l’altare ad Est. Il significato è
semplice, si entra dal mondo delle tenebre, del peccato, da dove
tramonta il giorno e si va verso la Luce, dove Gesù Pantocrator
ci accoglie come “un sole che sorge dall’alto”. Due file di
nove colonne per lato dividono lo spazio centrale.
Tutte
le colonne sono in granito grigio, tranne una, la prima alla vostra
destra. Questa è fatta di materiale più povero, in marmo cipollino che
è più scadente. Non è un caso, si tratta di una scelta consapevole.
Le colonne che sostengono le arcate indicano che è Dio che regge la
Chiesa, tuttavia anche l’uomo deve fare la sua parte: ecco, quella
colonna di materiale scadente rappresenta l’uomo che regge, seppur in
minima parte, le sorti della grande Chiesa. Inizialmente
questa colonna “spuria” era collocata in seconda fila (proprio in
linea con le ragioni di umiltà di cui sopra) secoli dopo, per motivi
tecnici, è stata ricollocata dove si trova adesso.
Date
una occhiata ai soffitti in legno policromo: noterete, andando avanti
che cambiano di forma e aspetto a seconda della zona in cui siete. I più
belli sono sul transetto che è quella parte trasversale prima di
entrare nel presbiterio.
Adesso
potete passare lo sguardo sui stupendi mosaici. Sono là per raccontare
una storia meravigliosa al popolo che è riunito in preghiera. Sono
un’opera sacra, non semplici raffigurazioni e per questo sono disposti
secondo un piano prestabilito. Circa 6400 metri quadrati che esprimono
artisticamente la storia della salvezza dell’uomo, dalla sua creazione
fino all’apoteosi del giudizio universale.

Ogni
quadro ha un significato preciso, per questo vanno guardati
attentamente, ammirati nello splendore che emanano: guardate come nella
Creazione dell’uomo, Dio e Adamo hanno le stesse sembianze. Proprio
quelle di Cristo, che è Dio incarnato e si riflette nella creatura
fatta a sua immagine. Il piano di salvezza è già scritto ma si trova
chiuso nel rotolo che ha in mano. Notate quante volte quel rotolo si
trova nelle mani di Dio. Solo la piena realizzazione del piano divino
potrà svelare il mistero: questo rotolo si trova aperto nelle mani del
Cristo Pantocratore.
Il
Pantocrator è il centro a cui ogni uomo deve tendere: è enorme,
presente, e tutto inneggia alla sua regalità. Rappresenta insieme Dio e
l’uomo: il colore rosso del suo abito, simbolo della divinità, è
rivestito dal manto blu, simbolo della umanità. Tutt’intorno è una
grande profusione di oro, segno della luce divina. Egli è la luce del
mondo e gli artisti che lo hanno qui rappresentato hanno voluto
sottolineare questa lettura teologica disponendo le tessere dorate del
mosaico seguendo linee circolari concentriche (caso unico in Italia!) di
modo che la figura pare irradiare un pulviscolo di luce pura, dorata,
dunque divina.
Certo è Dio, ma il suo volto sereno è umanissimo. Nell’incarnato non
segue le linee anatomiche ma mostra una caratteristica tutta propria che
affascina, che attrae: Lui ci guarda, ma noi non riusciamo a catturare
il suo sguardo!
La
mano destra benedice col segno classico delle icone bizantine, del
pollice che tocca insieme il medio e il mignolo in segno
trinitario, mentre l’anulare fa una croce con l’indice. La mano
sinistra regge aperto il libro che finalmente svela il Mistero: “Io
sono la luce del mondo” chi mi segue non cammina nelle tenebre”.
Dopo
esservi perduti in quello sguardo divino, da gustare da ogni punto di
vista, potete tornare al punto di partenza dove viene chiuso il cerchio
del racconto della salvezza attesa e raggiunta. Infatti, alla fine delle
celebrazioni, i fedeli uscendo vengono accompagnati dalla Vergine
Odigitria, cioè la guida dei pellegrini, posta al di sopra della porta
di ingresso con in braccio il figlio che tiene in mano il rotolo aperto
quasi a dire: “ecco mio figlio, ricorda il suo messaggio che devi
annunciare una volta fuori di qui”. È il compito di chi ha
vissuto la gloria della celebrazione liturgica: offrire al mondo
l’esperienza che ha vissuto.
Tutto
il resto sono dettagli che vanno ammirati, come il magnifico portale, il
sarcofago in porfido di Guglielmo I e quello marmoreo di Guglielmo II il
Buono; i troni che accoglievano il re ed il vescovo; le tombe
ottocentesche, dove riposano le spoglie di Margherita di Navarra e di
Sicilia, moglie di Guglielmo I, e dei figli Ruggero ed Enrico.
Qualcuno
lo ha definito il tempio più bello del mondo e senz’altro il Duomo di
Monreale è uno tra i più begli esempi di come l’arte, riesca ad
entrare in sintonia con il cuore dell’uomo.

L’opera
monumentaria, che comprendeva insieme alla Basilica, il palazzo reale ed
una abbazia benedettina, fu voluta da Guglielmo II, quel re della
dinastia Normanna di Sicilia che fu detto “il Buono”. Nel
1174, quando aveva appena vent’anni, secondo una leggenda, la stessa
Vergine Maria gli apparve in sogno rivelandogli il nascondiglio dove il
padre di lui, Guglielmo I, detto “il Malo”, “il Cattivo”, aveva
nascosto un tesoro. Con quelle ricchezze, proprio in quel punto, egli
avrebbe dovuto innalzare un tempio da dedicare a Lei.
Allo
stesso modo sembra leggendaria l’ipotesi secondo la quale
l’architetto che ne fu l’artefice principale, sia stato fratello
dell’altro architetto che nello stesso periodo progettava la
costruzione della cattedrale di Palermo. La competizione tra i due
fratelli architetti, a chi avesse fatto erigere l’opera più bella,
sarebbe finita in tragedia con la morte suicida di entrambi: il primo
schiacciato dalla bellezza degli esterni della cattedrale
di Palermo ed il secondo riconoscendo il primato del fratello
ormai morto, davanti alla magnificenza dell’interno del Duomo di
Monreale.
Una
competizione effettivamente ci fu per davvero, ma nei confronti dello
strapotere arcivescovile di Palermo, nella figura di Gualtiero Offamilio
(al secolo Walter of the Mill) di origini presumibilmente inglesi e già
precettore del piccolo Guglielmo divenuto re ad appena 13 anni, dopo la
morte del padre Guglielmo I.
Così
la chiesa, nata inizialmente come basilica venne affidata ai monaci
benedettini e nel 1183 elevata al rango di sede arcivescovile sottraendo
prestigio e potere alla sede palermitana.
Tutto
il complesso fu costruito in pochi decenni con maestranze di varia
provenienza guidate da esperti architetti e probabilmente teologi
bizantini e latini che hanno prodotto una solenne armonia rimasta
intatta nel duomo nonostante i ripetuti rifacimenti e le aggiunte
posteriori: il portico settentrionale, realizzato dai Gagini nel 1547
(su progetto di Biagio Timpanella); la cappella di san Castrense,
realizzata alla fine del ‘500; la cappella barocca del Crocifisso
costruita alla fine del ‘600; il portico della porta maggiore,
ricostruito nel 1770 (ad opera dell’architetto Antonio Romano).
Della
costruzione originaria rimane solo il corpo della Chiesa ed il Chiostro
quadrato dei benedettini. Dell’abbazia e del palazzo Reale è rimasto
ormai pochissimo, inglobato nei locali del Duomo o nei palazzi
circostanti.

L’esterno
del Duomo mostra una facciata principale inserita all’interno di
due torri asimmetriche di altezza e forma differenti. Nella
porzione superiore, una grande finestra ogivale a vetri colorati con ai
lati un intreccio di archi e dischi di misure e decorazioni differenti.
Un timpano triangolare ne sormonta la navata centrale.
Nella
parte inferiore, inglobata dentro una costruzione a tre portici in marmo
bianco, aggiunta nel 1770, si apre l’ingresso principale. Si tratta di
un magnifico Portale a forma ogivale dentro il quale si incastona un
bellissimo portone in Bronzo, opera di Bonanno di Pisa che la eseguì
nel 1185 nella sua città e successivamente fu condotta a Monreale via
nave. È composta di due battenti rettangolari adattati alla
forma ogivale dell’ingresso. Comprende 46 pannelli con immagini a
rilievo rappresentanti episodi della Bibbia e due coppie di leoni e
grifoni nella parte inferiore. L’arcata del portale è caratterizzata
da una serie di bande parallele decorate da ghirlande di fiori, forme
umane e animali scolpiti in basso rilievo, decorazioni classiche e una
banda di mosaico policromo.
Sulla
facciata orientata a Nord si apre una porta più piccola, quella usata
attualmente per l’ingresso dei fedeli. È opera di Barisano da Trani
nel 1190. In bronzo e molto più piccola e povera, presenta 14 pannelli
in ogni battente, con bassorilievi che rappresentano episodi della vita
di Cristo, vite di santi e animali araldici.
La
parte posteriore del Duomo di Monreale è un esempio mirabile
dell’arte araba. Presenta la convessità delle tre absidi con tre
livelli di archi intrecciati che si arricchiscono di decorazioni
policrome ottenute dall’uso sapiente di pietra calcarea brunita, lava
grigio-nera e mattoni rossi in bande orizzontali. Gli archi, che
originano da colonnine poggiate su alti basamenti, sono arricchite da
tondi di dimensione e disegno differente che simulano rosoni ciechi
finemente decorati.

La
prima curiosità da sottolineare è l’orientamento della Chiesa.
Secondo i canoni della teologia Orientale: l’ingresso è ad Ovest,
l’Abside col Presbiterio e l’altare ad Est. Il significato è
semplice, si entra dal mondo delle tenebre, del peccato, da dove
tramonta il giorno e si va verso la Luce, dove Gesù Pantocrator ci
accoglie come “un sole che sorge dall’alto”.
Il
ritmo architettonico che caratterizza l’interno del duomo, con i suoi
102 metri di lunghezza, appare immediatamente.
La
pianta della chiesa è a tre navate che terminano nelle tre absidi in
fondo. La navata centrale, grandiosa, ampia tre volte più delle navate
laterali, si prolunga nel transetto secondo rigorose regole di simmetria
e proporzioni che guidano lo sguardo verso l’ampio abside principale,
dove la regalità e la gloriosa divinità trovano espressione nella
profusione di luce dorata che risplende nel complesso musivo con al
centro Gesù Cristo Pantocrator.
Le
navate laterali terminano nelle due absidi laterali dove sono rappresentati
i principi degli apostoli: san Pietro in quella di sinistra e san Paolo
in quella di destra.
Due
file di nove colonne per lato dividono lo spazio centrale. Qui va notata
un’altra particolarità: tutte le colonne, con capitelli finemente
scolpiti in stile corinzio e composito, sono in granito grigio, tranne
una, la prima a destra dall’ingresso principale. Questa è fatta di
materiale più povero, in marmo cipollino che è più scadente. Non è
un caso, si tratta di una scelta consapevole. Le colonne che sostengono
le arcate indicano che è Dio che regge la Chiesa, tuttavia anche
l’uomo deve fare la sua parte: ecco, quella colonna di materiale
scadente rappresenta l’uomo (nella figura della chiesa istituzionale)
che regge, seppur in minima parte, le sorti della grande Chiesa.
Inizialmente questa colonna “spuria” era collocata in seconda fila
(proprio in linea con le ragioni di umiltà di cui sopra) secoli dopo,
per motivi tecnici, è stata ricollocata dove si trova adesso.

A
destra e a sinistra, prima di entrare nel presbiterio e addossati a due
grandi pilastri, sono posizionati il trono reale ed il trono
arcivescovile.
A
sinistra il trono del re è più riccamente ornato, posto in posizione
rialzata e sovrastato dagli stemmi di Guglielmo II e della sua Casata.
Leoni scolpiti, grifoni e decorazioni in prezioso marmo porfido rosso,
sottolineano la regalità del sito. In alto un mosaico raffigura lo
stesso re, in piedi, mentre viene coronato da Cristo: significa che il
dominio viene direttamente da Dio. Una apertura posta nell’ala
sinistra del transetto lo collegava col palazzo reale. Il passaggio è
stato murato e adesso è coperto da un reliquiario.
A
destra, più dimesso, il trono arcivescovile che tuttora accoglie il
Vescovo celebrante. Comunicava con la torre dell’Abbazia e il salone
capitolare. Il mosaico che lo sormonta rappresenta lo stesso re che, con
la benedizione di Dio, raffigurata nella mano benedicente che scende
dall’alto, consegna il duomo alla Vergine.
Tutta
la copertura della chiesa ha subito diversi rifacimenti, specie dopo un
disastroso incendio nel 1811, ma il disegno originario è stato alquanto
rispettato.
I
soffitti sono in legno policromo con una varietà di tipologia della
copertura classica dell’architettura medievale, diversificata con
l’intento di mettere in risalto le parti più nobili dell’edificio.
Il tetto della navata centrale è a forma di carena di nave, costituito
da enormi tronchi scolpiti con fregi d’oro. Poi la copertura passa dal
tipo a capriata, a volta, a cupola a seconda della sezione da
nobilitare. La parte centrale del transetto è la più sontuosa con
piccoli motivi a stalattite dorata, finemente elaborata, tipica della
tradizione islamica.

I
mosaici sono l’aspetto più eclatante della bellezza di questa opera
sacra, perché non va dimenticato che lo scopo principale di questa
costruzione risiede nel consentire ai fedeli di vivere profondamente il
culto a Dio, Gesù Cristo e alla Vergine Maria. Per questo i circa 6400
metri quadrati di mosaico che ne ricoprono la superficie, sono una
rappresentazione artistica della Bibbia, una catechesi in immagini,
perché il popolo possa immergersi dentro lo spazio sacro.
130
quadri che raccontano le storie del Vecchio Testamento e la Vita di
Cristo esponendo il piano divino per la salvezza universale, a partire
dalla creazione del mondo e dell’uomo.
Dopo
il peccato originale, l’intervento di Dio prepara il suo popolo alla
salvezza accompagnandolo lungo le vicissitudini della sua storia (navata
centrale). La venuta di Cristo realizza la salvezza del mondo attraverso
la sua incarnazione e le sue opere meravigliose rappresentate nel
transetto e lungo le navate laterali. Fino alla gloriosa
rappresentazione all’interno dell’abside centrale con il grande
Pantocrator (l’Onnipotente) circonfuso di splendore. Al di sotto la
figura della Vergine col Bambino, con la scritta greca “panacròntas”
(tutta immacolata), affiancata da angeli e apostoli; e ancora più giù
nell’ultima fascia, figure di santi e pastori della chiesa.
Non
possiamo qui “leggere” tutta la profonda teologia espressa nei
mosaici, ma qualche piccola annotazione che ne dia un’idea va fatta.
Da
notare che nella Creazione dell’uomo, Dio e Adamo hanno le stesse
sembianze: quelle di Cristo, Dio incarnato, che si riflette nella
creatura fatta a sua immagine. Ed è straordinaria la suspense che si
vuole creare nello spettatore: Il Dio-Cristo creatore tiene tra le mani
un rotolo chiuso che contiene un messaggio segreto che solo la piena
realizzazione del piano divino potrà svelare: questo rotolo si trova
aperto nelle mani del Cristo Pantocratore.

Il
Pantocrator è il centro a cui ogni uomo deve tendere: è enorme,
presente, e tutto inneggia alla sua regalità. Agli angoli dell’abside
sono incastonate colonne in porfido rosso egiziano un marmo
preziosissimo ormai estinto, usato dai re e dagli imperatori. E davvero
magnifica è questa figura regale attorniata da angeli e santi.
Rappresenta
insieme Dio e l’uomo: il colore rosso del suo abito, simbolo della
divinità, è rivestito dal manto blu, simbolo della umanità.
Tutt’intorno è una grande profusione di oro, segno della luce divina.
Egli è la luce del mondo e gli artisti che lo hanno qui rappresentato
hanno voluto sottolineare questa lettura teologica disponendo le tessere
dorate del mosaico seguendo linee circolari concentriche (caso unico in
Italia!) di modo che la figura pare irradiare un pulviscolo di luce
pura, dorata, dunque divina.
Certo è Dio, ma il suo volto sereno è umanissimo. Nell’incarnato non
segue le linee anatomiche ma mostra una caratteristica tutta propria che
affascina, che attrae: Lui ci guarda, ma noi non riusciamo a catturare
il suo sguardo!
La
mano destra benedice col segno classico delle icone bizantine, del
pollice che tocca insieme il medio e il mignolo in segno trinitario
mentre l’anulare fa una croce con l’indice. La mano sinistra regge
aperto il libro che finalmente svela il Mistero: “Io sono la luce del
mondo” chi mi segue non cammina nelle tenebre”.
Al
di sopra del Pantocrator, nell’arco che lo sovrasta, si trova il trono
predisposto per accogliere il Cristo alla fine dei tempi come giudice
universale (secondo il libro dell’Apocalisse). È un trono elegante e
prezioso, color porpora (colore divino) sul quale è posto un manto
azzurro (cioè quella stessa umanità che il Cristo rivestirà per
giudicare gli uomini). Sta a significare la presenza invisibile di
Cristo là dove il suo popolo si riunisce per pregarlo.
Dietro
il trono svetta la croce con la corona di spine, mentre la lancia di
Longino, che lo trafisse nel costato, e la canna con la spugna
dell’aceto mostrano che colui che verrà a giudicare il mondo, ne ha
conquistato il diritto attraverso la sofferenza della croce. E infatti
sullo sgabello ai suoi piedi, sopra un cuscino di tessuto prezioso,
poggia l’aspersorio che contiene i quattro chiodi della crocifissione
di Gesù. Sul trono, dove è steso il mantello blu (colore che
simboleggia l’umanità di Cristo) poggia la colomba dello Spirito
Santo. Ai lati del medaglione un coro simmetrico di Serafini (angeli a
sei ali) e di quattro Arcangeli, Gabriele, Raffaele, Michele e Uriele,
rimane in attesa adorante del Re dei Re.
A
chiudere il cerchio del racconto della salvezza attesa e raggiunta, alla
fine delle celebrazioni, i fedeli uscendo vengono accompagnati dalla
Vergine Odigitria, cioè la guida dei pellegrini, posta al di sopra
della porta di ingresso con in braccio il figlio che tiene in mano il
rotolo aperto quasi a dire: “ecco mio figlio, ricorda il suo messaggio
che devi annunciare una volta fuori di qui”. È il compito di
chi ha partecipato alla gloria della celebrazione liturgica: offrire al
mondo l’esperienza che ha vissuto.
Al
di sotto una scritta in latino, che è un motto che si trova anche in
altre iscrizioni sacre, sembra essere la raccomandazione che il re
chiede per se stesso alla Vergine … Pro cunctis ora, sed plus pro rege
labora (prega per tutti, ma soprattutto lavora per il re!)

I
sarcofagi reali
sono situati in fondo alla navata laterale destra e contengono le
spoglie dei due re normanni, padre e figlio, Guglielmo I e Guglielmo II.
Nel
più grande è posto il padre del Re, Guglielmo I, detto il Malo e fu
voluta direttamente dal figlio. Costruita in prezioso porfido rosso,
materiale legato alla tradizione imperiale.
Accanto
la tomba di Guglielmo II, più modesta nelle dimensioni e nei materiali
di costruzione: semplicemente marmo bianco, istoriato, fu fatta
costruire dall’arcivescovo Ludovico de Torres I. Entrambi i mausolei
furono gravemente danneggiati nell’incendio nel 1811 e ripristinati
secondo il disegno originale. Un’altra tomba, completamente rifatta
dopo l’incendio conteneva le spoglie di Margherita di Navarra, madre
di Guglielmo II e si trova in fondo alla navata di sinistra.

Nel
1773, per volere dell’arcivescovo Francesco Testa, venne collocato un
nuovo altare maggiore (al posto del precedente di cui non abbiamo una
descrizione accurata), splendida opera in argento eseguita a Roma da
Luigi Valadier. Malgrado l’appartenenza al tardo barocco romano,
l’altare si inserisce abbastanza bene all’interno della cornice di
mosaici che dall’abside lo sovrastano. Parlare di semplicità di linee
sembra eccessivo, tuttavia i toni grigiastri, dorati ed argentei non lo
fanno apparire completamente squilibrato rispetto all’insieme.
Al
centro un grande bassorilievo ovale in argento, sostenuto da angeli,
rappresenta la natività della Vergine, mentre due medaglioni laterali
riportano gli episodi della Assunzione e della Pentecoste ed i cinque
sovrastanti, scene legate alla Vergine.
Per
il resto, altri rifacimenti tardo rinascimentali e baroccali si trovano
qua e là nelle cappelle laterali, nelle absidioli e all’interno della
cappella di san Benedetto e nella Cappella del Crocifisso. Pomposità
che fortunatamente non sono riuscite a guastare la preziosa armonia di
questa meraviglia dell’arte sacra.
Biblioteca
Santa Maria La Nuova
La
costituzione del primo nucleo di libri della biblioteca “Santa Maria
La Nuova” si deve all’arrivo a Monreale, nella seconda metà del XII
secolo, di cento monaci benedettini che, per volere di Guglielmo II,
presero possesso del monastero da lui fondato. Il re normanno assegnò
loro molti privilegi: elevò l’abate a dignità di arcivescovo e dotò
l’abbazia di “libris et sacris vestibus argento et auro”. I monaci
ebbero grande cura nel custodire nella sacrestia del Duomo, insieme ai
paramenti sacri, i libri ricevuti in dono e le pergamene regie e
pontificie relative ai privilegi di cui l’abbazia di Monreale godeva,
raccolti nel “Tabulario di Santa Maria Nuova” conservato oggi presso
la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “A. Bombace”.
Tuttavia la morte di Guglielmo II e l’incalzare di vari eventi
politici e religiosi portarono allo spopolamento del monastero ed alla
dispersione dei libri.
Sarà
il Cardinale Ausias Spuig de Podio, Arcivescovo di Monreale dal 1458 al
1483, a ripopolare il monastero e ad incrementare con 34 volumi ciò che
rimaneva di quel primo nucleo librario della biblioteca del Duomo, anche
se non se ne sa l’effettiva consistenza in quanto, negli inventari
delle suppellettili del tesoro della chiesa, redatti in occasione delle
consegne ai vari tesorieri, il numero dei libri elencati varia di volta
in volta.
A
causa della difficile convivenza tra benedettini e clero secolare nel
1591 l’Arcivescovo Ludovico II Torres smembra l’antica biblioteca
del Duomo ed assegna una parte dei libri al Seminario arcivescovile, da
lui fondato, un’altra parte al Convento dei Cappuccini, fondato dal
suo predecessore Ludovico I Torres, e una piccola parte ai benedettini.
Nel
1609, grazie all’iniziativa del benedettino Vincenzo Barralis, venne
realizzata all’interno del monastero una biblioteca che ebbe come
primo bibliotecario padre Vincenzo da Lucerame.

Intorno
alla seconda metà del XVIII secolo i monaci benedettini, fecero
ricostruire sull’antico refettorio, ubicato all’interno del
Complesso monumentale “Guglielmo II”, il nuovo monastero. Essi
destinarono a biblioteca un ampio salone con volte a botte affrescate e
con pavimento di antica maiolica bianca.
La
biblioteca fu ad uso esclusivo dei monaci e degli studenti della scuola
di noviziato fino al 1866, anno della legge di soppressione delle
corporazioni religiose. Nel 1875 il monastero venne ceduto al Municipio
e nel 1877 fu istituita la Biblioteca Comunale di Monreale “Santa
Maria La Nuova”, al cui patrimonio bibliografico antico si aggiunse
anche quello dei benedettini della vicina frazione di San Martino delle
Scale e quello dei cappuccini del luogo.
Il
patrimonio antico, collocato all’interno di pregevoli scaffalature
lignee a vista con scanalature dorate, è costituito da oltre 10.000
edizioni del XVI, XVII e XVIII secolo, e da un nucleo di pregiati
manoscritti miniati di epoca medievale, di incunaboli e di altre rarità
bibliografiche, fra cui un frammento di Evangelario del sec. XI,
adoperato come rivestimento per libri, vergato nello scriptorium del
monastero benedettino di Cava dei Tirreni, ed acquisito con l’arrivo
dei primi monaci a Monreale.
Sono
meritevoli di menzione alcuni manoscritti medievali, quali i Vaticinia
Pontificum, manoscritto del XIII secolo, una Bibbia latina in pergamena
del XIII-XIV secolo, ed ancora libri d’ore e raccolte di salmi. Il
Fondo comprende al suo interno anche un nucleo di codici medievali rari
in pergamena, alcuni codici miniati di scuola bolognese, napoletana e
siciliana del XV secolo, codici cartacei in lingua araba, un esemplare
del primo libro stampato in Sicilia nel 1478, un Erbario manoscritto del
‘700, varie edizioni aldine, giuntine ed elzeviriane, oltre a trattati
giuridici, filosofici e teologici, a raccolte di lettere e atti
notarili.
Vanno
menzionate anche due carte topografiche del XVI e del XVIII secolo. La
prima, progettata da Ludovico Rodanini e pubblicata a Roma nel 1597,
rappresenta il vasto territorio dell’arcivescovato di Monreale con la
dislocazione dei suoi 72 feudi e doveva corredare la Historia della
Chiesa di Monreale di Giovanni Luigi Lello pubblicata a Roma l’anno
precedente; la seconda è un disegno che rappresenta la città di
Palermo in occasione del terremoto del 1 settembre 1726 realizzato da
Domenico Campolo su carta ad inchiostro acquerellato.
La
biblioteca, negli anni 1940 e 1960, si arricchisce ulteriormente di
antichi volumi a stampa grazie ai doni provenenti dalle biblioteche
private di Giovanni Maria Comandè, scrittore monrealese, e del
professore Giuseppe Polizzi, uomo molto colto originario di Monreale.
Palazzo
di Città

Fondato
come Palazzo Reale in origine residenza del sovrano normanno, insieme al
Duomo e all’Abbazia. Del Palazzo di Guglielmo II sono stati messi in
luce in Via Arcivescovado, archi bifore e rosoncini in pietra lavica,
simili a quelli del dormitorio dei Benedettini. Un passaggio privato
collegava il palazzo al Duomo. Con la morte prematura del re, esso andò
progressivamente in rovina.
Nel
‘400 gli ampliamenti e adeguamenti dovuti nella nuova destinazione
d’uso come Palazzo di Città, nella parte settentrionale
dell’edificio su Piazza Duomo, affermarono l’importanza crescente
del potere laico a fianco della Cattedrale.
Simmetrico,
in Via Arcivescovado, sul lato nord-orinatale del Palazzo Reale, era
stato istituito nel 1589 il Seminario dei Chierici ad opera
dell’arcivescovo Ludovico II Torres, che lo dotò della propria
biblioteca con antichi codici miniati, di una pinacoteca e di un
giardino. Nel XVII secolo l’arcivescovo Francesco Testa fece
sopraelevare il Seminario per realizzare i dormitori, e commissionò ad
Ignazio Marabitti il bel portale d’ingresso (1772), sormontato dallo
stemma di famiglia.
Anche
al Palazzo comunale venne aggiunto in seguito un piano, e la facciata fu
arricchita da un’elegante decorazione, da una balconata e da un
porticato, poi in parte chiuso. Alle due diverse funzioni
corrispondevano due facciate: una più appartata e in relazione con il
sottostante Palazzo Arcivescovile; l’altra rivolta alla Cattedrale e
all’abitato tramite Piazza Duomo.
Ad
oggi il Palazzo di città custodisce alcuni dipinti di notevole
importanza come la tela di Pietro Novelli, di Benedetto D’Acquisto, un
dipinto del fiammingo Matthias Stomer raffigurante “L’Adorazione dei
Pastori”, l’Anapo di Siracusa di Antonino Leto ed infine un gruppo
scultoreo in terracotta del Gagini raffigurante la “Sacra Famiglia”.
Collegio
di Maria Fondazione Greco Carlino
Il
Collegio di Maria di Monreale è stato fondato nel 1724 dai fratelli
arciprete Alberto Greco Carlino e Can. Lorenzo con lo scopo di istruire
e formare le fanciulle della città. Lo splendido edificio settecentesco
è situato nel cuore del centro storico cittadino, il prospetto
principale della facciata sporge su Piazza Vaglica di fronte al
Duomo.
Al
suo interno vi è un suggestivo chiostro al centro del quale è situata
una fontana, dal portico interno si accede alla Sala Convegni “Gaetano
Millunzi”, al Museo recentemente restaurato ed, infine alla “Chiesa
della Trinità” unica nel suo genere in quanto ha una forma
ottagonale.
Nel
1736 il re Carlo III di Borbone concesse 344,14 onze per la costruzione
di questa chiesa a condizione che fosse realizzata in tempi
brevissimi.
L’interno
è arricchito da interessanti affreschi, presenta quattro altari minori,
affiancati da lesene di gusto settecentesco, molti raffinati intercalati
fra l’ingresso principale e i due accessi laterali, dai quali ci
comunica con le altre ali dello storico edificio.
Gli
archi a tutto sesto sono sormontati da leggere modanature, sulle quali
poggia una fascia non decorata, sormontata a sua volta da una cornice.
Più sopra è impostato il tamburo della grande cupola centrale dove si
trovano delle finestre occultate da graticci in ottone, anche esse di
gusto tipicamente settecentesco, in uso durante il periodo in cui
nell’Istituto erano presenti le suore di clausura. Esterno ed interno
della Chiesa della Trinità.
Le
Fontane artistiche
Salendo
dalla strada panoramica Rocca-Monreale costruita nel Settecento per
volere dell’Arcivescovo Mons. Francesco Testa, si possono ammirare
delle Fontane situate lungo il percorso, con il loro contenuto simbolico
e l’intenso messaggio iconografico trasmesso dalle acque, monti,
conchiglie ed altri elementi decorativi che rimandano più o meno a
concetti di fecondità, di abbondanza e di rigenerazione. Sulle pendici
del Monte Caputo, a 300 metri sul livello del mare sorge la cittadina
normanna che si fondò lentamente nel corso del Basso Medioevo, intorno
all’Abbazia Benedettina ed al Monumentale Duomo (Santa Maria La Nuova
1174 ed il 1176).
La
Fontana del Pescatore situata dopo la Rocca, è in marmo bianco e
pietra. Per l’eleganza delle linee, la fontana è da considerare come
una delle migliori composizioni scultoree dell’artista Ignazio
Marabitti, che fu molto abile nel dare vivacità ed armonia ai
putti. La vasca ha forma poligonale ed al centro è collocato uno
"scoglio" in pietra, sulla cui sommità sono posti tre putti
aggrovigliati con quattro pesci, sostenuti da una grande conchiglia.
Un
altro "scoglio" all'interno della stessa vasca reca un
ulteriore putto che tiene in mano una canna da pesca. La monumentale
fontana è inoltre adornata da altri putti e da una lapide marmorea, su
cui sono incisi dei versi che invitano i passanti a dissetarsi ed a
godere dell'ombra.
Poco
dopo si trova la Fontana del Drago, così chiamata poiché dalla
roccia spunta la testa di un drago dalla cui bocca sgorga l'acqua.
Quest’opera è stata anche realizzata dallo scultore Ignazio Marabitti
che fu abile a sfruttare le risorse del luogo con il quale riuscì a
creare un effetto scenico alquanto suggestivo. Dalla vasca centrale si
diparte una elegante scalinata, mentre l'area della piattaforma è
definita da un lungo sedile con spalliera in stile barocco. I putti
sono disposti a piramide attorno alla testa del Drago. Sotto i
piedi di un putto è situata una lapide in marmo bianco i cui versi
esaltano l’utilità dell’acqua.
Poco
oltre è situata la Fontana ad Emiciclo,comunemente conosciuta come
la Fontana dell’Albergo dei Poveri, edificio realizzato nel 1834
su commissione dell’Arcivescovo Benedetto Balsamo per ospitare i
poveri della città. La fontana di epoca settecentesca è di stile neo
classico ed è stata realizzata di marmo e pietra, di forma
semicircolare è costituita da una edicola centrale che contiene un
"mascherone" dal quale sgorga l'acqua, che poi scende in una
grande vasca abbellita da fregi floreali. La fontana è fincheggiata da
una panca ad emiciclo nella cui spalliera sono presenti una serie di
affreschi e decorazioni.
Prima
di arrivare nella piazza principale della città sempre sul lato
destro troviamo la Fontana ad Edicola risalente al 1665,
ubicata nei pressi dello slargo la Via Benedetto D'Acquisto e la Via
Palermo. E' racchiusa in una nicchia, sopra la quale è posta una lapide
che raffigura tre stemmi. Dalla parte più alta della cupoletta
scaturisce l'acqua, riversandosi in una prima piccola vasca tonda e
quindi in una ulteriore vasca più grande, sostenuta da fregi marmorei.
Al
centro della Piazza Vittorio Emanuele è situata la bellissima Fontana
del Tritone. La vasca in marmo ha una forma circolare, al centro è
collocata la figura di un uomo sopra degli scogli, "Tritone",
che con un gesto eroico e forza sovrumana vince la furia dei
draghi che emergono dalle acque e li calpesta. L’opera simboleggia la
vittoria dell’uomo sulle forze brute. Eseguita nel 1881 dallo scultore
palermitano Mario Rutelli.
Complesso
Guglielmo II
Il
complesso monumentale, costituito dalla Basilica, dal Convento con il
Chiostro e dal Palazzo reale, venne fatto costruire nel XII sec. dal
giovane re normanno Guglielmo II detto “Il Buono”, re nel 1166 ad
appena tredici anni,succeduto al padre Guglielmo I assassinato da Matteo
Bonello.
Guglielmo
II fece costruire a partire dal 1174 il complesso monrealese che
sorse in breve tempo, e che venne terminato nel giro di appena
dieci anni. Già nel 1176 il tempio dedicato alla Vergine fu consegnato
dal sovrano ai monaci benedettini provenienti da Cava dei Tirreni e
guidati dall’abate Teobaldo diventato subito dopo vescovo. Pochi
anni dopo, nel 1183, papa Lucio III elevò Monreale a sede
arcivescovile; Un’antica descrizione del Monastero viene riportata nel
volume dal titolo “Historia della Chiesa di Monreale” (1594).
Solo
in anni recenti è stato possibile avviare il restauro di questo
grandioso complesso monumentale in buona parte già concluso che ha
riguardato, anche il recupero di tre torri normanne situate
all’interno della Villa Comunale (Belvedere, Fornace e delle Carceri),
della chiesa degli Agonizzanti, edificata agli inizi dell’epoca
barocca, che ha un impianto ad aula originariamente ornata con
decorazioni e pregevoli statue ad altorilievo in stucco. Inoltre le
opere di ristrutturazione e restauro del complesso hanno quindi
interessato anche i locali in cui aveva sede il “Convitto Guglielmo”
e che oggi ospitano il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea intitolato
a Giuseppe Sciortino, apprezzato scrittore e critico d’arte monrealese
scomparso nel 1971.
Qui
troviamo una notevolissima collezione di opere d’arte del ‘900
donate al Comune dalla pittrice Eleonora Nora Posabella per onorare la
memoria dello stesso Sciortino, al quale fu legata. Il percorso
espositivo ci porta ad ammirare dipinti, opere su carta, sculture e
ceramiche di artisti italiani di indiscussa fama fra i quali Cantatore,
Casorati, Rosai, De Chirico, De Pisis, Guttuso, Morandi, Omiccioli,
Purificato, Soffici, Schifano e Tromabadori.
Castellaccio
di Monreale

Il Castellaccio
di Monreale o Castello di San Benedetto è l'unico
esempio della Sicilia occidentale di monastero -
fortezza militare. È situato su Monte Caputo, nei pressi di Monreale a
764 m di altitudine.
Il
castello fu costruito intorno al XII secolo sotto Guglielmo
II insieme ai più famosi Duomo e Monastero di
Monreale. È un esempio dell'architettura arabo-normanna in
Sicilia. Faceva parte integrante di un vasto sistema di difesa-controllo
del territorio conseguente alla conquista dell'isola dal 1061 al 1072.
Il
castello domina la Valle dell'Oreto e molti dei rilievi
calcarei dei Monti di Palermo. Secondo alcuni studiosi venne
costruito sopra un preesistente abitato musulmano. Venne dedicato
probabilmente a San Benedetto. Oltre alla funzione militare di
avvistamento il castellaccio era destinato anche a luogo di riposo per i
monaci del vicino monastero di Monreale.
Evento
importante nella storia del castello fu nel 1370 l'attacco da parte
dell'esercito di Giovanni Chiaramonte contro il nucleo
catalano affiancato dai monaci monrealesi. Lo scontro causò danni alla
struttura del castello ma poiché la posizione strategica era importante
per la prevenzione dagli attacchi da nord e da sud, fu indispensabile il
ripristino delle parti danneggiate.
Nel
1393 venne abitato dal re Martino I che voleva essere protetto
da eventuali attacchi. Poco dopo iniziò il degrado col definitivo
abbandono avvenuto presumibilmente nel XVI secolo.
Nel
1897 il monumento venne venduto dal Comune di Monreale al Club Alpino
Siciliano con l'impegno che quest'ultimo ne effettuasse il restauro e ne
curasse il mantenimento. Nel 1898 l'architetto Giuseppe Patricolo,
figura importante nel recupero di molte architetture siciliane, si dedicò
al recupero del Castellaccio nelle sue parti meno danneggiate. Dopo
l'intervento di ripristino del Club Alpino Siciliano, il Castellaccio
venne riaperto al pubblico nel 1906 divenendo, da quel momento, una stazione
alpina del Sodalizio ed attualmente è una delle mete
escursionistiche del comprensorio. Nel 1996 e nel 2009 sono stati
effettuati lavori di restauro e manutenzione straordinaria sotto la
supervisione della Sovrintendenza ai Monumenti che hanno ulteriormente
permesso l'agibilità delle torri di nord-est e nord-ovest.

Il
castello ha uno sviluppo rettangolare con alcune irregolarità e sette
torri
sporgenti all'esterno. Le dimensioni della pianta sono 80 x 30 e occupa
una superficie di 2295 mq. Probabilmente in origine si sviluppava
su due piani. All'interno, lungo i muri perimetrali dell'edificio, sono
presenti locali di dubbio uso, probabilmente luogo di riposo per i
monaci, raggiungibili da un corridoio con il quale si arriva anche a un
atrio circondato da portici: il chiostro interno del complesso
monastico. Conteneva anche una cappella di cui ancora restano le tre
absidi ed una navata centrale.
Il
carattere militare, più che religioso, dell'opera è evidente, oltre
che per la sua posizione dominante sul territorio, soprattutto per i
suoi aspetti costruttivi e architettonici: poche aperture esterne,
spessore dei muri molto accentuato (in media 1,5 m), numerose torri
di cortina (7 in tutto, posizionate ad intervalli irregolari),
strombatura enfatizzata delle feritoie e torre d'ingresso con accesso a
baionetta.
Il
linguaggio architettonico austero e l'impiego di materiali da
costruzione grezzi, senza concessioni al decorativismo o alla
magnificenza, costituiscono un'ulteriore conferma della funzione
preminentemente militare; infatti è possibile notare l'assenza di conci
squadrati architettonici agli angoli dell'edificio (nelle architetture
contemporanee normanne era frequente un'enfatizzazione degli angoli ma
soprattutto nelle aperture e nei portali con l'utilizzo di pietra nobile
o lavorata).
Lo
stile dell'architettura è normanno, ridondante nell'architettura
castellare siciliana: non dissimili sono le fabbriche successive dei
castelli di Cefalà Diana e di Vicari.
Agosto
2018
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