Monreale
(Palermo)

 

   

La città di Monreale nacque con i  verso l'XI secolo. Distante dalla città normanna sorgeva un antico villaggio arabo Balharā. situato alle pendici del Monte Caputo a 310 m sul livello del mare.

Era in questo luogo in cui i re normanni si ritiravano per riposare dalle fatiche della guerra e dal governo della Sicilia. Fu in una notte del 1171 che re Guglielmo II detto il Buono, ebbe in sogno l'apparizione della Madonna che gli svelava il posto dove era nascosto un immenso tesoro (bottino di guerra di suo padre), con il quale Guglielmo avrebbe dovuto erigere un tempio a lei dedicato. Il re diede inizio senza indugi alla costruzione del tempio, del Palazzo Arcivescovile e del chiostro. Dispose che cento monaci della Badia di Cava, con a capo l'abate Teobaldo, si trasferissero a Monreale per officiare nel tempio. Essi giunsero a Monreale il 20 marzo 1176 e l'abate Teobaldo venne insignito del titolo di "Signore della Città".

Il 5 febbraio 1182, Lucio III, su richiesta dello stesso Guglielmo, elevò la chiesa di Monreale a "Cattedrale Metropolitana". Primo arcivescovo della diocesi di Monreale è stato fra' Guglielmo del monastero dei Benedettini. Alla fine del XVII secolo l'Arcivescovo di Monreale possedeva 72 feudi. Dalla elevazione a Cattedrale Metropolitana ad oggi, la sede di Monreale ha avuto 54 arcivescovi e, tra questi, 14 cardinali della Chiesa.

Già prima che il Duomo fosse finito, il mondo ne parlava con meraviglia: lo stesso papa Alessandro III, in una bolla inviata al sovrano nel 1174, esprimeva tutta la sua gioia per la solennità del monumento.

Duomo

Il Duomo di Monreale merita una grande attenzione perché è davvero uno dei templi più belli del mondo. Dopo Santa Sofia, a Istanbul (Costantinopoli), è la più vasta opera musiva bizantina che esiste al mondo. La parola “mosaico”, infatti, deriva dal greco e significa «opera paziente, degna delle Muse».

Delle cose belle più che parlarne bisogna solamente imparare a guardarle, attivando i sensi spirituali, ecco allora delle piccole indicazioni su come effettuare una visita e soprattutto dove puntare gli occhi. Si entra attraverso la porta laterale, dunque per prima cosa dirigetevi davanti all’ingresso principale e fermatevi a guardare l’orientamento della basilica.

La pianta della chiesa è a tre navate che terminano nelle tre absidi in fondo. Secondo i canoni della teologia Orientale: l’ingresso è ad Ovest, l’Abside col Presbiterio e l’altare ad Est. Il significato è semplice, si entra dal mondo delle tenebre, del peccato, da dove tramonta il giorno  e si va verso la Luce, dove Gesù Pantocrator ci accoglie come “un sole  che sorge dall’alto”. Due file di nove colonne per lato dividono lo spazio centrale.

Tutte le colonne sono in granito grigio, tranne una, la prima alla vostra destra. Questa è fatta di materiale più povero, in marmo cipollino che è più scadente. Non è un caso, si tratta di una scelta consapevole. Le colonne che sostengono le arcate indicano che è Dio che regge la Chiesa, tuttavia anche l’uomo deve fare la sua parte: ecco, quella colonna di materiale scadente rappresenta l’uomo che regge, seppur in minima parte, le sorti della grande Chiesa. Inizialmente questa colonna “spuria” era collocata in seconda fila (proprio in linea con le ragioni di umiltà di cui sopra) secoli dopo, per motivi tecnici, è stata ricollocata dove si trova adesso.

Date una occhiata ai soffitti in legno policromo: noterete, andando avanti che cambiano di forma e aspetto a seconda della zona in cui siete. I più belli sono sul transetto che è quella parte trasversale prima di entrare nel presbiterio.

Adesso potete passare lo sguardo sui stupendi mosaici. Sono là per raccontare una storia meravigliosa al popolo che è riunito in preghiera. Sono un’opera sacra, non semplici raffigurazioni e per questo sono disposti secondo un piano prestabilito. Circa 6400 metri quadrati che esprimono artisticamente la storia della salvezza dell’uomo, dalla sua creazione fino all’apoteosi del giudizio universale.

Ogni quadro ha un significato preciso, per questo vanno guardati attentamente, ammirati nello splendore che emanano: guardate come nella Creazione dell’uomo, Dio e Adamo hanno le stesse sembianze. Proprio quelle di Cristo, che è Dio incarnato e si riflette nella creatura fatta a sua immagine. Il piano di salvezza è già scritto ma si trova chiuso nel rotolo che ha in mano. Notate quante volte quel rotolo si trova nelle mani di Dio. Solo la piena realizzazione del piano divino potrà svelare il mistero: questo rotolo si trova aperto nelle mani del Cristo Pantocratore.

Il Pantocrator è il centro a cui ogni uomo deve tendere: è enorme, presente, e tutto inneggia alla sua regalità. Rappresenta insieme Dio e l’uomo: il colore rosso del suo abito, simbolo della divinità, è rivestito dal manto blu, simbolo della umanità. Tutt’intorno è una grande profusione di oro, segno della luce divina. Egli è la luce del mondo e gli artisti che lo hanno qui rappresentato hanno voluto sottolineare questa lettura teologica disponendo le tessere dorate del mosaico seguendo linee circolari concentriche (caso unico in Italia!) di modo che la figura pare irradiare un pulviscolo di luce pura, dorata, dunque divina.
Certo è Dio, ma il suo volto sereno è umanissimo. Nell’incarnato non segue le linee anatomiche ma mostra una caratteristica tutta propria che affascina, che attrae: Lui ci guarda, ma noi non riusciamo a catturare il suo sguardo!

La mano destra benedice col segno classico delle icone bizantine, del pollice che  tocca insieme il medio e il mignolo in segno trinitario, mentre l’anulare fa una croce con l’indice. La mano sinistra regge aperto il libro che finalmente svela il Mistero: “Io sono la luce del mondo” chi mi segue non cammina nelle tenebre”.

Dopo esservi perduti in quello sguardo divino, da gustare da ogni punto di vista, potete tornare al punto di partenza dove viene chiuso il cerchio del racconto della salvezza attesa e raggiunta. Infatti, alla fine delle celebrazioni, i fedeli uscendo vengono accompagnati dalla Vergine Odigitria, cioè la guida dei pellegrini, posta al di sopra della porta di ingresso con in braccio il figlio che tiene in mano il rotolo aperto quasi a dire: “ecco mio figlio, ricorda il suo messaggio che devi annunciare una volta  fuori di qui”. È il compito di chi ha vissuto la gloria della celebrazione liturgica: offrire al mondo l’esperienza che ha vissuto.

Tutto il resto sono dettagli che vanno ammirati, come il magnifico portale, il sarcofago in porfido di Guglielmo I e quello marmoreo di Guglielmo II il Buono; i troni che accoglievano il re ed il vescovo; le tombe ottocentesche, dove riposano le spoglie di Margherita di Navarra e di Sicilia, moglie di Guglielmo I, e dei figli Ruggero ed Enrico.  

Qualcuno lo ha definito il tempio più bello del mondo e senz’altro il Duomo di Monreale è uno tra i più begli esempi di come l’arte, riesca ad entrare in sintonia con il cuore dell’uomo.

L’opera monumentaria, che comprendeva insieme alla Basilica, il palazzo reale ed una abbazia benedettina, fu voluta da Guglielmo II, quel re della dinastia Normanna di Sicilia che fu detto “il Buono”.  Nel 1174, quando aveva appena vent’anni, secondo una leggenda, la stessa Vergine Maria gli apparve in sogno rivelandogli il nascondiglio dove il padre di lui, Guglielmo I, detto “il Malo”, “il Cattivo”, aveva nascosto un tesoro. Con quelle ricchezze, proprio in quel punto, egli avrebbe dovuto innalzare un tempio da dedicare a Lei.

Allo stesso modo sembra leggendaria l’ipotesi secondo la quale l’architetto che ne fu l’artefice principale, sia stato fratello dell’altro architetto che nello stesso periodo progettava la costruzione della cattedrale di Palermo. La competizione tra i due fratelli architetti, a chi avesse fatto erigere l’opera più bella, sarebbe finita in tragedia con la morte suicida di entrambi: il primo schiacciato dalla bellezza degli esterni della cattedrale di Palermo ed il secondo riconoscendo il primato del fratello ormai morto, davanti alla magnificenza dell’interno del Duomo di Monreale.

Una competizione effettivamente ci fu per davvero, ma nei confronti dello strapotere arcivescovile di Palermo, nella figura di Gualtiero Offamilio (al secolo Walter of the Mill) di origini presumibilmente inglesi e già precettore del piccolo Guglielmo divenuto re ad appena 13 anni, dopo la morte del padre Guglielmo I.

Così la chiesa, nata inizialmente come basilica venne affidata ai monaci benedettini e nel 1183 elevata al rango di sede arcivescovile sottraendo prestigio e potere alla sede palermitana.

Tutto il complesso fu costruito in pochi decenni con maestranze di varia provenienza guidate da esperti architetti e probabilmente teologi bizantini e latini che hanno prodotto una solenne armonia rimasta intatta nel duomo nonostante i ripetuti rifacimenti e le aggiunte posteriori: il portico settentrionale, realizzato dai Gagini nel 1547 (su progetto di Biagio Timpanella); la cappella di san Castrense, realizzata alla fine del ‘500; la cappella barocca del Crocifisso costruita alla fine del ‘600; il portico della porta maggiore, ricostruito nel 1770 (ad opera dell’architetto Antonio Romano).

Della costruzione originaria rimane solo il corpo della Chiesa ed il Chiostro quadrato dei benedettini. Dell’abbazia e del palazzo Reale è rimasto ormai pochissimo, inglobato nei locali del Duomo o nei palazzi circostanti.

L’esterno del Duomo mostra una facciata principale inserita all’interno di due torri asimmetriche di altezza e forma differenti. Nella porzione superiore, una grande finestra ogivale a vetri colorati con ai lati un intreccio di archi e dischi di misure e decorazioni differenti. Un timpano triangolare ne sormonta la navata centrale.

Nella parte inferiore, inglobata dentro una costruzione a tre portici in marmo bianco, aggiunta nel 1770, si apre l’ingresso principale. Si tratta di un magnifico Portale a forma ogivale dentro il quale si incastona un bellissimo portone in Bronzo, opera di Bonanno di Pisa che la eseguì nel 1185 nella sua città e successivamente fu condotta a Monreale via nave. È composta di due battenti rettangolari adattati alla forma ogivale dell’ingresso. Comprende 46 pannelli con immagini a rilievo rappresentanti episodi della Bibbia e due coppie di leoni e grifoni nella parte inferiore. L’arcata del portale è caratterizzata da una serie di bande parallele decorate da ghirlande di fiori, forme umane e animali scolpiti in basso rilievo, decorazioni classiche e una banda di mosaico policromo.

Sulla facciata orientata a Nord si apre una porta più piccola, quella usata attualmente per l’ingresso dei fedeli. È opera di Barisano da Trani nel 1190. In bronzo e molto più piccola e povera, presenta 14 pannelli in ogni battente, con bassorilievi che rappresentano episodi della vita di Cristo, vite di santi e animali araldici.

La parte posteriore del Duomo di Monreale è un esempio mirabile dell’arte araba. Presenta la convessità delle tre absidi con tre livelli di archi intrecciati che si arricchiscono di decorazioni policrome ottenute dall’uso sapiente di pietra calcarea brunita, lava grigio-nera e mattoni rossi in bande orizzontali. Gli archi, che originano da colonnine poggiate su alti basamenti, sono arricchite da tondi di dimensione e disegno differente che simulano rosoni ciechi finemente decorati.

La prima curiosità da sottolineare è l’orientamento della Chiesa. Secondo i canoni della teologia Orientale: l’ingresso è ad Ovest, l’Abside col Presbiterio e l’altare ad Est. Il significato è semplice, si entra dal mondo delle tenebre, del peccato, da dove tramonta il giorno e si va verso la Luce, dove Gesù Pantocrator ci accoglie come “un sole  che sorge dall’alto”.

Il ritmo architettonico che caratterizza l’interno del duomo, con i suoi 102 metri di lunghezza, appare immediatamente.

La pianta della chiesa è a tre navate che terminano nelle tre absidi in fondo. La navata centrale, grandiosa, ampia tre volte più delle navate laterali, si prolunga nel transetto secondo rigorose regole di simmetria e proporzioni che guidano lo sguardo verso l’ampio abside principale, dove la regalità e la gloriosa divinità trovano espressione nella profusione di luce dorata che risplende nel complesso musivo con al centro Gesù Cristo Pantocrator.

Le navate laterali terminano nelle due absidi laterali dove sono rappresentati i principi degli apostoli: san Pietro in quella di sinistra e san Paolo in quella di destra.

Due file di nove colonne per lato dividono lo spazio centrale. Qui va notata un’altra particolarità: tutte le colonne, con capitelli finemente scolpiti in stile corinzio e composito, sono in granito grigio, tranne una, la prima a destra dall’ingresso principale. Questa è fatta di materiale più povero, in marmo cipollino che è più scadente. Non è un caso, si tratta di una scelta consapevole. Le colonne che sostengono le arcate indicano che è Dio che regge la Chiesa, tuttavia anche l’uomo deve fare la sua parte: ecco, quella colonna di materiale scadente rappresenta l’uomo (nella figura della chiesa istituzionale) che regge, seppur in minima parte, le sorti della grande Chiesa. Inizialmente questa colonna “spuria” era collocata in seconda fila (proprio in linea con le ragioni di umiltà di cui sopra) secoli dopo, per motivi tecnici, è stata ricollocata dove si trova adesso.

A destra e a sinistra, prima di entrare nel presbiterio e addossati a due grandi pilastri, sono posizionati il trono reale ed il trono arcivescovile.

A sinistra il trono del re è più riccamente ornato, posto in posizione rialzata e sovrastato dagli stemmi di Guglielmo II e della sua Casata. Leoni scolpiti, grifoni e decorazioni in prezioso marmo porfido rosso, sottolineano la regalità del sito. In alto un mosaico raffigura lo stesso re, in piedi, mentre viene coronato da Cristo: significa che il dominio viene direttamente da Dio. Una apertura posta nell’ala sinistra del transetto lo collegava col palazzo reale. Il passaggio è stato murato e adesso è coperto da un reliquiario.

A destra, più dimesso, il trono arcivescovile che tuttora accoglie il Vescovo celebrante. Comunicava con la torre dell’Abbazia e il salone capitolare. Il mosaico che lo sormonta rappresenta lo stesso re che, con la benedizione di Dio, raffigurata nella mano benedicente che scende dall’alto, consegna il duomo alla Vergine.  

Tutta la copertura della chiesa ha subito diversi rifacimenti, specie dopo un disastroso incendio nel 1811, ma il disegno originario è stato alquanto rispettato.

I soffitti sono in legno policromo con una varietà di tipologia della copertura classica dell’architettura medievale, diversificata con l’intento di mettere in risalto le parti più nobili dell’edificio. Il tetto della navata centrale è a forma di carena di nave, costituito da enormi tronchi scolpiti con fregi d’oro. Poi la copertura passa dal tipo a capriata, a volta, a cupola a seconda della sezione da nobilitare. La parte centrale del transetto è la più sontuosa con piccoli motivi a stalattite dorata, finemente elaborata, tipica della tradizione islamica.

I mosaici sono l’aspetto più eclatante della bellezza di questa opera sacra, perché non va dimenticato che lo scopo principale di questa costruzione risiede nel consentire ai fedeli di vivere profondamente il culto a Dio, Gesù Cristo e alla Vergine Maria. Per questo i circa 6400 metri quadrati di mosaico che ne ricoprono la superficie, sono una rappresentazione artistica della Bibbia, una catechesi in immagini, perché il popolo possa immergersi dentro lo spazio sacro.

130 quadri che raccontano le storie del Vecchio Testamento e la Vita di Cristo esponendo il piano divino per la salvezza universale, a partire dalla creazione del mondo e dell’uomo.

Dopo il peccato originale, l’intervento di Dio prepara il suo popolo alla salvezza accompagnandolo lungo le vicissitudini della sua storia (navata centrale). La venuta di Cristo realizza la salvezza del mondo attraverso la sua incarnazione e le sue  opere meravigliose rappresentate nel transetto e lungo le navate laterali. Fino alla gloriosa rappresentazione all’interno dell’abside centrale con il grande Pantocrator (l’Onnipotente) circonfuso di splendore. Al di sotto la figura della Vergine col Bambino, con la scritta greca “panacròntas” (tutta immacolata), affiancata da angeli e apostoli; e ancora più giù nell’ultima fascia, figure di santi e pastori della chiesa.

Non possiamo qui “leggere” tutta la profonda teologia espressa nei mosaici, ma qualche piccola annotazione che ne dia un’idea va fatta.

Da notare che nella Creazione dell’uomo, Dio e Adamo hanno le stesse sembianze: quelle di Cristo, Dio incarnato, che si riflette nella creatura fatta a sua immagine. Ed è straordinaria la suspense che si vuole creare nello spettatore: Il Dio-Cristo creatore tiene tra le mani un rotolo chiuso che contiene un messaggio segreto che solo la piena realizzazione del piano divino potrà svelare: questo rotolo si trova aperto nelle mani del Cristo Pantocratore.

Il Pantocrator è il centro a cui ogni uomo deve tendere: è enorme, presente, e tutto inneggia alla sua regalità. Agli angoli dell’abside sono incastonate colonne in porfido rosso egiziano un marmo preziosissimo ormai estinto, usato dai re e dagli imperatori. E davvero magnifica è questa figura regale attorniata da angeli e santi.

Rappresenta insieme Dio e l’uomo: il colore rosso del suo abito, simbolo della divinità, è rivestito dal manto blu, simbolo della umanità. Tutt’intorno è una grande profusione di oro, segno della luce divina. Egli è la luce del mondo e gli artisti che lo hanno qui rappresentato hanno voluto sottolineare questa lettura teologica disponendo le tessere dorate del mosaico seguendo linee circolari concentriche (caso unico in Italia!) di modo che la figura pare irradiare un pulviscolo di luce pura, dorata, dunque divina.
Certo è Dio, ma il suo volto sereno è umanissimo. Nell’incarnato non segue le linee anatomiche ma mostra una caratteristica tutta propria che affascina, che attrae: Lui ci guarda, ma noi non riusciamo a catturare il suo sguardo!

La mano destra benedice col segno classico delle icone bizantine, del pollice che tocca insieme il medio e il mignolo in segno trinitario mentre l’anulare fa una croce con l’indice. La mano sinistra regge aperto il libro che finalmente svela il Mistero: “Io sono la luce del mondo” chi mi segue non cammina nelle tenebre”.

Al di sopra del Pantocrator, nell’arco che lo sovrasta, si trova il trono predisposto per accogliere il Cristo alla fine dei tempi come giudice universale (secondo il libro dell’Apocalisse). È un trono elegante e prezioso, color porpora (colore divino) sul quale è posto un manto azzurro (cioè quella stessa umanità che il Cristo rivestirà per giudicare gli uomini). Sta a significare la presenza invisibile di Cristo là dove il suo popolo si riunisce per pregarlo.

Dietro il trono svetta la croce con la corona di spine, mentre la lancia di Longino, che lo trafisse nel costato, e la canna con la spugna dell’aceto mostrano che colui che verrà a giudicare il mondo, ne ha conquistato il diritto attraverso la sofferenza della croce. E infatti sullo sgabello ai suoi piedi, sopra un cuscino di tessuto prezioso, poggia l’aspersorio che contiene i quattro chiodi della crocifissione di Gesù. Sul trono, dove è steso il mantello blu (colore che simboleggia l’umanità di Cristo) poggia la colomba dello Spirito Santo. Ai lati del medaglione un coro simmetrico di Serafini (angeli a sei ali) e di quattro Arcangeli, Gabriele, Raffaele, Michele e Uriele, rimane in attesa adorante del Re dei Re.

A chiudere il cerchio del racconto della salvezza attesa e raggiunta, alla fine delle celebrazioni, i fedeli uscendo vengono accompagnati dalla Vergine Odigitria, cioè la guida dei pellegrini, posta al di sopra della porta di ingresso con in braccio il figlio che tiene in mano il rotolo aperto quasi a dire: “ecco mio figlio, ricorda il suo messaggio che devi annunciare una volta  fuori di qui”. È il compito di chi ha partecipato alla gloria della celebrazione liturgica: offrire al mondo l’esperienza che ha vissuto.

Al di sotto una scritta in latino, che è un motto che si trova anche in altre iscrizioni sacre, sembra essere la raccomandazione che il re chiede per se stesso alla Vergine … Pro cunctis ora, sed plus pro rege labora (prega per tutti, ma soprattutto lavora per il re!)

I sarcofagi reali sono situati in fondo alla navata laterale destra e contengono le spoglie dei due re normanni, padre e figlio, Guglielmo I e Guglielmo II.

Nel più grande è posto il padre del Re, Guglielmo I, detto il Malo e fu voluta direttamente dal figlio. Costruita in prezioso porfido rosso, materiale legato alla tradizione imperiale.

Accanto la tomba di Guglielmo II, più modesta nelle dimensioni e nei materiali di costruzione: semplicemente marmo bianco, istoriato, fu fatta costruire dall’arcivescovo Ludovico de Torres I. Entrambi i mausolei furono gravemente danneggiati nell’incendio nel 1811 e ripristinati secondo il disegno originale. Un’altra tomba, completamente rifatta dopo l’incendio conteneva le spoglie di Margherita di Navarra, madre di Guglielmo II e si trova in fondo alla navata di sinistra.

Nel 1773, per volere dell’arcivescovo Francesco Testa, venne collocato un nuovo altare maggiore (al posto del precedente di cui non abbiamo una descrizione accurata), splendida opera in argento eseguita a Roma da Luigi Valadier. Malgrado l’appartenenza al tardo barocco romano, l’altare si inserisce abbastanza bene all’interno della cornice di mosaici che dall’abside lo sovrastano. Parlare di semplicità di linee sembra eccessivo, tuttavia i toni grigiastri, dorati ed argentei non lo fanno apparire completamente squilibrato rispetto all’insieme.

Al centro un grande bassorilievo ovale in argento, sostenuto da angeli, rappresenta la natività della Vergine, mentre due medaglioni laterali riportano gli episodi della Assunzione e della Pentecoste ed i cinque sovrastanti, scene legate alla Vergine.

Per il resto, altri rifacimenti tardo rinascimentali e baroccali si trovano qua e là nelle cappelle laterali, nelle absidioli e all’interno della cappella di san Benedetto e nella Cappella del Crocifisso. Pomposità che fortunatamente non sono riuscite a guastare la preziosa armonia di questa meraviglia dell’arte sacra.

Biblioteca Santa Maria La Nuova

La costituzione del primo nucleo di libri della biblioteca “Santa Maria La Nuova” si deve all’arrivo a Monreale, nella seconda metà del XII secolo, di cento monaci benedettini che, per volere di Guglielmo II, presero possesso del monastero da lui fondato. Il re normanno assegnò loro molti privilegi: elevò l’abate a dignità di arcivescovo e dotò l’abbazia di “libris et sacris vestibus argento et auro”. I monaci ebbero grande cura nel custodire nella sacrestia del Duomo, insieme ai paramenti sacri, i libri ricevuti in dono e le pergamene regie e pontificie relative ai privilegi di cui l’abbazia di Monreale godeva, raccolti nel “Tabulario di Santa Maria Nuova” conservato oggi presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana “A. Bombace”. Tuttavia la morte di Guglielmo II e l’incalzare di vari eventi politici e religiosi portarono allo spopolamento del monastero ed alla dispersione dei libri.

Sarà il Cardinale Ausias Spuig de Podio, Arcivescovo di Monreale dal 1458 al 1483, a ripopolare il monastero e ad incrementare con 34 volumi ciò che rimaneva di quel primo nucleo librario della biblioteca del Duomo, anche se non se ne sa l’effettiva consistenza in quanto, negli inventari delle suppellettili del tesoro della chiesa, redatti in occasione delle consegne ai vari tesorieri, il numero dei libri elencati varia di volta in volta.

A causa della difficile convivenza tra benedettini e clero secolare nel 1591 l’Arcivescovo Ludovico II Torres smembra l’antica biblioteca del Duomo ed assegna una parte dei libri al Seminario arcivescovile, da lui fondato, un’altra parte al Convento dei Cappuccini, fondato dal suo predecessore Ludovico I Torres, e una piccola parte ai benedettini.

Nel 1609, grazie all’iniziativa del benedettino Vincenzo Barralis, venne realizzata all’interno del monastero una biblioteca che ebbe come primo bibliotecario padre Vincenzo da Lucerame.

Intorno alla seconda metà del XVIII secolo i monaci benedettini, fecero ricostruire sull’antico refettorio, ubicato all’interno del Complesso monumentale “Guglielmo II”, il nuovo monastero. Essi destinarono a biblioteca un ampio salone con volte a botte affrescate e con pavimento di antica maiolica bianca.

La biblioteca fu ad uso esclusivo dei monaci e degli studenti della scuola di noviziato fino al 1866, anno della legge di soppressione delle corporazioni religiose. Nel 1875 il monastero venne ceduto al Municipio e nel 1877 fu istituita la Biblioteca Comunale di Monreale “Santa Maria La Nuova”, al cui patrimonio bibliografico antico si aggiunse anche quello dei benedettini della vicina frazione di San Martino delle Scale e quello dei cappuccini del luogo.

Il patrimonio antico, collocato all’interno di pregevoli scaffalature lignee a vista con scanalature dorate, è costituito da oltre 10.000 edizioni del XVI, XVII e XVIII secolo, e da un nucleo di pregiati manoscritti miniati di epoca medievale, di incunaboli e di altre rarità bibliografiche, fra cui un frammento di Evangelario del sec. XI, adoperato come rivestimento per libri, vergato nello scriptorium del monastero benedettino di Cava dei Tirreni, ed acquisito con l’arrivo dei primi monaci a Monreale.

Sono meritevoli di menzione alcuni manoscritti medievali, quali i Vaticinia Pontificum, manoscritto del XIII secolo, una Bibbia latina in pergamena del XIII-XIV secolo, ed ancora libri d’ore e raccolte di salmi. Il Fondo comprende al suo interno anche un nucleo di codici medievali rari in pergamena, alcuni codici miniati di scuola bolognese, napoletana e siciliana del XV secolo, codici cartacei in lingua araba, un esemplare del primo libro stampato in Sicilia nel 1478, un Erbario manoscritto del ‘700, varie edizioni aldine, giuntine ed elzeviriane, oltre a trattati giuridici, filosofici e teologici, a raccolte di lettere e atti notarili.

Vanno menzionate anche due carte topografiche del XVI e del XVIII secolo. La prima, progettata da Ludovico Rodanini e pubblicata a Roma nel 1597, rappresenta il vasto territorio dell’arcivescovato di Monreale con la dislocazione dei suoi 72 feudi e doveva corredare la Historia della Chiesa di Monreale di Giovanni Luigi Lello pubblicata a Roma l’anno precedente; la seconda è un disegno che rappresenta la città di Palermo in occasione del terremoto del 1 settembre 1726 realizzato da Domenico Campolo su carta ad inchiostro acquerellato.

La biblioteca, negli anni 1940 e 1960, si arricchisce ulteriormente di antichi volumi a stampa grazie ai doni provenenti dalle biblioteche private di Giovanni Maria Comandè, scrittore monrealese, e del professore Giuseppe Polizzi, uomo molto colto originario di Monreale.

Palazzo di Città

Fondato come Palazzo Reale in origine residenza del sovrano normanno, insieme al Duomo e all’Abbazia. Del Palazzo di Guglielmo II sono stati messi in luce in Via Arcivescovado, archi bifore e rosoncini in pietra lavica, simili a quelli del dormitorio dei Benedettini. Un passaggio privato collegava il palazzo al Duomo. Con la morte prematura del re, esso andò progressivamente in rovina. 

Nel ‘400 gli ampliamenti e adeguamenti dovuti nella nuova destinazione d’uso come Palazzo di Città, nella parte settentrionale dell’edificio su Piazza Duomo, affermarono l’importanza crescente del potere laico a fianco della Cattedrale.

Simmetrico, in Via Arcivescovado, sul lato nord-orinatale del Palazzo Reale, era stato istituito nel 1589 il Seminario dei Chierici ad opera dell’arcivescovo Ludovico II  Torres, che lo dotò della propria biblioteca con antichi codici miniati, di una pinacoteca e di un giardino. Nel XVII secolo l’arcivescovo Francesco Testa fece sopraelevare il Seminario per realizzare i dormitori, e commissionò ad Ignazio Marabitti il bel portale d’ingresso (1772), sormontato dallo stemma di famiglia.

Anche al Palazzo comunale venne aggiunto in seguito un piano, e la facciata fu arricchita da un’elegante decorazione, da una balconata e da un porticato, poi in parte chiuso. Alle due diverse funzioni corrispondevano due facciate: una più appartata e in relazione con il sottostante Palazzo Arcivescovile; l’altra rivolta alla Cattedrale e all’abitato tramite Piazza Duomo.

Ad oggi il Palazzo di città custodisce alcuni dipinti di notevole importanza come la tela di Pietro Novelli, di Benedetto D’Acquisto, un dipinto del fiammingo Matthias Stomer raffigurante “L’Adorazione dei Pastori”, l’Anapo di Siracusa di Antonino Leto ed infine un gruppo scultoreo in terracotta del Gagini raffigurante la “Sacra Famiglia”.

Collegio di Maria Fondazione Greco Carlino         

Il Collegio di Maria di Monreale è stato fondato nel 1724 dai fratelli arciprete Alberto Greco Carlino e Can. Lorenzo con lo scopo di istruire e formare le fanciulle della città. Lo splendido edificio settecentesco è situato nel cuore del centro storico cittadino, il prospetto principale della facciata sporge su Piazza Vaglica di fronte al Duomo. 

Al suo interno vi è un suggestivo chiostro al centro del quale è situata una fontana, dal portico interno si accede alla Sala Convegni “Gaetano Millunzi”, al Museo recentemente restaurato ed, infine alla “Chiesa della Trinità” unica nel suo genere in quanto ha una forma ottagonale. 

Nel 1736 il re Carlo III di Borbone concesse 344,14 onze per la costruzione di questa chiesa a condizione che fosse realizzata in tempi brevissimi. 

L’interno è arricchito da interessanti affreschi, presenta quattro altari minori, affiancati da lesene di gusto settecentesco, molti raffinati intercalati fra l’ingresso principale e i due accessi laterali, dai quali ci comunica con le altre ali dello storico edificio. 

Gli archi a tutto sesto sono sormontati da leggere modanature, sulle quali poggia una fascia non decorata, sormontata a sua volta da una cornice. Più sopra è impostato il tamburo della grande cupola centrale dove si trovano delle finestre occultate da graticci in ottone, anche esse di gusto tipicamente settecentesco, in uso durante il periodo in cui nell’Istituto erano presenti le suore di clausura. Esterno ed interno della Chiesa della Trinità.

Le Fontane artistiche

Salendo dalla strada panoramica Rocca-Monreale costruita nel Settecento per volere dell’Arcivescovo Mons. Francesco Testa, si possono ammirare delle Fontane situate lungo il percorso, con il loro contenuto simbolico e l’intenso messaggio iconografico trasmesso dalle acque, monti, conchiglie ed altri elementi decorativi che rimandano più o meno a concetti di fecondità, di abbondanza e di rigenerazione. Sulle pendici del Monte Caputo, a 300 metri sul livello del mare sorge la cittadina normanna che si fondò lentamente nel corso del Basso Medioevo, intorno all’Abbazia Benedettina ed al Monumentale Duomo (Santa Maria La Nuova 1174 ed il 1176).

La Fontana del Pescatore situata dopo la Rocca, è in marmo bianco e pietra. Per l’eleganza delle linee, la fontana è da considerare come una delle migliori composizioni scultoree dell’artista Ignazio Marabitti, che fu molto abile nel dare vivacità ed armonia ai putti. La vasca ha forma poligonale ed al centro è collocato uno "scoglio" in pietra, sulla cui sommità sono posti tre putti aggrovigliati con quattro pesci, sostenuti da una grande conchiglia.

Un altro "scoglio" all'interno della stessa vasca reca un ulteriore putto che tiene in mano una canna da pesca. La monumentale fontana è inoltre adornata da altri putti e da una lapide marmorea, su cui sono incisi dei versi che invitano i passanti a dissetarsi ed a godere dell'ombra.

Poco dopo si trova la Fontana del Drago, così chiamata poiché dalla roccia spunta la testa di un drago dalla cui bocca sgorga l'acqua. Quest’opera è stata anche realizzata dallo scultore Ignazio Marabitti che fu abile a sfruttare le risorse del luogo con il quale riuscì a creare un effetto scenico alquanto suggestivo. Dalla vasca centrale si diparte una elegante scalinata, mentre l'area della piattaforma è definita da un lungo sedile con spalliera in stile barocco.  I putti sono disposti a piramide attorno alla testa del Drago. Sotto i piedi di un putto è situata una lapide in marmo bianco i cui versi esaltano l’utilità dell’acqua. 

Poco oltre è situata la Fontana ad Emiciclo,comunemente conosciuta come la Fontana dell’Albergo dei Poveri, edificio realizzato nel 1834 su commissione dell’Arcivescovo Benedetto Balsamo per ospitare i poveri della città. La fontana di epoca settecentesca è di stile neo classico ed è stata realizzata di marmo e pietra, di forma semicircolare è costituita da una edicola centrale che contiene un "mascherone" dal quale sgorga l'acqua, che poi scende in una grande vasca abbellita da fregi floreali. La fontana è fincheggiata da una panca ad emiciclo nella cui spalliera sono presenti una serie di affreschi e decorazioni.

Prima di arrivare nella piazza principale della città sempre sul lato destro troviamo la Fontana ad Edicola risalente al 1665, ubicata nei pressi dello slargo la Via Benedetto D'Acquisto e la Via Palermo. E' racchiusa in una nicchia, sopra la quale è posta una lapide che raffigura tre stemmi. Dalla parte più alta della cupoletta scaturisce l'acqua, riversandosi in una prima piccola vasca tonda e quindi in una ulteriore vasca più grande, sostenuta da fregi marmorei.

Al centro della Piazza Vittorio Emanuele è situata la bellissima Fontana del Tritone. La vasca in marmo ha una forma circolare, al centro è collocata la figura di un uomo sopra degli scogli, "Tritone",  che con un gesto eroico e forza sovrumana vince la furia dei draghi che emergono dalle acque e li calpesta. L’opera simboleggia la vittoria dell’uomo sulle forze brute. Eseguita nel 1881 dallo scultore palermitano Mario Rutelli.

Complesso Guglielmo II

Il complesso monumentale, costituito dalla Basilica, dal Convento con il Chiostro e dal Palazzo reale, venne fatto costruire nel XII sec. dal giovane re normanno Guglielmo II detto “Il Buono”, re nel 1166 ad appena tredici anni,succeduto al padre Guglielmo I assassinato da Matteo Bonello.

Guglielmo II fece costruire a partire dal 1174  il complesso monrealese che sorse in breve tempo, e che venne terminato nel giro di appena dieci anni. Già nel 1176 il tempio dedicato alla Vergine fu consegnato dal sovrano ai monaci benedettini provenienti da Cava dei Tirreni e guidati dall’abate Teobaldo diventato subito dopo vescovo.  Pochi anni dopo, nel 1183, papa Lucio III elevò Monreale a sede arcivescovile; Un’antica descrizione del Monastero viene riportata nel volume dal titolo “Historia della Chiesa di Monreale” (1594).

Solo in anni recenti è stato possibile avviare il restauro di questo grandioso complesso monumentale in buona parte già concluso che ha riguardato, anche il recupero di tre torri normanne situate all’interno della Villa Comunale (Belvedere, Fornace e delle Carceri), della chiesa degli Agonizzanti, edificata agli inizi dell’epoca barocca, che ha un impianto ad aula originariamente ornata con decorazioni e pregevoli statue ad altorilievo in stucco. Inoltre le opere di ristrutturazione e restauro del complesso hanno quindi interessato anche i locali in cui aveva sede il “Convitto Guglielmo” e che oggi ospitano il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea intitolato a Giuseppe Sciortino, apprezzato scrittore e critico d’arte monrealese scomparso nel 1971.

Qui troviamo una notevolissima collezione di opere d’arte del ‘900 donate al Comune dalla pittrice Eleonora Nora Posabella per onorare la memoria dello stesso Sciortino, al quale fu legata. Il percorso espositivo ci porta ad ammirare dipinti, opere su carta, sculture e ceramiche di artisti italiani di indiscussa fama fra i quali Cantatore, Casorati, Rosai, De Chirico, De Pisis, Guttuso, Morandi, Omiccioli, Purificato, Soffici, Schifano e Tromabadori.

Castellaccio di Monreale

Il Castellaccio di Monreale o Castello di San Benedetto è l'unico esempio della Sicilia occidentale di monastero - fortezza militare. È situato su Monte Caputo, nei pressi di Monreale a 764 m di altitudine.

Il castello fu costruito intorno al XII secolo sotto Guglielmo II insieme ai più famosi Duomo e Monastero di Monreale. È un esempio dell'architettura arabo-normanna in Sicilia. Faceva parte integrante di un vasto sistema di difesa-controllo del territorio conseguente alla conquista dell'isola dal 1061 al 1072.

Il castello domina la Valle dell'Oreto e molti dei rilievi calcarei dei Monti di Palermo. Secondo alcuni studiosi venne costruito sopra un preesistente abitato musulmano. Venne dedicato probabilmente a San Benedetto. Oltre alla funzione militare di avvistamento il castellaccio era destinato anche a luogo di riposo per i monaci del vicino monastero di Monreale.

Evento importante nella storia del castello fu nel 1370 l'attacco da parte dell'esercito di Giovanni Chiaramonte contro il nucleo catalano affiancato dai monaci monrealesi. Lo scontro causò danni alla struttura del castello ma poiché la posizione strategica era importante per la prevenzione dagli attacchi da nord e da sud, fu indispensabile il ripristino delle parti danneggiate.

Nel 1393 venne abitato dal re Martino I che voleva essere protetto da eventuali attacchi. Poco dopo iniziò il degrado col definitivo abbandono avvenuto presumibilmente nel XVI secolo.

Nel 1897 il monumento venne venduto dal Comune di Monreale al Club Alpino Siciliano con l'impegno che quest'ultimo ne effettuasse il restauro e ne curasse il mantenimento. Nel 1898 l'architetto Giuseppe Patricolo, figura importante nel recupero di molte architetture siciliane, si dedicò al recupero del Castellaccio nelle sue parti meno danneggiate. Dopo l'intervento di ripristino del Club Alpino Siciliano, il Castellaccio venne riaperto al pubblico nel 1906 divenendo, da quel momento, una stazione alpina del Sodalizio ed attualmente è una delle mete escursionistiche del comprensorio. Nel 1996 e nel 2009 sono stati effettuati lavori di restauro e manutenzione straordinaria sotto la supervisione della Sovrintendenza ai Monumenti che hanno ulteriormente permesso l'agibilità delle torri di nord-est e nord-ovest.

Il castello ha uno sviluppo rettangolare con alcune irregolarità e sette

torri sporgenti all'esterno. Le dimensioni della pianta sono 80 x 30 e occupa una superficie di 2295 mq. Probabilmente in origine si sviluppava su due piani. All'interno, lungo i muri perimetrali dell'edificio, sono presenti locali di dubbio uso, probabilmente luogo di riposo per i monaci, raggiungibili da un corridoio con il quale si arriva anche a un atrio circondato da portici: il chiostro interno del complesso monastico. Conteneva anche una cappella di cui ancora restano le tre absidi ed una navata centrale.

Il carattere militare, più che religioso, dell'opera è evidente, oltre che per la sua posizione dominante sul territorio, soprattutto per i suoi aspetti costruttivi e architettonici: poche aperture esterne, spessore dei muri molto accentuato (in media 1,5 m), numerose torri di cortina (7 in tutto, posizionate ad intervalli irregolari), strombatura enfatizzata delle feritoie e torre d'ingresso con accesso a baionetta.

Il linguaggio architettonico austero e l'impiego di materiali da costruzione grezzi, senza concessioni al decorativismo o alla magnificenza, costituiscono un'ulteriore conferma della funzione preminentemente militare; infatti è possibile notare l'assenza di conci squadrati architettonici agli angoli dell'edificio (nelle architetture contemporanee normanne era frequente un'enfatizzazione degli angoli ma soprattutto nelle aperture e nei portali con l'utilizzo di pietra nobile o lavorata).

Lo stile dell'architettura è normanno, ridondante nell'architettura castellare siciliana: non dissimili sono le fabbriche successive dei castelli di Cefalà Diana e di Vicari.

Agosto 2018