Acireale
(Catania)

 

Chiesa Santa Maria della Neve (Grotta)

Sulla strada provinciale che scende verso il mare, a breve distanza dalla Villa Belvedere, si erge una minuscola chiesetta dal nome suggestivo che rievoca tempi e fatti avvolti nella leggenda anche se storicamente collocati a metà del ’700.

L’antichissima grotta lavica, parte integrante dell’attuale chiesetta, che curiose leggende dipingevano come ricettacolo di ladri e assassini o addirittura dimora di demoni ed orride bestie, fu in verità adibita da qualche pastore della zona a ricovero per le capre, o scelta come rifugio provvisorio da qualche “discursore di campagna” nell’attesa di assalire malcapitati viandanti che solitari si avventuravano per quel sentiero.

Nel 1752 un pio sacerdote, don Mariano Valerio, per adempiere ad un voto pensò di tramutarla in chiesa con l’intento di esporvi un presepe e ricordare così la nascita di Gesù. Per l’occasione, scrisse pure una collana di sonetti in dialetto siciliano da recitarsi davanti al presepe della Grotta ogni mese.

Morto il Valerio, divenne Rettore della chiesa il can. Pasquale Pennini che nel 1820 ampliò la grotta costruendo un pronao con tre colonne e abbellì il prospetto in pietra bianca su cui spiccano i componenti della Sacra Famiglia, ben visibile dal mare di S. Maria La Scala.

Qualche anno prima che la chiesetta subisse questi restauri, fu dato l’incarico di rinnovare il presepe ad un bravo artigiano acese, Mariano Cormaci, il quale si era messo in luce avendone costruito uno bellissimo nella chiesa madre di S. Venerina.

Il Cormaci, attivo tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800, verso il 1812 plasmò nella cera, insieme allo Zammit, conosciuto come “ u nuticianu” perché proveniente da Noto, e al romano Santi Gagliani, le teste dei pastori; le mani, invece, furono intagliate nel legno ed inseriti in manichini rivestiti con varie stoffe, a seconda del ruolo dei personaggi che risultarono quasi a grandezza naturale. Le stoffe dei vestiti, ad eccezione delle sete e dei damaschi con ricami in oro dei Re Magi, rovinate purtroppo dal tempo, sono state rinnovate, mentre le barbe ed i capelli dei pastori sono ancora gli stessi donati dai fedeli come ex voto. Gli animali presenti sulla scena, pecore e conigli, sono stati modellati in gesso. Per questi lavori eseguiti con tecniche raffinate e con risultati artistici veramente sorprendenti, il Cormaci ricevette un compenso annuo di onze due e tarì 15, poca cosa per un lavoro così ben fatto.

Si disse – ma è solo una diceria – che per modellare quelle teste l’artista avesse usato una tecnica segreta, poiché i successivi restauri non riuscirono ad imitare la tecnica conosciuta solo da sua nipote: in seguito alcuni volti furono rinnovati in gesso o in cartapesta con risultati meno apprezzabili, tanto che nei restauri del 1984 sono stati accantonati.

Le figure sono di un realismo impressionante e formano un’interessante tipologia popolare e un ricco campionario di costumi dell’epoca. Lo spettatore, colpito dalla dolcezza dell’evento narrato a cui partecipa la natura tutta, è attratto da “Jnnaru”, coperto di stracci, contento di stare a scaldarsi davanti al braciere.

Tra i personaggi tipici ricordiamo anche il Suonatore di cornamusa, lo Spaventato della grotta, i numerosi contadini – belli, dolci, estatici – che recano in dono ceste di arance, fiscelle di ricotta ed altre umili cose che poveri pastori “alla campìa” potevano offrire a Gesù appena nato. Tutti fanno da corona alla Sacra Famiglia: a fianco a Maria che osserva estasiata la sua Creatura con un sguardo materno pieno di dolcezza c’è S. Giuseppe, pensoso, appoggiato al suo bastone; e tutti sembrano cantare, per celebrare la sacralità della vita, il terzo “mistero gaudioso” nel colorito dialetto:

Parturistuvu Gran Signura
‘nta ‘na povera mangiatura:
e nasciu Gesù Bammineddu,
‘mmenzu ‘nvoi e ‘n’asineddu.

Sul finire dell’800, la chiesetta che intanto aveva preso pure il nome di S. Maria della Neve, restò chiusa per qualche anno, ma a partire dal 1900, grazie all’interesse della nobildonna M. Serafina Pennisi, erede dei Valerio, fu riaperta al pubblico per le festività natalizie con la celebrazione di una messa presieduta dal vescovo mons. Genuardi. Nel 1984 la Sovrintendenza per i beni culturali di Catania ha restaurato ogni componente del Presepe facendo sì che fosse cancellata l’usura del tempo e la violenza di discutibili restauri precedenti. All’ingresso, sulla stretta parete del pronao fa bella mostra di sé la splendida pala d’altare di Vito D’Anna raffigurante la “Natività”, forse dipinta nel 1740, dal pittore palermitano poco più che ventenne negli anni in cui frequentava la bottega del nostro Paolo Vasta, i cui influssi sono evidenti. Delicato il volto della Madonna, ricche le vesti della giovane donna che invita il figlioletto a rendere omaggio al Bambino Gesù mentre sullo sfondo, nella penombra, S. Giuseppe manifesta la sua ieratica, discreta presenza a così grande mistero.    

Santuario Maria SS. di Loreto

Sulla collinetta che degrada dolcemente verso la città, a metà del’500 Giovanni Maccarone, umile fraticello desideroso di trascorrere la vita nella preghiera e nella solitudine, costruisce a sue spese una cappella in onore della Madonna di Loreto. La località a quei tempi si trovava ai margini del bosco di Aci ed era infestata dai briganti che assalivano gli inermi viandanti che l’attraversavano.

Qualche tempo dopo fra Giovanni pensa di trasformare il minuscolo ambiente riproducendo le stesse misure della S. Casa di Nazaret che nel 1294 uno stuolo di angeli aveva miracolosamente trasportato a Loreto, nelle Marche. Alla sua morte dispose che la chiesetta ed il terreno circostante fossero amministrati dai Rettori della Luminaria del Duomo di Acireale con il compito di incrementare il culto alla Madonna.

Si narra che in questo periodo un miracolo contribuì non solo all’aumento della devozione ma anche ai lasciti dei devoti e all’aumento delle offerte dei pellegrini che vengono a chiedere grazie da tutta la Sicilia, tanto che la chiesetta, annoverata tra le più importanti di Acireale “per pietà e devozione”, diveniva meta di tutte le processioni penitenziali nelle quali spesso si portavano le reliquie della Santa Patrona nonostante la “via alpestre e sassosa” fosse disagevole. La frequenza dei pellegrinaggi nel 1653 indusse i rettori ad istituire, nei pressi del Duomo, un Ospizio atto a procurare un alloggio temporaneo ai pellegrini poveri.

Quando nel marzo 1669 l’Etna minacciava la città di Catania, si organizzò una solenne processione con tutte le autorità civili e religiose. È in questo frangente che ci si avvede della angustia delle strutture e si pensa di ampliare il santuario.

Nel 1676 un predicatore esorta gli acesi a costruire, sulla strada che dal SS. Salvatore conduce a Loreto, sette “atareddi”in onore dei Sette Dolori della Madonna. Distrutti dall’incuria degli uomini e dal tempo, ne rimangono solo due nei pressi del Santuario.

Un paio d’anni dopo, portando in trionfo ancora una volta le reliquie di S. Venera, gli acesi rendono omaggio alla Madonna per averli protetti nella guerra franco- spagnola.

Nel 1683 furono conclusi i lavori di ampliamento ma il terremoto, dieci anni dopo, fece crollare il muro della S. Casa dove era affrescata l’antica immagine della Madonna. In questa occasione si stabilì che ogni anno, per voto, ci si doveva confessare e comunicare e “nel detto giorno – 11 gennaio – osservare il digiuno ed andare processionalmente alla chiesa dell’Oreto”.

Nel ‘700 si affrescano le pareti del santuario: l’incarico è affidato a Matteo Ragonisi che nelle pareti della S. Casa raffigura “Maria Bambina con S. Anna e S. Gioacchino” ed “Il sogno di Giuseppe”, mentre per il nuovo altare dipinge ad olio una Madonna seduta in trono con il Bambino ritto sulle ginocchia.

Nel 1738 fra Rosario Campione che da lì a poco fonderà nell’Eremo di S. Anna (AciCatena) una nuova comunità di frati, vi riceve l’abito eremitico dalle mani di p. Mariano Patanè e vi dimora per qualche anno.

Nel 1753 Paolo Vasta, ormai giunto quasi alla fine della sua attività pittorica, abbellisce l’altare centrale affrescandovi un regale padiglione in velluto rosso con le frange dorate a coronamento del quale vi “incastona” un enorme lapislazzuli blu su cui campeggia la scritta “ Mater Dei” e sulle pareti del coretto vi raffigura le 4 sante vergini e martiri più rappresentative della pietà religiosa del tempo che fanno da corona all’altare della Vergine “Regina martyrum”: S. Venera e S. Caterina d’Alessandria (a sinistra) e S. agata e S. Lucia (a destra). Nei due vani che fiancheggiano l’altare inventa un magnifico scenario che si apre aldilà di una finta balconata dove coppie di festosi puttini magnificano le glorie della Vergine lauretana, mentre sulla destra l’allegra gaiezza dei puttini sembra smorzata dalla severa figura di un fraticello che con chiaro gesto dell’indice esorta al silenzio e alla preghiera.  

Sulla volta a botte della S. Casa, i lavori furono continuati dal figlio Alessandro che vi raffigura due momenti molto significativi per la storia della salvezza: “La Vergine Immacolata schiaccia la testa al serpente” e “L’Eterno Padre invia l’Angelo Gabriele a Maria”.

Dove oggi troneggia la Madonna nera, donata da mons. Cento nel 1925, sull’altare della S. Casa, c’era un quadro ad olio della Madonna di Loreto. Ai lati, Alessandro vi affrescò il profeta Isaia ed il re Davide nell’atto di indicare al pellegrino la Vergine Madre.

A partire dalla seconda metà del ‘700, per vari motivi sembra affievolirsi il culto alla Madonna di Loreto e nel 1818, a causa di un nuovo terremoto, la chiesetta subisce seri danni che saranno riparati molti anni più tardi. Oggi il Santuario è visitato da numerosi devoti.

Nel 1907 vi fu tumulato, per suo espresso desiderio, mons. Genuardi, primo Vescovo di Acireale dal 1872. Fervente devoto della Madonna, visitava il Santuario ogni sabato.  

La Timpa, Le Chiazzette, Santa Maria la Scala

Oltre ad essere abbellita da una sontuosa architettura di fattura barocca, la città di Acireale sorge immersa in una cornice paesaggistica di superba bellezza.

Situata a circa 160 metri sul livello del mare, la città vive adagiata sulla Timpa, costone lavico che costituisce l’ultima propaggine di un sistema di faglie a gradinata che partendo dal cratere centrale e sviluppandosi sul versante est dell’Etna si estendono fino al mare. Frutto di sovrapposizioni di strati eruttivi di varie epoche, la Timpa è ricoperta da una fitta macchia mediterranea.

Considerato l’elevato pregio naturalistico, faunistico e geologico, tutta l’area, che si estende per circa 7 chilometri, nel 1999 è stata dichiarata Riserva naturale Orientata e affidata alla gestione dell’Azienda Forestale Demaniale. Estesa su una superficie di circa di 230 ettari, la riserva inizia a Capo Mulini nella zona chiamata Gazzena e passa per Santa Caterina detta dei Cavallari poiché in questo versante del territorio acese un tempo stazionavano le guardie a cavallo che avevano il compito di sorvegliare il litorale da eventuali pericoli. L’area della riserva si estende ancora per Santa Maria la Scala, Santa Tecla e si interrompe bruscamente all’altezza di contrada Mortara. Oggi la Timpa, rimasta relativamente a riparo da speculazioni edilizie, al suo interno è segnata da alcuni percorsi e in particolare quello delle Acque Grandi, quello dell’antico tracciato ferroviario e quello delle Chiazzette.

Il sentiero delle Acque Grandi è costituito da una discesa verso il mare il cui ingresso è situato in prossimità della chiesa di Nostra Signora dell’Aiuto.

L’antico tracciato ferroviario, un percorso lungo circa 3 chilometri, si snoda lungo la tratta ferroviaria a binario unico costruita nella seconda metà del secolo XIX e disattivata negli anni sessanta.

Le Chiazzette costituiscono l’antica strada di collegamento tra Acireale e Santa Maria la ScalaLionardo Vigo, letterato acese, nelle sue Notizie storiche di Acireale afferma che furono quattro le opere edili che dimostravano il progresso economico e civile di Acireale e cioè la Casa Senatoria, il Carcere, il Teatro e la strada che collegava la città alla marina detta volgarmente Scala. Oggi di queste costruzioni seicentesche rimangono la Casa Senatoria e questa strada di collegamento conosciuta con il nome di Chiazzette. Prima di tale costruzione sulla Timpa esisteva solo un viottolo che conduceva fino al mare. A metà del secolo XVI su uno spiazzo di questo viottolo fu posto un cannone che doveva avvertire gli abitanti delle Aci del pericolo di navi corsare. Questo luogo fu chiamato u Toccu cioè il tocco del cannone. 

Alla fine del XVI secolo gli spagnoli, che in quel periodo dominavano la Sicilia, per difendere il litorale acese, costruirono una serie di fortezze che integravano le fortificazioni federiciane di epoca sveva. Nel 1617 fu deciso che anche sulla Timpa fosse costruita una fortezza che fu ultimata nel 1626. Venne così costruita la Fortezza del Tocco progettata dal fiorentino Camillo Camilliani e ricostruita e fortificata dall’ingegnere acese Vincenzo Geremia, dopo il terremoto del 1693. 

La fortezza fu dotata di due cannoni che gli Acitani pagarono con un dazio su ogni rotolo (800 grammi) di carne. Con un’opera dispendiosissima, come dicono le cronache del tempo, volendo collegare la città al borgo sottostante, nel 1687 ebbero inizio i lavori di costruzione delle Chiazzette. La strada pedonale costituita da sette rampe ognuna delle quali terminante con un piccolo spazio (da qui il nome di Chiazzette) in parte è scavata nella pietra lavica, in parte è adagiata su archi baluardi. 

L’opera, per l’epoca un impegno architettonico di non poco conto, oltre ad avere la funzione di collegamento, aveva una grande utilità sociale in quanto permetteva il trasporto dell’acqua potabile dalla sorgente fino alla città. Dopo l’ingresso che si trova sulla Panoramica, percorrendo i primi gradini di pietra lavica si incontra una cappelletta che custodisce l’immagine di una Madonna col Bambino e sulla cui facciata si legge: M. D. Gerlando M. Genuardi-il primo Vescovo di Aci concede quaranta giorni di indulgenze a chi devotamente recita un’Ave a questa sacra immagine di Maria. Nella quarta rampa si trova un’edicola votiva dedicata al SS. Crocifisso della Buona Nuova risalente alla prima metà dell’Ottocento.

Compiendo tutta la discesa si giunge ad un bivio. A destra si apre una stradina che porta sino ad un mulino alimentato nel passato dalle acque della sorgente di Miuccio e ancora oggi funzionante. Sulla spiaggia, nei pressi di questo mulino fuoriescono diversi rivoli d’acqua che sono stati identificati come la foce del fiume Aci. Proseguendo verso sinistra si ci immette verso il centro abitato di Santa Maria la Scala

L’intero borgo marinaro, quasi di verghiana memoria, si sviluppa attorno allo Scalo Grande cioè il porticciolo il quale è protetto dal molo foraneo e dalla Pietra Sarpa, piccolo faraglione creato dall’Etna sulla cui sommità è presente una garritta, cioè una torretta di avvistamento. A nord dell’abitato si trova ciò che rimane della Grotta delle Colombe che secondo il mito era il rifugio segreto di Aci e Galatea. La volta della grotta era sostenuto da uno scoglio dalla curiosa forma di pugno che nel 1972 si inabissò a causa di una violenta mareggiata.

Le case dei pescatori che si confondono con la ottocentesche dimore di villeggiatura della borghesia acese conferiscono al borgo un aspetto del tutto particolare. La piccola chiesa, costruita nel 1550 su un’edicola del Trecento, fu ricostruita dopo il terremoto del 1693. Il campanile è di recente costruzione infatti è stato aggiunto intorno al 1920. All’interno della chiesa, oltre ad opere di Michele Vecchio, è custodita la tela della Madonna della Scala con Santa Venera e Santa Tecla di Giacinto Platania. Gli affreschi La gloria dell’Agnello e La Fede, la Speranza e la Carità di Giovanni Grasso impreziosiscono l’abside. Dietro la chiesa, con lo sguardo che si apre verso il mare si trova la statua della Madonna della Scala che sovrasta e dà il nome al borgo e la cui festa viene celebrata l’ultima domenica d’agosto.  

Carnevale

In un circuito barocco, ogni anno ad Acireale si svolge quello che viene definito il più bel Carnevale di Sicilia. La bellezza del centro storico barocco infatti fa da cornice alla sfilata delle opere dei maestri della carta pesta che realizzano carri di altissima fattura e animati da movimenti meccanici ed idraulici che li rendono unici nel loro genere.

Il Carnevale di Acireale, tra i più antichi della Sicilia, vanta un’ origine lontana nel tempo. Il primo documento ufficiale della manifestazione, risale al 1594 e certifica un mandato di pagamento che l’Universitas di Jaci stabilì per l’acquisto di carni, vino e formaggi destinati ai festeggiamenti del Carnilivari. Ma esistono anche dei manoscritti che attestano durante il XVIII secolo, l’usanza di ” battagliare” attraverso il lancio di uova marce, arance e limoni , che però fu vietata il 3 marzo del 1612 con un bando della Corte criminale visti i gravi fatti accaduti gli anni precedenti.

Nel 1667 entrò in scena per la prima volta nel Carnevale di Acireale la maschera dell’Abbatazzu, detta anche Pueta Minituzzu perché si esibiva recitando poesie grottesche e maliziose.

L’Abbatazzu, che ironizzava sul clero acese e in particolare su Mons. Michelangelo Bonadies vescovo di Catania, diocesi che allora comprendeva anche Acireale, indossava abiti di broccato, andava in giro con grossi libri e portava al collo un tovagliolo un tempo segno di riconoscimento delle persone infette, molto probabilmente per esorcizzare la paura della epidemie sempre incombenti durante il XVII secolo.

La tragedia del terremoto del 1693 impose la sospensione della manifestazione per diversi anni ma già agli inizi del 1700 la volontà di ricostruzione degli acesi portò a reintrodurre i festeggiamenti del Carnevale. 

Dopo l’Abbatazzu nel Carnevale acese comparve la maschera del Baruni che con addosso un grande mantello nero e un cilindro ma con atteggiamenti da bifolco metteva alla berlina la nobiltà della città. Poi fu la volta dei Manti che avvolti in grandi mantelli di seta nera celavano la loro identità. La figura dei Manti fu sostituita dal Domino, costume che nei primi anni del ‘900 fu vietato a causa dei gravi reati che venivano commessi nel periodo del Carnevale in quanto questo travestimento permetteva di mescolarsi tra la folla e celare la propria identità. Nell’800 il Carnevale conosce l’introduzione della “cassariata” o la sfilata dei lando cioè carrozze dalle quali i nobili della città lanciavano confetti. In questo periodo la manifestazione assume il carattere di festa organizzata. Nel 1880 hanno inizio le sfilate dei carri allegorici in carta pesta anche perché ad Acireale esistevano già degli artigiani esperti in questa arte. Nel 1930 compaiono per la prima volta le sfilate delle macchine infiorate cioè automobili che venivano addobbate con fiori.

Oggi la maestria degli artigiani acesi unita al sofisticato contributo della tecnologia consegnano alla città di Acireale e ai visitatori che ogni anno arrivano da ogni parte d’Italia uno spettacolo unico al mondo. La sfilata dei carri si snoda lungo il circuito barocco della città e culmina in piazza Duomo dove ogni carro dà spettacolo con la propria esibizione. In passato le sfilate si svolgevano dal giovedì al martedì grasso ma da alcuni decenni il Carnevale di Acireale ha una durata di tre settimane e si conclude la sera del martedì grasso quando avviene la premiazione dei vari concorsi e il rogo di Re Carnevale. Protagonisti indiscussi del Carnevale di Acireale sono i carri allegorico-grotteschi in carta pesta.

La scuola della carta pesta di Acireale ha raggiunto ormai livelli di eccellenza e i maestri artigiani acesi sfoderano tutta la loro maestria per realizzare il soggetto che di solito riguarda la satira politica o il costume sociale. Quella della carta pesta è un’arte che richiede un procedimento lungo e prevede diversi passaggi. Tutto ha inizio dall’argilla con la quale vengono modellate le maschere. Sull’argilla viene spalmato un strato di gesso e acqua sul quale una volta asciutto vengono applicate strisce di carta prima solo bagnata e successivamente imbevuta di colla . 

Tirata fuori dallo stampo la maschera, si procede con la gessatura con la quale viene prima pennellata con gesso liquido poi viene scartavetrata e verniciata. Una volta ultimata viene montata sul carro nel quale prende vita attraverso giochi di luci e movimenti durante le sfilate. Una peculiarità che vanta solo il Carnevale di Acireale è la sfilata di quelli che un tempo erano le macchine infiorate ma che oggi sono diventati dei veri e propri carri infiorati. La realizzazione del soggetto avviene attraverso l’utilizzo di fiori che vengono applicati ad una impalcatura di ferro, reti metalliche e polistirolo. Anche i carri infiorati sono animati da giochi di luci e movimenti meccanici.

Altro elemento caratterizzante il Carnevale acese è la partecipazione del pubblico che in maniera libera e gratuitamente lungo tutto il circuito può godere dello spettacolo delle parate in uno sfondo di luci, musica e colori che trasformano la città in un palcoscenico dove tutti diventano protagonisti.

Da qualche anno Acireale replica lo spettacolo del Carnevale anche in estate. Ad agosto durante il cosiddetto Carnevale estivo i carri tornano a sfilare esibendosi non solo per gli acesi ma anche per i numerosi turisti che in questo periodo affollano la città.

 Pag. 3