Chiesa
Santa
Maria
della
Neve
(Grotta)
Sulla
strada
provinciale
che
scende
verso
il
mare,
a
breve
distanza
dalla
Villa
Belvedere,
si
erge
una
minuscola
chiesetta
dal
nome
suggestivo
che
rievoca
tempi
e
fatti
avvolti
nella
leggenda
anche
se
storicamente
collocati
a
metà
del
’700.
L’antichissima
grotta
lavica,
parte
integrante
dell’attuale
chiesetta,
che
curiose
leggende
dipingevano
come
ricettacolo
di
ladri
e
assassini
o
addirittura
dimora
di
demoni
ed
orride
bestie,
fu
in
verità
adibita
da
qualche
pastore
della
zona
a
ricovero
per
le
capre,
o
scelta
come
rifugio
provvisorio
da
qualche
“discursore
di
campagna”
nell’attesa
di
assalire
malcapitati
viandanti
che
solitari
si
avventuravano
per
quel
sentiero.
Nel
1752
un
pio
sacerdote,
don
Mariano
Valerio,
per
adempiere
ad
un
voto
pensò
di
tramutarla
in
chiesa
con
l’intento
di
esporvi
un
presepe
e
ricordare
così
la
nascita
di
Gesù.
Per
l’occasione,
scrisse
pure
una
collana
di
sonetti
in
dialetto
siciliano
da
recitarsi
davanti
al
presepe
della
Grotta
ogni
mese.
Morto
il
Valerio,
divenne
Rettore
della
chiesa
il
can.
Pasquale
Pennini
che
nel
1820
ampliò
la
grotta
costruendo
un
pronao
con
tre
colonne
e
abbellì
il
prospetto
in
pietra
bianca
su
cui
spiccano
i
componenti
della
Sacra
Famiglia,
ben
visibile
dal
mare
di
S.
Maria
La
Scala.
Qualche
anno
prima
che
la
chiesetta
subisse
questi
restauri,
fu
dato
l’incarico
di
rinnovare
il
presepe
ad
un
bravo
artigiano
acese,
Mariano
Cormaci,
il
quale
si
era
messo
in
luce
avendone
costruito
uno
bellissimo
nella
chiesa
madre
di
S.
Venerina.
Il
Cormaci,
attivo
tra
la
fine
del
‘700
e
la
prima
metà
dell’800,
verso
il
1812
plasmò
nella
cera,
insieme
allo
Zammit,
conosciuto
come
“
u
nuticianu”
perché
proveniente
da
Noto,
e
al
romano
Santi
Gagliani,
le
teste
dei
pastori;
le
mani,
invece,
furono
intagliate
nel
legno
ed
inseriti
in
manichini
rivestiti
con
varie
stoffe,
a
seconda
del
ruolo
dei
personaggi
che
risultarono
quasi
a
grandezza
naturale.
Le
stoffe
dei
vestiti,
ad
eccezione
delle
sete
e
dei
damaschi
con
ricami
in
oro
dei
Re
Magi,
rovinate
purtroppo
dal
tempo,
sono
state
rinnovate,
mentre
le
barbe
ed
i
capelli
dei
pastori
sono
ancora
gli
stessi
donati
dai
fedeli
come
ex
voto.
Gli
animali
presenti
sulla
scena,
pecore
e
conigli,
sono
stati
modellati
in
gesso.
Per
questi
lavori
eseguiti
con
tecniche
raffinate
e
con
risultati
artistici
veramente
sorprendenti,
il
Cormaci
ricevette
un
compenso
annuo
di
onze
due
e
tarì
15,
poca
cosa
per
un
lavoro
così
ben
fatto.
Si
disse
–
ma
è
solo
una
diceria
–
che
per
modellare
quelle
teste
l’artista
avesse
usato
una
tecnica
segreta,
poiché
i
successivi
restauri
non
riuscirono
ad
imitare
la
tecnica
conosciuta
solo
da
sua
nipote:
in
seguito
alcuni
volti
furono
rinnovati
in
gesso
o
in
cartapesta
con
risultati
meno
apprezzabili,
tanto
che
nei
restauri
del
1984
sono
stati
accantonati.
Le
figure
sono
di
un
realismo
impressionante
e
formano
un’interessante
tipologia
popolare
e
un
ricco
campionario
di
costumi
dell’epoca.
Lo
spettatore,
colpito
dalla
dolcezza
dell’evento
narrato
a
cui
partecipa
la
natura
tutta,
è
attratto
da
“Jnnaru”,
coperto
di
stracci,
contento
di
stare
a
scaldarsi
davanti
al
braciere.
Tra
i
personaggi
tipici
ricordiamo
anche
il
Suonatore
di
cornamusa,
lo
Spaventato
della
grotta,
i
numerosi
contadini
–
belli,
dolci,
estatici
–
che
recano
in
dono
ceste
di
arance,
fiscelle
di
ricotta
ed
altre
umili
cose
che
poveri
pastori
“alla
campìa”
potevano
offrire
a
Gesù
appena
nato.
Tutti
fanno
da
corona
alla
Sacra
Famiglia:
a
fianco
a
Maria
che
osserva
estasiata
la
sua
Creatura
con
un
sguardo
materno
pieno
di
dolcezza
c’è
S.
Giuseppe,
pensoso,
appoggiato
al
suo
bastone;
e
tutti
sembrano
cantare,
per
celebrare
la
sacralità
della
vita,
il
terzo
“mistero
gaudioso”
nel
colorito
dialetto:
Parturistuvu
Gran
Signura
‘nta
‘na
povera
mangiatura:
e
nasciu
Gesù
Bammineddu,
‘mmenzu
‘nvoi
e
‘n’asineddu.
Sul
finire
dell’800,
la
chiesetta
che
intanto
aveva
preso
pure
il
nome
di
S.
Maria
della
Neve,
restò
chiusa
per
qualche
anno,
ma
a
partire
dal
1900,
grazie
all’interesse
della
nobildonna
M.
Serafina
Pennisi,
erede
dei
Valerio,
fu
riaperta
al
pubblico
per
le
festività
natalizie
con
la
celebrazione
di
una
messa
presieduta
dal
vescovo
mons.
Genuardi.
Nel
1984
la
Sovrintendenza
per
i
beni
culturali
di
Catania
ha
restaurato
ogni
componente
del
Presepe
facendo
sì
che
fosse
cancellata
l’usura
del
tempo
e
la
violenza
di
discutibili
restauri
precedenti.
All’ingresso,
sulla
stretta
parete
del
pronao
fa
bella
mostra
di
sé
la
splendida
pala
d’altare
di
Vito
D’Anna
raffigurante
la
“Natività”,
forse
dipinta
nel
1740,
dal
pittore
palermitano
poco
più
che
ventenne
negli
anni
in
cui
frequentava
la
bottega
del
nostro
Paolo
Vasta,
i
cui
influssi
sono
evidenti.
Delicato
il
volto
della
Madonna,
ricche
le
vesti
della
giovane
donna
che
invita
il
figlioletto
a
rendere
omaggio
al
Bambino
Gesù
mentre
sullo
sfondo,
nella
penombra,
S.
Giuseppe
manifesta
la
sua
ieratica,
discreta
presenza
a
così
grande
mistero.
Santuario
Maria
SS.
di
Loreto
Sulla
collinetta
che
degrada
dolcemente
verso
la
città,
a
metà
del’500
Giovanni
Maccarone,
umile
fraticello
desideroso
di
trascorrere
la
vita
nella
preghiera
e
nella
solitudine,
costruisce
a
sue
spese
una
cappella
in
onore
della
Madonna
di
Loreto.
La
località
a
quei
tempi
si
trovava
ai
margini
del
bosco
di
Aci
ed
era
infestata
dai
briganti
che
assalivano
gli
inermi
viandanti
che
l’attraversavano.
Qualche
tempo
dopo
fra
Giovanni
pensa
di
trasformare
il
minuscolo
ambiente
riproducendo
le
stesse
misure
della
S.
Casa
di
Nazaret
che
nel
1294
uno
stuolo
di
angeli
aveva
miracolosamente
trasportato
a
Loreto,
nelle
Marche.
Alla
sua
morte
dispose
che
la
chiesetta
ed
il
terreno
circostante
fossero
amministrati
dai
Rettori
della
Luminaria
del
Duomo
di
Acireale
con
il
compito
di
incrementare
il
culto
alla
Madonna.
Si
narra
che
in
questo
periodo
un
miracolo
contribuì
non
solo
all’aumento
della
devozione
ma
anche
ai
lasciti
dei
devoti
e
all’aumento
delle
offerte
dei
pellegrini
che
vengono
a
chiedere
grazie
da
tutta
la
Sicilia,
tanto
che
la
chiesetta,
annoverata
tra
le
più
importanti
di
Acireale
“per
pietà
e
devozione”,
diveniva
meta
di
tutte
le
processioni
penitenziali
nelle
quali
spesso
si
portavano
le
reliquie
della
Santa
Patrona
nonostante
la
“via
alpestre
e
sassosa”
fosse
disagevole.
La
frequenza
dei
pellegrinaggi
nel
1653
indusse
i
rettori
ad
istituire,
nei
pressi
del
Duomo,
un
Ospizio
atto
a
procurare
un
alloggio
temporaneo
ai
pellegrini
poveri.
Quando
nel
marzo
1669
l’Etna
minacciava
la
città
di
Catania,
si
organizzò
una
solenne
processione
con
tutte
le
autorità
civili
e
religiose.
È
in
questo
frangente
che
ci
si
avvede
della
angustia
delle
strutture
e
si
pensa
di
ampliare
il
santuario.
Nel
1676
un
predicatore
esorta
gli
acesi
a
costruire,
sulla
strada
che
dal
SS.
Salvatore
conduce
a
Loreto,
sette
“atareddi”in
onore
dei
Sette
Dolori
della
Madonna.
Distrutti
dall’incuria
degli
uomini
e
dal
tempo,
ne
rimangono
solo
due
nei
pressi
del
Santuario.
Un
paio
d’anni
dopo,
portando
in
trionfo
ancora
una
volta
le
reliquie
di
S.
Venera,
gli
acesi
rendono
omaggio
alla
Madonna
per
averli
protetti
nella
guerra
franco-
spagnola.
Nel
1683
furono
conclusi
i
lavori
di
ampliamento
ma
il
terremoto,
dieci
anni
dopo,
fece
crollare
il
muro
della
S.
Casa
dove
era
affrescata
l’antica
immagine
della
Madonna.
In
questa
occasione
si
stabilì
che
ogni
anno,
per
voto,
ci
si
doveva
confessare
e
comunicare
e
“nel
detto
giorno
–
11
gennaio
–
osservare
il
digiuno
ed
andare
processionalmente
alla
chiesa
dell’Oreto”.
Nel
‘700
si
affrescano
le
pareti
del
santuario:
l’incarico
è
affidato
a
Matteo
Ragonisi
che
nelle
pareti
della
S.
Casa
raffigura
“Maria
Bambina
con
S.
Anna
e
S.
Gioacchino”
ed
“Il
sogno
di
Giuseppe”,
mentre
per
il
nuovo
altare
dipinge
ad
olio
una
Madonna
seduta
in
trono
con
il
Bambino
ritto
sulle
ginocchia.
Nel
1738
fra
Rosario
Campione
che
da
lì
a
poco
fonderà
nell’Eremo
di
S.
Anna
(AciCatena)
una
nuova
comunità
di
frati,
vi
riceve
l’abito
eremitico
dalle
mani
di
p.
Mariano
Patanè
e
vi
dimora
per
qualche
anno.
Nel
1753
Paolo
Vasta,
ormai
giunto
quasi
alla
fine
della
sua
attività
pittorica,
abbellisce
l’altare
centrale
affrescandovi
un
regale
padiglione
in
velluto
rosso
con
le
frange
dorate
a
coronamento
del
quale
vi
“incastona”
un
enorme
lapislazzuli
blu
su
cui
campeggia
la
scritta
“
Mater
Dei”
e
sulle
pareti
del
coretto
vi
raffigura
le
4
sante
vergini
e
martiri
più
rappresentative
della
pietà
religiosa
del
tempo
che
fanno
da
corona
all’altare
della
Vergine
“Regina
martyrum”:
S.
Venera
e
S.
Caterina
d’Alessandria
(a
sinistra)
e
S.
agata
e
S.
Lucia
(a
destra).
Nei
due
vani
che
fiancheggiano
l’altare
inventa
un
magnifico
scenario
che
si
apre
aldilà
di
una
finta
balconata
dove
coppie
di
festosi
puttini
magnificano
le
glorie
della
Vergine
lauretana,
mentre
sulla
destra
l’allegra
gaiezza
dei
puttini
sembra
smorzata
dalla
severa
figura
di
un
fraticello
che
con
chiaro
gesto
dell’indice
esorta
al
silenzio
e
alla
preghiera.
Sulla
volta
a
botte
della
S.
Casa,
i
lavori
furono
continuati
dal
figlio
Alessandro
che
vi
raffigura
due
momenti
molto
significativi
per
la
storia
della
salvezza:
“La
Vergine
Immacolata
schiaccia
la
testa
al
serpente”
e
“L’Eterno
Padre
invia
l’Angelo
Gabriele
a
Maria”.
Dove
oggi
troneggia
la
Madonna
nera,
donata
da
mons.
Cento
nel
1925,
sull’altare
della
S.
Casa,
c’era
un
quadro
ad
olio
della
Madonna
di
Loreto.
Ai
lati,
Alessandro
vi
affrescò
il
profeta
Isaia
ed
il
re
Davide
nell’atto
di
indicare
al
pellegrino
la
Vergine
Madre.
A
partire
dalla
seconda
metà
del
‘700,
per
vari
motivi
sembra
affievolirsi
il
culto
alla
Madonna
di
Loreto
e
nel
1818,
a
causa
di
un
nuovo
terremoto,
la
chiesetta
subisce
seri
danni
che
saranno
riparati
molti
anni
più
tardi.
Oggi
il
Santuario
è
visitato
da
numerosi
devoti.
Nel
1907
vi
fu
tumulato,
per
suo
espresso
desiderio,
mons.
Genuardi,
primo
Vescovo
di
Acireale
dal
1872.
Fervente
devoto
della
Madonna,
visitava
il
Santuario
ogni
sabato.
La
Timpa,
Le
Chiazzette,
Santa
Maria
la
Scala
Oltre
ad
essere
abbellita
da
una
sontuosa
architettura
di
fattura
barocca,
la
città
di Acireale sorge
immersa
in
una
cornice
paesaggistica
di
superba
bellezza.
Situata
a
circa
160
metri
sul
livello
del
mare,
la
città
vive
adagiata
sulla Timpa,
costone
lavico
che
costituisce
l’ultima
propaggine
di
un
sistema
di
faglie
a
gradinata
che
partendo
dal
cratere
centrale
e
sviluppandosi
sul
versante
est
dell’Etna si
estendono
fino
al
mare.
Frutto
di
sovrapposizioni
di
strati
eruttivi
di
varie
epoche,
la Timpa è
ricoperta
da
una
fitta
macchia
mediterranea.
Considerato
l’elevato
pregio
naturalistico,
faunistico
e
geologico,
tutta
l’area,
che
si
estende
per
circa
7
chilometri,
nel
1999
è
stata
dichiarata Riserva
naturale
Orientata e
affidata
alla
gestione
dell’Azienda
Forestale
Demaniale.
Estesa
su
una
superficie
di
circa
di
230
ettari,
la
riserva
inizia
a Capo
Mulini nella
zona
chiamata Gazzena e
passa
per Santa
Caterina detta
dei Cavallari poiché
in
questo
versante
del
territorio
acese
un
tempo
stazionavano
le
guardie
a
cavallo
che
avevano
il
compito
di
sorvegliare
il
litorale
da
eventuali
pericoli.
L’area
della
riserva
si
estende
ancora
per Santa
Maria
la
Scala,
Santa
Tecla e
si
interrompe
bruscamente
all’altezza
di
contrada Mortara.
Oggi
la Timpa,
rimasta
relativamente
a
riparo
da
speculazioni
edilizie,
al
suo
interno
è
segnata
da
alcuni
percorsi
e
in
particolare
quello
delle Acque
Grandi,
quello
dell’antico
tracciato
ferroviario e
quello
delle Chiazzette.
Il
sentiero
delle Acque
Grandi è
costituito
da
una
discesa
verso
il
mare
il
cui
ingresso
è
situato
in
prossimità
della
chiesa
di Nostra
Signora
dell’Aiuto.
L’antico
tracciato
ferroviario,
un
percorso
lungo
circa
3
chilometri,
si
snoda
lungo
la
tratta
ferroviaria
a
binario
unico
costruita
nella
seconda
metà
del
secolo
XIX
e
disattivata
negli
anni
sessanta.
Le
Chiazzette costituiscono
l’antica
strada
di
collegamento
tra Acireale e Santa
Maria
la
Scala. Lionardo
Vigo,
letterato
acese,
nelle
sue Notizie
storiche
di
Acireale afferma
che
furono
quattro
le
opere
edili
che
dimostravano
il
progresso
economico
e
civile
di Acireale e
cioè
la Casa
Senatoria,
il Carcere,
il Teatro e
la
strada
che
collegava
la
città
alla
marina
detta
volgarmente Scala.
Oggi
di
queste
costruzioni
seicentesche
rimangono
la Casa
Senatoria e
questa
strada
di
collegamento
conosciuta
con
il
nome
di Chiazzette.
Prima
di
tale
costruzione
sulla Timpa esisteva
solo
un
viottolo
che
conduceva
fino
al
mare.
A
metà
del
secolo
XVI
su
uno
spiazzo
di
questo
viottolo
fu
posto
un
cannone
che
doveva
avvertire
gli
abitanti
delle
Aci
del
pericolo
di
navi
corsare.
Questo
luogo
fu
chiamato u
Toccu cioè
il
tocco
del
cannone.
Alla
fine
del
XVI
secolo
gli
spagnoli,
che
in
quel
periodo
dominavano
la
Sicilia,
per
difendere
il
litorale
acese,
costruirono
una
serie
di
fortezze
che
integravano
le
fortificazioni
federiciane
di
epoca
sveva.
Nel
1617
fu
deciso
che
anche
sulla Timpa fosse
costruita
una
fortezza
che
fu
ultimata
nel
1626.
Venne
così
costruita
la Fortezza
del
Tocco progettata
dal
fiorentino Camillo
Camilliani e
ricostruita
e
fortificata
dall’ingegnere
acese Vincenzo
Geremia,
dopo
il
terremoto
del
1693.
La
fortezza
fu
dotata
di
due
cannoni
che
gli
Acitani
pagarono
con
un
dazio
su
ogni
rotolo
(800
grammi)
di
carne.
Con
un’opera
dispendiosissima,
come
dicono
le
cronache
del
tempo,
volendo
collegare
la
città
al
borgo
sottostante,
nel
1687
ebbero
inizio
i
lavori
di
costruzione
delle Chiazzette.
La
strada
pedonale
costituita
da
sette
rampe
ognuna
delle
quali
terminante
con
un
piccolo
spazio
(da
qui
il
nome
di
Chiazzette)
in
parte
è
scavata
nella
pietra
lavica,
in
parte
è
adagiata
su
archi
baluardi.
L’opera,
per
l’epoca
un
impegno
architettonico
di
non
poco
conto,
oltre
ad
avere
la
funzione
di
collegamento,
aveva
una
grande
utilità
sociale
in
quanto
permetteva
il
trasporto
dell’acqua
potabile
dalla
sorgente
fino
alla
città.
Dopo
l’ingresso
che
si
trova
sulla Panoramica,
percorrendo
i
primi
gradini
di
pietra
lavica
si
incontra
una
cappelletta
che
custodisce
l’immagine
di
una Madonna
col
Bambino e
sulla
cui
facciata
si
legge: M.
D.
Gerlando
M.
Genuardi-il
primo
Vescovo
di
Aci
concede
quaranta
giorni
di
indulgenze
a
chi
devotamente
recita
un’Ave
a
questa
sacra
immagine
di
Maria.
Nella
quarta
rampa
si
trova
un’edicola
votiva
dedicata
al SS.
Crocifisso
della
Buona
Nuova risalente
alla
prima
metà
dell’Ottocento.

Compiendo
tutta
la
discesa
si
giunge
ad
un
bivio.
A
destra
si
apre
una
stradina
che
porta
sino
ad
un
mulino
alimentato
nel
passato
dalle
acque
della
sorgente
di Miuccio e
ancora
oggi
funzionante.
Sulla
spiaggia,
nei
pressi
di
questo
mulino
fuoriescono
diversi
rivoli
d’acqua
che
sono
stati
identificati
come
la
foce
del
fiume Aci.
Proseguendo
verso
sinistra
si
ci
immette
verso
il
centro
abitato
di Santa
Maria
la
Scala.
L’intero
borgo
marinaro,
quasi
di
verghiana
memoria,
si
sviluppa
attorno
allo Scalo
Grande cioè
il
porticciolo
il
quale
è
protetto
dal
molo
foraneo
e
dalla Pietra
Sarpa,
piccolo
faraglione
creato
dall’Etna sulla
cui
sommità
è
presente
una garritta,
cioè
una
torretta
di
avvistamento.
A
nord
dell’abitato
si
trova
ciò
che
rimane
della Grotta
delle
Colombe che
secondo
il
mito
era
il
rifugio
segreto
di Aci
e
Galatea.
La
volta
della
grotta
era
sostenuto
da
uno
scoglio
dalla
curiosa
forma
di
pugno
che
nel
1972
si
inabissò
a
causa
di
una
violenta
mareggiata.
Le
case
dei
pescatori
che
si
confondono
con
la
ottocentesche
dimore
di
villeggiatura
della
borghesia
acese
conferiscono
al
borgo
un
aspetto
del
tutto
particolare.
La
piccola
chiesa,
costruita
nel
1550
su
un’edicola
del
Trecento,
fu
ricostruita
dopo
il
terremoto
del
1693.
Il
campanile
è
di
recente
costruzione
infatti
è
stato
aggiunto
intorno
al
1920.
All’interno
della
chiesa,
oltre
ad
opere
di Michele
Vecchio,
è
custodita
la
tela
della Madonna
della
Scala
con
Santa
Venera
e
Santa
Tecla
di Giacinto
Platania.
Gli
affreschi La
gloria
dell’Agnello
e
La
Fede,
la
Speranza
e
la
Carità di Giovanni
Grasso impreziosiscono
l’abside.
Dietro
la
chiesa,
con
lo
sguardo
che
si
apre
verso
il
mare
si
trova
la
statua
della Madonna
della
Scala che
sovrasta
e
dà
il
nome
al
borgo
e
la
cui
festa
viene
celebrata
l’ultima
domenica
d’agosto.
Carnevale
In
un
circuito
barocco,
ogni
anno
ad
Acireale
si
svolge
quello
che
viene
definito il
più
bel
Carnevale
di
Sicilia.
La
bellezza
del
centro
storico
barocco
infatti
fa
da
cornice alla
sfilata
delle
opere
dei
maestri
della
carta
pesta che
realizzano
carri
di
altissima
fattura
e
animati
da
movimenti
meccanici
ed
idraulici
che
li
rendono
unici
nel
loro
genere.
Il
Carnevale
di
Acireale, tra
i
più
antichi
della
Sicilia,
vanta
un’
origine
lontana
nel
tempo.
Il
primo
documento
ufficiale
della
manifestazione,
risale
al
1594
e
certifica
un
mandato
di
pagamento
che l’Universitas
di
Jaci stabilì
per
l’acquisto
di
carni,
vino
e
formaggi
destinati
ai
festeggiamenti
del Carnilivari.
Ma
esistono
anche
dei
manoscritti
che
attestano
durante
il
XVIII
secolo,
l’usanza
di
”
battagliare”
attraverso
il
lancio
di
uova
marce,
arance
e
limoni
,
che
però
fu
vietata
il
3
marzo
del
1612
con
un
bando
della
Corte
criminale
visti
i
gravi
fatti
accaduti
gli
anni
precedenti.
Nel 1667 entrò
in
scena
per
la
prima
volta
nel
Carnevale
di
Acireale la
maschera
dell’Abbatazzu,
detta
anche
Pueta
Minituzzu
perché
si
esibiva
recitando
poesie
grottesche
e
maliziose.
L’Abbatazzu,
che
ironizzava
sul
clero
acese
e
in
particolare
su
Mons.
Michelangelo
Bonadies
vescovo
di
Catania,
diocesi
che
allora
comprendeva
anche
Acireale,
indossava
abiti
di
broccato,
andava
in
giro
con
grossi
libri
e
portava
al
collo
un
tovagliolo
un
tempo
segno
di
riconoscimento
delle
persone
infette,
molto
probabilmente
per
esorcizzare
la
paura
della
epidemie
sempre
incombenti
durante
il
XVII
secolo.
La
tragedia
del terremoto
del
1693 impose
la
sospensione
della
manifestazione
per
diversi
anni
ma
già
agli
inizi
del
1700
la
volontà
di
ricostruzione
degli
acesi
portò
a
reintrodurre
i
festeggiamenti
del
Carnevale.
Dopo
l’Abbatazzu
nel
Carnevale
acese
comparve
la
maschera
del Baruni che
con
addosso
un
grande
mantello
nero
e
un
cilindro
ma
con
atteggiamenti
da
bifolco
metteva
alla
berlina
la
nobiltà
della
città.
Poi
fu
la
volta
dei Manti che
avvolti
in
grandi
mantelli
di
seta
nera
celavano
la
loro
identità.
La
figura
dei
Manti
fu
sostituita
dal
Domino,
costume
che
nei
primi
anni
del
‘900
fu
vietato
a
causa
dei
gravi
reati
che
venivano
commessi
nel
periodo
del
Carnevale
in
quanto
questo
travestimento
permetteva
di
mescolarsi
tra
la
folla
e
celare
la
propria
identità.
Nell’800
il
Carnevale
conosce
l’introduzione
della “cassariata” o
la
sfilata
dei
lando
cioè
carrozze
dalle
quali
i
nobili
della
città
lanciavano
confetti.
In
questo
periodo
la
manifestazione
assume
il
carattere
di
festa
organizzata.
Nel 1880 hanno
inizio
le sfilate
dei
carri
allegorici in
carta
pesta
anche
perché
ad
Acireale
esistevano
già
degli
artigiani
esperti
in
questa
arte.
Nel 1930 compaiono
per
la
prima
volta
le
sfilate
delle macchine
infiorate cioè
automobili
che
venivano
addobbate
con
fiori.
Oggi
la
maestria
degli
artigiani
acesi
unita
al
sofisticato
contributo
della
tecnologia
consegnano
alla
città
di
Acireale
e
ai
visitatori
che
ogni
anno
arrivano
da
ogni
parte
d’Italia
uno
spettacolo
unico
al
mondo.
La
sfilata
dei
carri
si
snoda
lungo
il
circuito
barocco
della
città
e
culmina
in
piazza
Duomo
dove
ogni
carro
dà
spettacolo
con
la
propria
esibizione.
In
passato
le
sfilate
si
svolgevano
dal
giovedì
al
martedì
grasso
ma
da
alcuni
decenni
il
Carnevale
di
Acireale
ha
una
durata
di
tre
settimane
e
si
conclude
la
sera
del
martedì
grasso
quando
avviene
la
premiazione
dei
vari
concorsi
e
il
rogo
di
Re
Carnevale.
Protagonisti
indiscussi
del
Carnevale
di
Acireale
sono i
carri
allegorico-grotteschi
in
carta
pesta.

La
scuola
della
carta
pesta
di
Acireale
ha
raggiunto
ormai
livelli
di
eccellenza
e
i
maestri
artigiani
acesi
sfoderano
tutta
la
loro
maestria
per
realizzare
il
soggetto
che
di
solito
riguarda
la
satira
politica
o
il
costume
sociale.
Quella
della carta
pesta è
un’arte
che
richiede
un
procedimento
lungo
e
prevede
diversi
passaggi.
Tutto
ha
inizio
dall’argilla
con
la
quale
vengono
modellate
le
maschere.
Sull’argilla
viene
spalmato
un
strato
di
gesso
e
acqua
sul
quale
una
volta
asciutto
vengono
applicate
strisce
di
carta
prima
solo
bagnata
e
successivamente
imbevuta
di
colla
.
Tirata
fuori
dallo
stampo
la
maschera,
si
procede
con
la
gessatura
con
la
quale
viene
prima
pennellata
con
gesso
liquido
poi
viene
scartavetrata
e
verniciata.
Una
volta
ultimata
viene
montata
sul
carro
nel
quale
prende
vita
attraverso
giochi
di
luci
e
movimenti
durante
le
sfilate.
Una
peculiarità
che
vanta
solo
il
Carnevale
di
Acireale
è
la
sfilata
di
quelli
che
un
tempo
erano
le
macchine
infiorate
ma
che
oggi
sono
diventati
dei
veri
e
propri carri
infiorati.
La
realizzazione
del
soggetto
avviene
attraverso l’utilizzo
di
fiori che
vengono
applicati
ad
una
impalcatura
di
ferro,
reti
metalliche
e
polistirolo.
Anche
i
carri
infiorati
sono
animati
da
giochi
di
luci
e
movimenti
meccanici.
Altro
elemento
caratterizzante
il
Carnevale
acese
è
la partecipazione
del
pubblico che
in
maniera
libera
e
gratuitamente
lungo
tutto
il
circuito
può
godere
dello
spettacolo
delle
parate
in
uno
sfondo
di
luci,
musica
e
colori
che
trasformano
la
città
in
un
palcoscenico
dove
tutti
diventano
protagonisti.
Da
qualche
anno
Acireale
replica
lo
spettacolo
del Carnevale
anche
in
estate.
Ad
agosto
durante
il
cosiddetto
Carnevale
estivo
i
carri
tornano
a
sfilare
esibendosi
non
solo
per
gli
acesi
ma
anche
per
i
numerosi
turisti
che
in
questo
periodo
affollano
la
città.

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