Duomo di Monza

La cappella di Teodolinda

La cappella, chiusa da una cancellata, è situata a sinistra dell'abside centrale. E' costituita da una volta a forma poligonale gotica coperta da costoloni e custodisce la Corona Ferrea ed il sarcofago dove nel 1308 vennero traslate le spoglie della regina Teodolinda.

La cappella fu affrescata dagli Zavattari, una famiglia di pittori attivi in Lombardia nella prima metà del ‘400. La rappresentazione è tratta da episodi tratti dalla Historia Langobardorum di Paolo Diacono e da una leggenda tardo medievale riportata dal cronista monzese Bonincontro Morigia (XIV secolo), che narra del sogno della regina Teodolinda per la fondazione del duomo.

Le scene degli affreschi sono 45, distribuite su cinque fasce sovrapposte per un totale di circa 500 m2. Probabilmente Franceschino, il padre, concepì l'intero ciclo e dipinse le scene 1-12; il secondo maestro, forse il figlio Giovanni, affrescò dalla 13 alla 34, poi suo fratello Gregorio dalla 35 alla 41 e infine Ambrogio, il fratello più giovane, le quattro scene finali dalla 42 alla 45. La scena 32, firmata e datata 1444, viene considerata il punto di passaggio tra la prima e la seconda fase, come sembrano comprovare anche alcuni recenti documenti d'archivio.

Al ciclo degli affreschi che narrano la leggenda, fa da introduzione un dipinto sul frontale dell’arco d’ingresso alla cappella, che, insieme a quelli degli spicchi delle volte, rappresentano santi ed evangelisti in trono, di autore ignoto. La singolarità di questi affreschi è quella di aver rappresentato scene della storia longobarda negli sfarzosi costumi dell’epoca dei Visconti e di aver inserito in un luogo sacro scene di vita profana. Il probabile committente fu Filippo Maria Visconti.

L'inizio dei lavori è da fissarsi al 1444, data riportata dall'iscrizione sulla parete di destra, mentre il loro completamento dovette avvenire entro il 1446. Il ciclo costituisce una delle più significative testimonianze della pittura tardogotica in Lombardia.

GLI AFFRESCHI DEGLI ZAVATTARI (a cura di Primo Casalini) - Il massimo splendore di Monza iniziò con l'arrivo dei Longobardi. E' una storia diffusa ma non del tutto vera, perché Teodorico circa un secolo prima diede una buona mano con i suoi Ostrogoti, ma sta di fatto che ancor oggi a Monza, nel Museo Serpero - attiguo al Duomo - è conservato un tesoro di quei tempi con dei pezzi unici, malgrado alcune spoliazioni, ivi compresa quella del solito Napoleone. 

Nel Duomo è custodita la Corona Ferrea, che fu eseguita comunque in tempi posteriori rispetto a quelli di Teodolinda: è costruita attorno ad una anello, il Sacro Chiodo, con sei segmenti d'oro uniti a cerniera, e decorata con smalti e pietre preziose. Inoltre, un po' prima della metà del '400, fu eseguita nella cappella a sinistra dell'altare maggiore una vasta decorazione ad affresco il cui tema è la storia di Teodolinda, una storia-leggenda. 

Il ciclo di affreschi fu eseguito dalla bottega degli Zavattari, una famiglia di artisti-artigiani di cui si hanno notizie per cinque generazioni, dagli ultimi anni del '300 all'inizio del '500. Come usava allora, non erano solo pittori, ma certamente miniatori e autori di disegni per vetrate di chiese; questa loro versatilità la si nota anche a Monza, nelle ricche decorazioni spesso dorate, in certe finiture a secco, il tipico lavorio alla fine degli affreschi del gotico internazionale, la cui curiosa conseguenza è a volte di far assomigliare gli affreschi a delle enormi miniature.  

Teodolinda fu per diversi motivi un fiore all'occhiello della chiesa di Roma. Anzitutto era cattolica, mentre ai suoi tempi i Longobardi prevalentemente erano ariani (l'eresia che negava la natura divina di Cristo) o pagani. Ma Teodolinda non era longobarda, era la figlia di Garibaldo duca di Baviera. Prima sposò il re longobardo Autari, e dopo la sua morte sposò Agilulfo, duca di Torino, che divenne re dei Longobardi anche in virtù di questo matrimonio.

Fece costruire dal 595 in poi, vicino al suo palazzo di Monza, una chiesa dedicata a San Giovanni Battista, che dotò di rendite e tesori. Della chiesa costruita da Teodolinda non è rimasto nulla o quasi, era più o meno corrispondente come ubicazione all'attuale Duomo. 

Teodolinda fu sempre sostenuta da Papa Gregorio, poi San Gregorio Magno, e ricevette diversi doni dal Papa, come segno di attenzione della Chiesa di Roma che tramite Teodolinda mirava alla conversione dei longobardi ed a migliorare il trattamento riservato a molti vescovi; in quei tempi ad esempio il vescovo di Milano era esule a Genova, sotto protezione bizantina. Ancora oggi, nella liturgia, a Monza vige il rito romano, diverso dal rito ambrosiano utilizzato a Milano. 

Una altro episodio di contrapposizione ci fu diversi secoli dopo, quando Monza fu la sede di Federico Barbarossa durante le sue lotte contro Milano. L'iniziatore della fortuna di Monza fu Teodorico, che apprezzava Monza sia perché prossima a Milano - in cui l'ostilità verso le popolazioni barbariche era più diffusa per la tradizione amministrativa e burocratica dell'impero - sia per la maggiore salubrità climatica. Nel 603 la chiesa appena costruita fu utilizzata per il battesimo di Adaloaldo, figlio di Teodolinda e di Agilulfo; il battesimo fu officiato dall'abate benedettino Secondo di Non, che era consigliere spirituale della regina. Teodolinda morì nel 627 e fu sepolta nella chiesa da lei voluta e realizzata.

Vediamo quale storia raccontano gli Zavattari, e risalendo a ritroso vedremo quello che raccontano gli scrittori a cui gli Zavattari fanno riferimento, cioè Paolo di Warnefrido (Paolo Diacono) e Bonincontro Morigia, ed ancora più indietro come più o meno fu la storia vera in base ai documenti che ci sono rimasti, e soprattutto alle date, che hanno la testa dura, cioè se accertate dicono cose che non possono essere smentite. I tre livelli di racconto sono parzialmente diversi fra di loro e cercheremo di capirne il perché. Cominciamo dagli Zavattari, per meglio dire da quelli che decisero il programma iconografico che gli Zavattari eseguirono. Le scene sono rappresentate in 45 riquadri disposti in cinque registri, e si leggono orizzontalmente da destra a sinistra, dal registro più alto a quello più basso.

La sorella di Childeperto, re dei Franchi, riceve gli ambasciatori di Autari, re dei Longobardi, e rifiuta di sposarlo. Allora gli ambasciatori si recano in Baviera e chiedono per Autari la mano di Teodolinda, figlia del duca Garibaldo. Poi vanno a Verona da Autari che si reca in incognito in Baviera per conoscere Teodolinda, che gli porge da bere. Autari torna in Italia e festeggia le nozze imminenti, ma i Franchi attaccano Garibaldo sconfiggendolo e Teodolinda fugge in Italia. Autari e Teodolinda si sposano presso Verona, e Teodolinda viene dichiarata regina dei Longobardi. Autari entra vittorioso in Reggio Calabria ma poco dopo muore a Pavia e si svolgono le sue esequie. 

Teodolinda chiama Agilulfo, duca di Torino, per sposarlo, Agilulfo riceve il battesimo a Pavia, sposa Teodolinda e viene incoronato re dei Longobardi. Banchetto e caccia attorno a Pavia. Teodolinda sogna il luogo dove edificare la basilica di San Giovanni Battista, ed il sogno si realizza a Monza; lo Spirito Santo sotto forma di colomba indica il posto giusto a Teodolinda. Si tagliano piante per procurarsi il legno necessario, fervono tutti i lavori, si distruggono idoli pagani per costruire nuovi tesori per la chiesa. Teodolinda ed il figlio Adaloaldo si danno da fare , e l'arciprete riceve ben volentieri i doni. Muore Agilulfo. Arrivano reliquie da Papa Gregorio Magno. Muore Teodolinda e l'arciprete ne officia i solenni funerali. 

Con un salto temporale, Costante II, imperatore bizantino, sbarca a Taranto per abbattere il regno longobardo, ma viene dissuaso da un eremita che gli spiega che il regno è protetto da San Giovanni Battista per volontà di Teodolinda, e Costante II rinuncia alla sua impresa.

Gli ambasciatori vanno e vengono da una corte all'altra e si riceve, si banchetta, si beve e si fa musica di frequente, tutte occasioni ghiotte per le rappresentazioni cortesi degli Zavattari.

La storia raccontata dagli Zavattari non è in fondo diversa da quella che racconta Paolo di Warnefrido nella sua Historia Langobardorum, scritta circa due secoli dopo gli avvenimenti e dalla cronaca di Bonincontro Morigia, scritta nel XIV secolo. Da Bonincontro è tratto l'episodio etimologico di come a Teodolinda che riposava sulle rive del Lambro apparisse lo Spirito Santo sotto forma di colomba con un cartiglio con su scritto “Modo” e la regina rispondesse “Etiam” da cui Modoetiam, cioè Monza. C'è negli Zavattari una insistenza maggiore sui doni e sulle reliquie della chiesa, sugli interventi degli ecclesiastici, l'arciprete nelle scene finali è una specie di deus ex machina, ma più o meno è sempre la favola bella – con un fondo di realtà - della regina che converte i longobardi alla vera fede.

Secondo di Non, abate benedettino e consigliere spirituale di Teodolinda, compilò una cronaca, e circa due secoli dopo questa cronaca fu utilizzata da Paolo di Warnefrido (dal 787 in poi). Un'altra fonte da cui attinse fu l'Origo gentis longobardorum compilata attorno al 650 sulla base della tradizione orale. Per i Franchi era disponibile la Historia Francorum di Gregorio, vescovo di Tours: è la saga dei Merovingi fino al 590. Paolo era di nobile famiglia longobarda, ma strettamente legato a Carlomagno, difatti insegnò grammatica alla sua corte dal 782 al 786. Negli anni successivi, si ritirò nella abbazia di Montecassino e lì scrisse la sua Historia Langobardorum, importante fra l'altro anche per quello che riguarda la presenza dei Longobardi a Cividale.

I Franchi erano da tempo i burattinai della situazione italiana, Paolo lo sa bene e ne tiene conto nella redazione della sua storia, anche se la chiude con la fine del regno di Liutprando (744), prima delle guerre finali fra Franchi e Longobardi. Quindi tira in ballo il fascino femminile per coprire le manovre che oltre ai Longobardi coinvolgevano almeno quattro altri attori: i Franchi, i Bizantini, il Papa e la popolazione goto-romana con cui bisognava pure fare i conti. Alcune date ci aiutano a capire come si svolsero le cose; gli eventi fondamentali si svolgono in quattro anni successivi: 588, 589, 590, 591.

588: non ci si mette d'accordo per il matrimonio di Autari con la sorella di Childeperto re dei Franchi, e subentra il fidanzamento di Autari con Teodolinda, figlia di Garibaldo, duca di Baviera.

589: i Franchi guerreggiano con i Bavari, che vengono sconfitti, Teodolinda ed il fratello Gundoaldo si rifugiano da Autari, che sposa Teodolinda il 15 maggio nei campi di Sardi vicino a Verona.

590: il 5 settembre muore avvelenato (da chi?) Autari, poco dopo Teodolinda sposa Agilulfo che a novembre si proclama re dei Longobardi.

591: a maggio Agilulfo viene accettato come re da tutti i duchi Longobardi.

Non ha proprio l'apparenza di una storia rosa, e così sarà anche in seguito, con Gundoaldo, fratello di Teodolinda, ucciso nel 612, con Adaloaldo, figlio di Teodolinda, sostituito come re nel 625 da Arioaldo, marito di Guneperga, figlia di Teodolinda, che in tempi successivi sposerà Rotari, quello del ben noto Editto.

E' l'incrocio di una faida familiare con la lotta politica, militare e religiosa che era in corso. Mentre sembra che anche Agilulfo si sia convertito al cattolicesimo, Arioaldo e Rotari, che vengono dopo, continuano ad essere ariani. La politica di Teodolinda era probabilmente la più saggia, vista la situazione: appoggiarsi alla popolazione goto-romana ed al Papa, che così manteneva un suo spazio di autonomia rispetto a Bisanzio. Ma l'abile diplomazia dei bizantini e la forza militare dei Franchi rendevano precario un equilibrio del genere. Tempi aspri e difficili, in ogni caso.

Di queste crude storie di alto medioevo, gli Zavattari danno una rappresentazione che Renata Negri definisce benissimo: aprire la porta della cappella è come sollevare il coperchio di un cofanetto prezioso. L'oro è dovunque: nei cieli, nelle corone, nei gioielli, ma anche nei capelli, negli elmi, sulle vesti, negli strumenti musicali, sulle tavole imbandite, nella coppa che i reali fidanzati si scambiano, negli speroni, negli scettri sottili, che sembrano bastoncelli da passeggio, sui paramenti sacri, nelle croci astili, nei candelabri, perfino sulle candele, nelle bardature dei cavalli, numerosi e che sembra guardino incuriositi noi visitatori. Oro a rilievo sulle pastiglie di gesso predisposte, oppure punzonato sul fondo, come facevano per le carte da gioco, i Tarocchi Viscontei in cui gli Zavattari erano coinvolti con Bonifacio Bembo. 

Parte della decorazione a secco si è persa attraverso i secoli, anche a causa di vecchi restauri non appropriati, ma lo stato di conservazione è assai buono, se confrontato con quello di opere degli stessi tempi e dello stesso genere, che spesso sono completamente scomparse.

Quasi tutti i riquadri sono affollatissimi, i personaggi sbucano da tutte le parti, si accalcano uno dietro l'altro, sarebbe meglio dire uno sull'altro, ma sembra più che altro un soffice pigia pigia, anche per la rappresentazione dei corpi tutt'altro che anatomicamente vigorosa, sembra che siano le vesti a reggere i corpi, non viceversa. 

La cappella è alta e relativamente stretta, come tante cappelle gotiche; i registri sono cinque uno sovrapposto all'altro, e quindi, anche se è buona l'illuminazione, si possono ammirare veramente nei dettagli - che in questo tipo di affreschi sono fondamentali - solo i primi due registri; occorrerebbe una specie di piattaforma su un elevatore, e non scherzo del tutto. Non è certo il solo caso di difficoltà visive nel contemplare opere d'arte: si ricordino gli affreschi di Piero della Francesca di Arezzo, anch'essi sulle pareti di una cappella gotica (e realizzati non molto tempo dopo gli affreschi di Monza). 

Ma anche più tardi, nel Cinquecento, non si badava sempre al punto di vista di chi guardava: il Correggio, nella cupola del San Giovanni Evangelista di Parma è rimasto per secoli pressoché invisibile, a meno di essere dotati di torce potenti – difatti ne tenne conto nella successiva cupola del Duomo, facendo aprire degli oculi nelle pareti. Lo stesso Michelangelo, nella Sistina, si accorse dopo aver dipinto il riquadro del Diluvio che le figure erano troppo piccole viste dal basso e cambiò completamente le modalità rappresentative. 

Mentre altri artisti erano spontaneamente attenti alla visibilità: Giotto nella cappella degli Scrovegni, ad esempio. Ho avuto la fortuna, qualche tempo fa, di ammirare gli Angeli a Saronno di Gaudenzio Ferrari da breve distanza, ed è tutta un'altra cosa che osservarli guardando dal basso, laggiù in fondo alla chiesa. 

Sulla parete destra della cappella compare, vicino alla data 1444, la scritta seguente:

“Suspice qui transis, ut vivos corpore vultus
peneque spirantes, ut signa simillima verbis,
De Zavatariis hanc ornavere capellam
Praeter in excelso convexae picta truinae”

Il terzo verso per molto tempo fu male interpretato: si pensò che gli Zavattari fossero i committenti, non gli esecutori, e soltanto quando cominciarono a comparire i documenti ci si rese conto dell'errore. 

Il 1444 non è l'anno in cui tutti gli affreschi furono finiti, ma la fine di un primo ciclo e l'inizio del secondo. Difatti fu rintracciato un documento del 1445 in cui si stipulano accordi per un ciclo successivo, probabilmente per i riquadri dei due registri inferiori. Nel documento si citano Franceschino Zavattari ed i figli Gregorio e Giovanni. Franceschino – che aveva un altro figlio, Ambrogio - era a sua volta figlio di Cristoforo, attivo nel Duomo di Milano nei primi anni del Quattrocento. 

Si ritiene quindi che l'esecuzione degli affreschi si sia svolta fra il 1440 ed il 1446. Nel contratto del 1445 risultano ben sette canonici con un solo fabbriciere in rappresentanza del comune; questa presenza preponderante spiega come mai negli affreschi spesso si trattino argomenti che riguardano la chiesa: doni, reliquie, battesimo di Adaloaldo, esequie di Autari ed infine di Teodolinda. Ma l'impressione visiva è in gran parte profana: è la vita cortese all'inizio del Quattrocento, il tipico tema del gotico internazionale. Anche a Castiglione Olona, in un contesto un po' diverso, qualche anno prima Masolino aveva fornito, nel convito di Erode, una rappresentazione da corte quattrocentesca, in cui diviene figurativamente secondario il tema tragico del martirio di San Giovanni Battista.

Nel 1441 aveva avuto luogo il matrimonio fra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, dopo un più che decennale fidanzamento tutto politico. Difatti Bianca Maria era figlia di Filippo Maria Visconti, Duca di Milano, e tramite questo matrimonio lo Sforza pensava di aprirsi la strada verso il potere, cosa che gli riuscì nel 1450, tre anni dopo la morte di Filippo Maria. Si è fatta quindi l'ipotesi assai intrigante che dietro la rappresentazione del matrimonio di Teodolinda con Agilulfo si adombrassero le nozze di Bianca Maria con Francesco, cosa non probabile perché Filippo Maria fino alla sua morte nel 1447 cercò sempre di tenere lo Sforza lontano dalla Lombardia. Ma nella cappella, ben 28 riquadri su 45 riguardano temi di carattere matrimoniale… Ci sono anche gli stemmi di Filippo Maria Visconti e di Francesco Sforza, quest'ultimo chiaramente apposto dopo la morte del Visconti. Sembra in definitiva molto probabile che la decorazione sia sorta per iniziativa dei canonici locali, sia pure con l'approvazione di Filippo Maria.

Negli affreschi hanno operato certamente più di due esecutori, anche se è chiaro che c'è una mente direttiva che organizza le rappresentazioni; non solo, negli affreschi eseguiti per ultimi è probabile che ci sia stato qualche intervento posteriore: maggiore attenzione alle fisionomie – veri e propri ritratti, specie se si tratta di ecclesiastici. Un tentativo di rappresentazione rinascimentale, ma l'ispirazione degli Zavattari è assai vicina a quella di Michelino da Besozzo, e prima ancora a Giovannino de' Grassi. 

Gli affreschi compiuti da Pisanello a Verona ed a Mantova attorno al 1435 erano certamente conosciuti, specie le scene del ciclo cavalleresco nel castello di Mantova. Sembra minore l'influenza degli affreschi di Masolino a Castiglione Olona, pure così recenti; molto diverso è il senso spaziale che in Masolino è toscano, sia pure con una prospettiva più sognata che reale. Inoltre l'episodio di Castiglione Olona è ben delimitato come tempo e come committenza, mentre Michelino da Besozzo ed Antonio Pisanello erano assai noti agli Zavattari, ed in genere nell'Italia settentrionale. Per comprendere la situazione, è bene ricordare la frase di André Chastel: “La Lombardia, il paese tradizionale dei tagliatori di pietre e dei buoni decoratori, grazie alle cave delle Alpi, è una regione lenta; era giunta tardi al gotico, e giunse tardi al Rinascimento”. 

Le prime opere di Vincenzo Foppa sono infatti della metà degli anni '50; si è pensato che se ne sia tenuto conto a Monza, ad esempio nei due dignitari che si guardano faccia a faccia da soli nel riquadro della scelta di Agilulfo come re dei Longobardi. Una epoca di graduale transizione quindi, in cui gli Zavattari, da artigiani assai concreti, si tengono vicini alle vecchie certezze, che erano poi quelle che i canonici desideravano da loro, non accorgendosi che in tal modo il loro programma di esaltazione ecclesiastica locale veniva offuscato dall'affollato, sorridente, profano racconto cortese.

Nella scelta delle immagini ho privilegiato i dettagli rispetto alle scene vaste, sia per ragioni di visibilità sia perché erano gli episodi che probabilmente gli Zavattari amavano più eseguire, trattando le grandi pareti del Duomo di Monza con lo stesso gusto con cui affrontavano le vetrate del Duomo di Milano, le miniature dell'ouvraige de Lombardie o addirittura le carte da gioco, i Tarocchi per i Visconti. Il gusto per le preziosità nelle opere d'arte di grandi dimensioni non finirà con loro: alla Pinacoteca di Breera c'è un'opera del 1494, la Pala Sforzesca, in cui lo sconosciuto autore, pur dopo aver visto il Foppa, Bramante e Leonardo (!) ha ancora il gusto per la materia e le preziosità che si trova negli affreschi degli Zavattari, solo che lo esprime con una pesantezza un po' greve, rispetto alla levità favolistica che ancor oggi apprezziamo negli affreschi di Monza.

DESCRIZIONE - La numerazione parte dall'alto a sinistra ossia da nord a sud. Le scene da 1 a 23 descrivono i preliminari e le nozze tra Teodolinda e Autari, fino alla morte del re; da 24 a 30 sono raffigurati i preliminari e le nozze tra la regina e il secondo marito Agilulfo; da 31 a 41 si narra la nascita e sviluppo del duomo, la morte di Agilulfo e quella di Teodolinda; dalla 41 alla 45 infine si narra dell'approdo sfortunato dell'imperatore Costante e del suo ritorno a Bisanzio. 

Il ritmo della narrazione varia da molto veloce a molto lento, sottolineando alcuni episodi storici di particolare importanza, secondo gli autori e i committenti. In particolare si contano ben 28 scene nuziali o di preparazione al matrimonio, che hanno fatto pensare a un collegamento con la vicenda di Bianca Maria Visconti e il passaggio di potere tra i Visconti e gli Sforza: l'analogia con la vicenda della regina longobarda, che scelse il nuovo re prendendolo come marito, legittimerebbe la presa di potere di Francesco Sforza per via matrimoniale nel 1441.

Molti sono gli episodi di vita cortese, come i balli, i banchetti, le feste, le battute di caccia, con una preziosa descrizione di abiti, acconciature, armi ed armature, che forniscono uno straordinario spaccato della vita di corte a Milano nel XV secolo.

1.     Autari, re dei Longobardi, manda inviati a Childeberto, re dei Franchi, per chiedere la mano della sorella Inganda (lunettone)
2.     Childeberto riceve gli inviati, ma ha già promesso la sorella al figlio re di Spagna (lunettone)
3.     Ritorno in Italia degli inviati longobardi (inizio della seconda fascia, quella più in alto, da sinistra)
4.     Autari incarica gli invitati di recarsi alla corte di Garibaldo duca dei Bavari, per chiedere la mano della figlia Teodolinda
5.     Partenza degli inviati per la Baviera
6.     Garibaldo riceve gli invitati longobardi ed esaudisce la loro richiesta
7.     Ritorno degli invitati in Italia
8.     Autari riceve i suoi invitati accompagnati da una delegazione dei Bavari
9.     Autari si reca in Baviera in incognito
10.   Teodolinda accoglie la delegazione e porge ad Autari la bevanda di benvenuto senza riconoscerlo
11.   Autari torna in Italia
12.   Festa alla corte longobarda
13.   Il re dei Franchi Childeberto muove guerra ai Longobardi e sconfigge il duca di Baviera (inizio della terza fascia, da sinistra)
14.   Garibaldo, Teodolinda e il fratello di lei fuggono in Italia
15.   Arrivo di Teodolinda in terra longobarda
16.   Gli inviati informano Autari dell'arrivo di Teodolinda
17.   Autari a cavallo va incontro a Teodolinda
18.   Incontro di Teodolinda e Autari presso Verona
19.   Matrimonio della coppia (15 maggio 590)
20.   Ingresso della coppia a Verona
21.   Festeggiamenti per il matrimonio a Verona
22.   Autari conquista Reggio Calabria
23.   Autari muore avvelenato a Pavia (5 settembre 590) (inizio della quarta fascia, da sinistra)
24.   Teodolinda viene confermata regina dei Longobardi e sceglie il secondo marito. La sua scelta cade su Agilulfo, duca di Torino
25.   Agilulfo riceve un messaggio di Teodolinda
26.   Agilulfo e Teodolinda si incontrano a Lomello
27.   Agilulfo rinnega l'arianesimo, si converte alla fede cattolica e prende il nome di Paolo
28.   Incoronazione di Agilulfo a re dei Longobardi
29.   Matrimonio di Teodolinda e Agilulfo
30.   Banchetto di nozze
31.   Partenza della coppia reale per la caccia
32.   Scena divisa in due parti:
       - Teodolinda sogna che la colomba dello Spirito Santo le indicherà il luogo dove dovrà erigere la sua chiesa
       - Partenza della regina alla ricerca del luogo adatto
33.   Apparizione dello Spirito Santo in forma di colomba
34.   Posa della prima pietra del duomo di Monza (inizio della quinta fascia, quella più in basso, da sinistra)
35.   Teodolinda fa trasformare gli idoli pagani nel tesoro cristiano della nuova chiesa
36.   Donazioni di Teodolinda al duomo
37.   Adaloaldo, il giorno della sua incoronazione, dona alla chiesa altri tesori
38.   Morte di Agilulfo
39.   Papa Gregorio Magno consegna al diacono Giovanni doni per il duomo di Monza, fra cui reliquie e codici
40.   Il diacono Giovanni consegna i doni al vescovo di Monza alla presenza di Teodolinda
41.   Morte della regina Teodolinda
42.   L'imperatore Costante IV parte per cacciare i Longobardi dall'Italia
43.   Arrivo in Italia dell'imperatore Costante
44.   Un eremita predice all'imperatore che non riuscirà a sconfiggere Longobardi
45.   L'imperatore Costante lascia l'Italia senza combattere

TECNICA - La tecnica pittorica è molto complessa e preziosa, con affresco, tempera a secco, decorazioni a rilievo, dorature in foglia e in pastiglia, come in una grande miniatura monumentale.

STILE - Anche se in parte rappresentano fatti storici, le scene affrescate esprimono un ambiente ideale, con personaggi nei costumi di epoca viscontea contro un cielo d'oro.

Lo stile di queste pitture mostra un'adesione tarda ai modi Michelino da Besozzo, con linee eleganti e colori tenui. Grande attenzione è posta ai dettagli, mentre le figure sembrano attonite e senza peso,

Il frontale dell'arco d'ingresso alla cappella e la volta sono dipinti con figure di santi ed evangelisti da un ignoto pittore del XV secolo. Al centro della cappella un altare custodisce lo scrigno della Corona Ferrea, il diadema con il quale furono incoronati re longobardi, re d'Italia ed imperatori del Sacro Romano Impero.

Dietro l'altare e contro la parete di fondo si trova il sarcofago nel quale, nel 1308, il corpo della regina Teodolinda fu traslato dalla prima sepoltura nella originaria Basilica longobarda.

ALTRI ARREDI - Contro la parete di fondo della cappella si trova il sarcofago in cui nel Trecento furono traslati i resti della regina Teodolinda. Un sopralluogo ha confermato la presenza di ossa umane, resti di monili d'oro, e alcune monetine che i pellegrini medievali infilavano in segno di devozione.

Al centro della cappella è l'altare neogotico, opera di Luca Beltrami, del 1888: sopra il piano, al centro, si trova cassa metallica fortificata che contiene la teca estraibile della Corona ferrea.

Corona Ferrea e Tesoro del Duomo

La Corona Ferrea o Corona del Ferro è un'antica e preziosa corona che venne usata dall'Alto Medioevo fino al XIX secolo per l'incoronazione dei Re d'Italia. Per lungo tempo, gli imperatori del Sacro Romano Impero ricevettero questa incoronazione.

All'interno della corona vi è una lamina circolare di metallo: la tradizione vuole che essa sia stata forgiata con il ferro di uno dei chiodi che servirono alla crocifissione di Gesù. Per questo motivo la corona è venerata anche come reliquia, ed è custodita nel duomo di Monza nella Cappella di Teodolinda.

STORIA - Verso l'anno 324, su incarico del figlio Elena, madre dell'imperatore Costantino I, fece dissotterrare tutta l'area del Golgota, area che era stata interrata dall' imperatore Adriano per creare un grande terrapieno all'interno della nuova città Aelia Capitolina fatta sorgere sulle rovine di Gerusalemme dopo le rivolte Giudaiche del II secolo. Durante questi lavori, che portarono all'edificazione della Basilica costantiniana e dell' Anàstasis, secondo la tradizione cristiana furono trovati gli strumenti della Passione di Gesù, tra cui quella che venne identificata come la "vera Croce", con i chiodi ancora conficcati. Elena lasciò la croce a Gerusalemme, portando invece con sé i chiodi: tornata a Roma, con uno di essi creò un morso di cavallo, e ne fece montare un altro sull'elmo di Costantino, affinché l'imperatore ed il suo cavallo fossero protetti in battaglia.

La storica Valeriana Maspero ritiene invece che la corona fosse il diadema montato sull'elmo di Costantino, dove il sacro chiodo era già presente. L'elmo e il morso, insieme alle altre insegne imperiali, furono portati a Milano da Teodosio I, che vi risiedeva: Ambrogio li descrive nella sua orazione funebre de obitu Teodosii. Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'elmo fu portato a Costantinopoli, ma in seguito fu reclamato dal goto Teodorico il Grande, re d'Italia, il quale aveva a Monza la sua residenza estiva. I bizantini gli inviarono il diadema trattenendo la calotta dell'elmo. Il "Sacro Morso" rimase a Milano: oggi è conservato nel duomo della città.

Due secoli dopo papa Gregorio I avrebbe donato uno dei chiodi a Teodolinda, regina dei Longobardi, che fece erigere il duomo di Monza; ella fece fabbricare la corona e vi inserì il chiodo, ribattuto a forma di lamina circolare. La tradizione che legava la corona alla Passione di Cristo e al primo imperatore cristiano ne facevano un oggetto di straordinario valore simbolico, che legava il potere di chi la usava a un'origine divina e a una continuità con l'impero romano. La Corona Ferrea fu usata dai re Longobardi, e poi da Carlo Magno (che la ricevette nel 775) e dai suoi successori, per l'incoronazione dei re d'Italia.

Indagini storiche più recenti ritengono che la conformazione odierna della corona sia dovuta a interventi databili tra il V e il IX secolo. Essa potrebbe essere stata un'insegna reale ostrogota, passata poi ai Longobardi e quindi ai Carolingi, i quali, dopo averla restaurata, la donarono al Duomo di Monza, chiesa reale fatta erigere da Teodolinda.

Gli imperatori del Sacro Romano Impero venivano incoronati tre volte: una come Re di Germania, una come Re d'Italia, una come Imperatore (quest'ultima corona veniva imposta dal Papa). L'incoronazione con la Corona Ferrea si svolgeva a Milano, nella basilica di Sant'Ambrogio; altre volte tuttavia la cerimonia si svolse a Monza (nel Duomo o nella Chiesa di S.Michele) oppure a Pavia, e saltuariamente in altre città ancora.

Tra un'incoronazione e l'altra, la Corona Ferrea risiedeva nel Duomo di Monza, che per questo motivo era dichiarata "città regia", proprietà diretta dell'imperatore, e godeva di privilegi ed esenzioni fiscali.

La corona attraversò tuttavia alcune vicissitudini: nel 1248, insieme al resto del Tesoro del Duomo, fu data in pegno all'ordine degli Umiliati, a garanzia di un ingente prestito contratto dal capitolo del duomo per pagare una pesante imposta straordinaria di guerra, e fu riscattata solo nel 1319. Successivamente, sempre come parte del Tesoro, fu trafugata dal cardinale Bertrando del Poggetto durante l'occupazione crociata di Monza (1323-24) e inviata a suo zio, papa Giovanni XXII ad Avignone. La corona rimase presso il seggio papale dal 1324 al 1345: durante questo periodo fu persino rubata, ma il ladro fu catturato e la refurtiva recuperata. Al momento della restituzione, venne effettuato un nuovo censimento del tesoro nel quale si constatò il danneggiamento della corona a causa della sottrazione di due delle otto placche che la componevano: la reliquia fu quindi affidata nello stesso anno all'orafo Antellotto Bracciforte, che la rinforzò con una corona interna in argento, la quale in seguito venne identificata con il Sacro Chiodo. Da quel momento non fu possibile per un uomo indossare la Corona d'Italia sul proprio capo, date le dimensioni ridotte: le successive incoronazioni vennero infatti effettuate con l'ausilio di speciali copricapi.

Papa Innocenzo VI, nel quadro della lotta per le investiture, promulgò nel 1354 un editto con il quale rivendicava il diritto di Monza all'imposizione della Corona Ferrea nel Duomo, subito disatteso.

La tradizione della triplice incoronazione si interruppe con Carlo V, che fu incoronato nel 1530 a Bologna: abdicando nel 1556, egli divise l'impero in due, separando così i regni di Italia e Germania. Nel 1576 san Carlo Borromeo istituì il culto del Sacro Chiodo, per celebrare la venerazione della Corona e legarla all'altro Chiodo della Passione nel Duomo di Milano.

Due secoli dopo, però, il Ducato di Milano passò all'Austria e la tradizione riprese: l'imperatore Francesco I ricevette la Corona Ferrea nel 1792.

Napoleone e la Restaurazione - L'incoronazione più famosa è però quella di Napoleone Bonaparte, che si incoronò re d'Italia nel 1805: nel rito celebrato nel Duomo di Milano, egli si impose da solo la corona sul capo, pronunciando la frase: "Dio me l'ha data e guai a chi me la toglie!". Per devozione alla corona Napoleone istituì poi l'Ordine della Corona del Ferro.

Dopo la parentesi napoleonica, l'incoronazione ritornò prerogativa degli imperatori d'Austria, e Ferdinando I la ricevette nel 1838. Durante le guerre di indipendenza italiane, la corona fu requisita da Monza e portata a Vienna, ma nel 1866, dopo la sconfitta dell'Austria nella terza guerra di indipendenza, fu restituita all'Italia e ritornò a Monza.

I Savoia tuttavia non la utilizzarono mai per le incoronazioni, poiché conservarono la corona del regno di Sardegna dal quale nasce l'attuale Italia (anche nello stemma regio). Inoltre essa era diventata negli anni precedenti un simbolo della dominazione austriaca, oltre a ciò il Regno d'Italia era in conflitto con il Papato, in seguito alla presa di Roma, e l'utilizzo di una corona che era anche una preziosa reliquia era poco opportuno. In ogni caso la corona faceva parte delle insegne reali, come testimonia l'esposizione di essa ai funerali di Vittorio Emanuele II (1878), il quale aveva anche istituito l'Ordine cavalleresco della Corona d'Italia. 

Il re Umberto I forse meditava di incoronarsi con la Corona Ferrea quando il clima politico fosse stato più favorevole: nel 1890 egli inserì la Corona Ferrea nello stemma reale, e nel 1896 donò al duomo di Monza, città in cui egli amava risiedere, la teca di vetro blindato in cui essa è tuttora custodita. Il suo assassinio nel 1900 interruppe i suoi progetti, ma di nuovo alle sue esequie venne esposta la Corona e la sua tomba al Pantheon ne reca una copia bronzea. Il figlio Vittorio Emanuele III non volle alcuna cerimonia di incoronazione.

Con la proclamazione della Repubblica Italiana nel 1946, la Corona Ferrea smise definitivamente di essere un simbolo di potere, per essere solo una reliquia e un prezioso cimelio storico.

L'ultimo viaggio della corona avvenne durante la seconda guerra mondiale: temendo che i tedeschi volessero impadronirsene, nel 1943 il cardinale Ildefonso Schuster la fece trasferire segretamente in Vaticano, dove rimase fino al 1946. Essa ritornò portata da due canonici del duomo di Monza, nascosta in una cappelliera dentro una valigia.

Le incoronazioni - Lo storico monzese Bartolomeo Zucchi, che scriveva intorno al 1600, contò 34 incoronazioni avvenute fino a quel momento. Non tutte queste incoronazioni sono però comprovate da documentazioni storiche.

Tra quelle sicure, oltre a quelle longobarde, si ricordano: Carlo Magno (800), Arduino d'Ivrea (1002), Corrado II (1024), Corrado III (1128), Federico Barbarossa (1155), Enrico VI (1186, in occasione delle nozze con Costanza d'Altavilla), Enrico VII di Lussemburgo (1311), Carlo IV (1355), Carlo V d'Asburgo (1530, a Bologna. Per non far scivolare la corona usò un particolare copricapo a forma di cono), Napoleone I (1805), Ferdinando I d'Austria (1838, che usò un'altra corona per contenerla, collegata con catenelle, per non farla scivolare).

DESCRIZIONE - Il prezioso cimelio è in lega di argento e oro all'80% circa, ed è composto di sei placche legate fra loro da cerniere verticali; ha il diametro di cm 15 e l'altezza di cm 5,5; il peso è di 535 grammi. È adornata di ventisei rose d'oro a sbalzo, ventidue gemme di vari colori e ventiquattro placchette floreali a smalto cloisonné. Le gemme rosse sono granati, viola sono ametiste, il corindone è blu scuro. Altre decorazioni sono in pasta vitrea. 

La lamina circolare che tradizionalmente si identifica con il Sacro Chiodo corre lungo la faccia interna delle sei placche. La corona è troppo piccola per cingere la testa di un uomo: si ritiene perciò che in origine fosse composta di otto placche invece che sei. La corona è custodita nella cassaforte protetta da due porte. È nella teca dal 1885 per volontà di Umberto I.

Secondo la ricostruzione di Valeriana Maspero, in origine le placche d'oro avevano soltanto la gemma centrale, come si vede in alcune monete che ritraggono Costantino con il suo elmo in testa. Due corone ritrovate nel XVIII secolo a Kazan', in Russia, sono del tutto simili; probabilmente anche la Corona Ferrea fu opera di orefici orientali.

Le lastrine colorate con le altre pietre furono aggiunte presumibilmente da Teodorico, il quale fece rimontare il diadema su un altro elmo, in sostituzione di quello trattenuto dai bizantini. Carlo Magno fece poi sostituire alcune delle lastrine che si erano rovinate. L'esame al Carbonio 14 condotto su due pezzetti di stucco ha infatti datato uno di essi intorno al 500, e l'altro intorno all'800. L'aspetto della corona successivo al restauro di Carlo Magno è testimoniato dai documenti dell'incoronazione di Federico Barbarossa: essa non era più montata su un elmo, ma portava solo un archetto di ferro sulla sommità. Essa aveva ancora la dimensione adatta ad essere portata sulla testa.

Le due placche mancanti furono probabilmente rubate mentre la corona era in pegno agli Umiliati, che la conservavano nel loro convento di Sant'Agata (nell'attuale piazza Carrobiolo a Monza). I documenti successivi al 1300 infatti la descrivono come "piccola". Nel 1345 essa fu affidata per un secondo restauro all'orafo Antellotto Bracciforte, il quale le diede l'aspetto attuale.

IL SACRO CHIODO - L'identificazione della lamina metallica inserita nella corona con il chiodo della Passione di Cristo sembra risalga al XVI secolo. San Carlo Borromeo, che rilanciò la venerazione del Sacro Morso custodito nel duomo di Milano, visitò più volte anche la Corona Ferrea e vi pregò davanti. Nel 1602 Bartolomeo Zucchi affermava con certezza che la corona era il diadema di Costantino e che in essa vi era il sacro chiodo. Un secolo più tardi, però, Ludovico Antonio Muratori esprimeva parere contrario; egli notava tra l'altro che, rispetto alla dimensione di un chiodo romano da crocefissione, la lamina era troppo piccola.

Nel frattempo anche le autorità ecclesiastiche esaminarono il problema: finalmente nel 1717 il Papa decretò che, pur in assenza di certezza sull'effettiva presenza del chiodo nella corona, ne era autorizzata la venerazione come reliquia, in base alla tradizione ormai secolare in tal senso.

Nel 1993, la corona è stata sottoposta ad analisi scientifiche, e il verdetto è stato clamoroso: la lamina non è di ferro, bensì d'argento. Secondo alcuni studiosi, essa fu inserita dal Bracciforte nel 1345 per rinsaldare la corona, che era stata danneggiata dal furto di due placche; gli autori cinquecenteschi, perduta memoria di questo intervento, e sapendo dall'orazione di sant'Ambrogio che nella corona era inserito il sacro chiodo, conclusero che doveva trattarsi della lamina, che "per miracolo" non era arrugginita.

Altri ritengono invece che la corona sia effettivamente il diadema di Costantino, e che con il sacro chiodo fossero stati forgiati due archetti incrociati che venivano usati per agganciare il diadema all'elmo (e non il cerchio che si trova oggi nella parte interna della corona). Quando i bizantini sganciarono il diadema per darlo a Teodorico, essi trattennero anche gli archetti. L'elmo rimase esposto nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, appeso sopra l'altare, fino al saccheggio veneziano del 1204, dopo di che se ne ignora la sorte. In ogni caso la Chiesa continua ad autorizzare la venerazione della reliquia, che sarebbe, secondo l'ipotesi dell'archetto dell'elmo, una reliquia di secondo tipo, cioè che deve la sacralità al contatto con una reliquia di primo tipo (oggetto legato direttamente a una figura venerata).

Di chiodi asseriti della Croce, oltre a quello della corona e quello del Duomo di Milano, ne esistono un terzo, conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, ed un quarto, dalla tradizione più dubbia, nel Duomo di Colle Val d'Elsa in provincia di Siena.

Il sarcofago di Teodolinda

Contro la parete di fondo della cappella degli Zavattari nel Duomo di Monza si conserva un imponente sarcofago in pietra, sorretto da quattro colonnine, all’interno del quale riposano ancora oggi i resti mortali di Teodelinda, regina dei longobardi. 

Morta a Monza, che aveva scelto come sede del suo regno, nel 627 circa, la regina viene inizialmente sepolta in una tomba scavata nel terreno all’interno della basilica di San Giovanni Battista da lei stessa fondata. La sepoltura è oggetto di costante memoria e di cerimonie liturgiche da parte dei membri del Capitolo della basilica monzese in occasione del giorno anniversario della morte (22 gennaio), segno che la figura di Teodelinda viene costantemente ricordata come fondatrice della chiesa e, in un certo senso, responsabile dello sviluppo del borgo. 

All’inizio del XIV secolo, in concomitanza con i lavori di ricostruzione del Duomo in forme gotiche, le fonti tramandano la notizia della traslazione dei resti di Teodelinda: nel 1308 con una importante cerimonia, alla presenza del podestà Zonfredino della Torre, i resti vengono rimossi dalla “tomba terragna ” e trasferiti nel sarcofago in pietra insieme ai resti del marito Agilulfo. 

Il sarcofago rappresenta la prima opera documentata della ricostruzione trecentesca del Duomo: realizzato in marmo, poggia su 4 colonnette con capitelli lisci a foglie d’acqua e basi con fogliette protezionali agli angoli. 

La forma è arcaizzante, diffusa nel primo Trecento, la cassa liscia con una semplice cornice e sottili colonnette appena rilevate agli spigoli, coperchio a spioventi con acroteri. 

La parte posteriore è solo sbozzata, così da far ipotizzare che sin dalle origini fosse addossato ad una parete. Il cronista milanese Galvano Fiamma, che scrive negli stessi anni di inizio Trecento, ricorda una immagine della regina scolpita sul sarcofago, oggi perduta. 

Posto sul fondo della cappella dedicata a San Vincenzo (oggi nota come cappella degli Zavattari o di Teodelinda), il sarcofago venne spostato dietro ordine di San Carlo Borromeo e ricollocato nella cappella da Luca Beltrami durante una serie di lavori di restauro condotti alla fine dell’Ottocento. 

La tomba venne aperta per una ricognizione nel 1941: in questa occasione fu rinvenuto materiale longobardo, tra cui una piccola barra di fibula di fattura barbarica, oltre ai resti di una donna e di due uomini, tradizionalmente identificati con il marito Agilulfo e il figlio Adaloaldo. 

I tesori

Il Museo e Tesoro del Duomo di Monza custodisce cimeli e reliquie che ci riportano ai primi secoli del Cristianesimo ed all’epoca longobarda e ci accompagna sino ai nostri giorni senza soluzione di continuità. Si va da una serie di ampolline palestinesi e romane, databili alla seconda metà del VI secolo, agli splendidi preziosi del periodo tardo romanico, VI-VII secolo, come la Croce detta di Agilulfo, la Corona votiva e la legatura dell'Evangeliario di Teodolinda; dai capolavori di epoca carolingia, IX secolo, come il Reliquiario del dente di S. Giovanni e la Croce reliquiario di Berengario I, alle opere artistiche di scuola lombarda, come la Madonna col Bambino in pietra ed il San Giovanni Battista in rame dorato del XV secolo; dai lasciti dell’età viscontea, come il Calice di Giangaleazzo Visconti e lo Stocco di Estorre Visconti, agli arazzi cinquecenteschi, fino alle tele del XVII-XVIII secolo.

Tra gli oggetti più famosi, la chioccia con i sette pulcini - simbolo longobardo della vita - realizzata in argento dorato, con rubini incastonati negli occhi della chioccia e smeraldi in quelli dei pulcini; quest'opera è datata intorno al sesto secolo; il dittico di avorio detto di Stilicone, Eucherio e Serena del IV secolo, la tazza di zaffiro (si tratta di uno splendido calice gotico), la coperta dell'Evangelario di Teodolinda in oro, pietre preziose e perle; sedici ampolle che custodivano l'olio delle lampade che ardevano nei luoghi Santi; il Reliquiario del Dente di San Giovanni Battista; i frammenti delle vesti di San Gregorio Magno; un Tabernacolo in avorio del 1400.

Il Museo e Tesoro del Duomo costituisce quindi un’eccezionale raccolta di opere d’arte e testimonia di come la fede abbia saputo ispirare nel corso dei secoli tante generazioni di artisti ed artigiani, sostenuti da non meno importanti atti di sincero mecenatismo.

Il Tesoro ha reso Monza e la sua Basilica, famosa nei secoli. Purtroppo quello che resta oggi è solo parte di un patrimonio importantissimo, il cui primo inventario conosciuto risale all’anno 1275. Le perdite più ingenti si ebbero in epoca napoleonica, quando, per provvedere alle spese di guerra, nel 1796, la Basilica dovette consegnare due terzi dell’oro e metà dell’argento che possedeva, per essere fusi.

Nonostante le perdite, il Museo e Tesoro del Duomo conserva intatto il fascino che gli deriva dalla lunghissima tradizione ma anche dalle capacità di rinnovarsi ed arricchirsi, come avvenuto nel 2007, con l’inaugurazione della nuova ‘Sezione Gaiani’, che amplia notevolmente gli spazi del precedente nucleo ipogeo della ‘Sezione Serpero’, del 1963.

La sezione dedicata alla memoria di Filippo Serpero è dedicata soprattutto alla scomparsa basilica altomedioevale, mentre la sezione dedicata a Carlo Gaiani raccoglie soprattutto testimonianze a partire dal 1300, data d’inizio della ricostruzione dell’attuale basilica.

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