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La
cappella di Teodolinda
La
cappella, chiusa da una cancellata,
è situata a sinistra dell'abside
centrale. E' costituita da una volta
a forma poligonale gotica coperta da
costoloni e custodisce la Corona
Ferrea ed il sarcofago dove nel 1308
vennero traslate le spoglie della
regina Teodolinda.
La
cappella fu affrescata dagli
Zavattari, una famiglia di pittori
attivi in Lombardia nella prima metà
del ‘400. La
rappresentazione è tratta da
episodi tratti dalla Historia
Langobardorum
di Paolo Diacono e da una leggenda
tardo medievale riportata dal
cronista monzese Bonincontro Morigia
(XIV secolo), che narra del sogno
della regina Teodolinda per la
fondazione del duomo.
Le
scene degli affreschi sono 45,
distribuite su cinque fasce
sovrapposte per un totale di circa
500 m2. Probabilmente
Franceschino, il padre, concepì
l'intero ciclo e dipinse le scene
1-12; il secondo maestro, forse il
figlio Giovanni, affrescò dalla 13
alla 34, poi suo fratello Gregorio
dalla 35 alla 41 e infine Ambrogio,
il fratello più giovane, le quattro
scene finali dalla 42 alla 45. La
scena 32, firmata e datata 1444,
viene considerata il punto di
passaggio tra la prima e la seconda
fase, come sembrano comprovare anche
alcuni recenti documenti d'archivio.
Al
ciclo degli affreschi che narrano la
leggenda, fa da introduzione un
dipinto sul frontale dell’arco
d’ingresso alla cappella, che,
insieme a quelli degli spicchi delle
volte, rappresentano santi ed
evangelisti in trono, di autore
ignoto. La singolarità di questi
affreschi è quella di aver
rappresentato scene della storia
longobarda negli sfarzosi costumi
dell’epoca dei Visconti e di aver
inserito in un luogo sacro scene di
vita profana. Il probabile
committente fu Filippo Maria
Visconti.
L'inizio
dei lavori è da fissarsi al 1444,
data riportata dall'iscrizione sulla
parete di destra, mentre il loro
completamento dovette avvenire entro
il 1446. Il ciclo costituisce una
delle più significative
testimonianze della pittura
tardogotica in Lombardia.
GLI
AFFRESCHI DEGLI ZAVATTARI (a cura di
Primo Casalini)
- Il massimo splendore di Monza
iniziò con l'arrivo dei Longobardi.
E' una storia diffusa ma non del
tutto vera, perché Teodorico circa
un secolo prima diede una buona mano
con i suoi Ostrogoti, ma sta di
fatto che ancor oggi a Monza, nel
Museo Serpero - attiguo al Duomo -
è conservato un tesoro di quei
tempi con dei pezzi unici, malgrado
alcune spoliazioni, ivi compresa
quella del solito Napoleone.
Nel
Duomo è custodita la Corona Ferrea,
che fu eseguita comunque in tempi
posteriori rispetto a quelli di
Teodolinda: è costruita attorno ad
una anello, il Sacro Chiodo, con sei
segmenti d'oro uniti a cerniera, e
decorata con smalti e pietre
preziose. Inoltre, un po' prima
della metà del '400, fu eseguita
nella cappella a sinistra
dell'altare maggiore una vasta
decorazione ad affresco il cui tema
è la storia di Teodolinda, una
storia-leggenda.
Il
ciclo di affreschi fu eseguito dalla
bottega degli Zavattari, una
famiglia di artisti-artigiani di cui
si hanno notizie per cinque
generazioni, dagli ultimi anni del
'300 all'inizio del '500. Come usava
allora, non erano solo pittori, ma
certamente miniatori e autori di
disegni per vetrate di chiese;
questa loro versatilità la si nota
anche a Monza, nelle ricche
decorazioni spesso dorate, in certe
finiture a secco, il tipico lavorio
alla fine degli affreschi del gotico
internazionale, la cui curiosa
conseguenza è a volte di far
assomigliare gli affreschi a delle
enormi miniature.
Teodolinda
fu per diversi motivi un fiore
all'occhiello della chiesa di
Roma. Anzitutto era cattolica,
mentre ai suoi tempi i Longobardi
prevalentemente erano ariani
(l'eresia che negava la natura
divina di Cristo) o pagani. Ma
Teodolinda non era longobarda, era
la figlia di Garibaldo duca di
Baviera. Prima sposò il re
longobardo Autari, e dopo la sua
morte sposò Agilulfo, duca di
Torino, che divenne re dei
Longobardi anche in virtù di questo
matrimonio.
Fece
costruire dal 595 in poi, vicino al
suo palazzo di Monza, una chiesa
dedicata a San Giovanni Battista,
che dotò di rendite e tesori. Della
chiesa costruita da Teodolinda non
è rimasto nulla o quasi, era più o
meno corrispondente come ubicazione
all'attuale Duomo.
Teodolinda
fu sempre sostenuta da Papa
Gregorio, poi San Gregorio Magno, e
ricevette diversi doni dal Papa,
come segno di attenzione della
Chiesa di Roma che tramite
Teodolinda mirava alla conversione
dei longobardi ed a migliorare il
trattamento riservato a molti
vescovi; in quei tempi ad esempio il
vescovo di Milano era esule a
Genova, sotto protezione bizantina.
Ancora oggi, nella liturgia, a Monza
vige il rito romano, diverso dal
rito ambrosiano utilizzato a
Milano.
Una
altro episodio di contrapposizione
ci fu diversi secoli dopo, quando
Monza fu la sede di Federico
Barbarossa durante le sue lotte
contro Milano. L'iniziatore della
fortuna di Monza fu Teodorico, che
apprezzava Monza sia perché
prossima a Milano - in cui
l'ostilità verso le popolazioni
barbariche era più diffusa per la
tradizione amministrativa e
burocratica dell'impero - sia per la
maggiore salubrità climatica. Nel
603 la chiesa appena costruita fu
utilizzata per il battesimo di
Adaloaldo, figlio di Teodolinda e di
Agilulfo; il battesimo fu officiato
dall'abate benedettino Secondo di
Non, che era consigliere spirituale
della regina. Teodolinda morì nel
627 e fu sepolta nella chiesa da lei
voluta e realizzata.
Vediamo
quale storia raccontano gli
Zavattari, e risalendo a ritroso
vedremo quello che raccontano gli
scrittori a cui gli Zavattari fanno
riferimento, cioè Paolo di
Warnefrido (Paolo Diacono) e
Bonincontro Morigia, ed ancora più
indietro come più o meno fu la
storia vera in base ai documenti che
ci sono rimasti, e soprattutto alle
date, che hanno la testa dura, cioè
se accertate dicono cose che non
possono essere smentite. I tre
livelli di racconto sono
parzialmente diversi fra di loro e
cercheremo di capirne il perché.
Cominciamo dagli Zavattari, per
meglio dire da quelli che decisero
il programma iconografico che gli
Zavattari eseguirono. Le scene sono
rappresentate in 45 riquadri
disposti in cinque registri, e si
leggono orizzontalmente da destra a
sinistra, dal registro più alto a
quello più basso.
La sorella di Childeperto, re dei
Franchi, riceve gli ambasciatori di
Autari, re dei Longobardi, e rifiuta
di sposarlo. Allora gli ambasciatori
si recano in Baviera e chiedono per
Autari la mano di Teodolinda, figlia
del duca Garibaldo. Poi vanno a
Verona da Autari che si reca in
incognito in Baviera per conoscere
Teodolinda, che gli porge da bere.
Autari torna in Italia e festeggia
le nozze imminenti, ma i Franchi
attaccano Garibaldo sconfiggendolo e
Teodolinda fugge in Italia. Autari e
Teodolinda si sposano presso Verona,
e Teodolinda viene dichiarata regina
dei Longobardi. Autari entra
vittorioso in Reggio Calabria ma
poco dopo muore a Pavia e si
svolgono le sue esequie.

Teodolinda
chiama Agilulfo, duca di Torino, per
sposarlo, Agilulfo riceve il
battesimo a Pavia, sposa Teodolinda
e viene incoronato re dei
Longobardi. Banchetto e caccia
attorno a Pavia. Teodolinda sogna il
luogo dove edificare la basilica di
San Giovanni Battista, ed il sogno
si realizza a Monza; lo Spirito
Santo sotto forma di colomba indica
il posto giusto a Teodolinda. Si
tagliano piante per procurarsi il
legno necessario, fervono tutti i
lavori, si distruggono idoli pagani
per costruire nuovi tesori per la
chiesa. Teodolinda ed il figlio
Adaloaldo si danno da fare , e
l'arciprete riceve ben volentieri i
doni. Muore Agilulfo. Arrivano
reliquie da Papa Gregorio Magno.
Muore Teodolinda e l'arciprete ne
officia i solenni funerali.
Con
un salto temporale, Costante II,
imperatore bizantino, sbarca a
Taranto per abbattere il regno
longobardo, ma viene dissuaso da un
eremita che gli spiega che il regno
è protetto da San Giovanni Battista
per volontà di Teodolinda, e
Costante II rinuncia alla sua
impresa.
Gli
ambasciatori vanno e vengono da una
corte all'altra e si riceve, si
banchetta, si beve e si fa musica di
frequente, tutte occasioni ghiotte
per le rappresentazioni cortesi
degli Zavattari.
La
storia raccontata dagli Zavattari
non è in fondo diversa da quella
che racconta Paolo di Warnefrido
nella sua Historia
Langobardorum, scritta
circa due secoli dopo gli
avvenimenti e dalla cronaca di
Bonincontro Morigia, scritta nel XIV
secolo. Da Bonincontro è tratto
l'episodio etimologico di
come a Teodolinda che riposava sulle
rive del Lambro apparisse lo Spirito
Santo sotto forma di colomba con un
cartiglio con su scritto “Modo”
e la regina rispondesse “Etiam”
da cui Modoetiam, cioè Monza. C'è
negli Zavattari una insistenza
maggiore sui doni e sulle reliquie
della chiesa, sugli interventi degli
ecclesiastici, l'arciprete nelle
scene finali è una specie di deus
ex machina, ma più o meno è
sempre la favola bella –
con un fondo di realtà - della
regina che converte i longobardi
alla vera fede.
Secondo
di Non, abate benedettino e
consigliere spirituale di Teodolinda,
compilò una cronaca, e circa due
secoli dopo questa cronaca fu
utilizzata da Paolo di Warnefrido
(dal 787 in poi). Un'altra fonte da
cui attinse fu l'Origo gentis
longobardorum compilata attorno
al 650 sulla base della tradizione
orale. Per i Franchi era disponibile
la Historia Francorum di
Gregorio, vescovo di Tours: è la
saga dei Merovingi fino al 590.
Paolo era di nobile famiglia
longobarda, ma strettamente legato a
Carlomagno, difatti insegnò
grammatica alla sua corte dal 782 al
786. Negli anni successivi, si
ritirò nella abbazia di
Montecassino e lì scrisse la sua Historia
Langobardorum, importante fra
l'altro anche per quello che
riguarda la presenza dei Longobardi
a Cividale.
I
Franchi erano da tempo i burattinai
della situazione italiana, Paolo lo
sa bene e ne tiene conto nella
redazione della sua storia, anche se
la chiude con la fine del regno di
Liutprando (744), prima delle guerre
finali fra Franchi e Longobardi.
Quindi tira in ballo il fascino
femminile per coprire le manovre che
oltre ai Longobardi coinvolgevano
almeno quattro altri attori: i
Franchi, i Bizantini, il Papa e la
popolazione goto-romana con cui
bisognava pure fare i conti. Alcune
date ci aiutano a capire come si
svolsero le cose; gli eventi
fondamentali si svolgono in quattro
anni successivi: 588, 589, 590, 591.
588:
non ci si mette d'accordo per il
matrimonio di Autari con la sorella
di Childeperto re dei Franchi, e
subentra il fidanzamento di Autari
con Teodolinda, figlia di Garibaldo,
duca di Baviera.
589:
i Franchi guerreggiano con i Bavari,
che vengono sconfitti, Teodolinda ed
il fratello Gundoaldo si rifugiano
da Autari, che sposa Teodolinda il
15 maggio nei campi di Sardi vicino
a Verona.
590:
il 5 settembre muore avvelenato (da
chi?) Autari, poco dopo Teodolinda
sposa Agilulfo che a novembre si
proclama re dei Longobardi.
591:
a maggio Agilulfo viene accettato
come re da tutti i duchi Longobardi.
Non ha proprio l'apparenza di una
storia rosa, e così sarà anche in
seguito, con Gundoaldo, fratello di
Teodolinda, ucciso nel 612, con
Adaloaldo, figlio di Teodolinda,
sostituito come re nel 625 da
Arioaldo, marito di Guneperga,
figlia di Teodolinda, che in tempi
successivi sposerà Rotari, quello
del ben noto Editto.
E'
l'incrocio di una faida familiare
con la lotta politica, militare e
religiosa che era in corso. Mentre
sembra che anche Agilulfo si sia
convertito al cattolicesimo,
Arioaldo e Rotari, che vengono dopo,
continuano ad essere ariani. La
politica di Teodolinda era
probabilmente la più saggia, vista
la situazione: appoggiarsi alla
popolazione goto-romana ed al Papa,
che così manteneva un suo spazio di
autonomia rispetto a Bisanzio. Ma
l'abile diplomazia dei bizantini e
la forza militare dei Franchi
rendevano precario un equilibrio del
genere. Tempi aspri e difficili, in
ogni caso.
Di
queste crude storie di alto
medioevo, gli Zavattari danno una
rappresentazione che Renata Negri
definisce benissimo: aprire la
porta della cappella è come
sollevare il coperchio di un
cofanetto prezioso. L'oro è
dovunque: nei cieli, nelle corone,
nei gioielli, ma anche nei capelli,
negli elmi, sulle vesti, negli
strumenti musicali, sulle tavole
imbandite, nella coppa che i reali
fidanzati si scambiano, negli
speroni, negli scettri sottili, che
sembrano bastoncelli da passeggio,
sui paramenti sacri, nelle croci
astili, nei candelabri, perfino
sulle candele, nelle bardature dei
cavalli, numerosi e che sembra
guardino incuriositi noi visitatori.
Oro a rilievo sulle pastiglie di
gesso predisposte, oppure punzonato
sul fondo, come facevano per le
carte da gioco, i Tarocchi Viscontei
in cui gli Zavattari erano coinvolti
con Bonifacio Bembo.
Parte
della decorazione a secco si è
persa attraverso i secoli, anche a
causa di vecchi restauri non
appropriati, ma lo stato di
conservazione è assai buono, se
confrontato con quello di opere
degli stessi tempi e dello stesso
genere, che spesso sono
completamente scomparse.
Quasi
tutti i riquadri sono
affollatissimi, i personaggi sbucano
da tutte le parti, si accalcano uno
dietro l'altro, sarebbe meglio dire
uno sull'altro, ma sembra più che
altro un soffice pigia pigia,
anche per la rappresentazione dei
corpi tutt'altro che anatomicamente
vigorosa, sembra che siano le vesti
a reggere i corpi, non
viceversa.
La
cappella è alta e relativamente
stretta, come tante cappelle
gotiche; i registri sono cinque uno
sovrapposto all'altro, e quindi,
anche se è buona l'illuminazione,
si possono ammirare veramente nei
dettagli - che in questo tipo di
affreschi sono fondamentali - solo i
primi due registri; occorrerebbe una
specie di piattaforma su un
elevatore, e non scherzo del tutto.
Non è certo il solo caso di
difficoltà visive nel contemplare
opere d'arte: si ricordino gli
affreschi di Piero della Francesca
di Arezzo, anch'essi sulle pareti di
una cappella gotica (e realizzati
non molto tempo dopo gli affreschi
di Monza).
Ma
anche più tardi, nel Cinquecento,
non si badava sempre al punto di
vista di chi guardava: il Correggio,
nella cupola del San Giovanni
Evangelista di Parma è rimasto per
secoli pressoché invisibile, a meno
di essere dotati di torce potenti
– difatti ne tenne conto nella
successiva cupola del Duomo, facendo
aprire degli oculi nelle pareti. Lo
stesso Michelangelo, nella Sistina,
si accorse dopo aver dipinto il
riquadro del Diluvio che le figure
erano troppo piccole viste dal basso
e cambiò completamente le modalità
rappresentative.
Mentre
altri artisti erano spontaneamente
attenti alla visibilità: Giotto
nella cappella degli Scrovegni, ad
esempio. Ho avuto la fortuna,
qualche tempo fa, di ammirare gli Angeli
a Saronno di Gaudenzio
Ferrari da breve distanza, ed è
tutta un'altra cosa che osservarli
guardando dal basso, laggiù in
fondo alla chiesa.
Sulla
parete destra della cappella
compare, vicino alla data 1444, la
scritta seguente:
“Suspice qui transis, ut vivos
corpore vultus
peneque spirantes, ut signa
simillima verbis,
De Zavatariis hanc ornavere capellam
Praeter in excelso convexae picta
truinae”
Il terzo verso per molto tempo fu
male interpretato: si pensò che gli
Zavattari fossero i committenti, non
gli esecutori, e soltanto quando
cominciarono a comparire i documenti
ci si rese conto dell'errore.
Il
1444 non è l'anno in cui tutti gli
affreschi furono finiti, ma la fine
di un primo ciclo e l'inizio del
secondo. Difatti fu rintracciato un
documento del 1445 in cui si
stipulano accordi per un ciclo
successivo, probabilmente per i
riquadri dei due registri inferiori.
Nel documento si citano Franceschino
Zavattari ed i figli Gregorio e
Giovanni. Franceschino – che aveva
un altro figlio, Ambrogio - era a
sua volta figlio di Cristoforo,
attivo nel Duomo di Milano nei primi
anni del Quattrocento.
Si
ritiene quindi che l'esecuzione
degli affreschi si sia svolta fra il
1440 ed il 1446. Nel contratto del
1445 risultano ben sette canonici
con un solo fabbriciere in
rappresentanza del comune; questa
presenza preponderante spiega come
mai negli affreschi spesso si
trattino argomenti che riguardano la
chiesa: doni, reliquie, battesimo di
Adaloaldo, esequie di Autari ed
infine di Teodolinda. Ma
l'impressione visiva è in gran
parte profana: è la vita cortese
all'inizio del Quattrocento, il
tipico tema del gotico
internazionale. Anche a Castiglione
Olona, in un contesto un
po' diverso, qualche anno prima
Masolino aveva fornito, nel convito
di Erode, una rappresentazione da
corte quattrocentesca, in cui
diviene figurativamente secondario
il tema tragico del martirio di San
Giovanni Battista.
Nel
1441 aveva avuto luogo il matrimonio
fra Bianca Maria Visconti e
Francesco Sforza, dopo un più che
decennale fidanzamento tutto
politico. Difatti Bianca Maria era
figlia di Filippo Maria Visconti,
Duca di Milano, e tramite questo
matrimonio lo Sforza pensava di
aprirsi la strada verso il potere,
cosa che gli riuscì nel 1450, tre
anni dopo la morte di Filippo Maria.
Si è fatta quindi l'ipotesi assai
intrigante che dietro la
rappresentazione del matrimonio di
Teodolinda con Agilulfo si
adombrassero le nozze di Bianca
Maria con Francesco, cosa non
probabile perché Filippo Maria fino
alla sua morte nel 1447 cercò
sempre di tenere lo Sforza lontano
dalla Lombardia. Ma nella cappella,
ben 28 riquadri su 45 riguardano
temi di carattere matrimoniale… Ci
sono anche gli stemmi di Filippo
Maria Visconti e di Francesco
Sforza, quest'ultimo chiaramente
apposto dopo la morte del Visconti.
Sembra in definitiva molto probabile
che la decorazione sia sorta per
iniziativa dei canonici locali, sia
pure con l'approvazione di Filippo
Maria.
Negli affreschi hanno operato
certamente più di due esecutori,
anche se è chiaro che c'è una
mente direttiva che organizza le
rappresentazioni; non solo, negli
affreschi eseguiti per ultimi è
probabile che ci sia stato qualche
intervento posteriore: maggiore
attenzione alle fisionomie – veri
e propri ritratti, specie se si
tratta di ecclesiastici. Un
tentativo di rappresentazione
rinascimentale, ma l'ispirazione
degli Zavattari è assai vicina a
quella di Michelino da Besozzo, e
prima ancora a Giovannino de'
Grassi.
Gli
affreschi compiuti da Pisanello a
Verona ed a Mantova attorno al 1435
erano certamente conosciuti, specie
le scene del ciclo cavalleresco nel
castello di Mantova. Sembra minore
l'influenza degli affreschi di
Masolino a Castiglione Olona, pure
così recenti; molto diverso è il
senso spaziale che in Masolino è
toscano, sia pure con una
prospettiva più sognata che reale.
Inoltre l'episodio di Castiglione
Olona è ben delimitato come tempo e
come committenza, mentre Michelino
da Besozzo ed Antonio Pisanello
erano assai noti agli Zavattari, ed
in genere nell'Italia
settentrionale. Per comprendere la
situazione, è bene ricordare la
frase di André Chastel: “La
Lombardia, il paese tradizionale dei
tagliatori di pietre e dei buoni
decoratori, grazie alle cave delle
Alpi, è una regione lenta; era
giunta tardi al gotico, e giunse
tardi al Rinascimento”.
Le
prime opere di Vincenzo Foppa sono
infatti della metà degli anni '50;
si è pensato che se ne sia tenuto
conto a Monza, ad esempio nei due
dignitari che si guardano faccia a
faccia da soli nel riquadro della
scelta di Agilulfo come re dei
Longobardi. Una epoca di graduale
transizione quindi, in cui gli
Zavattari, da artigiani assai
concreti, si tengono vicini alle
vecchie certezze, che erano poi
quelle che i canonici desideravano
da loro, non accorgendosi che in tal
modo il loro programma di
esaltazione ecclesiastica locale
veniva offuscato dall'affollato,
sorridente, profano racconto cortese.
Nella
scelta delle immagini ho
privilegiato i dettagli rispetto
alle scene vaste, sia per ragioni di
visibilità sia perché erano gli
episodi che probabilmente gli
Zavattari amavano più eseguire,
trattando le grandi pareti del Duomo
di Monza con lo stesso gusto con cui
affrontavano le vetrate del Duomo di
Milano, le miniature dell'ouvraige
de Lombardie o addirittura le
carte da gioco, i Tarocchi per i
Visconti. Il gusto per le
preziosità nelle opere d'arte di
grandi dimensioni non finirà con
loro: alla Pinacoteca di Breera c'è
un'opera del 1494, la Pala
Sforzesca, in cui lo sconosciuto
autore, pur dopo aver visto il Foppa,
Bramante e Leonardo (!) ha ancora il
gusto per la materia e le
preziosità che si trova negli
affreschi degli Zavattari, solo che
lo esprime con una pesantezza un po'
greve, rispetto alla levità
favolistica che ancor oggi
apprezziamo negli affreschi di
Monza.

DESCRIZIONE
- La
numerazione parte dall'alto a
sinistra ossia da nord a sud. Le
scene da 1 a 23 descrivono i
preliminari e le nozze tra Teodolinda
e Autari, fino alla morte del re; da
24 a 30 sono raffigurati i
preliminari e le nozze tra la regina
e il secondo marito Agilulfo; da 31
a 41 si narra la nascita e sviluppo
del duomo, la morte di Agilulfo e
quella di Teodolinda; dalla 41 alla
45 infine si narra dell'approdo
sfortunato dell'imperatore Costante
e del suo ritorno a Bisanzio.
Il
ritmo della narrazione varia da
molto veloce a molto lento,
sottolineando alcuni episodi storici
di particolare importanza, secondo
gli autori e i committenti. In
particolare si contano ben 28 scene
nuziali o di preparazione al
matrimonio, che hanno fatto pensare
a un collegamento con la vicenda di
Bianca Maria Visconti e il passaggio
di potere tra i Visconti e gli
Sforza: l'analogia con la vicenda
della regina longobarda, che scelse
il nuovo re prendendolo come marito,
legittimerebbe la presa di potere di
Francesco Sforza per via
matrimoniale nel 1441.
Molti
sono gli episodi di vita cortese,
come i balli, i banchetti, le feste,
le battute di caccia, con una
preziosa descrizione di abiti,
acconciature, armi ed armature, che
forniscono uno straordinario
spaccato della vita di corte a
Milano nel XV secolo.
- 1.
Autari,
re dei Longobardi, manda inviati
a Childeberto, re dei Franchi,
per chiedere la mano della
sorella Inganda (lunettone)
- 2.
Childeberto
riceve gli inviati, ma ha già
promesso la sorella al figlio re
di Spagna (lunettone)
- 3.
Ritorno
in Italia degli inviati
longobardi (inizio della seconda
fascia, quella più in alto, da
sinistra)
- 4.
Autari
incarica gli invitati di recarsi
alla corte di Garibaldo duca dei
Bavari, per chiedere la mano
della figlia Teodolinda
- 5.
Partenza
degli inviati per la Baviera
- 6.
Garibaldo
riceve gli invitati longobardi
ed esaudisce la loro richiesta
- 7.
Ritorno
degli invitati in Italia
- 8.
Autari
riceve i suoi invitati
accompagnati da una delegazione
dei Bavari
- 9.
Autari
si reca in Baviera in incognito
- 10.
Teodolinda
accoglie la delegazione e porge
ad Autari la bevanda di
benvenuto senza riconoscerlo
- 11.
Autari
torna in Italia
- 12.
Festa
alla corte longobarda
- 13.
Il
re dei Franchi Childeberto muove
guerra ai Longobardi e sconfigge
il duca di Baviera (inizio della
terza fascia, da sinistra)
- 14.
Garibaldo,
Teodolinda e il fratello di lei
fuggono in Italia
- 15.
Arrivo
di Teodolinda in terra
longobarda
- 16.
Gli
inviati informano Autari
dell'arrivo di Teodolinda
- 17.
Autari
a cavallo va incontro a
Teodolinda
- 18.
Incontro
di Teodolinda e Autari presso
Verona
- 19.
Matrimonio
della coppia (15 maggio 590)
- 20.
Ingresso
della coppia a Verona
- 21.
Festeggiamenti
per il matrimonio a Verona
- 22.
Autari
conquista Reggio Calabria
- 23.
Autari
muore avvelenato a Pavia (5
settembre 590) (inizio della
quarta fascia, da sinistra)
- 24.
Teodolinda
viene confermata regina dei
Longobardi e sceglie il secondo marito. La
sua scelta cade su Agilulfo,
duca di Torino
- 25.
Agilulfo
riceve un messaggio di
Teodolinda
- 26.
Agilulfo
e Teodolinda si incontrano a
Lomello
- 27.
Agilulfo
rinnega l'arianesimo, si
converte alla fede cattolica e
prende il nome di Paolo
- 28.
Incoronazione
di Agilulfo a re dei Longobardi
- 29.
Matrimonio
di Teodolinda e Agilulfo
- 30.
Banchetto
di nozze
- 31.
Partenza
della coppia reale per la caccia
- 32.
Scena
divisa in due parti:
-
-
Teodolinda sogna che la colomba
dello Spirito Santo le indicherà
il luogo dove dovrà erigere la
sua chiesa
-
-
Partenza della regina alla
ricerca del luogo adatto
- 33.
Apparizione
dello Spirito Santo in forma di
colomba
- 34.
Posa
della prima pietra del duomo di
Monza (inizio della quinta
fascia, quella più in basso, da
sinistra)
- 35.
Teodolinda
fa trasformare gli idoli pagani
nel tesoro cristiano della nuova
chiesa
- 36.
Donazioni
di Teodolinda al duomo
- 37.
Adaloaldo,
il giorno della sua
incoronazione, dona alla chiesa
altri tesori
- 38.
Morte
di Agilulfo
- 39.
Papa
Gregorio Magno consegna al
diacono Giovanni doni per il
duomo di Monza, fra cui reliquie
e codici
- 40.
Il
diacono Giovanni consegna i doni
al vescovo di Monza alla
presenza di Teodolinda
- 41.
Morte
della regina Teodolinda
- 42.
L'imperatore
Costante IV parte per cacciare i
Longobardi dall'Italia
- 43.
Arrivo
in Italia dell'imperatore
Costante
- 44.
Un
eremita predice all'imperatore
che non riuscirà a sconfiggere
Longobardi
- 45.
L'imperatore
Costante lascia l'Italia senza
combattere

TECNICA
- La
tecnica pittorica è molto complessa
e preziosa, con affresco, tempera a
secco, decorazioni a rilievo,
dorature in foglia e in pastiglia,
come in una grande miniatura
monumentale.
STILE
- Anche
se in parte rappresentano fatti
storici, le scene affrescate
esprimono un ambiente ideale, con
personaggi nei costumi di epoca
viscontea contro un cielo d'oro.
Lo
stile di queste pitture mostra
un'adesione tarda ai modi Michelino
da Besozzo, con linee eleganti e
colori tenui. Grande attenzione è
posta ai dettagli, mentre le figure
sembrano attonite e senza peso,
Il
frontale dell'arco d'ingresso alla
cappella e la volta sono dipinti con
figure di santi ed evangelisti da un
ignoto pittore del XV secolo. Al
centro della cappella un altare
custodisce lo scrigno della Corona
Ferrea, il diadema con il quale
furono incoronati re longobardi, re
d'Italia ed imperatori del Sacro
Romano Impero.
Dietro
l'altare e contro la parete di fondo
si trova il sarcofago nel quale, nel
1308,
il corpo della regina Teodolinda fu
traslato dalla prima sepoltura nella
originaria Basilica longobarda.
ALTRI
ARREDI - Contro
la parete di fondo della cappella si
trova il sarcofago in cui nel
Trecento furono traslati i resti
della regina Teodolinda. Un
sopralluogo ha confermato la
presenza di ossa umane, resti di
monili d'oro, e alcune monetine che
i pellegrini medievali infilavano in
segno di devozione.
Al
centro della cappella è l'altare neogotico,
opera di Luca Beltrami, del 1888:
sopra il piano, al centro, si trova
cassa metallica fortificata che
contiene la teca estraibile della
Corona ferrea.
Corona
Ferrea e Tesoro del Duomo
La
Corona
Ferrea o Corona
del Ferro è un'antica e
preziosa corona che venne usata
dall'Alto Medioevo fino al XIX
secolo per l'incoronazione dei Re
d'Italia. Per lungo tempo, gli
imperatori del Sacro Romano Impero
ricevettero questa incoronazione.
All'interno
della corona vi è una lamina
circolare di metallo: la tradizione
vuole che essa sia stata forgiata
con il ferro di uno dei chiodi che
servirono alla crocifissione di Gesù.
Per questo motivo la corona è
venerata anche come reliquia, ed è
custodita nel duomo di Monza nella
Cappella di Teodolinda.
STORIA
- Verso l'anno 324, su incarico
del figlio Elena, madre
dell'imperatore Costantino I, fece dissotterrare
tutta l'area del Golgota, area che
era stata interrata dall' imperatore
Adriano per creare un grande
terrapieno all'interno della nuova
città Aelia Capitolina fatta
sorgere sulle rovine di Gerusalemme
dopo le rivolte Giudaiche del II
secolo. Durante questi lavori, che
portarono all'edificazione della
Basilica costantiniana e dell' Anàstasis,
secondo la tradizione cristiana
furono trovati gli strumenti della
Passione di Gesù, tra cui quella
che venne identificata come la
"vera Croce", con i chiodi
ancora conficcati. Elena lasciò la
croce a Gerusalemme, portando invece
con sé i chiodi: tornata a Roma,
con uno di essi creò un morso di
cavallo, e ne fece montare un altro
sull'elmo di Costantino, affinché
l'imperatore ed il suo cavallo
fossero protetti in battaglia.
La
storica Valeriana Maspero ritiene
invece che la corona fosse il
diadema montato sull'elmo di
Costantino, dove il sacro chiodo era
già presente. L'elmo e il morso,
insieme alle altre insegne
imperiali, furono portati a Milano
da Teodosio I, che vi risiedeva:
Ambrogio li descrive nella sua
orazione funebre de obitu
Teodosii. Dopo la caduta
dell'Impero Romano d'Occidente,
l'elmo fu portato a Costantinopoli,
ma in seguito fu reclamato dal goto
Teodorico il Grande, re d'Italia, il
quale aveva a Monza la sua residenza
estiva. I bizantini gli inviarono il
diadema trattenendo la calotta
dell'elmo. Il "Sacro
Morso" rimase a Milano: oggi è
conservato nel duomo della città.
Due
secoli dopo papa Gregorio I avrebbe
donato uno dei chiodi a Teodolinda,
regina dei Longobardi, che fece
erigere il duomo di Monza; ella fece
fabbricare la corona e vi inserì il
chiodo, ribattuto a forma di lamina
circolare. La tradizione che legava
la corona alla Passione di Cristo e
al primo imperatore cristiano ne
facevano un oggetto di straordinario
valore simbolico, che legava il
potere di chi la usava a un'origine
divina e a una continuità con
l'impero romano. La Corona Ferrea fu
usata dai re Longobardi, e poi da
Carlo Magno (che la ricevette nel
775) e dai suoi successori, per
l'incoronazione dei re d'Italia.
Indagini
storiche più recenti ritengono che
la conformazione odierna della
corona sia dovuta a interventi
databili tra il V e il IX secolo.
Essa potrebbe essere stata
un'insegna reale ostrogota, passata
poi ai Longobardi e quindi ai
Carolingi, i quali, dopo averla
restaurata, la donarono al Duomo di
Monza, chiesa reale fatta erigere da
Teodolinda.
Gli
imperatori del Sacro Romano Impero
venivano incoronati tre volte: una
come Re di Germania, una come Re
d'Italia, una come Imperatore
(quest'ultima corona veniva imposta
dal Papa). L'incoronazione con la
Corona Ferrea si svolgeva a Milano,
nella basilica di Sant'Ambrogio;
altre volte tuttavia la cerimonia si
svolse a Monza (nel Duomo o nella
Chiesa di S.Michele) oppure a Pavia,
e saltuariamente in altre città
ancora.
Tra
un'incoronazione e l'altra, la
Corona Ferrea risiedeva nel Duomo di
Monza, che per questo motivo era
dichiarata "città regia",
proprietà diretta dell'imperatore,
e godeva di privilegi ed esenzioni
fiscali.
La
corona attraversò tuttavia alcune
vicissitudini: nel 1248, insieme al
resto del Tesoro del Duomo, fu data
in pegno all'ordine degli Umiliati,
a garanzia di un ingente prestito
contratto dal capitolo del duomo per
pagare una pesante imposta
straordinaria di guerra, e fu
riscattata solo nel 1319.
Successivamente, sempre come parte
del Tesoro, fu trafugata dal
cardinale Bertrando del Poggetto
durante l'occupazione crociata di
Monza (1323-24) e inviata a suo zio,
papa Giovanni XXII ad Avignone. La
corona rimase presso il seggio
papale dal 1324 al 1345: durante
questo periodo fu persino rubata, ma
il ladro fu catturato e la refurtiva
recuperata. Al momento della
restituzione, venne effettuato un
nuovo censimento del tesoro nel
quale si constatò il danneggiamento
della corona a causa della
sottrazione di due delle otto
placche che la componevano: la
reliquia fu quindi affidata nello
stesso anno all'orafo Antellotto
Bracciforte, che la rinforzò con
una corona interna in argento, la
quale in seguito venne identificata
con il Sacro Chiodo. Da quel momento
non fu possibile per un uomo
indossare la Corona d'Italia sul
proprio capo, date le dimensioni
ridotte: le successive incoronazioni
vennero infatti effettuate con
l'ausilio di speciali copricapi.
Papa
Innocenzo VI, nel quadro della lotta
per le investiture, promulgò nel
1354 un editto con il quale
rivendicava il diritto di Monza
all'imposizione della Corona Ferrea
nel Duomo, subito disatteso.
La
tradizione della triplice
incoronazione si interruppe con
Carlo V, che fu incoronato nel 1530
a Bologna: abdicando nel 1556, egli
divise l'impero in due, separando
così i regni di Italia e Germania.
Nel 1576 san Carlo Borromeo istituì
il culto del Sacro Chiodo, per
celebrare la venerazione della
Corona e legarla all'altro Chiodo
della Passione nel Duomo di Milano.
Due
secoli dopo, però, il Ducato di
Milano passò all'Austria e la
tradizione riprese: l'imperatore
Francesco I ricevette la Corona
Ferrea nel 1792.
Napoleone
e la Restaurazione - L'incoronazione
più famosa è però quella di
Napoleone Bonaparte, che si incoronò
re d'Italia nel 1805: nel rito
celebrato nel Duomo di Milano, egli
si impose da solo la corona sul
capo, pronunciando la frase: "Dio
me l'ha data e guai a chi me la
toglie!". Per devozione
alla corona Napoleone istituì poi
l'Ordine della Corona del Ferro.
Dopo
la parentesi napoleonica,
l'incoronazione ritornò prerogativa
degli imperatori d'Austria, e
Ferdinando I la ricevette nel 1838.
Durante le guerre di indipendenza
italiane, la corona fu requisita da
Monza e portata a Vienna, ma nel
1866, dopo la sconfitta dell'Austria
nella terza guerra di indipendenza,
fu restituita all'Italia e ritornò
a Monza.
I
Savoia tuttavia non la utilizzarono
mai per le incoronazioni, poiché
conservarono la corona del regno di
Sardegna dal quale nasce l'attuale
Italia (anche nello stemma regio).
Inoltre essa era diventata negli
anni precedenti un simbolo della
dominazione austriaca, oltre a ciò
il Regno d'Italia era in conflitto
con il Papato, in seguito alla presa
di Roma, e l'utilizzo di una corona
che era anche una preziosa reliquia
era poco opportuno. In ogni caso la
corona faceva parte delle insegne
reali, come testimonia l'esposizione
di essa ai funerali di Vittorio
Emanuele II (1878), il quale aveva
anche istituito l'Ordine
cavalleresco della Corona
d'Italia.
Il
re Umberto I forse meditava di
incoronarsi con la Corona Ferrea
quando il clima politico fosse stato
più favorevole: nel 1890 egli inserì
la Corona Ferrea nello stemma reale,
e nel 1896 donò al duomo di Monza,
città in cui egli amava risiedere,
la teca di vetro blindato in cui
essa è tuttora custodita. Il suo
assassinio nel 1900 interruppe i
suoi progetti, ma di nuovo alle sue
esequie venne esposta la Corona e la
sua tomba al Pantheon ne reca una
copia bronzea. Il
figlio Vittorio Emanuele III non
volle alcuna cerimonia di
incoronazione.
Con
la proclamazione della Repubblica
Italiana nel 1946, la Corona Ferrea
smise definitivamente di essere un
simbolo di potere, per essere solo
una reliquia e un prezioso cimelio
storico.
L'ultimo
viaggio della corona avvenne durante
la seconda guerra mondiale: temendo
che i tedeschi volessero
impadronirsene, nel 1943 il
cardinale Ildefonso Schuster la fece
trasferire segretamente in Vaticano,
dove rimase fino al 1946. Essa
ritornò portata da due canonici del
duomo di Monza, nascosta in una
cappelliera dentro una valigia.
Le
incoronazioni - Lo storico monzese
Bartolomeo Zucchi, che scriveva
intorno al 1600, contò 34
incoronazioni avvenute fino a quel
momento. Non tutte queste
incoronazioni sono però comprovate
da documentazioni storiche.
Tra
quelle sicure, oltre a quelle
longobarde, si ricordano: Carlo
Magno (800), Arduino
d'Ivrea (1002), Corrado
II (1024), Corrado
III (1128), Federico
Barbarossa (1155), Enrico
VI (1186, in occasione delle nozze
con Costanza d'Altavilla), Enrico
VII di Lussemburgo (1311), Carlo
IV (1355), Carlo
V d'Asburgo (1530, a Bologna. Per
non far scivolare la corona usò un
particolare copricapo a forma di
cono), Napoleone
I (1805), Ferdinando
I d'Austria (1838, che usò un'altra
corona per contenerla, collegata con
catenelle, per non farla scivolare).
DESCRIZIONE
- Il prezioso cimelio è in lega di
argento e oro all'80% circa, ed è
composto di sei placche legate fra
loro da cerniere verticali; ha il
diametro di cm 15 e l'altezza di cm
5,5; il peso è di 535 grammi. È
adornata di ventisei rose d'oro a
sbalzo, ventidue gemme di vari
colori e ventiquattro placchette
floreali a smalto cloisonné. Le
gemme rosse sono granati, viola sono
ametiste, il corindone è blu scuro.
Altre decorazioni sono in pasta
vitrea.
La lamina circolare che
tradizionalmente si identifica con
il Sacro Chiodo corre lungo la
faccia interna delle sei placche. La
corona è troppo piccola per cingere
la testa di un uomo: si ritiene
perciò che in origine fosse
composta di otto placche invece che
sei. La corona è custodita nella
cassaforte protetta da due porte. È
nella teca dal 1885 per volontà di
Umberto I.
Secondo
la ricostruzione di Valeriana
Maspero, in origine le placche d'oro
avevano soltanto la gemma centrale,
come si vede in alcune monete che
ritraggono Costantino con il suo
elmo in testa. Due corone ritrovate
nel XVIII secolo a Kazan', in
Russia, sono del tutto simili;
probabilmente anche la Corona Ferrea
fu opera di orefici orientali.
Le
lastrine colorate con le altre
pietre furono aggiunte
presumibilmente da Teodorico, il
quale fece rimontare il diadema su
un altro elmo, in sostituzione di
quello trattenuto dai bizantini.
Carlo Magno fece poi sostituire
alcune delle lastrine che si erano
rovinate. L'esame al Carbonio 14
condotto su due pezzetti di stucco
ha infatti datato uno di essi
intorno al 500, e l'altro intorno
all'800. L'aspetto della corona
successivo al restauro di Carlo
Magno è testimoniato dai documenti
dell'incoronazione di Federico
Barbarossa: essa non era più
montata su un elmo, ma portava solo
un archetto di ferro sulla sommità.
Essa aveva ancora la dimensione
adatta ad essere portata sulla
testa.
Le
due placche mancanti furono
probabilmente rubate mentre la
corona era in pegno agli Umiliati,
che la conservavano nel loro
convento di Sant'Agata (nell'attuale
piazza Carrobiolo a Monza). I
documenti successivi al 1300 infatti
la descrivono come
"piccola". Nel 1345 essa
fu affidata per un secondo restauro
all'orafo Antellotto Bracciforte, il
quale le diede l'aspetto attuale.
IL
SACRO CHIODO - L'identificazione
della lamina metallica inserita
nella corona con il chiodo della
Passione di Cristo sembra risalga al
XVI secolo. San Carlo Borromeo, che
rilanciò la venerazione del Sacro
Morso custodito nel duomo di Milano,
visitò più volte anche la Corona
Ferrea e vi pregò davanti. Nel 1602
Bartolomeo Zucchi affermava con
certezza che la corona era il
diadema di Costantino e che in essa
vi era il sacro chiodo. Un secolo più
tardi, però, Ludovico Antonio
Muratori esprimeva parere contrario;
egli notava tra l'altro che,
rispetto alla dimensione di un
chiodo romano da crocefissione, la
lamina era troppo piccola.
Nel
frattempo anche le autorità
ecclesiastiche esaminarono il
problema: finalmente nel 1717 il
Papa decretò che, pur in assenza di
certezza sull'effettiva presenza del
chiodo nella corona, ne era
autorizzata la venerazione come
reliquia, in base alla tradizione
ormai secolare in tal senso.
Nel
1993, la corona è stata sottoposta
ad analisi scientifiche, e il
verdetto è stato clamoroso: la
lamina non è di ferro, bensì
d'argento. Secondo alcuni studiosi,
essa fu inserita dal Bracciforte nel
1345 per rinsaldare la corona, che
era stata danneggiata dal furto di
due placche; gli autori
cinquecenteschi, perduta memoria di
questo intervento, e sapendo
dall'orazione di sant'Ambrogio che
nella corona era inserito il sacro
chiodo, conclusero che doveva
trattarsi della lamina, che
"per miracolo" non era
arrugginita.
Altri
ritengono invece che la corona sia
effettivamente il diadema di
Costantino, e che con il sacro
chiodo fossero stati forgiati due
archetti incrociati che venivano
usati per agganciare il diadema
all'elmo (e non il cerchio che si
trova oggi nella parte interna della
corona). Quando i bizantini
sganciarono il diadema per darlo a
Teodorico, essi trattennero anche
gli archetti. L'elmo rimase esposto
nella chiesa di Santa Sofia a
Costantinopoli, appeso sopra
l'altare, fino al saccheggio
veneziano del 1204, dopo di che se
ne ignora la sorte. In ogni caso la
Chiesa continua ad autorizzare la
venerazione della reliquia, che
sarebbe, secondo l'ipotesi
dell'archetto dell'elmo, una
reliquia di secondo tipo, cioè che
deve la sacralità al contatto con
una reliquia di primo tipo (oggetto
legato direttamente a una figura
venerata).
Di
chiodi asseriti della Croce, oltre a
quello della corona e quello del
Duomo di Milano, ne esistono un
terzo, conservato nella basilica di
Santa Croce in Gerusalemme a Roma,
ed un quarto, dalla tradizione più
dubbia, nel Duomo di Colle Val
d'Elsa in provincia di Siena.
Il
sarcofago di Teodolinda
Contro la parete di fondo
della cappella degli Zavattari nel
Duomo di Monza si conserva un
imponente sarcofago in pietra,
sorretto da quattro colonnine,
all’interno del quale riposano
ancora oggi i resti mortali di
Teodelinda, regina dei longobardi.
Morta a Monza, che aveva scelto come
sede del suo regno, nel 627 circa,
la regina viene inizialmente sepolta
in una tomba scavata nel terreno
all’interno della basilica di San
Giovanni Battista da lei stessa
fondata. La sepoltura è oggetto di
costante memoria e di cerimonie
liturgiche da parte dei membri del
Capitolo della basilica monzese in
occasione del giorno anniversario
della morte (22 gennaio), segno che
la figura di Teodelinda viene
costantemente ricordata come
fondatrice della chiesa e, in un
certo senso, responsabile dello
sviluppo del borgo.
All’inizio del XIV secolo, in
concomitanza con i lavori di
ricostruzione del Duomo in forme
gotiche, le fonti tramandano la
notizia della traslazione dei resti
di Teodelinda: nel 1308 con una
importante cerimonia, alla presenza
del podestà Zonfredino della Torre,
i resti vengono rimossi dalla
“tomba terragna ” e trasferiti
nel sarcofago in pietra insieme ai
resti del marito Agilulfo.
Il sarcofago rappresenta la prima
opera documentata della
ricostruzione trecentesca del Duomo:
realizzato in marmo, poggia su 4
colonnette con capitelli lisci a
foglie d’acqua e basi con
fogliette protezionali agli angoli.
La forma è arcaizzante, diffusa nel
primo Trecento, la cassa liscia con
una semplice cornice e sottili
colonnette appena rilevate agli
spigoli, coperchio a spioventi con
acroteri.
La parte posteriore è solo
sbozzata, così da far ipotizzare
che sin dalle origini fosse
addossato ad una parete. Il cronista
milanese Galvano Fiamma, che scrive
negli stessi anni di inizio
Trecento, ricorda una immagine della
regina scolpita sul sarcofago, oggi
perduta.
Posto sul fondo della cappella
dedicata a San Vincenzo (oggi nota
come cappella degli Zavattari o di
Teodelinda), il sarcofago venne
spostato dietro ordine di San Carlo
Borromeo e ricollocato nella
cappella da Luca Beltrami durante
una serie di lavori di restauro
condotti alla fine dell’Ottocento.
La tomba venne aperta per una
ricognizione nel 1941: in questa
occasione fu rinvenuto materiale
longobardo, tra cui una piccola
barra di fibula di fattura
barbarica, oltre ai resti di una
donna e di due uomini,
tradizionalmente identificati con il
marito Agilulfo e il figlio
Adaloaldo.
I
tesori
Il
Museo e Tesoro del Duomo di Monza
custodisce cimeli e reliquie che ci
riportano ai primi secoli del
Cristianesimo ed all’epoca
longobarda e ci accompagna sino ai
nostri giorni senza soluzione di
continuità. Si va da una serie di
ampolline palestinesi e romane,
databili alla seconda metà del VI
secolo, agli splendidi preziosi del
periodo tardo romanico, VI-VII
secolo, come la Croce detta di
Agilulfo, la Corona votiva e la
legatura dell'Evangeliario di
Teodolinda; dai capolavori di epoca
carolingia, IX secolo, come il
Reliquiario del dente di S. Giovanni
e la Croce reliquiario di Berengario
I, alle opere artistiche di scuola
lombarda, come la Madonna col
Bambino in pietra ed il San Giovanni
Battista in rame dorato del XV
secolo; dai lasciti dell’età
viscontea, come il Calice di
Giangaleazzo Visconti e lo Stocco di
Estorre Visconti, agli arazzi
cinquecenteschi, fino alle tele del
XVII-XVIII secolo.
Tra
gli oggetti più famosi, la chioccia con i sette pulcini
- simbolo longobardo della vita -
realizzata in argento dorato, con rubini incastonati
negli occhi della chioccia e
smeraldi in quelli dei pulcini;
quest'opera è datata intorno al
sesto secolo; il dittico di avorio
detto di Stilicone, Eucherio e
Serena del IV secolo, la tazza di
zaffiro (si tratta di uno splendido
calice gotico), la coperta
dell'Evangelario di Teodolinda in
oro, pietre preziose e perle; sedici
ampolle che custodivano l'olio delle
lampade che ardevano nei luoghi
Santi; il Reliquiario del Dente di
San Giovanni Battista; i frammenti delle vesti
di San Gregorio Magno; un Tabernacolo in avorio
del 1400.
Il
Museo e Tesoro del Duomo costituisce
quindi un’eccezionale raccolta di
opere d’arte e testimonia di come
la fede abbia saputo ispirare nel
corso dei secoli tante generazioni
di artisti ed artigiani, sostenuti
da non meno importanti atti di
sincero mecenatismo.
Il
Tesoro ha reso Monza e la sua
Basilica, famosa nei secoli.
Purtroppo quello che resta oggi è
solo parte di un patrimonio
importantissimo, il cui primo
inventario conosciuto risale
all’anno 1275. Le perdite più
ingenti si ebbero in epoca
napoleonica, quando, per provvedere
alle spese di guerra, nel 1796, la
Basilica dovette consegnare due
terzi dell’oro e metà
dell’argento che possedeva, per
essere fusi.
Nonostante
le perdite, il Museo e Tesoro del
Duomo conserva intatto il fascino
che gli deriva dalla lunghissima
tradizione ma anche dalle capacità
di rinnovarsi ed arricchirsi, come
avvenuto nel 2007, con
l’inaugurazione della nuova ‘Sezione
Gaiani’, che amplia
notevolmente gli spazi del
precedente nucleo ipogeo della ‘Sezione
Serpero’, del 1963.
La
sezione dedicata alla memoria di Filippo
Serpero è dedicata soprattutto alla
scomparsa basilica altomedioevale,
mentre la
sezione dedicata a Carlo Gaiani
raccoglie soprattutto testimonianze
a partire dal 1300, data
d’inizio della ricostruzione
dell’attuale basilica.

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