Le mummie d'oro dell'oasi di Bahariya

 

L’oasi di Bahariya è la più settentrionale delle quattro oasi del Deserto Libico egiziano che costituisce la parte più orientale del Sahara. L’origine del toponimo non è certa, ma è assai probabile che sia in rapporto con il termine arabo bahar, che viene utilizzato comunemente per indicare il Mar Mediterraneo (el-bahr el-abiyad “il Mar Bianco”): poiché il Mar Mediterraneo rappresenta il confine settentrionale dell’Egitto, si ritiene che il toponimo “Bahariya” stia a indicare l’oasi settentrionale o “oasi del Nord” come, d’altra parte, è citata da fonti epigrafiche di età tolemaica.

Bahariya si trova a sud-ovest del Cairo, a circa 380 chilometri di distanza dalla capitale, ed è costituita da una vasta depressione di forma lenticolare, lunga 94 chilometri e larga una quarantina, nella quale si innalzano alcune colline calcaree.

In questo vasto bacino naturale ricco di sorgenti d’acqua di origine termale, gli Egiziani si insediarono a partire dal Medio Regno, periodo al quale risalgono i primi importanti lavori idraulici nella relativamente vicina regione del Faiyum, e soprattutto all’epoca della XVIII Dinastia, quando l’oasi incominciò ad acquisire una certa importanza dal punto di vista commerciale e strategico. La sua posizione, infatti, permetteva un controllo delle piste che collegavano la Valle del Nilo al deserto occidentale e alla Libia. 

A tale periodo risalgono i primi monumenti funerari di Bahariya, come quello di Amenhotep, detto “Huy”, governatore dell’oasi, situato a qualche chilometro dall’attuale villaggio di el-Qasr, i cui bassorilievi testimoniano come all’epoca la regione fosse un centro di produzione di vino e di grano, che permetteva agli abitanti di vivere in un regime di autosufficienza. Ma è soprattutto durante la XXVI Dinastia che l’oasi assunse un livello di importanza mai raggiunto fino ad allora. In quel tempo, dopo i disordini e le incertezze che avevano caratterizzato il Terzo Periodo Intermedio e le successive dinastie etiopi, i sovrani saiti avevano riorganizzato l’Egitto sul piano amministrativo e militare, mentre i Greci si erano assicurati il controllo della Cirenaica, la regione della Libia situata al confine del Deserto Occidentale.

Bahariyua diventò, all’epoca del faraone Amasi, il punto nevralgico dei commerci tra la Libia e la Valle de Nilo e godette di una notevole prosperità come attestano le quattro grandi tombe risalenti a questo periodo, ritrovate presso il villaggio di Bawiti, considerato ancor oggi la capitale dell’oasi.

Le sepolture appartenevano a due alti funzionari statali preposti all’amministrazione del territorio e che portavano i nomi di Petasthar e Thary, e a due ricchi commercianti, padre e figlio, chiamati Gedamonefankh e Bannentiu. Le loro due tombe, di tipo ipogeo e situate a pochi metri l’una dall’altra, avevano decorazioni parietali di notevole bellezza, che si ispiravano a quelle delle tombe tebane.

Sempre a questo periodo risale la prima grande sepoltura comune scoperta a Bahariya e situata a circa un chilometro a sud-ovest delle precedenti, in un sito chiamato Qarat al-Farargi, ossia “la collina del venditore di polli”. Si trattava di una immensa necropoli riservata non agli esseri umani ma agli ibis, un uccello oggi scomparso dal territorio egiziano, considerato l’emblema del dio Thot. In un dedalo di corridoi e di stanze sotterranee sono stati ritrovati migliaia di ibis mummificati: questo sepolcreto era considerato talmente importante, da diventare meta di veri e propri pellegrinaggi.

Bahariya era ormai un centro di notevole importanza quando, nella seconda metà del IV secolo a.C., ricevette la visita di Alessandro Magno, di ritorno dal suo viaggio all’oasi di Siwa, sede di un tempio dove si trovava il celebre oracolo di Giove Ammone: il condottiero macedone vi si era recato per ottenere una conferma divina al suo preteso diritto al trono d’Egitto.

Alessandro fece costruire a Bahariya un tempio a lui dedicato, che è ancor oggi ben visibile nella località chiamata Qasr-el-Megisbah e che era, fino a quale tempo fa, il monumento più famoso dell’oasi.

Nel 1996, infatti, a Bahariya il celebre archeologo egiziano Zahi Hawass e la sua equipe scoprirono un’immensa necropoli di età romana. Gli scavi, iniziati nel 1999, hanno permesso di appurare che si tratta del più grande e importante cimitero di questo periodo mai ritrovato in Egitto: secondo una prima stima, dovrebbe ospitare centinaia di sepolture distribuite su una superficie calcolata in circa 36 chilometri quadrati. Questo straordinario ritrovamento, oggetto di innumerevoli articoli e reportage sulla stampa mondiale, ha reso in pochi mesi celebre il nome di Bahariya.

Le quattro tombe scavate fino ad ora contenevano decine di mummie in perfetto stato di conservazione, molte delle quali erano state preparate secondo una particolare tecnica detta cartonnage. Essa prevedeva l’apposizione su volto della mummia di una maschera formata da bende di lino intrise nel gesso e successivamente ricoperte con un sottile strato di pittura dorata, sulla quale veniva dipinta o modellata la decorazione finale, costituita da motivi floreali che evocavano il concetto di rigenerazione, da raffigurazioni di divinità connesse con il mondo funerario e da rappresentazioni di amuleti protettivi. In corrispondenza del volto erano dipinti gli occhi, per cercare di riprodurre nella maniera più fedele le fattezze del defunto.

Le mummie di Bahariya, alcune delle quali erano state collocate all’interno di sarcofagi antropoidi di argilla assai semplici e senza iscrizioni, mostrano gli elementi decorativi tipici dell’epoca romana in Egitto, quando i motivi dell’età faraonica erano mescolati a elementi classici e divinità del pantheon egiziano comparivano accano a quelle della mitologia romana.

Per quanto riguarda la tipologia delle tombe di Bahariya finora studiate, si tratta di sepolture scavate nella roccia, come quelle della XXVI Dinastia, utilizzate però come necropoli comuni, una pratica, questa, assai in uso all’epoca e della quale troviamo una continuazione nelle catacombe cristiane. La più importante delle tombe esaminate, contrassegnata dal numero 54, presenta una stretta scala che discende in una prima camera sepolcrale: da qui si penetra in una seconda camera, sulle cui pareti si aprono gli ingressi di altre due sale laterali. 

La sepoltura conteneva una quarantina di mummie, la cui perfetta conservazione era indubbiamente favorita dall’assenza di umidità che caratterizza le zone desertiche e che, in molti casi, rende addirittura possibile una vera e propria mummificazione naturale. In età greco-romana, in effetti, la mummificazione era ormai diventata un procedimento piuttosto semplice, rapido ed economico, che poteva quindi essere applicato a un numero elevato di defunti e non a pochi privilegiati forniti di notevoli possibilità economiche, come accadeva durante l’epoca faraonica.

Il processo di imbalsamazione aveva ormai perso gran parte del suo aspetto magico-religioso e le mummie erano preparate in serie in enormi laboratori a opera non più di sacerdoti, ma di operai specializzati che cercavano di utilizzare la minor quantità possibile di balsami preziosi, ovviamente a discapito della qualità del prodotto finale.  

Salvo casi eccezionali, il corpo del defunto non veniva più deposto in un sarcofago ligneo antropoide, ma semplicemente avvolto nelle bende di lino. La maschera di stucco dorato, che ricopriva il volto di molte mummie di età tarda, simboleggiava il sarcofago e ne faceva le veci.

La scoperta della necropoli romana di Bahariya e delle sue ormai celebri “mummie dorate” permette di fare nuova luce non solo sulle tecniche di imbalsamazione in uso in quel periodo, ma soprattutto renderà possibile ottenere dati preziosi sull’intera popolazione dell’oasi, sulle sue abitudini alimentari e sulle sue malattie.

 
Fonte:
Dimore eterne - Alberto Siliotti