Le tombe e i tesori dei re di Micene

 

Fra i secoli XVII e XII a.C., in buona parte della Grecia eneolitica e, almeno dal XIV secolo a.C., a Creta, fiorì la più importante civiltà mediterranea occidentale preclassica, universalmente chiamata “micenea” dal nome di Micene, la città dell’Argolide nella quale gli scavi, avviati da Heinrich Schliemann negli anni Settanta del XIX secolo e tuttora in corso, hanno riportato alla luce gli impressionanti resti di uno dei suoi più importanti centri politici ed economici.

Micene sorse nel XVII secolo a.C., su una ripida collina in vista della fertile piana di Argos e del Golfo di Nàfplion, ben protetta dai monti Sara e Aghios Ilias e dalle diversamene scoscese forre del Chàvos e della Kokorètsa. La sua grandiosa cinta muraria fu eretta in tecnica poligonale “ciclopica”, con alcuni inserti più recenti in tecnica pseudo-isodoma (cioè a filari quasi regolari di blocchi parallelepipedi).

Il suo accidentato perimetro corre per circa un chilometro attorno ai resti del palazzo e dell’abitato scavati, seguendo le asperità della collina; non conosciamo, per conto, l’altezza originaria e più specifici dettagli delle strutture difensive. Più sicura è la cronologia: all’impianto della metà del XIV secolo a.C., più strettamente relato alla difesa del palazzo reale, seguirono il rilevante ampliamento della metà del XIII secolo a.C., e un’ulteriore, breve espansione a est circa un secolo dopo. Esso fu costruito in modo da conglobare il Circolo A, la necropoli reale del XVI secolo a.C., che fu trasformata in santuario funerario con caratteristiche culturali molto prossime a quelle di un heròon.

Qui Heinrich Schliemann e i suoi successori (1876) scoprirono e scavarono sei tombe a fossa. L’architettura funeraria nei centri micenei si era espressa in forme monumentali fino dal XVII secolo a.C., quando erano apparse le prime sepolture a camera semplice, interamente scavate nel banco roccioso, normalmente composte di una camera funeraria quadrangolare di circa 6 metri di lato, precedute da un corto corridoio (dròmos) d’accesso e non di rado opposte a “cappelle” destinate al rituale funebre: la loro adozione, secondo gli studiosi, testimonierebbe un’influenza di tipi sepolcrali egiziani e cretesi, probabilmente non ai Micenei grazie alle strette relazioni intercorrenti con il Paese dei Faraoni e con l’isola di Minosse.  

Contemporaneamente era stato elaborato e diffuso il tipo tombale a fossa, consistente in una vasta camera ipogea con pavimentazione in ciottoli, pareti in piccola apparecchiatura e copertura in assito ligneo e terra e con travicelli sostenenti sottili lastre di pietra.

Di queste imponenti camere funerarie, gli esempi più impressionanti sono proprio le sei camere ipogee scavate da Schliemann e Stamatàkis all’interno del Circolo A – come si è detto, la più antica necropoli reale, inglobata entro le mura della cittadella e chiaramente convertita, previo consolidamento del terrapieno con poderosi contrafforti in piccola apparecchiatura, in santuario “eroico”: un recinto sacro costituito da un dròmos coperto in sistema trilitico  demarcava lo spazio funerario, sul quale undici stele, decorate e non, indicavano il luogo delle sepolture, destinate a essere riaperte e richiuse in occasione di nuove deposizioni.

È da queste tombe, nelle quali giacevano diciannove defunti (otto uomini, nove donne e due bambini), che provengono i ricchissimi corredi esposti al Museo Archeologico Nazionale di Atene, comprendenti le più famose e ammirate oreficerie prodotte dalla civiltà micenea: le peculiari maschere funerarie in lamina d’oro, poste sui volti delle salme e, secondo un’ipotesi del Demargne, lavorate direttamente sul volto del defunto; i “servizi” di vasi da cerimonia; gli ornamenti personali; le armi d’uso pratico e da parata.

Queste impressionanti testimonianze della ricchezza dei wànakes (signori) di Micene e della sua ostentazione nel cerimoniale funebre precedente la sepoltura  - dobbiamo, infatti, immaginare che una solenne processione accompagnasse il defunto all’ultima dimora e che in essa fossero portati in pubblico i preziosi oggetti destinati ad accompagnarne il sonno eterno – hanno indotto gli archeologi a chiedersi da quali regioni i Micenei trassero l’oro, data la scarsità dei giacimenti sul suolo ellenico. 

A. MICENE

B. CIRCOLO A

B. CIRCOLO B

D TESORE DI ATREO (AGAMENNONE)

E. TOMBA DI CLITEMNESTRA

F. TOMBA DI EGISTO

G. TOMBA DEI LEONI

L’origine semitica del vocabolo miceneo che indica il biondo metallo, ku-ru-so, ampiamente documentato nelle tavolette fittili in Lineare B (la scrittura in uso presso questo popolo) e chiaramente affine al più recente chrysos del greco classico, ha portato molti a pensare a un accentuato approvvigionamento in Egitto e nel Vicino e Medio Oriente, considerate le importanti interazioni economico commerciali e culturali fra queste realtà e i centri micenei attraverso gli scali realizzati da questi ultimi lungo le coste anatoliche meridionali e siro-palestinesi. L’interesse palesato dagli Achei verso lo stretto dei Dardanelli e il Mar Nero lascia immaginare anche una “via pontica” all’oro delle lontane regioni “iperboree” e non si può neppure escludere a priori la possibilità di una provenienza del prezioso metallo dalle lontane terre del sud della Penisola Iberica, dove le interazioni tartessico-micenee sembrano essere state piuttosto strette.  

L’oreficeria micenea, in ogni caso, risentì costantemente dell’influenza cretese, sia sul piano tematico, sia su quello strettamente figurativo e stilistico, dapprima attraverso l’acquisizione di prodotti di lusso minoici, quindi, dopo la conquista di Creta (XV secolo a.C.), in forma più strettamente interattiva. Il sostrato formale indigeno, tendente a tipi decorativi astratti e geometrizzanti, fu arricchito e stimolato da quello minoico, improntato al naturalismo figurativo, sia attraverso l’importazione di oggetti di produzione minoica, sia per opera di una probabile, benché non ancora dimostrabile, attività di artisti cretesi nei centri micenei.

Caratteristicamente micenee sono le sei maschere auree in lamina sbalzata e incisa, fra le quali ha meritata celebrità quella fantasiosamente attribuita dallo Schliemann ad Agamennone, re di Micene e comandante della spedizione achea nella Guerra di Troia narrata nell’Iliade, in realtà posta sul volto di un wànax morto verso la metà del XVI secolo a.C., ben trecento anni prima del figlio di Atreo.

Il valore di tanto sfarzo è non paradossalmente accresciuto dalla sua destinazione all’oscurità di una tomba; il significato di tali oggetti non sembra, d’altra parte, potersi limitare a una semplice intenzione di perpetuazione del volto defunto – oltretutto schematicamente delineato – in materiale prezioso.

Nella prima metà del XIV secolo a.C., fecero la loro comparsa le più originali realizzazioni funerarie del mondo miceneo, le enormi tombe a falsa cupola (thòlos) destinate all’eterno sonno dei reali, nate probabilmente da un archetipo cretese sviluppato in modo autonomo fin dal XVI secolo a.C., in Messenia e di lì approdato in Argolide, dove proprio a Micene si trovano gli esempi più belli e famosi.

La tomba a thòlos più celebre è certamente il cosiddetto “Tesoro di Atreo”, databile al 1250 a.C. circa: in essa appaiono definitivi i caratteri elaborati nel corso dei secoli per questo spettacolare tipo di struttura tombale. La grandiosa camera circolare a falsa cupola è preceduta da un dròmos scoperto lungo 36 metri e largo 6, fiancheggiato da pareti gradienti di enormi blocchi parallelepipedi disposti in filari regolari. L’accesso è costituito dalla luce di un’altissima porta (5 metri x 3 circa) la cui lastra di chiusura, ritrovata in frantumi a causa del probabile saccheggio della tomba e dell’assoluta, irridente incuria che le autorità turche tollerarono all’epoca della propria dominazione della Grecia, era decorata e inquadrata da colonne di marmo verde a fusto liscio con motivi decorativi a zig-zag, tipicamente micenei. Il triangolo di scarico era riempito con una lastra a motivi decorativi geometrici e “architettonici” e a sua volta inquadrato da colonnine di marmo verde. Impressionante è l’architrave, pesante circa 120 tonnellate. La grande sala circolare si innalza oltre i 13,50 metri di altezza su un diametro di 14,50.

Filari concentrici di blocchi, opportunamente sagomati e stuccati in modo da rendere perfettamente la curvatura della falsa cupola, si sovrappongono in costante, modesto aggetto fino alla lastra-chiave, che sigillava la struttura.

Lateralmente, scavata nel banco roccioso dal quale - all’esterno - emergeva la cupola coperta di terriccio digradante anche ai lati del dròmos, si apriva la piccola camera funeraria.

Più vicino al lato occidentale delle mura dell’acropoli, poco distanti dalla celebre Porta dei Leoni, sono le tombe a fossa del Circolo B (1650-1550 a.C.), una piccola necropoli reale che ha restituito corredi meno ricchi di quelli del Circolo A. La struttura funeraria, in tecnica poligonale, aveva un diametro di 28 metri e conteneva quattordici tombe di foggia analoga a quelle del Circolo intramurano, indicate da stele, e dodici sepolture a inumazione, a quanto pare, riservate a personaggi di più modesta levatura sociale.

La Tomba R fu riutilizzata nel XV secolo a.C. e provvista di un corridoio d’accesso coperto, secondo una tipologia propria dei centri micenei sulle coste cipriote e siriane.

Antichissima (1550 a.C. circa) è la cosiddetta thòlos di Egisto, la cui falsa cupola, parzialmente crollata, era alta intorno ai 12 metri e aveva un diametro di 14 metri circa; il suo corridoio d’accesso fu scavato direttamente nella roccia, così come una parte della camera funeraria circolare, per una lunghezza di 22 metri; l’ingresso fu abbellito in epoca successiva a quella del primo approntamento.

Poco distante, naturalmente per necessità epica più che per ragioni filologiche, è la cosiddetta thòlos di Clitennestra (1250 a.C.), accessibile per mezzo di un dròmos di 37 metri e saccheggiata sia nell’antichità, sia durante l’ultima fase della dominazione ottomana della Grecia.

La sua facciata e il suo triangolo di scarico furono corredati da semicolonne e lastre di gesso decorate e dipinte. La camera funeraria, perfettamente circolare, ha un diametro di 13,50 metri.

Altre tombe a falsa cupola si trovano attorno a Micene e si datano normalmente fra il 1400 e il 1250 a.C.: notevole e di non difficile accesso è la cosiddetta thòlos dei Leoni, di dimensioni pari a quella di Egisto, con la volta crollata; più scomoda è la visita delle poche altre tombe a thòlos sul versante ovest della collina delle necropoli reali.

Anche la Micene dei vivi, però, offre un eccezionale colpo d’occhio sugli aspetti della civiltà che da essa ha derivato il nome e i cui caratteri distintivi si possono indicare in un’articolazione sociale piramidale, avente il proprio vertice nel wànax e il proprio nerbo nella nobiltà guerriera, proprietaria di terre e risorse, abile nella promozione, nello sviluppo e nel coordinamento delle attività di un vitalissimo ceto artigiano e mercantile in imprese di vasto respiro economico.

Il ruolo di grande potenza commerciale dell’Età del Bronzo mediterranea rivestito dai Micenei è stato, infatti, confermato dai fitti ritrovamenti di prodotti micenei in tutto il bacino del Mediterraneo, dal Vicino Oriente al sud della Penisola Iberica; in Italia, dal basso corso del Po e dell’Adige alla Puglia e alla Sicilia. La bella ceramica, i manufatti metallici finemente lavorati, le stoffe di pregio erano irradiati da centri diversi, che potevano contare su una rete di stazioni commerciali decentrate, gli empori, cui probabilmente toccava il compito di distribuire le esportazioni e organizzare la raccolta delle materie prime nelle varie regioni di riferimento.

Emozionante è l’itinerario archeologico che muove, ai piedi delle poderose cortine murarie a sud, dalla famosa Porta dei Leoni o, seguendo un percorso più tortuoso, dalla più modesta Porta Nord, come la prima a pianta scea. La Porta dei Leoni fu realizzata nell’antichissima tecnica trilitica, particolarmente diffusa in ambito miceneo, con due elementi verticali, i piedritti, e un massiccio architrave ingrossato al centro. Al di sopra di quest’ultimo fu adottato un caratteristico espediente dell’architettura ”ciclopica” micenea, il “triangolo di scarico”: per evitare che l’elemento orizzontale del sistema trilitico fosse oppresso dal peso della massa muraria in corrispondenza della luce della porta, i blocchi furono opportunamente sagomati e sovrapposti in progressivo aggetto, in modo da scaricare il proprio peso alle estremità dell’architrave, in corrispondenza dei suoi appoggi sui piedritti, lo spazio triangolare vuoto così determinatosi fu, come sempre, colmato con decorazioni a rilievo, in questo caso in pietra di spessore di molto inferiore al resto del muro.

L’impatto visivo con la Porta dei Leoni e i suoi bastioni, disposti nello schema sceo, è fortissimo: il rilievo sopra la colossale architrave monolitica presenta evidenti riferimenti stilistici mediorientali e tutta la forza simbolista dell’arte di questa monocrazia guerriera. La lastra a rilievo, infatti, documenta un indirizzo abbastanza tipico dell’arte micenea, improntata al figurativismo naturalistico, ma senza il vivace colorismo e la morbidezza dei passaggi chiaroscurali dell’arte minoica: un’arte più asciutta, dunque, come rivelano anche alcune manifestazioni in campo pittorico. Salendo le rampe di scale che conducono alla sommità dell’acropoli naturale, si giunge ai resti del palazzo reale, risalente al 1350-1330 a.C. circa, incentrato su una struttura tipicamente micenea, il mègaron, organizzato su più livelli, con propilei, cortili, ambienti di servizio e residenziali distribuiti in parte su due piani, accessibili per mezzo di scale.

È quanto resta delle stanze che videro le vicende, ora gloriose, ora tragiche, degli Atridi: in un punto, in particolare, la suggestione è forte, poiché le tracce di pittura pavimentale a fondo rosso rinvenute in un bagno sono state suggestivamente subito poste in relazione con l’episodio dell’assassinio di Agamennone, reduce da Troia, da parte della moglie Clitennestra e dell’amante di questa, Egisto, così come narrato nelle memorabili pagine della tragedia Agamennone di Eschilo. Anche qui i materiali architettonici usati dovettero essere in larga misura, oltre alla pietra, che aveva funzioni eminentemente portanti, il legno lo stucco.

Motivi di grande interesse offrono alcuni edifici dell’acropoli di Micene appartenuti verosimilmente a famiglie dell’aristocrazia guerriera sottomessa al wànax: all’interno delle mura, lungo il fianco meridionale della collina, la “Casa dei Guerrieri” e, più in alto la “Casa delle colonne”; all’esterno la “Casa del mercante d’olio”, che testimonia lo sviluppo di residenze “borghesi” in prossimità del palazzo.

Una postierla segreta a falsa volta, infine, è conservata nel settore nord-orientale, verso la montagna, ben visibile per gli abitanti, quasi impercettibile per chi vi si avvicinasse dall’esterno.

Da uno spiazzo sottostante quest’ultima si può ancora percorrere il primo tratto della lunga rampa di scale coperta, discendente fino a 18 metri di profondità, dove un pozzo-cisterna garantiva l’approvvigionamento idrico anche in caso di assedio.

Ecco……: è già tempo di ritornare alla rampa che scende dalla Porta dei Leoni, di dare un ultimo sguardo alla valle che si apre verdeggiante di agrumeti e vigneti ai piedi dell’antica rocca degli Arridi e fino al mare, di pensare e ricordare: Micene ha parlato dal silenzio.

Collegamento:
  
Fonte:
Dimore eterne - Alberto Siliotti