All'interno
della storia
romana si definisce abitualmente età degli Imperatori
adottivi (o Imperatori d'adozione) il periodo che
va dal 96 (elezione
di Nerva)
al 180 (morte
di Marco
Aurelio), caratterizzato da una successione al trono
stabilita non per via familiare, ma attraverso l'adozione,
da parte dell'imperatore in
carica, del proprio successore. Unanimemente considerata una
delle età più splendenti della storia romana, l'età degli
Imperatori adottivi ha
fatto seguito ai travagli degli ultimi anni della Dinastia
dei Flavi e ha preceduto il ritorno al principio
dinastico con Commodo e
la successiva guerra
civile romana (193-197). Anche Commodo è incluso
idealmente e il suo principato è considerato la conclusione
degli Imperatori adottivi.
A
volte, due dei cinque "buoni imperatori"
del II
secolo (Antonino
Pio e Marco
Aurelio, escludendo nei computi Lucio
Vero, co-imperatore nei primi anni di Marco) vengono
raccolti, assieme a Commodo, in una dinastia degli
Antonini, che tuttavia non è una dinastia in
senso stretto: gli imperatori infatti salivano al trono non
in seguito alla loro parentela, ma in quanto scelti come
successori dal loro predecessore, dal quale venivano
formalmente adottati,
poiché gli adottanti erano quasi tutti privi di eredi
maschi.
Gli
imperatori erano comunque imparentati tra loro più o meno
alla lontana e questi legami familiari includono anche le
famiglie di Traiano (della gens Ulpia)
e di Adriano (della gens Elia).
Questi ultimi erano parenti, rispettivamente zio e nipote,
tanto da esser raccolti spesso in una prima dinastia
denominata dinastia dei Nerva-Traiani, successivamente
diventata Nerva-Antonini con l'adozione di
Antonino Pio, il quale aveva una parentela lontana con
Adriano. Marco Aurelio era il nipote di Antonino (Faustina
maggiore, moglie di Antonino, era sorella del padre
di Marco), che sposerà la cugina, figlia di Antonino
stesso, Faustina
minore. Lucio Vero, adottato con Marco da Antonino,
sposò la figlia di Marco stesso, Annia
Aurelia Galeria Lucilla, divenendone il genero.
Commodo, infine, era il figlio naturale di Marco Aurelio.
Grande
importanza ebbero le figure femminili: ascoltate consigliere
di Traiano erano la moglie Plotina,
la sorella Marciana (che
alla sua morte venne divinizzata)
e la figlia di costei, Matidia.
Anche i legami familiari passarono spesso per la linea
femminile, come nel caso del citato legame di Marco Aurelio
con Antonino.
Il
periodo che va dalla fine del I alla fine del II secolo è
caratterizzato da una successione non più dinastica, ma
adottiva, basata sui meriti dei singoli scelti dagli
imperatori come loro successori.
L'Impero
romano arrivò all'apice della sua potenza durante i
principati di Traiano, Adriano, Antonino
Pio e Marco
Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò
al figlio Commodo,
che portò il principato verso una forma più autocratica e
teocratica. Il potere delle istituzioni tradizionali si andò
indebolendo e il fenomeno proseguì con i suoi successori,
sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito per
governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si
ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale.
La dipendenza sempre più accentuata del potere imperiale
dall'esercito condusse, nel 235 circa,
a un periodo di crisi militare e politica, definito dagli
storici come anarchia
militare.
Il
periodo che va dalla fine del I alla fine del II secolo è caratterizzato da
una successione non più dinastica, ma adottiva, basata sui meriti dei singoli
scelti dagli imperatori come loro successori.
L'Impero
romano arrivò all'apice della sua potenza durante i principati di Traiano, Adriano, Antonino
Pio e Marco
Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò al figlio Commodo,
che portò il principato verso una forma più autocratica e teocratica. Il
potere delle istituzioni tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno
proseguì con i suoi successori, sempre più bisognosi dell'appoggio
dell'esercito per governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si
ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La dipendenza
sempre più accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse, nel 235 circa,
a un periodo di crisi militare e politica, definito dagli storici come anarchia
militare.
Nerva
nacque presso l'antica colonia
romana di Narnia (l'odierna Narni,
in provincia di
Terni), nella Regio
VI Umbria, figlio di Cocceio Nerva, famoso giureconsulto,
e di Sergia Plautilla, figlia a sua volta del console Popilio
Lena. Aveva un fratello, Gaio Cocceio Nerva.
Molto
amico di Vespasiano,
ne fu nominato generale e governatore della provincia
Mauretania.
Nerva
non aveva seguito l'usuale carriera amministrativa (il cursus
honorum), anche se era stato console durante l'impero di Vespasiano nel 71 e
con Domiziano nel 90.
Quando
fu organizzata la congiura contro Domiziano, Nerva acconsentì a divenirne il
successore. Egli era molto stimato come anziano senatore ed
era noto come persona mite e accorta. Alla morte di Domiziano, Nerva fu
acclamato imperatore in Senato da tutte le classi, concordi sul suo nome.
Durante
il suo regno, breve ma significativo, apportò un grande cambiamento: il
"principato adottivo". Questa riforma prevedeva che l'imperatore in
carica dovesse decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno
del Senato; questo faceva sì che i senatori venissero responsabilizzati.
Inoltre, dall'anno
dei quattro imperatori il Senato aveva subito un cambiamento
epocale: i senatori cominciavano a provenire anche dalle province, rinnovando
così l'antico e oligarchico senato romano. Nerva e Traiano,
inoltre, furono abili nei confronti delle altre classi, annunciando che il
successore poteva essere scelto anche tra la plebe.
Le
loro speranze non andarono deluse: Nerva, infatti, nel suo breve regno fuse le
idee di impero, libertà e pace, dando inizio a un secolo
poi considerato d'oro.
Appena
eletto, fece cessare le persecuzioni contro i cristiani, agli esiliati di
rientrare a Roma, abolì i processi di lesa maestà, reintegrò il Senato
nelle sue prerogative, prodigò le sue terre e i denari per soccorrere i
poveri; inoltre abolì il fiscus
iudaicus (che gravava sugli ebrei dell'Impero)
e la vicesima hereditatum. Nonostante ciò, fu molto duro contro i suoi
delatori.
Fu
addirittura giudicato troppo mite dal Senato e subì una congiura che venne
sventata, esiliando a Taranto colui
che ne era a capo, il senatore Calpurnio Crasso; "Il console Frontone,
secondo quanto si dice, dichiarò che era un male avere un imperatore sotto il
quale nessuno poteva agire in alcun modo (Domiziano), ma era ancora peggio
averne uno sotto il quale a tutti era lecito tutto". Nel 97 fu
nominato console per la terza volta e gli fu collega Lucio
Verginio Rufo.
In
campo economico, Nerva attuò una politica di sgravi fiscali e di incentivi
che doveva favorire le comunità italiche. Gli ebrei furono esentati dal
tributo che era stato loro imposto sotto i Flavi.
Una
legge agraria assegnò appezzamenti di terreno a cittadini nullatenenti. Le
spese che le città dovevano sostenere per il mantenimento del cursus
publicus, cioè del servizio postale, furono addossate alle casse
imperiali. A Roma fu riorganizzato il sistema dell'approvvigionamento idrico;
ci resta di quegli anni l'opera fondamentale scritta dal curatore delle acque, Sesto
Giulio Frontino, sulla progettazione e la manutenzione degli
acquedotti. Un altro grande provvedimento fu la "politica degli
alimenta", che consisteva nell'erogare prestiti a tasso agevolato,
sussidi alle famiglie povere e l'istruzione gratuita agli orfani.
Poiché
Nerva sapeva che il suo incarico non sarebbe durato a lungo, ormai vecchio e
malato decise di adottare un
figlio. In omaggio all'interesse dello Stato, non scelse il successore nella
propria famiglia, ma adottò Marco
Ulpio Traiano, generale delle legioni a difesa del confine renano,
a discapito del governatore della Siria, Marco
Cornelio Nigrino Curiazio Materno. L'adozione coincise con
un'importante vittoria militare in Pannonia,
che diede all'adottato Traiano l'appellativo di Cesare Germanico. Traiano
venne nominato proconsole e
gli fu conferita la tribunicia
potestas.
Nerva
fu nuovamente nominato console, con Traiano, nel 98,
ma morì dopo tre mesi di carica. Il suo successore volle un funerale di
grande solennità. Le sue ceneri furono poste nel mausoleo
di Augusto. Nonostante abbia governato per meno di due anni, egli è
ricordato come uno dei migliori imperatori di Roma.
Marco
Ulpio Nerva Traiano (nelle epigrafi: IMPERATOR
• CAESAR • DIVI • NERVAE • FILIVS • MARCVS • VLPIVS • NERVA •
TRAIANVS • OPTIMVS • AVGVSTVS • FORTISSIMVS • PRINCEPS • GERMANICVS
• DACICVS • PARTHICVS; è stato un imperatoreromano,
regnante dal 98 al 117.
Traiano
proveniva da una colonia romana denominata Italica (odierna Santiponce,
non lontano dall'attuale Siviglia),
nella provincia dell'Hispania
Baetica (all'incirca l'odierna Andalusia),
situata nella parte meridionale della penisola
iberica. La famiglia di Traiano, gli Ulpii Traiani,
era originaria di Todi in Umbria. Italica
era stata fondata nel 206
a.C. da un insieme di veterani (legionari romani e alleati
italici) feriti o malati dell'esercito di Scipione
Africano. È probabile che il primo degli antenati di Traiano a
installarsi in Baetica provenisse proprio da questa armata, sebbene
non sia da escludere che la famiglia vi si sia stanziata successivamente,
secondo alcuni alla fine del I
secolo a.C. Traiano è stato spesso ed erroneamente indicato come
il primo imperatore di origine provinciale, mentre egli proveniva da una
famiglia italica residente in una colonia
romana di provincia.
Il
giorno della sua nascita è il quattordicesimo giorno prima delle Calende di
ottobre, vale a dire il 18 settembre. Tuttavia, l'anno della sua nascita
è il più discusso: alcuni autori suggeriscono infatti l'anno 56, basato
sulla sua carriera come senatore, ma la stragrande maggioranza degli storici
moderni considera che Traiano sia nato nel 53.
Era
figlio di una donna iberica, Marcia,
di cui si sa poco, e di un importante senatore che portava il
suo stesso nome e che era stato pretore attorno
al 59/60,
poi legatus
legionis della legio
X Fretensis durante la prima
guerra giudaica nel 67, probabilmente
prima di diventare preconsole nella Betica. Ulpio Traiano è forse
uno dei primi cittadini romani che non dovette stabilirsi in Italia per
accedere al rango di senatore romano e governare la propria provincia
d'origine. In Giudea,
servì sotto il comando di Vespasiano,
insieme al figlio di lui, Tito. Ottenne quindi il consolato suffectus nel 70, oppure
due anni più tardi nel 72.
Il
padre fu quindi elevato al rango di patrizio nel 73/74,
durante la censura congiunta
di Vespasiano e del figlio Tito. E sempre a partire da questa data, fino
al 76-78,
Vespasiano gli affidò il governo,
come legatus
Augusti pro praetore, della provincia
romana di Siria per circa 3-5 anni, mettendolo a capo della
principale forza militare in Oriente.
Tra la fine del 73 e l'inizio del 74, il padre di Traiano si scontrò con
successo contro i Parti, respingendo facilmente un'incursione del loro re Vologase
I. Per questi successi ricevette gli ornamenta
triumphalia, titolo raro ed eccezionale per quell'epoca. Seguì
quindi il proconsolato d'Asia (forse
nel 79). poi
la carica di sodalis Flavialis, come membro del collegio religioso associato
al culto degli imperatori Vespasiano e Tito. Morì probabilmente prima
dell'anno 98,
quando il figlio divenne imperatore.
Grazie
al suo consolato entrò a fare parte di quella classe superiore e ristretta
dei vir triumphalis, potendo così offrire al figlio un cammino già
prefigurato all'interno dell'ordine
senatorio. E sempre dalla parte di suo padre Traiano ebbe una zia,
Ulpia Traiana, che sposò un certo Publio Elio Adriano Marullino, e che ebbe
un figlio, Publio
Elio Adriano Afro, padre dell'imperatore Adriano. Nell'86 Adriano Afro
morì e Traiano, insieme a un cavaliere romano di Italica, Publio
Acilio Attiano, fu tutore del giovane Adriano, che allora aveva 10
anni, e di sua sorella Elia
Domizia Paolina. Quest'ultima sposò pochi anni più tardi, attorno al 90,
il futuro consolare per ben tre volte Lucio
Giulio Urso Serviano.
Riguardo
invece alla madre,
potrebbe essere appartenuta alla gens
Marcia, visto il nome della figlia e i collegamenti che Traiano ebbe in
vita con questa famiglia, una famiglia probabilmente senatoria e di
provenienza italica, oltreché di rango consolare all'epoca dell'imperatore Tiberio. Riguardo
alla sorella, Ulpia
Marciana, sappiamo che nacque prima del 50, che
sposò un certo Matidius, identificabile probabilmente con Gaio
Salonio Matidio Patruino, attorno al 63.
Quest'ultimo era pretore e
membro del collegio
religioso degli Arvali prima che morisse nel 78;
e da questa unione nacque Salonia
Matidia. Quest'ultima si sposò almeno due volte, una prima con un
certo Mindius, da cui nacque una figlia, Matidia, mentre la seconda
volta fu con Lucio Vibio Sabino, console suffectus, e fu da questa unione
che nacque Vibia
Sabina, la futura sposa dell'imperatore Adriano. Il
suo terzo matrimonio fu con Libo Rupilius Frugi, che era imparentato con
una delle nonne di Marco
Aurelio.
L'infanzia
e l'adolescenza di Traiano sono oscure, ma ricevette sicuramente un'educazione
appropriata al suo rango, imparando grammatica, retorica e greco Si sposò
attorno al 75/76,
prima di diventare imperatore, con Pompeia
Plotina, figlia di Lucio Pompeio e Plozia, una potente famiglia
probabilmente originaria dell'Hispania
Baetica e che trascorse la sua infanzia a Escacena
del Campo (Andalusia).
Plotina era una donna sobria, colta e intelligente, di grandi virtù e pia. È
anche conosciuta per il suo interesse in filosofia, tanto che la scuola
epicurea di Atene era
sotto la sua protezione. L'unione non diede figli.
Traiano
fu per dieci anni nell'esercito, facendovi una reale esperienza delle armi e
del comando. Percorse poi i gradi della carriera civile senatoria: fu pretore
in Spagna, comandò una legione in Germania, dove partecipò
alla repressione della ribellione di Antonio Saturnino, fu console ordinario
(91) e, quando Domiziano fu ucciso (96), era governatore della Germania
superiore.
Nerva,
che aveva bisogno del sostegno d'un uomo forte e onesto non coinvolto nelle
rivalità romane, e che godesse prestigio presso l'elemento militare, lo adottò
come figlio, con cognome e dignità di Cesare, facendogli attribuire la potestà
tribunicia (ottobre del 97). Morto Nerva (98), Traiano senza alcuna difficoltà
gli succedette, assumendo l'impero. Non venne subito a Roma, ma si
trattenne a sistemare il problema del confine renano, premurandosi nel
contempo di inviare a Roma assicurazioni di amicizia per il senato. A Traiano,
inoltre, è probabilmente da attribuire la costituzione di un'ulteriore
milizia personale dell'imperatore, quella degli equites singulares,
formata da elementi sceltissimi provenienti dalle popolazioni meno romanizzate
dell'impero.
Sistemato
durevolmente il confine del Reno, Traiano passò a quello del Danubio,
preoccupandosi specialmente della sistemazione della Dacia, mal risolta da
Domiziano. Poi tornò a Roma (99), con modesto seguito, dando così inizio al
suo sistema di governo, presto divenuto assai popolare presso tutti i ceti.
Attivissimo e intelligente nell'amministrazione come nelle armi, amato dal
popolo e dalla classe militare, Traiano riuscì durante il suo regno a
mobilitare intorno a sé anche i migliori elementi senatorî ed equestri, cui
infuse l'entusiasmo necessario per fondare e sostenere una buona tradizione
amministrativa.
L'imperatore
si preoccupò di alleviare alcune imposte e di arricchire il fisco vendendo
largamente beni che i precedenti imperatori avevano accumulato e immobilizzato
nel proprio patrimonio mediante acquisti, confische, doni, legati testamentarî.
La sicurezza e la facilità degli scambî commerciali nei confini dell'Impero
aumentarono notevolmente; si creò un'atmosfera di grande e non fittizia
sicurezza finanziaria (l'età di Traiano fu sempre ricordata come un'età
d'oro).
Provvedimento
notevole di Traiano fu l'istituzione degli alimenta, ossia la
costituzione di una rendita destinata a fornire in Italia i mezzi di
sussistenza a fanciulli e fanciulle povere, organizzata in modo tale da
rappresentare al tempo stesso una forma di prestito agrario a basso
interesse, onde agevolare il rifiorimento dell'agricoltura italica. Il
principio del sistema consisteva nella destinazione di somme della cassa
imperiale perché fossero date a prestito a proprietarî terrieri delle città
italiane; i mutuatari dovevano far iscrivere uno o più fondi in garanzia; gli
interessi erano devoluti in favore di fanciulli o fanciulle povere della città.
In
genere, Traiano curò al massimo l'onestà e l'efficienza dell'amministrazione
e della giustizia. Sistemate le faccende interne, Traiano, forte temperamento
di soldato, ritenne necessario risolvere definitivamente alcune gravi
questioni di confine, in primo luogo quella del Danubio, da tempo minacciato
dal potente regno di Dacia, col suo re Decebalo.
Negli
anni 101-102 e 105-106 ebbero così luogo, sotto la sua personale direzione,
le guerre daciche, al termine delle quali l'intera regione era ordinata a
provincia romana. Di questa Traiano si preoccupò subito, ordinando grandi
lavori di civilizzazione (organizzazione dei distretti minerarî,
fortificazioni, apertura di strade, tra le quali notevole quella danubiana,
che saldava ormai l'intero percorso dalle foci alle fonti del fiume). Tornato
a Roma, Traiano inaugurò grandi imprese di sistemazione urbanistica e
monumentale a Roma, a Ostia, in altre parti dell'Impero.
Tra
i problemi di politica interna, egli doveva affrontare quello dei cristiani,
verso i quali fu intransigente, cercando però di rispettare i principî di
giustizia del diritto romano, istruendo i giudici a non tener conto delle
denunce anonime, a dar luogo a processi solo dietro precise accuse, senza
ricercare preventivamente i cristiani e a condannare questi solo se ostinati;
tali principî egli espose in una lettera a Plinio il Giovane, che aveva
consultato l'imperatore riguardo al trattamento da riservare ai cristiani
nella provincia di Bitinia e Ponto; e tale fu poi il sistema di persecuzione più
o meno rimasto in uso fino ai tempi di Decio, che dette inizio alle
persecuzioni vere e proprie.
Altro
grave problema era quello dei rapporti col regno dei Parti, e Traiano colse
l'occasione del contrasto scoppiato a proposito della successione al regno di Armenia,
per iniziare, più che sessantenne, la nuova guerra. Precedentemente, i legati
di Traiano avevano mutato assai favorevolmente la situazione orientale,
battendo i Nabatei (105), e costituendo la nuova provincia di Arabia. Traiano
compì vittoriosamente grandi operazioni militari, annettendo l'Armenia,
giungendo in Mesopotamia, e scendendo con la flotta il Tigri, fino a Babilonia e
al Golfo Persico. Ma una violenta sollevazione dei Giudei, il riapparire di
forze nemiche qua e là nelle regioni conquistate, la ribellione di città
occupate, e altri improvvisi rovesci, lo costrinsero a rinunciare al disegno
della conquista totale e a incoronare egli stesso un nuovo re dei Parti
(presto sostituito con un altro, eletto dai Parti stessi). Ammalatosi in
Siria, Traiano affidò l'esercito al parente P. Elio Adriano (il futuro
imperatore), e si avviò per tornare a Roma, ma a Selinunte di Cilicia
improvvisamente morì. La sua fama rimase perpetua nella tradizione romana
come quella di ottimo principe, e nel basso Impero l'acclamazione dei
Cesari suonava Felicior Augusto, melior Traiano.
L'impero,
che fino a quel momento si era ampliato in continuazione, sotto Traiano
finalmente impegnò le sue risorse per il miglioramento delle condizioni di
vita piuttosto che sulle nuove conquiste. Traiano promosse così grandi opere
pubbliche e rafforzò le comunicazioni intervenendo in due modi: restaurando
le principali strade e ampliando o costruendo nuovi porti, in modo da
collegare più efficacemente l'Urbe al resto dell'Impero.
Costruì
ex novo il celeberrimo porto
di Traiano esagonale nella zona di Fiumicino (i
cui resti sono ancora oggi imponenti) che collegava Roma con le regioni
occidentali dell'Impero. L'opera fu senz'altro tra le più importanti per la
Città, che ovviò così ai suoi problemi di approvvigionamento ormai fuori
dalla portata del già esistente "Porto di Claudio". Incaricato del
progetto fu l'architetto greco-nabateoApollodoro
di Damasco; i lavori durarono dal 100 al 112, con la creazione di un
bacino di forma esagonale con lati di 358 metri e profondo cinque metri (al
contrario della trascuratezza degli ingegneri di Claudio), con una superficie
di 32 ettari e 2000 metri di banchina. Fu costruito un ulteriore canale e il
collegamento a Ostia fu assicurato da una strada a due corsie lastricata. Il
porto di Ostia era utile soprattutto per i traffici con il mar
Mediterraneo occidentale; per facilitare la navigazione tra Roma e
l'Oriente.
Intorno
al 100 d.C. Traiano ordinò l'ampliamento del porto adriatico di Ancona,
in modo da collegare Roma con le province orientali dell'Impero. Per
realizzare l'ampliamento, Traiano fece costruire un poderoso molo, per
migliorare la protezione dalle onde già offerta dal promontorio sul quale
sorge la città. Il Senato e il popolo romano fecero costruire sul nuovo molo
un arco,
per ringraziare l'imperatore di avere reso più sicuro "l'ingresso
d'Italia" (così si legge sull'iscrizione posta sull'attico).
Le
opere anconitane sono anch'esse attribuite ad Apollodoro
di Damasco[121]. Ancora oggi il molo di Traiano è parte fondamentale
del porto di
Ancona e l'arco eretto in suo onore svetta ancora su di esso. Una
zona archeologica mostra i resti dei cantieri navali traianei e dei magazzini
portuali.
Traiano
inoltre diede l'incarico sempre a Apollodoro
di Damasco di costruire il porto di Civitavecchia,
quando fu chiaro che il porto di Ostia tendeva
a insabbiarsi nonostante i lavori prolungati. Con la costruzione del porto
nacque la città di Centumcellae intorno al 106 d.C. L'idea dell'imperatore
era quella di facilitare con un altro approdo sicuro il piano annonario a
favore di Roma e i lavori vennero progettati dall'architetto Apollodoro di
Damasco. L'impianto originale del porto rispecchiava i criteri architettonici
del tempo con un grande bacino quasi circolare di circa 500 metri, due grandi
moli e un antemurale, un'isola artificiale protesa in mare a protezione del
bacino. L'intera struttura era sormontata da due torri contrapposte, in
seguito dette del Bicchiere e del Lazzaretto (ancora visibile, e ricostruita
da Sangallo).
L'imperatore
Traiano ordinò anche l'ampliamento del porto di Terracina,
del quale ancora oggi esistono le strutture principali. Il taglio del Pisco
Montano contribuì in qualche modo a orientare verso il porto tutto il
movimento della città.
Per
rendere più agevole il passaggio dell'Appia attraverso l'estrema appendice
dei Monti Ausoni che all'epoca di Traiano venne eseguito il taglio del
Pisco Montano, enorme sperone calcareo separato dalla massa del Monte
Sant'Angelo che tuttora sovrasta la regina
viarum costituendo un aspetto caratteristico del paesaggio tra il mare
e la montagna.
Fra
il 108 e il 110 d.C., pensando anche al miglioramento delle comunicazioni
terrestri, Traiano curò un nuovo tragitto per la via Appia che partiva
dall'arco di Benevento e giungeva al porto
di Brindisi. L'opera sfruttò un preesistente tracciato di età
repubblicana.
A
Roma rinnovò il centro cittadino con la costruzione di un immenso foro e
di edifici in
laterizio a esso contigui, destinati alla pubblica
amministrazione, che si appoggiavano al taglio delle pendici del Quirinale e
della sella montuosa tra esso e il Campidoglio.
Lo straordinario complesso del foro Traianeo, inaugurato nel 113, risolse
i problemi di congestione e sovraffollamento dell'area nel centro della città
antica attorno alla Via
Sacra.
Le
dimensioni straordinarie dell'opera (anche questa supervisionata da Apollodoro
di Damasco) erano tali da emulare in grandezza quella di tutti gli altri fori
messi insieme. Oltre alla pubblica Basilica
Ulpia, la piazza, i colonnati, gli uffici, le biblioteche, e il tempio
del divo Traiano, eresse nel suo foro la Colonna
Traiana come celebrazione delle sue conquiste militari nella
campagna di Dacia, ancora oggi uno dei simboli dell'eternità di Roma.
Alta 30 metri circa e larga 4, in origine colorata, all'interno una scala
a chiocciola porta sulla cima. All'esterno si avvolge a spirale
sulla colonna un fregio di
200 metri largo 1 con scolpite più di 2 000 figure in bassorilievo. La
colonna era sormontata da una statua dell'imperatore (sostituita nel 1588 da
una di san Pietro).
A
Traiano si deve la costruzione di un altro acquedotto che che
aumentava ulteriormente la portata dei rifornimenti idrici in Roma, che erano
già abbondantemente assicurati dagli acquedotti costruiti in precedenza e
soprattutto da quello noto come Anio
Novus (costruito sotto Claudio).
I lavori iniziarono nel 109, la struttura avrebbe dovuto raccogliere le acque
delle sorgenti sui monti Sabatini, presso il lago di Bracciano (lacus
Sabatinus). La lunghezza complessiva era di circa 57 km e la portata
giornaliera di circa 2.848 quinarie, pari a poco più di 118.000 m³.
Raggiungeva la città con un percorso in gran parte sotterraneo lungo le vie
Clodia e Trionfale e poi su arcate lungo la via Aurelia. Arrivava a Roma sul
colle Gianicolo, sulla riva destra del fiume Tevere.
L'estensione
della rete idrica fu incentivata non solo a Roma, ma anche in Dalmazia, nella
natia Spagna e in oriente, cioè laddove i climi aridi richiedevano maggiori
approvvigionamenti idrici.
A
Roma Traiano fece ampliare i canali sotterranei e i cunicoli della Cloaca
Massima per il deflusso più efficiente delle acque piovane e
delle acque reflue che venivano scaricate nel Tevere. Quest'ultimo poi venne
rinforzato con argini e canali lungo tutto il suo perimetro più a rischio in
modo da evitare straripamenti da parte del fiume della Città. Per lo svago e
il piacere della plebe Traiano fece eseguire alcuni dei lavori che danno a
Roma l'aspetto che grossomodo hanno tutti nell'immaginario comune della Città.
Fece ricostruire e ampliare definitivamente il Circo
Massimo del quale i primi tre anelli alla base della struttura
furono eretti con calcestruzzo e rivestiti da mattoni e marmi, solo l'anello
superiore rimase in legno; la struttura divenne sicura e antincendio,
favorendo la costruzione di botteghe e negozi ai suoi lati. Sul colle Oppio
fece erigere delle grandiose terme sui resti della Domus
Aurea di Nerone; si accedeva da un grande propileo che
immetteva direttamente alla natatio, la piscina a cielo aperto. Sulla
riva destra del Tevere dove sorge l'attuale Castel
Sant'Angelo fece realizzare un'area per le naumachie (riproduzione
di battaglie navali). Gli sforzi edilizi dell'imperatore non si concentrarono
solo sulla Capitale, ma su tutto l'impero.
Attuò
una serie di bonifiche nell'Agro
Pontino nella regione delle Paludi Pontine; vennero così
strappati numerosi terreni agli acquitrini.
In Egitto collegò
il Nilo al Mar
Rosso con un grande canale (fiume Traiano). Fondò molte
colonie per l'Impero. In Dacia (dopo
averla sottomessa) favorì la colonizzazione e la fondazione di nuove colonie
che romanizzarono rapidamente la provincia. La Colonia Ulpia Traiana sorse
sulle ceneri della barbara Sarmizegetusa
Regia. Fece costruire molti ponti, tra i più famosi ricordiamo quello
sul Tago nei pressi della città spagnola di Alcantara e, il più lungo, sul
Danubio presso Drobeta, costruito in occasione della campagna di Dacia (1.135 m);
costruito con il duplice intento di garantire una via di rifornimento per le
legioni che avanzavano e di terrorizzare e scoraggiare i nemici di fronte a
una simile dimostrazione di superiorità tecnologica, logistica e militare.
Alla
sua morte Traiano venne deificato dal Senato e le sue ceneri furono poste ai
piedi della colonna Traiana. Gli succedette suo figlio adottivo e pronipote, Adriano,
nonostante non fosse chiaro a tutti quando e se fosse stato effettivamente
designato come suo erede. Adriano non continuò con la politica
espansionistica di Traiano e abbandonò tutti i territori conquistati ai
Parti, avendo posto al centro della sua politica le province romane e la loro
romanizzazione.
Adriano
(78-138 d.C.) fu imperatore di Roma dal 117 al 138 d.C. ed è conosciuto come
il terzo dei cinque buoni imperatori che governarono con giustizia (Nerva,
Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio). Il suo regno segnò l'apice
dell'Impero Romano,
solitamente posto nel 117 d.C., e fornì una solida base per il suo
successore.
Nato
come Publio Elio Adriano a Italica (nell’odierna Spagna), Adriano è
conosciuto soprattutto per la sua attività letteraria, gli importanti
progetti edilizi in tutto l'Impero Romano e, in particolare, il
Vallo di Adriano, nella Britannia settentrionale. È anche ricordato
per la sua storia d'amore con il giovane bitinio Antinoo (circa 110-130 d.C.)
che divinizzò dopo la morte, dando origine al culto popolare di Antinoo che,
all'inizio, rivaleggiava con il Cristianesimo.
Adriano era
profondamente interessato alla letteratura, in particolare a quella greca, al
misticismo e alla magia egiziani. Era tra gli imperatori romani più colti -
anche tra i famosi cinque migliori - scrisse poesie e altre opere e insistette
per supervisionare personalmente il maggior numero possibile dei progetti
edilizi che aveva commissionato. Sotto il suo regno scoppiò in Giudea la
rivolta di Bar Kokhba (132-136 d.C.) che Adriano represse personalmente; in
seguito cancellò il nome della regione, rinominandola Siria Palestina,
ed esiliò la popolazione ebraica dalla zona.
La rivolta
ebbe un impatto enorme sull'imperatore, che soffriva di problemi di salute dal
127 d.C. e la cui salute peggiorò costantemente dal 136 d.C. Sua moglie,
Vibia Sabina (83 -137 circa d.C.), morì nel 136/137 d.C. e lui la fece
divinizzare, ma il loro era stato un matrimonio infelice poiché Adriano era
omosessuale e aveva frequenti relazioni con uomini più giovani. Adottò
Antonino Pio (imperatore dal 138 al 161 d.C.) come suo successore e morì,
molto probabilmente di infarto, nel 138 d.C.
Adriano fu
istruito nella sua città natale, Italica Hispania (l'odierna Siviglia,
Spagna) da un tutore privato o in una scuola per i figli dei Romani di classe
elevata, alla quale appartenevano i suoi genitori. Suo padre era un senatore
che morì quando Adriano aveva dieci anni: fu mandato allora a scuola a Roma e
nell’86 d.C. circa Traiano lo prese sotto la propria protezione, prima di
diventare imperatore. La moglie di Traiano, Plotina, amava il giovane Adriano
e incoraggiava la sua attività letteraria, in particolare l’interesse per
la poesia e la cultura greca.
Iniziò
allora l'ammirazione di Adriano per la Grecia, che durò per tutta la vita e
che durante il suo regno lo unì alla Grecia e alla sua cultura. Anche oggi
spesso si ritiene erroneamente che Adriano fosse greco o di discendenza greca.
La sua prima
carica fu quella di tribuno sotto l'imperatore Nerva (imperatore dal 96 al 98
d.C.); fu scelto per portare a Traiano la notizia che sarebbe stato il
successore di Nerva. Quando Nerva morì, Traiano salì al trono. Traiano
(imperatore dal 98 al 117 d.C.) fu il primo imperatore romano di origine
provinciale. I biografi successivi avrebbero tentato di collocare la nascita
di Traiano e Adriano nella città di Roma, ma entrambi erano di etnia
spagnola, e alcuni ritengono che sia questa la ragione dell'adozione di
Adriano da parte di Traiano come suo successore. Tuttavia la maggior parte
degli studiosi contesta questo punto, poiché è possibile che Traiano non
abbia nominato affatto Adriano.
Traiano morì
durante una campagna in Cilicia nel 117 d.C., mentre Adriano era al comando
della sua retroguardia, e non si ritiene che abbia nominato un successore. La
moglie di Traiano, Plotina, firmò i documenti di successione, sostenendo che
Traiano aveva scelto Adriano, e si pensa che lei, non l'imperatore, fosse
responsabile dell'adozione di Adriano come erede. Comunque sia, è noto che
Traiano rispettava Adriano e lo considerava come suo successore anche se non
lo designò ufficialmente. Il servizio che Adriano rese a Traiano è ben
documentato dalle varie importanti cariche che ricoprì prima di diventare
imperatore.
Sembra però
che nel 100 d.C. alcuni contrasti abbiano messo i due uomini l’uno contro
l’altro. Non vi è alcuna documentazione al riguardo, ma da allora in poi
Traiano si rifiutò di elevare il rango di Adriano: infatti le posizioni che
gli furono assegnate lo allontanarono dalla cerchia di Traiano. Poiché
entrambi erano omosessuali e Traiano si circondava di giovani favoriti, si è
pensato che Adriano potrebbe aver sedotto, o tentato di sedurre, uno di loro,
mentre era sposato con Sabina, causando una spaccatura con Traiano, ma questa
è solo un’ipotesi.
Chiaramente
fu Plotina, non Traiano, la forza principale dietro i progressi di Adriano dal
momento in cui entrò nella sua sfera di influenza. Plotina e Salonia Matidia
(la nipote di Traiano, anche lei affezionata ad Adriano) spinsero per il suo
matrimonio con la figlia di Matidia, Vibia Sabina, e anche Matidia potrebbe
aver contribuito a renderlo imperatore. Sarebbe stato di gran lunga migliore
come imperatore che come marito. Sembra che Sabina non abbia mai accettato il
matrimonio, sin dall’inizio, e Adriano preferiva la compagnia degli uomini.
Sebbene il suo matrimonio non possa essere considerato un successo da nessun
punto di vista, il suo regno fu spettacolare.
Lo stretto
rapporto di Adriano con le truppe comportava l’immediato sostegno
dell'esercito, e anche se il
Senato romano avesse voluto mettere in dubbio la sua successione, non
avrebbe potuto fare nulla. Adriano fu sostenuto dalla maggior parte del popolo
di Roma e fu molto ammirato per tutto il tempo in cui rimase in carica. La sua
popolarità come imperatore è attestata dal fatto che, anche se fu assente da
Roma per la maggior parte del regno, nelle sue prime biografie non appare
nessun segno di rimprovero o critica. I primi imperatori romani, come Nerone
(imperatore dal 54 al 68 d.C.), furono duramente criticati per aver trascorso
lontano dalla città un tempo di gran lunga inferiore.
La sua
devozione all'esercito romano era tale che dormiva e mangiava tra i soldati;
inoltre è comunemente raffigurato in abiti militari, anche se il suo regno fu
caratterizzato da una relativa pace. La stabilità dell'impero e la crescente
prosperità concessero ad Adriano il lusso di viaggiare nelle province, dove
ispezionò in prima persona i progetti che aveva commissionato stando a Roma.
I progetti
edilizi di Adriano sono forse la sua eredità più duratura. Visitò la
Britannia nel 122 d.C., poco dopo la repressione di una rivolta, e ordinò la
costruzione di un lungo muro difensivo per prevenire una facile invasione da
parte dei Pitti del Nord; questa struttura è il famoso Vallo di Adriano,
nell’odierna Inghilterra. Fondò città, innalzò monumenti, migliorò
strade e rafforzò le infrastrutture delle province in tutta la penisola
balcanica, in Egitto, Asia Minore, Nord Africa e Grecia. Visitò la Grecia
almeno due volte e si fece iniziare ai Misteri Eleusini. L'Arco di Adriano,
costruito dai cittadini di Atene nel 131/132 d.C., onora Adriano come
fondatore della città. Le iscrizioni sull'arco citano Teseo (il fondatore
tradizionale) ma anche Adriano, per i suoi importanti contributi ad Atene,
come il grande Tempio di Zeus.
Adriano
protesse notevolmente l'arte essendo
egli stesso un fine intellettuale, amante delle arti figurative, della poesia
e della letteratura. Anche l'architettura lo appassionava molto e durante il
suo principato si adoperò per dare un'impronta stilistica personale agli
edifici via via edificati. Villa
Adriana a Tivoli fu
l'esempio più notevole di una dimora immensa costruita con passione, intesa
come luogo della memoria, intessuto di citazioni architettoniche e
paesaggistiche, di riproduzioni, su varia scala, di luoghi come il Pecile
ateniese o Canopo
in Egitto.
Anche a Roma il Pantheon,
costruito da Agrippa,
fu re-instaurato, edificato nuovamente, sotto Adriano e con la forma
definitiva che tuttora conserva (non fu semplicemente restaurato). La città
fu inoltre ulteriormente arricchita di templi, come il tempio
di Venere e Roma e di edifici pubblici. Sembra che spesso
l'imperatore in persona mettesse mano ai progetti il che, secondo Cassio
Dione Cocceiano, portò a un conflitto con Apollodoro
di Damasco, architetto di corte ufficialmente investito dell'incarico
progettuale.
Il più
famoso di tutti i suoi significativi monumenti ed edifici è il Vallo di
Adriano, nella Britannia settentrionale. La costruzione del muro, noto
nell'antichità come Vallum Hadriani, iniziò intorno al 122 d.C., in
occasione della visita di Adriano nella provincia. Segnava il confine
settentrionale dell'Impero Romano in Britannia, ma la lunghezza e l'ampiezza
del progetto (che si estendeva da costa a costa) suggerisce che lo scopo più
importante del muro fosse la dimostrazione del potere di Roma. A est del fiume
Irthing il muro era originariamente largo 3 metri e alto circa 6 metri, tutto
costruito in pietra; a ovest del fiume era largo 6 m e alto 3,5 m, costituito
da pietra e manto erboso, e si estendeva per 120 km su un terreno irregolare.
Fu costruito
in sei anni dalle legioni di stanza nella Britannia romana. Lungo tutto il
muro c'erano tra le 14 e le 17 fortificazioni; un vallum (un fossato
appositamente costruito con lavori di sterro) correva parallelamente al muro.
Il vallum misurava 6 m di larghezza per 3 m di profondità ed era
fiancheggiato da grandi cumuli di terra compatta. Poiché la politica estera
di Adriano era "pace attraverso la forza", si pensa che il muro, in
origine intonacato e imbiancato, avrebbe chiaramente rappresentato la potenza
dell'Impero Romano.
Dopo la sua
visita in Britannia, Adriano andò in Asia Minore e si recò nella regione
della Bitinia per ispezionare il restauro di Nicomedia, che egli aveva
finanziato dopo che la città era stata danneggiata da un terremoto. Fu a
Nicomedia o nella vicina Claudiopoli che nel 123 d.C. incontrò il giovane
Antinoo, che per i successivi sette anni divenne il suo compagno quasi
inseparabile. Antinoo aveva forse 13-15 anni, ma i legami omosessuali tra
uomini più anziani e ragazzi erano accettabili nella cultura romana, purché
entrambe le parti acconsentissero. Alcune di queste storie d'amore erano brevi
"avventure" ma altre, come quella di Adriano e Antinoo, erano
relazioni serie e impegnate.
Adriano
fece in modo che Antinoo fosse inviato in una prestigiosa scuola di Roma, che
addestrava i giovani alla vita di corte, e poi, dal 125-130 d.C., il giovane
fu l'amante di Adriano, vivendo con lui nella villa fuori Roma e
accompagnandolo nei viaggi verso le province. La loro relazione seguiva il
modello greco, in cui un uomo più anziano aiutava un giovane nello sviluppo
morale e intellettuale e nel progresso sociale. Secondo le regole, avrebbe
trattato il ragazzo con rispetto, lo avrebbe corteggiato e gli avrebbe dato la
possibilità di scegliere se accettare o meno le sue avances. Qualsiasi
"favore" concesso ad Adriano sarebbe stato accompagnato da un serio
impegno per lo sviluppo morale di Antinoo mentre diventava adulto.
Questo sembra
essere stato esattamente il percorso seguito da Adriano. La coppia viaggiò
insieme dal 127 al 130 d.C., arrivando in Egitto in tempo per celebrare la
Festa di Osiride nell'ottobre del 130 d.C. A un certo punto, verso la fine del
mese, poco prima della festa, Antinoo annegò nel fiume Nilo. Adriano riferì
il fatto come se fosse stato un incidente, ma storici come Dione Cassio (circa
155 - circa 235 d.C.) e Aurelio Vittore (circa 320 - circa 390 d.C.)
sostengono che Antinoo si sarebbe sacrificato in un rituale per curare Adriano
da una malattia (non si sa precisamente quale) di cui soffriva da qualche
anno.
Questa
versione è rafforzata dall'osservazione che Antinoo, come amato favorito di
Adriano, sarebbe stato senza dubbio assistito da servitori che lo avrebbero
salvato dal fiume; inoltre poco prima della morte di Antinoo la coppia fece un
viaggio a Eliopoli, dove ebbe con un sacerdote un incontro riguardante i riti
mistici. Sembra che la salute di Adriano in seguito migliorasse, ma il dolore
per la perdita del suo amante e migliore amico fu devastante.
Adriano
divinizzò immediatamente Antinoo, un fatto senza precedenti perché, di
solito, un imperatore sottoponeva la proposta al Senato per l’approvazione.
In onore di Antinoo ordinò la costruzione della città di Antinopoli, sulla
riva del Nilo nel punto in cui era annegato e, abbastanza rapidamente, intorno
al giovane crebbe un culto che si diffuse rapidamente nelle province. Antinoo
divenne la figura di un dio che muore e resuscita e che, poiché una volta era
umano, si pensava rispondesse più rapidamente di altre divinità alle
suppliche. Fu considerato dio della guarigione e della compassione e i suoi
seguaci innalzarono sue statue nei templi e nei santuari in tutto l'impero. Si
stima che una volta ci fossero più di 2.000 statue di Antinoo: ne sono state
recuperate 115. Il culto di Antinoo divenne così popolare che, più di 200
anni dopo, rivaleggiava con la nuova religione del Cristianesimo e con il ben
consolidato culto di Iside.
Adriano
affrontò il suo dolore come meglio poteva e continuò il viaggio nelle
province. Sebbene fosse un uomo colto e istruito, non sempre rispettò la sua
politica di relazioni pacifiche con gli altri, sia a livello personale sia
professionale. Era noto che perdeva spesso le staffe con gli studiosi di corte
con cui non era d'accordo e una volta accecò accidentalmente un servo a un
occhio, lanciandogli uno stilo in preda alla rabbia. A Gerusalemme, quando gli
Ebrei si rivoltarono contro la sua costruzione di un tempio, Adriano diede
pieno sfogo al suo temperamento in maniera tragica.
Nel
132 d.C. Adriano visitò Gerusalemme, che era ancora in rovina dopo la Prima
Guerra Romano-Ebraica del 66-73 d.C. Ricostruì la città secondo i suoi
progetti e la ribattezzò Aelia Capitolina Jupiter Capitolinus dal suo nome e
da quello del re degli dei romani. Quando costruì un tempio a Giove sulle
rovine del Tempio di Salomone (il Secondo Tempio, considerato sacro dagli
Ebrei), la popolazione si sollevò sotto la guida di Simon bar Kochba
(chiamato anche Shimon Bar-Cochba, Bar Kokhbah, Ben-Cozba, Cosiba o Coziba),
in quella che è conosciuta come la Rivolta di Bar-Kochba.
Le perdite
romane in questa campagna furono enormi, ma le perdite ebraiche non furono
meno significative. Quando la ribellione fu sedata, 580.000 ebrei erano stati
uccisi e oltre 1000 città e villaggi distrutti. Adriano quindi bandì i
rimanenti ebrei dalla regione e la ribattezzò Siria Palestina, dal nome dei
tradizionali nemici del popolo ebraico, i Filistei. Ordinò di bruciare
pubblicamente la Torah, giustiziò gli studiosi ebrei e proibì la pratica e
l'osservanza del Giudaismo.
La gestione
della rivolta di Bar-Kochba da parte di Adriano è l'unica macchia sul suo
regno altrimenti ammirevole; egli fece le sue scelte in base alla tradizionale
politica romana nella gestione delle rivolte: una risposta dura seguita dalla
restaurazione. Forse spinse la sua reazione a tal punto a causa
dell'indignazione personale, per il fatto che qualcuno aveva messo in
discussione il suo tempio o qualsiasi altra sua decisione.
Poiché la
sua salute peggiorava, Adriano tornò a Roma e si diede a scrivere poesie e a
occuparsi di affari amministrativi. Nominò come suo successore Antonino Pio,
a patto che Antonino a sua volta adottasse il giovane Marco Aurelio
(imperatore dal 161 al 180 d.C.). Aurelio avrebbe co-governato con Lucio Vero
(imperatore dal 161 al 169 d.C.), il cui padre era il figlio adottivo di
Adriano. Adriano morì nel 138 d.C., all'età di 62 anni, presumibilmente per
un attacco di cuore.
Fu sepolto
prima a Pozzuoli, su un terreno appartenuto al retore Cicerone (in
omaggio all'amore per il sapere di Adriano), ma quando l’anno successivo
Antonino Pio completò la grande tomba di Adriano a Roma, il suo corpo fu
cremato e le ceneri furono seppellite in quel luogo, con quelle di sua moglie
e del figlio adottivo Lucio Elio Cesare, padre di Lucio Vero. Antonino Pio
fece divinizzare Adriano e costruì templi in suo onore.
Il regno di
Adriano è generalmente considerato in accordo con la valutazione di Gibbon.
Anche tra i cinque buoni imperatori dell'antica Roma, Adriano si distingue
come uno statista eccezionale. Aurelio, l'ultimo dei cinque buoni imperatori,
avrebbe regnato in tempi molto più travagliati di quelli conosciuti da
Adriano, e suo figlio, Commodo (imperatore dal 176 al 192 d.C.), divenne di
fatto un dittatore, il cui regno irregolare e il cui assassinio portarono a
disordini politici e sociali inimmaginabili sotto Adriano.
Antonino
Pio (138-161),
capostipite della Dinastia
degli Antonini, continuò la politica pacifica del predecessore, fu un
saggio amministratore e riconfermò al senato le prerogative passate, tanto da
meritarsi l'appellativo di Pio.
Alla
fine del 136 Adriano
rischiò di morire per emorragia. Convalescente nella sua
villa di Tivoli,
scelse inizialmente Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio
Elio Cesare) come suo successore, adottandolo come suo figlio. Dopo una
breve permanenza lungo la frontiera
del Danubio, Lucio tornò a Roma ma si ammalò e morì di emorragia il
1º gennaio del 138.
Il 24 gennaio Adriano scelse allora Aurelio
Antonino come suo nuovo successore.
Dopo
essere stato esaminato per alcuni giorni, Antonino fu accettato dal Senato e
adottato il 25 febbraio. A suo volta, come da disposizioni dello stesso princeps,
Antonino adottò il giovane Marco
Aurelio (nipote di Antonino, in quanto figlio del fratello di sua
moglie Faustina
maggiore) e il giovane Lucio
Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Cesare.
La
salute di Adriano continuava a peggiorare tanto da desiderare la morte anche
se questa non arrivava, tentando anche il suicidio, impedito dal
successore Antonino. L'imperatore, ormai gravemente malato, lasciò Roma per
la sua residenza estiva, una villa a Baiae,
località balneare sulla costa campana. Le sue condizioni però continuarono a
peggiorare fino alla morte, che avvenne il 10 luglio del 138.
Le sue spoglie furono sepolte inizialmente a Pozzuoli,
per poi essere traslate nel mausoleo
monumentale che egli stesso aveva fatto costruire a Roma.
La
successione di Antonino si rivelò ormai stabilita e priva di possibili colpi
di mano: Antonino continuò a sostenere i candidati di Adriano ai vari
pubblici uffici, cercando di venire incontro alle richieste del Senato,
rispettandone i privilegi e sospendendo le condanne a morte pendenti sugli
uomini accusati negli ultimi giorni di vita da Adriano. Per il suo
comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino
fu insignito dell'appellativo "Pio".
Uno dei
primi atti ufficiali di governo (acta) fu la divinizzazione del suo
predecessore, alla quale si oppose fieramente tutto il senato, che non aveva
dimenticato che Adriano aveva
diminuito l'autorità dell'assemblea e ne aveva mandato a morte alcuni membri.
Fu forse questo l'atto che gli valse l'appellativo di Pius ("pio,
devoto"), per la pietas filiale dimostrata nei confronti del
suo padre adottivo e predecessore.
Ligio
alla religione e agli antichi riti, nel 148 celebrò
solennemente il novecentesimo anniversario della fondazione
di Roma. Fu anche un ottimo amministratore delle finanze imperiali,
lasciando ai suoi successori un patrimonio di oltre due miliardi e mezzo di
sesterzi, segno evidente dell'ottima cura con cui resse le redini dello Stato.
Continuò l'opera del suo predecessore nel campo dell'edilizia (furono
costruiti ponti, strade, acquedotti in tutto l'impero anche se pochi sono i
monumenti dell'Urbe da lui fatti costruire che ci sono giunti) e aiutò con la
sospensione del tributo dovuto diverse città colpite da calamità varie
(incendi: Roma, Narbona, Antiochia, Cartagine,
terremoti: Rodi e
l'Asia minore).
Senza ridurre le spese per le province, aumentò quelle per l'Italia,
a differenza del predecessore. Infine aumentò la distribuzione di sussidi,
inaugurata da Traiano,
alle orfane italiche, dette "Puellae Faustinianae" dal nome della
moglie di Antonino, quando questa morì nel 141.
Notevole
fu l'impronta da lui lasciata nel campo del diritto tramite i giureconsulti
Vindio Vero, Salvio Valente, Volusio Meciano, Vepio Marcello e Diaboleno.
Sotto il suo regno giunse a conclusione e ci fu il riconoscimento giuridico
formale della distinzione tra le classi superiori (honestiores) e le altre
(humiliores), distinzione espressa nelle diverse pene cui le classi erano
soggette. Si nota la tendenza a sottoporre i ceti più umili della società,
siano pure cittadini romani, a pene generalmente riservate in età
repubblicana agli schiavi.
Nel 156 Antonino
Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute,
seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il
ruolo di Marco cominciò così a crescere sempre più, in particolare quando
il prefetto del pretorio Gavio Massimo morì, tra il 156 ed
il 157.
Egli aveva mantenuto questo importante ruolo per quasi vent'anni, risultando
pertanto di fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare. Il
suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso
politico presso il princeps e poi non durò a lungo.
Nel 160 Marco
e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo
cominciava a stare male. Antonino morì nei primi mesi del 161: due
giorni prima della sua morte, che nei racconti della Historia
Augusta fu "molto dolce, come il più tranquillo dei
sonni", l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium,
aveva mangiato formaggio alpino a cena, piuttosto avidamente. Vomitò nella
notte e gli comparve la febbre. Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161,
convocò il consiglio imperiale (compresi i prefetti del pretorio, Furio
Vittorino e Sesto
Cornelio Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco. Egli ordinò
che la statua d'oro della Fortuna,
che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da Marco. Diede
poi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità». Poi si girò,
come per andare a dormire, e morì all'età di settantacinque anni.
Marco Aurelio
Antonino Augusto (Roma, 26 aprile 121 – Sirmio o Vindobona, 17
marzo 180), meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio, è
stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su
indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato nel 138 dal futuro
suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono
imperiale.
Nato come Marco
Annio Catilio Severo, divenne Marco Annio Vero (Marcus Annius
Verus), che era il nome di suo padre, al momento del matrimonio con la propria
cugina Faustina, figlia di Antonino, e assunse quindi il nome di Marco
Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus Aurelius Caesar Augusti
filius) durante l'impero di Antonino stesso.
Marco
Aurelio fu imperatore dal 161 sino alla sua morte, avvenuta per
malattia nel 180 a Sirmio secondo il contemporaneo
Tertulliano o presso Vindobona. Fino al 169 mantenne
la coreggenza dell'impero assieme a Lucio Vero, suo fratello adottivo
nonché suo genero, anch'egli adottato da Antonino Pio. Dal 177, morto
Lucio Vero, associò al trono suo figlio Commodo. È considerato
dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il
quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward
Gibbon. Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre
partiche e marcomanniche), da carestie e pestilenze.
La famiglia
di Marco era di origine romana, ma stabilita da tempo a Ucubi (Colonia
Claritas Iulia Ucubi, odierna Espejo), una piccola cittadina della Spagna
romana situata a sud est di Cordŭba. Essa salì alla ribalta alla
fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu senatore
e forse pretore. Nel 73-74 il nonno, anch'egli di nome Marco
Annio Vero, fu elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco
Annio Vero, cioè suo padre, sposò Domizia Lucilla. Lucilla
maggiore, la di lei nonna materna, aveva ereditato una grande fortuna, tra cui
una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto redditizia in
un'epoca in cui la città era interessata da una notevole espansione edilizia.
La famiglia
della madre era di rango consolare, mentre quella del padre vantava
addirittura una discendenza da Numa Pompilio.
Marco Aurelio
nacque a Roma da Lucilla e Vero il 26 aprile del 121, secondo
il calendario romano il sesto giorno prima delle calende di
maggio, l'anno del secondo consolato di suo nonno Marco Annio Vero,
corrispondente all'anno 874 dalla fondazione di Roma; la sorella, Annia
Cornificia Faustina, nacque probabilmente nel 122 o nel 123. Il
padre Annio Vero morì giovane, durante la sua pretura, presumibilmente
nel 124, quando Marco aveva solo tre anni. Anche se difficilmente può
averlo conosciuto, Marco Aurelio scrisse nelle sue Meditazioni che aveva
imparato "modestia e virilità" dal ricordo di suo padre e dalla sua
reputazione postuma. Lucilla non si risposò più.
La madre di
Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio,
affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua
madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e
come evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente
e affettuoso riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine,
nonostante mia madre fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi
ultimi anni di vita con me.
Dopo la morte
del padre, il piccolo Marco Aurelio andò a stare dal nonno paterno Marco
Annio Vero. Ma anche Lucio Catilio Severo, descritto come il
"bisnonno materno" di Marco (probabilmente il patrigno o padre
adottivo di Lucilla maggiore), partecipò alla sua istruzione. Marco crebbe
nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era nato, in un quartiere
che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio.
Era una zona
esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra
cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso
gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli
insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato
agli eventi che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina
presa dal nonno dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina.
Evidentemente questa donna o qualcuno del suo seguito potevano costituire una
tentazione per il giovane Marco.
La sua
istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno
dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente,
introducendo Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso
della ragione. Nell'aprile del 132, per volere di Diogneto, Marco prese a
praticare le abitudini proprie dei filosofi e a utilizzarne l'abbigliamento,
come il ruvido mantello greco.
Altri tutores,
Trosio Apro, Tuticio Proculo e il grammatico Alessandro di Cotieno,
descritto come un importante letterato (il principale studioso omerico del
suo tempo), continuarono a occuparsi della sua istruzione nel 132-133.
Marco deve ad Alessandro la sua formazione nello stile letterario, rilevabile
in molti passi dei Colloqui con sé stesso.
Alla
fine del 136 Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo
aver rischiato di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo
(conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo
contro la volontà delle persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e il 1º
gennaio del 138 morì, costringendo il princeps Adriano a indicare un nuovo
successore; era il 24 gennaio del 138 quando la scelta cadde su Aurelio
Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo
essere stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col
nome di Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello
stesso princeps, Antonino adottò Marco, allora diciassettenne, e il
giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo
momento Marco mutò il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio
in Lucio Elio Aurelio Commodo. Marco rimase sconcertato quando seppe che
Adriano lo aveva adottato come nipote: solo con riluttanza passò dalla casa
di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano, che il Birley ritiene non
fosse ancora la «casa di Tiberio» (come veniva chiamata la residenza
imperiale sul Palatino).
Poco tempo più
tardi, Adriano chiese in Senato che Marco fosse esentato dalla legge che
richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il candidato alla carica di questore.
Il Senato acconsentì e Marco divenne prima questore nel 139, ricevette quindi
l'imperium proconsulare maius nel 139-140 e il consolato nel
140, a soli diciotto anni. L'adozione facilitò il percorso della sua ascesa
sociale: egli sarebbe verosimilmente divenuto prima triumvir monetalis (responsabile
delle emissioni monetali imperiali) e in seguito tribunus militum in
una legione. Marco probabilmente avrebbe preferito viaggiare e
approfondire gli studi. Il suo biografo attesta che il suo carattere rimase
inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per i rapporti come aveva
quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e attento dei suoi
beni come lo era stato quando viveva in una abitazione privata.
La salute di
Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando anche
il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore,
gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae,
località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema
polmonare il 10 luglio del 138. La successione di Antonino era ormai
stabilita e non presentava appigli per eventuali colpi di mano. Per il suo
comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino
fu insignito dell'appellativo "Pio".
Subito dopo
la morte di Adriano, Antonino pregò la moglie Faustina di
accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i suoi precedenti accordi
matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa fatta a Ceionia Fabia
e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e bella figlia,
inizialmente promessa a Lucio. Marco ricoprì il suo primo consolato nel 140,
con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi nominato princeps
iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il titolo di
Cesare, divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito si
schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato,
Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali,
tra i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri
sacris faciundis e i septemviri epulones.
Antonino gli
chiese di prendere la residenza nella Domus Tiberiana, uno dei palazzi
imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto difficoltà a conciliare la vita
di corte con le sue aspirazioni filosofiche, anche se ammirò sempre e
profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di condotta integerrima. Marco
si convinse che la vita serena a corte doveva essere un obiettivo
raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile vivere una
vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile vivere
la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile
attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver
abusato della vita di corte di fronte alla società.
Come questore,
Marco sembra abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti
erano la lettura delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era
assente, e più in generale quello di essere una sorta di segretario privato
del princeps. I suoi compiti come console furono invece più
significativi, presiedendo le riunioni che avevano un ruolo importante nelle
funzioni amministrative del corpo statale. Si sentiva assorbito dal lavoro
d'ufficio e se ne lamentò con il suo tutore Frontone: Sono senza fiato a
causa di dover dettare quasi trenta lettere. Egli era stato, nelle parole del
suo biografo, preparato per governare lo Stato.
Il 1º
gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta, a soli
ventiquattro anni.
Nell'aprile
del 145 Marco sposò la quattordicenne Faustina, come era stato
programmato sin dal 138. Secondo il diritto romano, per far sì che
il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino liberasse
ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso
contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua
sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con
le immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come pontifex
maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al
matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina.
Dopo aver
indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la
sua formazione oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode
Attico, e uno di latino, Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda
spesso come suo maestro di stile e di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone
e Attico erano gli oratori più stimati dell'epoca, ma divennero suoi
precettori solo dopo la sua adozione da parte di Antonino, nel 138. La
preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di quella lingua
per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda sofistica,
una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma, Marco
userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui
con sé stesso.
Erode
era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco d'Oriente e mal
sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista; Marco, che
sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei suoi Colloqui,
nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei decenni successivi.
Frontone
godeva di grande reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura
latina era considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una
fama che oggi, in base ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non
correva una gran simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in
ultimo far scorrere una vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche
a Marco.
Frontone non
divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di
avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il
principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese
difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a
far riconciliare i due.
All'età di
venticinque anni Marco cominciò a disamorarsi degli studi in giurisprudenza,
mostrando segnali di un diffuso malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di
prendere posizione in dibattiti immaginari. In ogni caso, l'istruzione
formale di Marco era ormai finita. Aveva mantenuto con i suoi insegnanti buoni
rapporti e continuava a seguirli con devozione, anche se la lunga istruzione
ebbe negative influenze sulla sua salute. Quando Marco era giovane
Frontone lo aveva messo in guardia contro lo studio della filosofia,
disapprovando come una deviazione giovanile le sue lezioni con Apollonio
di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto Marco alla
filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero successore
di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo. Marco
s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu
proprio Rustico a suggerire.
Il 30
novembre 147 Faustina diede alla luce una bambina di nome Domizia
Faustina Aurelia. Era solo la prima di almeno quattordici figli (tra cui due
coppie di gemelli) che Faustina avrebbe partorito nei successivi ventitré
anni. Il giorno successivo, 1º dicembre, Antonino Pio attribuì a Marco
il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè l'autorità sugli eserciti
e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato conferito nel
139-140. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un
provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri
gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.
La prima
menzione di Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma. Lui
e Faustina furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta
poi nel 151.
Nel 149 nacquero
a Faustina due gemelli, celebrati da una moneta con cornucopie incrociate
sotto i busti dei due bambini e la scritta "felicità dei tempi"
(temporum felicitas). Essi però non sopravvissero a lungo. Tito Aurelio
Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi ricavati dagli epitaffi, morirono
molto presto (entro la fine del 149) e furono sepolti nel mausoleo di
Adriano.
Il 7 marzo
del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui
seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi
del 153 (un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle
fonti nel 152). Una moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS),
raffigurando due bambine e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il
maschio non sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano
raffigurate solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso
anno in cui mancò la sorella di Marco, Cornificia.
Un settimo
figlio nacque e morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158,
come risulta da una lettera di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina
diede alla luce altre due figlie: Fadilla e Cornificia, che
portavano i nomi delle defunte sorelle di Faustina e di Marco. Altri
figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al gemello di questi, Fulvio
Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare, Vibia Aurelia
Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo.
Nel 152 Lucio
divenne questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale
(Marco aveva ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni). Nel 154 ottenne
il consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio
non aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto.
Aveva una personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di
ogni genere, in particolare la caccia e la lotta, e aveva
evidente piacere ad assistere ai giochi circensi e alle lotte dei gladiatori.
Non si sposò fino al 164.
Antonino Pio
non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in
famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si
nota dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre
ai tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata
da Adriano, seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il
tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato.
Nel 156 Antonino
Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute,
seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il
ruolo di Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto
del pretorio Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di
fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e
il 157. Il suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo
stesso peso politico presso il princeps e poi non durò a lungo.
Nel 161 Marco
e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo
sentiva avvicinarsi la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso
anno. Secondo i racconti della Historia Augusta l'imperatore,
che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due giorni prima di morire
aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre.
Aggravatosi
il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio imperiale
(compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio
Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro
della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse
portata da Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità»,
poi si girò, come per andare a dormire, e morì all'età di settantacinque
anni.
ASCESA
-
Dopo la morte di Antonino Pio, Marco Aurelio era di fatto
unico princeps dell'Impero. Il Senato gli
avrebbe presto concesso il titolo di Augusto e di imperator,
oltre a quello di Pontifex
Maximus,
sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione
romana. Sembra che Marco dimostrasse, almeno inizialmente,
tutta la sua riluttanza a farsi carico del potere imperiale,
poiché il suo biografo scrive che fu "costretto dal
Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la
morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e
propria paura del potere imperiale (horror imperii),
considerando la sua predilezione per la vita filosofica, ma
sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come
farlo.
Anche
se nei Colloqui con sé stesso non sembra
mostrare affetto personale per Adriano, Marco lo rispettò
molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i
piani di successione. E così, anche se il Senato voleva
confermare solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza
che Lucio ricevesse gli stessi onori: alla fine il Senato fu
costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo di Augustus.
Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore
Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio,
assumendo il nome di famiglia di Marco, Vero, e
rinunciando al suo cognomen di Commodo,
divenne Imperatore
Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma
veniva governata da due imperatori
nello stesso tempo.
Fin
dalla sua ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato
che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di
parità (diarchia), con
gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato massimo che
non si poteva condividere. La
formula era innovativa: per la prima volta alla testa
dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra
i due principes. In teoria i due fratelli ebbero
gli stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza
che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di questa
collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria
di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso
lasciare l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le
grandi qualità, non sono completamente chiare. A
dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di
Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la
carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex
Maximus. E questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più
anziano deteneva un comando superiore al fratello più
giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente
obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce
all'imperatore.
Subito
dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla
cerimonia di insediamento presso i Castra
Praetoria,
l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò
le truppe schierate, che acclamarono la coppia di imperatores.
Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi,
Lucio promise alle truppe un donativo speciale, che
fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro
capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri
militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a
diversi anni di stipendium,
le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia
non del tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco
era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una
valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei
militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta
d'argento, il denario, cominciò un lento processo di
svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che
del suo titolo (% di argento presente nella lega),
che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%.
Il
funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito
potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo
venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre
adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo
culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime
volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a
Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di
tre mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due
serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. Il
31 agosto a Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito
Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe
succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i
gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i
presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero
auspici positivi per i due neonati. Le nascite furono
celebrate sulla monetazione imperiale.
Subito
dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia
undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle
celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i
bambini poveri, come aveva fatto in precedenza Antonino Pio
quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani
divennero popolari tra la gente di Roma. Gli
imperatori concessero piena libertà di parola, come dimostra
il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus,
poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro
momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato
giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il
biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti
di Pio.
Marco
Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio
Crescenzio Volusiano, responsabile della corrispondenza
imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario
del Norico, che aveva prestato servizio militare nella
guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator
Augusti in
cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per
affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio
Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco
Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto. Marco
lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus
aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il
figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino,
padre dei futuri consoli di età severiana Gaio
Aufidio Vittorino e Marco
Aufidio Frontone, venne nominato governatore della Germania
superiore.
Non
appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo
raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e
il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una
nota al liberto imperiale Charilas,
chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori
poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere
direttamente agli
imperatori. L'innsegnante
si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi.
Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che
Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca
dell'affetto popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni
avrebbero significato la fine della Felicitas temporum,
che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato.
Nell'autunno
del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde,
devastando alcune comunità italiche e gran parte di Roma.
Annegarono molti animali, lasciando la città in preda alla carestia.
Maro
e Lucio affrontarono personalmente questi disastri
e le comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate,
permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In
altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le
comunità italiche fuori dai granai romani.
Gli
insegnamenti di Frontone continuarono nei primi anni di regno
di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da
Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non
fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse
riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale
aveva per un certo periodo di tempo perso
interesse.
I
primi giorni di regno di Marco furono i più felici della vita
di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era
un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e, forse più
importante, eloquente come lui voleva. Marco diede prova di
grande abilità retorica nel suo discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto
a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del disastro, e il
senato era stato intimorito
e
Frontone ne fu enormemente soddisfatto.
In
politica interna, Marco Aurelio si comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano,
da princeps
senatus,
cioè "primo tra i senatori" e non da monarca
assoluto, rivelandosi rispettoso delle prerogative del Senato,
consentendogli di discutere e di decidere sui principali
affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle
popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle
nomine alle magistrature. Avviò anche una politica
tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ai
provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte cariche
dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri
antenati influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito
personale. Egli concesse cariche a persone che riconosceva
come illustri eruditi e filosofi, senza guardare alla loro
condizione di nascita. L'assetto amministrativo
introdotto da Augusto quasi centocinquant'anni
prima, che fino a quel momento aveva preservato l'Impero anche
quando si erano succeduti imperatori dissoluti come Caligola e Nerone,
oppure in occasione della guerra civile del 69,
era imponente e la sua classe dirigente cominciava ad
acquisire piena consapevolezza del proprio potere.
Marco
istituì l'anagrafe: ogni cittadino romano aveva l'obbligo di
registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro
nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e
distrusse tutti i libelli diffamatori che circolavano su molte
persone. Proibì
i processi pubblici prima che fossero raccolte prove certe,
garantì ai senatori l'antica immunità dalle condanne
capitali, a meno che ci fossero prove certe e una condanna
ufficiale. Impiegò
il denaro non in splendide architetture, ma in opere di
ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della
rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il
progresso del commercio, o in
fortezze, accampamenti e
città. Egli non amava particolarmente i giochi
gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva
e li frequentava solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità
militari ausiliarie di gladiatori a supporto delle legioni del
nord, ma dovette richiamarli per il malcontento del popolo
che, nonostante le economie necessarie a causa della guerra,
reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i
suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché
l'esigenza di controllare le finanze locali portò alla
formazione di una classe burocratica che presto volle
arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe
chiusa.
Trascorse, inoltre, molto tempo del suo regno a difendere le frontiere.
Tra
le altre leggi proibì la tortura per i cittadini eminenti,
prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi,
come era stato in epoca repubblicana. Restò
valida per gli schiavi, ma solo se non si trovavano altre
prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo per
utilizzarlo nei combattimenti contro le belve.
Nei
processi da lui presieduti cercò sempre la massima giustizia
ed equità per tutti, anche quando doveva emettere una
condanna secondo le leggi. Marco e Lucio stabilirono ad
esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un
genitore in un momento di follia, materializzando così un
primo concetto di infermità mentale. Come molti
imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad
affrontare questioni di diritto come petizioni e
controversie, prendendosi molta cura nella teoria e nella
pratica della legislazione. Avvocati di professione lo
definirono un «imperatore versato nella legge» e,
come sosteneva il grande Emilio Papiniano, «molto
prudente e coscienziosamente giusto». Egli mostrò
uno spiccato interesse in tre aree del diritto:
l'affrancamento degli schiavi, la tutela degli orfani e dei
minori, e la scelta dei consiglieri cittadini (decuriones).
Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò
sui suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero
stava affrontando a causa delle guerre marcomanniche.
E
mentre il fratello Lucio era impegnato in Oriente contro
i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La
prozia Vibia
Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una
disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva
attratto l'attenzione di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano
riusciti a farsi includere nel suo testamento attraverso vari
codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano essere
riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex
Falcidia:
Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo
patrimonio non alla propria familia ma
a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes.
Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che
Matidia non aveva mai confermato la validità dei documenti,
anche se sul letto di morte alcuni dei sedicenti eredi avevano
colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone esortò
Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma
quest'ultimo, studiato attentamente il caso, preferì che
fosse il fratello a prendere la decisione finale.
Benché
a Roma vigessero la tortura e la pena di morte, applicate
con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e
stranieri, la normativa di molti imperatori
"illuminati" cercò di ridurre il numero di reati
punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito.
Per
Marco anche gli schiavi andavano trattati come
persone, seppure subordinate, e non come oggetti, evitando
quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a
differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a
favore della classe
servile. Alcuni
critici tuttavia temevano che il movimento
filosofico-giuridico legato alla politica di affrancamento
degli Antonini, se non fosse stato profondamente ancorato al sistema
economico romano, basato principalmente sulla schiavitù,
avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto
servile entro un secolo, ed avrebbe comportato gravi
ripercussioni economiche.
Marco
mostrò un grande interessamento affinché a ogni schiavo
fosse data la possibilità di riguadagnare la propria libertà,
qualora il padrone avesse espresso la propria disponibilità a
restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa
di manomissione,
portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino,
e citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo,
egli favorì uno schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia
contraria alla schiavitù, emanò numerose norme favorevoli
alla classe servile, estendendo le leggi già promulgate dai
suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per
esempio il concetto di diritto di asilo per gli
schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi in ogni
modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si
trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua
dell'imperatore.
Sul
letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei
confronti di alcuni re clienti, che il Birley interpreta
fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il cambio
al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia
incoraggiato Vologese IV di Partia ad
aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno
d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re
fantoccio a lui gradito, Pacoro III, un arsacide come
lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente
sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima
(114-116), era così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle
province orientali romane dagli antichi territori dell'Impero
persiano.
Il
governatore della Cappadocia, Marco Sedazio
Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i Parti
facillmente, condusse
una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu sconfitto e
preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva
completamente distrutta.
E
mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si
profilavano lungo le frontiere settentrionali della Britannia e
del limes germanico-retico, dove i Catti dei monti
Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra
che Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche
poiché, come ricorda il suo biografo, non aveva potuto
maturare un'adeguata esperienza militare, avendo trascorso
l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non
nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come
Traiano o Adriano.
Poco dopo giunse la notizia che anche l'esercito del governatore
provinciale della Siria era stato sconfitto dai
Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era quindi
necessario intervenire con grande rapidità, anche nella
scelta dei migliori ufficiali da inviare lungo quel settore
dell'Impero così strategicamente importante. Marco pose
a capo della spedizione il
fratello Lucio perchèera
robusto e più giovane del fratello Marco, più adatto
all'attività militare. In ogni caso, il Senato diede
il suo
assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì,
lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la città ha
chiesto la presenza di un imperatore. Era però
necessario affiancare a Lucio un adeguato staff militare,
ampio e ricco di esperienza, e che comprendesse anche uno dei
due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito
Furio Vittorino.
I
rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino
alla frontiera partica. Frattanto
Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium, una nota
località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose
preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse
allora all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di
descrivergli nei particolari quello che stava facendo a
Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato.
Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare,
prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un
appassionato di palaestra,
di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran parte
delle sue notti insonni a risolvere questioni giudiziarie.
Frontone
rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione
di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento
della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera,
piena di riferimenti storici, indicata, nelle edizioni moderne
sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla
guerra partica).
Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo
viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo
"quartier generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e
le estati a Daphne.
Durante
la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o
del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con Lucilla,
secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero
voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea,
donna di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e
venne accompagnata dalla madre Faustina, insieme a uno
zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per
l'occasione comes
Augusti.
Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino a Smirne,
in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a
Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali
affinché non preparassero alcun ricevimento ufficiale.
La
capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e alla fine
di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus,
pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni
militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino
all'anno successivo. Al contrario, quando Lucio venne
acclamato imperator,
anche Marco accettò la sua seconda salutatio
imperatoria.
Nel 164 le
armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e
l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo,
venne incoronato re tributario d'Armenia, con
l'assenso di Marco. Il 165 vide
le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove
posero sul trono il re vassallo
Manno. Avidio
Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia,
sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su
quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date
alle fiamme. Cassio, nonostante la penuria di
rifornimenti e i primi effetti
della peste contratta
a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la
sua armata vittoriosa. Lucio venne così
acclamato Parthicus
Maximus,
mentre insieme a Marco venne salutato nuovamente imperator,
ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale.
Nel 166 ancora
Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri,
permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus,
mentre Marco otteneva la IV salutatio imperatoria
e il titolo di Parthicus Maximus.
I
Parti si ritirarono nei loro territori, a oriente della
Mesopotamia. Marco sapeva di dover ascrivere il maggior merito
della vittoria finale allo staff militare del fratello Lucio.
Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus
legionis della III Gallica,
una delle legioni siriane.
Al
ritorno dalla campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12
ottobre del 166). La parata risultò insolita perché
comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie nubili,
come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò
i due figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre
al rango di Cesare (il gemello di Commodo, Fulvio
Antonino, era morto l'anno precedente).
Proprio
durante la guerra partica Marco potrebbe aver favorito
l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si
ricorda, infatti, negli annali del "Celeste
impero", un'ambasceria inviata presso l'Imperatore cinese della dinastia
Han, Huandi (nel 166), nella quale i Cinesi chiamarono
l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun.
Ciò sembra confermare che tale ambasceria (forse
composta da soli mercanti), sia giunta in Estremo Oriente
proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo
predecessore, Antonino Pio.
Il
figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino,
venne inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania
superiore, ove si trasferì con l'intera famiglia (a parte un
figlio che rimase a Roma con i nonni). La situazione lungo la
frontiera settentrionale si presentava estremamente difficile.
Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata
distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa
centrale e settentrionale fossero in fermento. Regnava,
inoltre, molta corruzione tra gli ufficiali romani: Vittorino
fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di un legatus
legionis che
aveva preso tangenti e
numerosi governatori esperti vennero sostituiti da amici e
parenti della famiglia imperiale.
A
partire dal 160, le tribù germaniche e altri popoli nomadi
avevano iniziato le prime incursioni lungo i confini
settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio.
Questo nuovo slancio verso occidente era causato dalle
pressioni che subivano a loro volta dalle tribù germaniche più
orientali e settentrionali. Una prima invasione di Catti nella
Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto
più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i
Marcomanni della Boemia, clienti dell'impero romano dal 19 (ma
ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò contro
un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi
e altre tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati
Iazigi attaccarono i territori compresi tra il Danubio e il
fiume Tibisco.
Secondo
la Historia
Augusta,
conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni,
una coalizione di natura militare, composta da una decina di
popolazioni germaniche e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente
detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia,
dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica,
agli Iazigi della piana del Tibisco, fino ai Buri di
stirpe suebica del Banato). Era la naturale
conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei
continui flussi migratori che avevano ormai modificato gli
equilibri con il vicino Impero romano. Questi popoli
erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi, sia in
conseguenza della forte spinta che subivano da altre
popolazioni, sia per il continuo aumento
demografico della Germania
Magna. Erano, inoltre, attratti dalle ricchezze e dalla vita
agiata del mondo romano.
In
quel periodo la frontiera danubiana non poteva contare su
buona parte dei suoi effettivi, sia perché molte legioni
avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla
guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva
falcidiato numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una
catastrofe demografica prolungatasi per oltre un ventennio e
paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel 166/167 avvenne
il primo scontro lungo il limes
pannonicus ad
opera di poche bande di
predoni longobardi e osii che,
grazie al sollecito intervento delle truppe di confine, furono
prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe
popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita
direttamente dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai
diffidenti nei confronti dei barbari aggressori, recatisi
pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di Carnunto (nel 168).
Al
ritorno dalla campagna partica l'esercito portò con sé una
terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la
"peste antonina" o "peste di Galeno",
che si diffuse a partire dalla fine del 165 per quasi un
ventennio, mietendo milioni di vittime e riducendo
drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno
dopo la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse
invece essere vaiolo o morbillo, avrebbe
finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi. La
malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo
Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma,
infettando fino a un quarto dell'intera popolazione. I decessi
totali sono stati stimati in cinque milioni.
Dopo
che la morte colse Lucio agli inizi del 169, Marco
Aurelio si trovò ad affrontare da solo i barbari ribelli e
con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai
provinciali, organizzò una vendita all'asta nel Foro di
Traiano degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio
imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo, vasellame
regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche
all'augusta moglie, oltre a una raccolta di gemme trovata in
un forziere di Adriano.
In
quell'anno Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di
Vero, un nuovo marito, il fedele Claudio Pompeiano, un
militare esperto e affidabile, premiato in seguito con il
consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al
trono, al posto dello scomparso Lucio Vero, conferendogli
perlomeno il titolo di Cesare, ma egli rifiutò sempre la
porpora imperiale.
Frattanto
lungo il fronte settentrionale, i Romani subirono un paio
di pesanti sconfitte contro le popolazioni di Quadi e
Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via
dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo)
e assediarono Aquileia, il cuore della Venetia,
la principale città romana del nord-est dell'Italia. Questo
evento provocò un'enorme impressione: era dai tempi di Mario che
una popolazione barbara non assediava dei centri del nord
Italia.
Contemporaneamente
la popolazione dei Costoboci, proveniente dalla zona dei
Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia,
spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare
il santuario di Eleusi. Dopo una lunga lotta, Marco riuscì
a respingere gli invasori. Numerosi barbari germanici vennero
allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le
due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E
sebbene ciò non costituisse una novità, Marco si adoperò
per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra l'odierna
Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera
chiamate Sarmazia e Marcomannia.
Quelli che erano stati insediati a Ravenna si
ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per
questo motivo, Marco non portò mai più nessun altro
barbaro in Italia, e mise al bando quelli che qui si erano
stabiliti in precedenza.
Marco
fu così costretto a combattere una lunga ed estenuante guerra
contro le popolazioni barbariche del Nord, prima respingendole
e "ripulendo" i territori della Gallia
Cisalpina, del Norico e della Rezia (170-171),
poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio
germanico (172-173) e sarmatico (174-175), in scontri
prolungatisi per diversi
anni. L'imperatore,
in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognominaGermanicus (172)
e Sarmaticus (175),
ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli
Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la
morte di Lucio Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito
del loro conseguimento; tuttavia
egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte
pannonico, non riuscirà più a far ritorno a Roma.
Dione
e gli altri biografi raccontano anche alcuni episodi
particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo
della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna
di Marco Aurelio. I Romani, circondati dai Quadi in
territorio nemico, si salvarono a stento da un possibile nuovo
disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani
per sostenere che non sarebbero state le preghiere
dell'imperatore a ottenere la pioggia in favore dei soldati
romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di fede
cristiana.
Sempre
nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in Egitto, guidata
dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa
città di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio
Cassio e le discordie interne ai rivoltosi portarono alla
fine del conflitto entro breve tempo.
Nel 175,
mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni
della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla
notizia che il governatore della Siria, Avidio
Cassio, uno dei migliori comandanti militari romani, alla
falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato
imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che
la Historia Augusta, Avidio Cassio accettò la
porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa
credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero
potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo
era ancora troppo giovane. Cassio venne
acclamato imperator dalla Legio
III Gallica mentre la gran parte delle province
orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si
schieravano a fianco dei ribelli.
All'inizio
Marco cercò di tenere segreta la notizia dell'usurpazione, ma
quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte
all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso
rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra
Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte
di Marco si rivelò ufficialmente falsa, il Senato romano
proclamò Cassio hostis
publicus,
nemico dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai
suoi stessi soldati. La testa dell'usurpatore fu portata a
Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma l'imperatore, che
avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non
esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta
un'occasione di clemenza: la clemenza, infatti, dà
soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi dei
popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la
moglie, lasciando metà del patrimonio paterno ai figli di
Avidio Cassio, e donando una grande quantità di oro, di
argento e di gemme alla figlia.
Nell'ultimo
decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini
settentrionali imperiali, Marco scrisse i Colloqui con
sé stesso, tornando di rado a Roma. Insieme alla moglie
Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai comites del consilium
principis e
a un ingente esercito, Marco visitò le province
orientali
nel 175-176. Partito
da Sirmio nel luglio del 175, dopo essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias
ad Hypium e per Ancyra, giunse a Tarso,
sostando in Cilicia dove, secondo
Dione, molti
si erano schierati dalla parte di Avidio. Poco dopo aver
passato la località di Tanya, Faustina morì in circostanze
poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in Cappadocia ai
piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune
versioni sulla morte dell'Augusta: una prima ipotizza
il suicidio, motivato dall'aver stretto accordi per la
successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la gotta;
una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima
gravidanza all'età di
45 anni.
Dopo
la morte venne divinizzata ufficialmente con degne cerimonie a
Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva
spesso accompagnato il marito in guerra, era stata la prima
delle imperatrici romane a essere insignita del titolo di mater castrorum. Halala,
il villaggio dove era morta, venne rinominato
"Faustinopolis". In suo onore furono istituiti
collegi di sacerdotesse e create le puellae
Faustinianae, in ricordo dell'istituzione benefica sorta
in memoria della madre, la moglie di Antonino Pio, istituzione
che si occupava di fanciulle orfane della penisola
italica. Le
fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di
Marco Aurelio, spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di
aver ripetutamente tradito il marito, con marinai e
gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe nato
Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia
Augusta.
Dopo
questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì
per la Siria, forse fermandosi a visitare la città di
Antiochia (che si era schierata con Cassio), perdonandone i
suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato, incontrando
alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I.
Riprese, quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel
176 in Egitto, dove ricevette una delegazione dei Parti.
Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo essersi imbarcato
per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove
incontrò Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove
il filosofo cinico Zenone aveva fondato la
scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto,
dichiarandosi "protettore della filosofia". Istituì
quattro cattedre permanenti di studio, finanziandole, una per
ogni principale scuola filosofica: platonici, aristotelici, epicurei e stoici. In Grecia prese
parte anche ai riti dei misteri eleusini. Durante il
tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si rivolsero a
Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani.
Il
27 novembre del 176, Marco decise di associare al trono
imperiale il figlio Commodo, l'unico
maschio superstite tra i suoi figli (dopo la morte del giovane
Marco Vero Cesare e quella di alcuni nipoti), nominandolo Augusto e
concedendogli la tribunicia
potestas e
l'imperium, benché
avesse nei confronti del figlio alcune perplessità. Marco
celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia
Crispina.
A
Roma, si dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di
riparare a torti e abusi del passato; dispose la celebrazione
di giochi circensi, mettendo però un limite di spesa a quelli
gladiatorii. Il 23 dicembre del 176, Marco, che
aveva battuto le popolazioni germaniche e sarmatiche a nord
del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato
romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da
poco nominato Augusto. In suo onore venne eretta una statua
equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei Conservatori.
L'apparente tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche,
in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi,
durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto
del 178 Marco fu infatti costretto a marciare ancora
una volta verso la frontiera danubiana, a seguito di una nuova
sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai più tornato a
Roma. Egli
fece della fortezza
legionaria di Brigetio il
suo nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima
campagna nella primavera successiva del 179, che aveva
come obiettivo quello di occupare stabilmente parte della Germania
Magna (Marcomannia)
e della Sarmatia.
Dopo
una vittoria decisiva nel 178, il piano per annettere la
Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia),
per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche,
sembrava avviato al successo, ma venne abbandonato dopo che
Marco Aurelio si ammalò gravemente nel 180, forse
anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La
sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo
costringesse a fare uso anche di oppio per alleviare
il dolore persistente che lo affliggeva da anni allo stomaco,
rimedio prescritto dallo stesso Galeno.
Marco
Aurelio morì il 17 marzo 180, secondo Aurelio Vittore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna). Secondo
invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e
apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto
sul fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska
Mitrovica, nell'attuale Serbia), che fungeva da quartier
generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo
assalto. Il Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere
morto a Bononia sul Danubio (che per
assonanza ricorda la località di Vindobona),
venti miglia a nord di Sirmio.
Iniziando
a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per
prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché
non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res
publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico,
ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre.
Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di
partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e
il dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole,
astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così la
malattia per morire il più rapidamente possibile. Il sesto
giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse
loro: perché piangete per me e non pensate piuttosto
alla pestilenza e alla morte comune? Se
vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene.
Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla domanda su a
chi affidasse il figlio, rispose ai subordinati: a
voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel settimo
giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua
presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo.
Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come
il padre Antonino Pio, e quella notte morì. Cassio Dione aggiunge
che la morte avvenne "non a causa della malattia per
cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho
chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo",
anche se secondo il Birley, "è inutile avanzare
ipotesi".
Officiato il funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato,
mentre le sue ceneri furono portate a Roma e deposte nel mausoleo
di Adriano, che divenne così il sepolcro di famiglia da
Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori
successivi, finché, nel 410, il sacco visigoto della
città lo danneggiò gravemente. Le sue campagne
vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la
costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio.
Marco
Aurelio aveva stabilito che a succedergli fosse il figlio
Commodo, che già aveva nominato Cesare nel 166 e
poi Augusto (co-imperatore)
nel 177. Questa decisione, che mise di fatto fine alla serie
dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne
fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo
non solo era estraneo alla politica e all'ambiente militare,
ma fu inoltre descritto, già in giovane età, come
estremamente egoista e con gravi problemi psichici,
appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui
lui stesso prendeva parte), passione ereditata dalla madre.
Marco
Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato
quel genere di vita così poco adatto a un princeps,
assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero
come quello romano, ma così non fu.
Cesare
Lucio Marco Aurelio Commodo Antonino Augusto, nato Lucio
Elio Aurelio Commodo (Lanuvio, 31 agosto 161 – Roma, 31
dicembre 192), è stato un imperatore romano,
membro della dinastia degli Antonini; regnò dal 180 al 192.
Figlio
dell'imperatore filosofo Marco Aurelio, Commodo fu
associato al trono nel 177, succedendo al padre nel 180.
Avverso al Senato, governò in maniera autoritaria,
esibendosi anche come gladiatore e in prove di
forza, e facendosi soprannominare l'Ercole romano.
Durante
i dodici anni di principato, nonostante la fama di despota, a
Commodo sono riconosciuti dei meriti: per esempio esercitò
un'ampia tolleranza religiosa, ponendo fine alle persecuzioni
contro i cristiani dopo alcuni anni dall'ascesa al trono,
le quali ricominciarono dopo la sua morte. Egli stesso praticò
culti orientali e stranieri; il regno di Commodo diede anche un
nuovo impulso alle arti, che si svilupparono rispetto all'arte
dei primi Antonini. Durante il suo regno egli eresse vari
monumenti celebranti le imprese del padre Marco Aurelio, tra i
quali la Colonna Aureliana, e forse completò anche la statua
equestre di Marco Aurelio che si trova oggi nei Musei
Capitolini (una copia è esposta al centro della piazza
del Campidoglio).
Amato
dal popolo e appoggiato dall'esercito, al quale aveva elargito
consistenti somme di denaro, riuscì a mantenere il potere tra
numerose congiure, finché non fu assassinato in un complotto
di alcuni senatori, pretoriani e della sua amante Marcia,
strangolato dal suo maestro di lotta, l'ex gladiatore Narcisso;
l'assassinio portò al potere Pertinace. Sottoposto a damnatio
memoriae dal Senato, fu riabilitato e divinizzato dall'imperatore Settimio
Severo, che voleva ricollegarsi alla dinastia antoniniana cercando
il favore dei membri superstiti della famiglia di Commodo e
Marco Aurelio.
Commodo,
figlio del regnante imperatore Marco Aurelio, nacque come
Lucio Elio Aurelio Commodo a Lanuvio, l'antica Lanuvium
vicino a Roma. Aveva un fratello gemello, Tito Aurelio
Fulvio Antonino, morto nel 165. Il 12 ottobre 166, Commodo fu
nominato Cesare insieme al fratello minore, Marco Annio
Vero Cesare; quest'ultimo morì nel 169, perciò l'unico
figlio superstite rimase Lucio Aurelio Commodo.
Secondo
alcuni storici Commodo era ben proporzionato e attraente, con
capelli biondi e ricci. Portava la barba e gli occhi erano
leggermente sporgenti. Come Nerone e Caligola era considerato
folle e come Domiziano e Tiberio era considerato crudele e
arbitrario. Pareva strano che fosse figlio dell'imperatore
filosofo Marco Aurelio e così fu messa in giro la
voce che fosse il figlio naturale di un gladiatore.
Finché
il padre fu in vita Commodo si comportò apparentemente in
maniera normale, anche se si racconta che da giovane cercò di
fare bruciare vivo un servo delle terme perché gli aveva
preparato un bagno troppo caldo, nonché di altri
comportamenti crudeli e considerati indegni (per esempio
esibirsi come attore e gladiatore, frequentare prostitute,
uccidere persone che non aveva in simpatia senza processo).
Tuttavia
bisogna ricordare che le fonti erano tutte ostili. Da
imperatore si paragonava a Ercole, scendendo nell'arena
contro individui non allenati o zoppi, o uccidendo moltissimi
struzzi e animali poco pericolosi, ma in alcuni casi anche
elefanti. Tuttavia anche i detrattori gli riconoscono una
certa destrezza nel combattimento corpo a corpo e nel tiro con
l'arco. Per molti era semplicemente affascinato, come già
Caligola e successivamente Eliogabalo, dalla figura
ellenistica e orientale del sovrano divino (venerava il
culto orientale di Mitra, nonché quelli egiziani di Iside e Anubi)
e, comunque, era inadatto al governo di Roma.
Per
altri aveva invece un vero squilibrio mentale e caratteriale,
con comportamenti che oggi definiremmo sociopatici, cioè
privi di rispetto per le regole sociali e i sentimenti altrui sebbene
non fosse pazzo. Cassio Dione lo descrisse come
cresciuto in un clima stoico e austero, e divenuto
quindi un ribelle appena poté avere il potere, benché non
fosse di indole malvagia, traviato ben presto dai suoi amici a
causa della sua debolezza di carattere.
Egli
ricevette una buona istruzione da "un'abbondanza di buoni
maestri" secondo le parole di Marco Aurelio. Nell'aprile
del 175 Avidio Cassio, governatore della Siria, si
dichiarò imperatore in seguito alla voce che Marco
Aurelio fosse morto. Essendo stato riconosciuto
imperatore dalla Siria, Palestina ed Egitto, Cassio portò
avanti la sua ribellione nonostante Marco Aurelio fosse ancora
in vita.
Durante
i preparativi per la campagna contro Cassio, il principe
assunse la sua toga sul fronte del Danubio il 7
luglio 175, entrando così ufficialmente nell'età adulta.
Cassio, invece, fu ucciso da uno dei suoi centurioni prima che
iniziasse la campagna contro di lui. Commodo accompagnò il
padre in un lungo viaggio nelle province orientali, durante il
quale visitò Antiochia. L'imperatore e il figlio si
recarono anche ad Atene, poi tornò a Roma nell'autunno
del 176. Marco Aurelio fu il secondo imperatore
dopo Vespasiano ad avere un figlio proprio, e sembra
fosse sua intenzione che Commodo divenisse il suo erede,
nonostante da molto tempo gli imperatori, spesso senza figli
maschi adulti, adottassero i loro eredi. Commodo fu l'unico
dei molti figli maschi di Marco Aurelio a sopravvivergli
(l'altro erede designato, Marco Annio Vero Cesare, era
morto molto giovane, e ancora giovanissimo e lontano da Roma
era l'unico nipote in vita, Tiberio Claudio Severo
Proculo, nipote di Commodo che fu poi console sotto Settimio
Severo, nonché suocero di Eliogabalo).
Il
27 novembre 176 Marco Aurelio conferì a Commodo il rango di Imperator,
e nel 177, il titolo di Augusto, attribuendo al
figlio la sua stessa posizione, e formalmente condivise il
potere con lui. Il 23 dicembre dello stesso anno, ottenne la tribunicia
potestas. Il 1º gennaio 177 Commodo divenne console per la
prima volta, a 15 anni, il più giovane console nella storia
romana fino a quel momento. Durante il regno assieme al padre,
Commodo non commise stranezze né crudeltà. Sposò poi Bruzia
Crispina prima di accompagnare suo padre ancora una volta
al fronte del Danubio nel 178 contro i barbari, dove
poi Marco Aurelio morì il 17 marzo 180, lasciando imperatore
il diciannovenne Commodo.
Ascesa
- Dopo una nuova serie di vittorie decisive negli
anni 178-179 contro Marcomanni e Quadi,
il padre, Marco Aurelio, si ammalò gravemente nel 180,
forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da
anni. Marco Aurelio morì il 17 marzo 180, a circa
cinquantanove anni, secondo Aurelio Vittore nella citta-accampamento di Vindobona (Vienna).
Secondo
quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta
cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul
fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska
Mitrovica, nell'attuale Serbia), che fungeva da quartier
generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo
assalto. Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere
morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza
ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord
di Sirmio.
Iniziando
a stare male chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per
prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché
non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res
publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma
che gli interessava prima di tutto la salute del padre. Chiese
pertanto di potere aspettare pochi giorni prima di partire.
Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere
compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi
dal mangiare e bere, e aggravando così la malattia per
permettergli di morire il più rapidamente possibile.
Il
sesto giorno, chiamati gli amici e "deridendo le cose
umane" disse a loro: "perché piangete per me e non
pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se vi
allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi
bene". Mentre anche i soldati si disperavano per lui,
alla domanda su "a chi affidasse il figlio", rispose
ai subordinati: "a voi, se ne sarà degno, e agli dèi
immortali". Nel settimo giorno si aggravò e ammise
brevemente solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito
lo mandò via, per non contagiarlo.
Uscito
Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il padre
Antonino Pio, e quella notte morì. Cassio Dione
Cocceiano aggiunge che vi furono delle negligenze da
parte dei medici, che avrebbero voluto accelerare la
successione per compiacere Commodo, ma potrebbero essere solo
dicerie. Marco Aurelio riteneva, a torto, che il figlio
avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto a un princeps,
assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero
come quello romano.
E
poiché Commodo non era pazzo, come molti sostennero, anche se
amava esibirsi come gladiatore e in prove di forza, egli
intelligentemente si assicurò subito la fedeltà
dell'esercito e del popolo romano con ampie elargizioni,
governando così da vero e proprio monarca assoluto, al
riparo dalle continue congiure del Senato e mantenendo il
potere per dodici lunghi anni. In una di queste congiure venne
coinvolta anche la sorella, Lucilla (oltre ad altri membri
della famiglia, come il cognato e un nipote, figlio di
Cornificia), che Commodo fece prima esiliare e poi uccidere
(non invece il marito, Pompeiano, che preferì autoesiliarsi,
e Cornificia). Un'altra sorella, Fadilla, fu invece,
insieme al marito, una delle più fedeli consigliere del
fratello.
Tra
i primi atti di Commodo vi fu, oltre alla divinizzazione del
padre, la costruzione della grande colonna celebrativa
delle vittorie del padre sulle genti barbariche del Nord.
Cominciò
il suo regno con un trattato di pace sfavorevole concordato
con le tribù dei Marcomanni, Quadi e Buri (tribù
dei Germani), che erano state in guerra contro Marco
Aurelio. Più tardi egli stesso intraprese guerre contro i Germani,
riportando spesso parziali vittorie, per le quali inoltre
pretendeva onori dal Senato. A differenza di quanto
riportano alcuni storici Commodo non era però un pessimo
stratega come poteva apparire.
Stabilì
ricche ricompense per le delazioni, purché i delatori
rivelassero vizi virtù e segreti di ogni senatore. Assillato
dal pensiero che tutti cospirassero contro di lui, e molto
spesso questi pensieri erano fondati, istituì un documento
ufficiale, da lui redatto ogni giorno, denominato lista
di proscrizione: una serie di persone sospette, più o meno
fondatamente, veniva poi bandita o giustiziata.
Commodo
aveva la passione - come la madre Faustina e lo zio
e cognato Lucio Vero (co-imperatore di Marco
Aurelio) - per i combattimenti gladiatori e quelli
contro le bestie, al punto da scendere egli stesso nell'arena vestito
da gladiatore, come l'Ercole romano indossando una pelle
di leone e facendosi addestrare da Narcisso, uno dei più
forti in quei tempi nei combattimenti gladiatori, impiegando
quasi tutto il suo tempo rubato ai piaceri e gozzovigli.
Partecipò a 735 giochi, pretendendo di essere regolarmente
registrato e pagato come un normale gladiatore, ma
naturalmente nessuno poteva batterlo, anche grazie
all'assegnazione di armi smussate e scudi manomessi; tutti i
prescelti finivano inesorabilmente sconfitti e chiunque veniva
a conoscenza del trucco era inserito con un documento
ufficiale in una lista di proscrizione e quindi
bandito o giustiziato. Nel corpo a corpo aveva scelto la
figura del Secutor, affrontando gli avversari con elmo
scudo e spada, all'epilogo spesso fingeva di graziarli per poi
mutilarli o sfregiarli. Uccise anche migliaia di animali
selvaggi tra cui elefanti, rinoceronti, ippopotami, leoni,
orsi, leopardi e struzzi, questi ultimi una sua passione poiché
dopo essere decapitati continuavano a correre per una manciata
di secondi; in una delle sue ultime apparizioni nell'arena,
afferrò una testa di struzzo mostrandola ai senatori e
proclamò che avrebbe fatto lo stesso all’intero Senato.
La
partecipazione ai giochi nelle arene era considerato
scandaloso dai Romani: la morale comune poneva i gladiatori
nei ranghi più bassi della scala sociale. Ereditò, pare,
tale passione dalla madre: una leggenda priva di fondamento
voleva, del resto, che non fosse figlio di Marco Aurelio ma di
un gladiatore.
L'instabilità
di Commodo non si limitava a questo "hobby". Nel 190 una
parte della città di Roma fu distrutta da un
incendio e Commodo colse l'opportunità per
"rifondarla", chiamandola in suo onore Colonia
Commodiana (come forse avrebbe voluto fare Nerone nel
64). Anche i mesi del calendario furono rinominati in suo
onore, e perfino al Senato cambiò il nome in Senato
della Fortuna Commodiana, mentre l'esercito divenne Esercito
commodiano e così pure la flotta Classis
Commodiana. Questi atteggiamenti da monarca erano considerati
gravemente offensivi dal Senato.
Inoltre
aveva una propensione per ciò che era sessualmente
stravagante o insano; abusò di tutte le sorelle, alle sue
concubine imponeva di mettersi il nome della madre Faustina
durante gli amplessi, aveva allestito una sorta di harem composto
da trecento ragazze e trecento ragazzi a uso della sua cerchia
di amici e cortigiani, mettendo in scena spettacoli orgiastici
a tema, come per esempio l'Ercole Rustico.
Nel 182 un
gruppo di membri della famiglia imperiale riuniti intorno alla
sorella Annia Aurelia Galeria Lucilla - la figlia
del primo matrimonio, un nipote (figlio dell'altra sorella, Annia
Cornificia Faustina Minore), il proprio cugino paterno, l'ex
console Marco Numidio Quadrato e la sorella di
quest'ultimo Numidia Cornificia Faustina - pianificò
l'assassinio di Commodo immaginando di vedere Lucilla e suo
marito come nuovi governanti di Roma. Il nipote di Quintiniano
irruppe dal suo nascondiglio con un pugnale cercando di
colpire Commodo. Gli disse "Qui c'è il pugnale che ti
spedisce il Senato" svelando la sua intenzione prima
ancora di agire. Le guardie furono più veloci di lui, fu
sopraffatto e disarmato senza riuscire nemmeno a ferire
l'imperatore.
Commodo
ordinò la sua condanna a morte e quella di Marco Numidio
Quadrato; Lucilla, sua figlia e Numidia Cornificia Faustina
furono esiliate nell'isola di Capri. Un anno dopo Commodo
spedì un centurione a Capri per uccidere le tre donne. Altri
complotti coinvolsero di nuovo il secondo marito di Lucilla, Tiberio
Claudio Pompeiano, che scampò alla repressione
auto-esiliandosi. L'altra sorella che risiedeva a Roma, Fadilla,
fu invece molto vicina a Commodo, e lo sostenne con il marito
in qualità di consigliere.
Nel
192 Commodo divorziò da Bruzia Crispina, facendola esiliare
per adulterio. Di fronte al crescente malcontento per gli
eccessi di Commodo, il prefetto del Pretorio Quinto
Emilio Leto e il cubicularius Ecletto, temendo
per la propria vita dopo essersi opposti alle ultime
stravaganze dell'imperatore ed essere stati inseriti in una lista
di proscrizione, organizzarono una congiura con Cassio Dione e
numerosi altri senatori, anch'essi esasperati dallo stato
delle cose. Venne ben presto coinvolta la concubina Marcia,
favorita di Commodo di probabile fede cristiana (aveva
spinto Commodo a interrompere le persecuzioni e a graziare
papa Vittore I), cosicché, approfittando della sua prossimità
al principe, si riuscisse ad avvelenarlo in modo da
ucciderlo segretamente, in maniera non plateale o cruenta e
senza uno scontro fisico.
L'attentato
venne messo in atto il 31 dicembre 192, vigilia
dell'insediamento dei nuovi consoli, durante un banchetto gli
venne avvelenato il vino. L'imperatore, però, credendo di
sentirsi appesantito dal lauto pasto si ritirò nei suoi
appartamenti e chiese ai domestici di aiutarlo a vomitare,
salvandosi così inconsapevolmente. A quel punto, essendo
fallito l'avvelenamento e temendo di potere essere presto
scoperti, i congiurati si rivolsero al campione dei gladiatori Narcisso,
istruttore personale dell'imperatore, consegnandogli una
spada; il gladiatore, spinto dalla promessa di una ricca
ricompensa e dalla rivalsa personale per essere stato inserito
in una lista di proscrizione, uccise quella sera stessa
Commodo nei bagni, forse strangolandolo o trafiggendolo.
Nell'anno seguente Narcisso venne giustiziato come assassino
dell'imperatore durante la guerra civile, e Marcia condannata
a morte dal nuovo imperatore. Cassio Dione invece si salvò e
scrisse uno dei pochissimi resoconti di queste
vicende.
Il
giorno successivo, 1º gennaio 193, dopo un brevissimo
interregno, i congiurati sparsero la voce dell'improvvisa e
provvidenziale morte dell'Imperatore per un colpo
apoplettico e di come quel fortuito evento avesse evitato
appena in tempo il piano di Commodo per assassinare i consoli
designati, Quinto Pompeio Sosio Falcone e Gaio
Giulio Erucio Claro Vibiano, per poi recarsi in Senato,
accompagnato da un gladiatore e vestito egli stesso
in abiti da arena, per essere assieme a questi acclamato
console per l'ottava volta.
Leto
ed Ecletto si recarono quindi dal Praefectus Urbi Publio
Elvio Pertinace, generale e console in
carica e collega dell'imperatore defunto, offrendogli la porpora
imperiale. Questi, temendo dapprima per la propria vita, si
convinse ad accettare solo quando, condotto al Palatino,
vide il corpo di Commodo privo di vita. A Roma, la notizia
della morte del Principe spinse il Senato e
il popolo a chiedere che il cadavere fosse
trascinato con un uncino e precipitato nel Tevere, così
come voleva un'antica usanza per i nemici della Patria.
Pertinace
diede tuttavia incarico affinché Commodo fosse segretamente
sepolto nel mausoleo di Adriano. Avutane notizia, il
Senato dichiarò allora Commodo hostis publicus e ne
decretò la damnatio memoriae: venne ripristinato il nome
corretto delle istituzioni, mentre le statue e gli altri
monumenti eretti dall'Imperatore defunto venivano abbattuti.
Appena due anni dopo tuttavia, nel 195, l'imperatore Settimio
Severo, cercando di legittimare il proprio potere
ricollegandosi alla dinastia di Marco Aurelio e in
aperta contrapposizione con il Senato, riabilitò la memoria
di Commodo, ordinando che ne fosse decretata l'apoteosi.
Commodo passò quindi dall'essere un nemico dello Stato alla
condizione di divus, con un apposito flamine preposto
al proprio culto.
Publio
Elvio Pertinace (Alba, 1º
agosto126 – Roma, 28
marzo193)
è stato un politico, militare, console e imperatoreromano.
Pertinace
fu proclamato imperatore il
1º gennaio 193 e regnò per tre mesi, prima di essere
assassinato dai pretoriani il
28 marzo 193. Successivamente venne divinizzato.
La
sua carriera prima di divenire imperatore, come si trova
documentata nella Historia
Augusta, è confermata da iscrizioni che si possono
ritrovare in molti luoghi.
Nato
ad Alba Pompeia (l'odierna Alba,
in provincia
di Cuneo), nella Regio
IX Liguria, in una famiglia di liberti,
Pertinace svolse dapprima l'attività d'insegnante di grammatica dopodiché,
grazie all'intercessione d'un patrocinatore, intraprese
fruttuosamente la carriera militare, arrivando a ricoprire il
grado di prefetto della cohors
IIII Gallorum equitata di stanza in Rezia.
Iniziò
la carriera militare come cavaliere e
fu posto al comando di una corte di fanteria
ausiliaria in Siria negli anni compresi tra il 157 ed
il 162.
Si trattava molto probabilmente della Cohors
VII Gallorum. Dopo essersi distinto nella guerra
contro i Parti di Lucio
Vero (162-166), venne promosso ed inviato in Britannia, prima
come praepositus della Cohors
I o II Tungrorum (163-164?), poi come tribuno
angusticlavio della Legio
VI Victrix (164-166?). In seguito
(attorno al 167),
lo troviamo lungo
il Danubio come praefectus
alae della ala
I Flavia Augusta Britannica milliaria che era
dislocata a Sirmium, sotto il comando dell'allora legatus
Augusti pro praetore, Tiberio
Claudio Pompeiano, del quale divenne grande amico e suo
protetto.
Negli
anni successivi servì prima come procurator
Augusti ad Alimenta in regio
VIII Aemilia (per la logistica delle operazioni
militari degli anni 167-168 durante le guerre
marcomanniche), poi come praefectus
classisGermanica di
stanza a Colonia
Agrippina (poco prima del 169), ed
infine come procuratore ducenarius (con uno
stipendium di 200.000 sesterzi)
delle tre
Dacie (nel 169-170).
A
questo punto della carriera, cadde in disgrazia e venne
rimosso dall'incarico di procurator Augusti in
Dacia, vittima probabilmente di intrighi di corte durante il
regno di Marco
Aurelio, ma subito dopo fu richiamato per assistere Claudio
Pompeiano nella guerra contro i Germani, ottenendo
importanti successi in Pannonia
inferiore e in Dacia (nel 170), forse con il grado
di legatus
legionis o di dux di
un esercito formato da alcune vexillationes affidategli
dal suo patrono. Per questi successi l'imperatore romano, Marco
Aurelio, gli ottenne un'adlectio in senato e, per
compensare l'ingiustizia subita precedentemente, venne
promosso tra i pretorii.
In
seguito sembra abbia affiancato nuovamente Pompeiano in
operazioni militari per scacciare le genti germaniche da
Norico e Rezia, ottenendo l'incarico di legatus
legionis della I
Adiutrix (171-172),
normalmente di stanza a Brigetio. Sembra
che abbia combattuto poco dopo lungo il fronte danubiano
contro i Naristi (in
bello Naristarum) che a quell'epoca si trovavano di fronte
alle province romane di Norico e Pannonia
superiore.
Nel 175 ricevette
per gli alti meriti militari conseguiti negli anni precedenti
la nomina a console. Ottenne
quindi l'incarico di governare entrambe le due
Mesie (Superior et Inferior), per poi
accompagnare, come comes
Augusti, Marco Aurelio a causa dell'usurpazione in
Oriente di Avidio
Cassio (primavera del 175). Poco dopo fece ritorno
lungo il fronte danubiano e continuò ad amministrare entrambe
le due province di Mesia, almeno fino al 178/179.
Divenne
quindi governatore delle Tres
Daciae nel 179/180. Subito
dopo questo incarico venne nominato legatus
Augusti pro praetore della Siria dove
rimase fino a non più tardi del 183, quando
venne richiamato dal prefetto
del pretorioTigidio
Perenne e sostituito da Gaio
Domizio Destro. La Historia
Augusta racconta che egli fu costretto a ritirarsi
nei suoi possedimenti nella natìa Alba Pompeia.
La
morte di Perenne permise a Pertinace di ritornare alla ribalta
in seno alla corte di Commodo, anche
grazie alla necessità di reprimere gli ammutinamenti militari
che erano scoppiati nel 184 in Britannia.
Fu così che la sua carriera riprese e venne nominato
governatore dell'isola, dove si recò poco dopo, riuscendo a
sedare la rivolta. Qui sembra rimase dal 185 al 187/188. Una
volta tornato a Roma,
venne nominato praefectus
Urbis (189) e poco dopo proconsole d'Africa (190). Ebbe
quindi un secondo consolato, questa volta ordinario, avendo
come collega lo stesso imperatore Commodo nel 192. In
seguito venne nominato imperatore dal prefetto
del pretorioQuinto
Emilio Leto e dal cubicolario Ecletto dopo
che Commodo fu
assassinato l'ultimo giorno di quell'anno (31 dicembre del
192).
Quello
di Pertinace fu un regno corto e inquieto. Devotissimo al
Senato, tanto da pensare in un primo momento di cedere il
trono al nobile senatore Acilio Glabrione, egli trovò le
finanze esauste e tentò di imitare i risparmi di Marco
Aurelio, cercando di riformare le distribuzioni di
alimenti e di terre, ma si scontrò con l'antagonismo di molti
quartieri.
Gli
scrittori antichi precisano come la guardia pretoriana si
aspettasse la liquidazione di tutti i ministri e
fiancheggiatori di Commodo, la confisca dei loro beni e di
conseguenza generosi doni con la salita al trono di Pertinace.
Pertinace invece non intendeva sanzionare chi aveva
semplicemente obbedito per dovere all'imperatore. I pretoriani
delusi si agitarono fino a che Pertinace non distribuì loro
del denaro, spendendo dalle proprietà di Commodo, inclusi concubine e
ragazzi che Commodo aveva tenuto presso di sé per il suo
piacere sessuale. Pertinace successivamente scoprì all'ultimo
momento una cospirazione di un gruppo che voleva sostituirlo e
ne fece uccidere tutti i congiurati.
Ma
una seconda cospirazione finì, il 28 marzo dell'anno 193,
con il suo assassinio. La guardia pretoriana assalì il
palazzo imperiale. Abbandonato dalle sue guardie, Pertinace
non cercò di fuggire, ma attese l'assalto assieme al suo
segretario Ecletto.
In un primo momento i soldati si fermarono di fronte al grande
coraggio e alle parole di Pertinace, ma un certo Tungas, dopo
averli incitati, scagliò la lancia e trafisse al petto
l’imperatore. Pertinace cadde e si velò il capo, rivolgendo
un'ultima preghiera a Giove Vendicatore. I soldati lo finirono
con i pugnali mentre Ecletto combatteva
coraggiosamente, trafiggendo due soldati prima di essere anche
lui ucciso. I pretoriani decapitarono Pertinace e infilarono
la sua testa su una lancia, per poi sfilare per le strade di
Roma.
Pertinace
sembrava essere cosciente del pericolo che correva assumendo
il potere: per questo rifiutò gli attributi imperiali per la
moglie e per il figlio Publio
Elvio, per proteggerli dalle conseguenze di un suo
eventuale assassinio.
Niccolò
Machiavelli ne Il
Principe (cap. XIX Come evitare il disprezzo
e l'odio) sostiene che Pertinace era un amante della giustizia
e della pace. Ma fu l'amore per questi ideali a condurlo alla
morte. Durante l'antica Roma infatti i soldati apprezzavano
molto di più i principi dall'animo bellicoso che dessero
sfogo alla loro rapacità. Per mantenere il potere era dunque
necessario assecondare la corruzione dei soldati, cosa che
l'onesto Pertinace, suo malgrado, non fece. Per questo il
Machiavelli sottolinea che Pertinace è un chiaro esempio di
come ci si può procurare odio anche a causa della troppa
onestà, in quanto nell'arte di governare bisogna essere
pronti a "essere non buoni" se le circostanze lo
richiedono.
Dopo
aver vinto una vera e propria asta indetta dai pretoriani il
ricchissimo senatore Didio
Giuliano si proclamò quindi nuovo imperatore,
atto che scatenò una breve guerra civile per la successione,
al termine della quale Settimio
Severo sconfisse Clodio
Albino e Pescennio
Nigro e fu acclamato imperatore nell'anno 193.
Alla sua salita al potere, Settimio Severo riconobbe Pertinace
come legittimo imperatore, e non solo fece pressioni sul Senato perché
concedesse l'apoteosi e
i funerali
di stato. Come nuova divinità assunta al cielo (Divus)
a Pertinace per qualche tempo furono organizzati giochi per
l'anniversario della salita al potere e per il giorno della
sua nascita.
Marco
Didio Severo Giuliano (Mediolanum, 30
gennaio133 – Roma, 1º
giugno193),
meglio noto semplicemente come Didio Giuliano, è stato
un imperatore
romano, regnante per pochi mesi dal 28 marzo al 1º
giugno del 193.
Fu
un ricchissimo senatore che
riuscì a divenire imperatore comprandosi la carica dai pretoriani i
quali, avendo assassinato il precedente imperatore Pertinace,
l'avevano messa praticamente all'asta in cerca del partito a
loro più favorevole. Riconosciuto anche dal Senato,
non seppe guadagnarsi però la benevolenza della popolazione,
né tantomeno il necessario appoggio delle legioni, presso le
quali si levarono dalle provincie alcuni pretendenti al soglio
che ne causarono infine la caduta dopo soli pochi mesi di
governo.
Giuliano
nacque a Mediolanum (l'odierna Milano),
nella Regio
XI Transpadana, nel 133 o
nel 137,
figlio di Quinto
Petronio Didio Severo, politico romano di origini insubri per
parte paterna, e di Emilia Clara, donna romana originaria di
Hadrumetum (l'odierna Susa, in Tunisia),
nella provincia dell'Africa
Proconsolare.
Improbabile
la notizia, riportata nella Historia
Augusta, che fosse bisnipote di Salvio
Giuliano, poiché quest'ultimo, nato verso la fine del
I secolo, non poteva essere bisnonno di qualcuno nato non più
tardi del 137.
La
sua carriera fu ricca di cariche: questore a
ventiquattro anni (nel 157),
uno meno dell'età minima, fu poi edile e pretore nel 163. Fu
quindi legatus
legionis della XXII Primigenia a Mogontiacum,
poi governatore di
rango pretorio della Gallia
Belgica per lungo tempo (170-174 circa), riuscendo a
respingere un'invasione di Cauci dal
mare e una di Catti, tanto da fargli meritare il
consolato insieme al futuro imperatore Pertinace.
In seguito divenne governatore, prima della Dalmazia (dal 176
forse fino al 180), poi della Germania
inferiore tra il 180 e il 184, e infine prefetto
dell'annona.
Sotto Commodo rischiò
di essere condannato per una denuncia collegata alla
cosiddetta congiura di Lucilla, sorella dell'imperatore, ma
l'imperatore non credette all'accusa. Giuliano comunque preferì
ritirarsi a vita privata. In seguito Commodo lo nominò prima
governatore della Bitinia (probabilmente
tra il 185 e il 189), poi nuovamente console e
infine governatore dell'Africa (190-192).
Alla
morte di Pertinace, con il quale sembra avesse un buon
rapporto, fu nominato imperatore al posto di Sulpiciano,
perché aveva offerto più sesterzi (25.000 secondo l'Historia
Augusta) ai pretoriani di quest'ultimo. Lo stesso giorno fu
riconosciuto anche dal senato, che nominò auguste la
moglie Manlia
Scantilla e la figlia Didia
Clara.
Solo
il popolo gli fu sempre ostile, visto anche lo scherno
mostrato nei confronti della frugalità del predecessore,
notizia questa ritenuta falsa nella Historia Augusta. Più
volte il popolo lo criticò aspramente e non cambiò idea
neanche sotto la minaccia "della spada" e la
promessa "dell'oro". I veri problemi non venivano
dal popolino di Roma, ma dagli eserciti delle province, che
non avevano giurato fedeltà all'imperatore, tanto che in più
parti erano scoppiate rivolte: Clodio
Albino con gli eserciti della Britannia, Pescennio
Nigro con quelli della Siria e Settimio
Severo con quelli dell'Illirico.
Didio
Giuliano mandò uomini e ambascerie per eliminare il problema
alla radice e nel frattempo si preparò allo scontro, mal
riponendo la sua fiducia nei pretoriani. Dopo aver tentato di
bloccare Settimio Severo, che attraversando l'Italia e
discendendo verso Roma si era pure impadronito della flotta di Ravenna,
intraprese con lui trattative diplomatiche per associarlo al
trono, ma la posizione di Didio Giuliano era ormai troppo
compromessa e Settimio Severo rifiutò l'offerta. Senza più
nessuno dalla sua parte, fu ucciso in un luogo remoto dai
pretoriani, su ordine del Senato, mediante decapitazione il 1º
giugno 193.