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Età imperiale - Imperatori adottivi (96 - 193 d.C.) 

All'interno della storia romana si definisce abitualmente età degli Imperatori adottivi (o Imperatori d'adozione) il periodo che va dal 96 (elezione di Nerva) al 180 (morte di Marco Aurelio), caratterizzato da una successione al trono stabilita non per via familiare, ma attraverso l'adozione, da parte dell'imperatore in carica, del proprio successore. Unanimemente considerata una delle età più splendenti della storia romana, l'età degli Imperatori adottivi ha fatto seguito ai travagli degli ultimi anni della Dinastia dei Flavi e ha preceduto il ritorno al principio dinastico con Commodo e la successiva guerra civile romana (193-197). Anche Commodo è incluso idealmente e il suo principato è considerato la conclusione degli Imperatori adottivi.

A volte, due dei cinque "buoni imperatori" del II secolo (Antonino Pio e Marco Aurelio, escludendo nei computi Lucio Vero, co-imperatore nei primi anni di Marco) vengono raccolti, assieme a Commodo, in una dinastia degli Antonini, che tuttavia non è una dinastia in senso stretto: gli imperatori infatti salivano al trono non in seguito alla loro parentela, ma in quanto scelti come successori dal loro predecessore, dal quale venivano formalmente adottati, poiché gli adottanti erano quasi tutti privi di eredi maschi.

Gli imperatori erano comunque imparentati tra loro più o meno alla lontana e questi legami familiari includono anche le famiglie di Traiano (della gens Ulpia) e di Adriano (della gens Elia). Questi ultimi erano parenti, rispettivamente zio e nipote, tanto da esser raccolti spesso in una prima dinastia denominata dinastia dei Nerva-Traiani, successivamente diventata Nerva-Antonini con l'adozione di Antonino Pio, il quale aveva una parentela lontana con Adriano. Marco Aurelio era il nipote di Antonino (Faustina maggiore, moglie di Antonino, era sorella del padre di Marco), che sposerà la cugina, figlia di Antonino stesso, Faustina minore. Lucio Vero, adottato con Marco da Antonino, sposò la figlia di Marco stesso, Annia Aurelia Galeria Lucilla, divenendone il genero. Commodo, infine, era il figlio naturale di Marco Aurelio.

Grande importanza ebbero le figure femminili: ascoltate consigliere di Traiano erano la moglie Plotina, la sorella Marciana (che alla sua morte venne divinizzata) e la figlia di costei, Matidia. Anche i legami familiari passarono spesso per la linea femminile, come nel caso del citato legame di Marco Aurelio con Antonino.

Il periodo che va dalla fine del I alla fine del II secolo è caratterizzato da una successione non più dinastica, ma adottiva, basata sui meriti dei singoli scelti dagli imperatori come loro successori.

L'Impero romano arrivò all'apice della sua potenza durante i principati di TraianoAdrianoAntonino Pio e Marco Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò al figlio Commodo, che portò il principato verso una forma più autocratica e teocratica. Il potere delle istituzioni tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno proseguì con i suoi successori, sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito per governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La dipendenza sempre più accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse, nel 235 circa, a un periodo di crisi militare e politica, definito dagli storici come anarchia militare.

Nerva - Traiano - Adriano - Antonino Pio - Marco Aurelio e Lucio Vero - Commodo Pertinace - Didio Giuliano

Il periodo che va dalla fine del I alla fine del II secolo è caratterizzato da una successione non più dinastica, ma adottiva, basata sui meriti dei singoli scelti dagli imperatori come loro successori.

L'Impero romano arrivò all'apice della sua potenza durante i principati di TraianoAdrianoAntonino Pio e Marco Aurelio. Alla morte di quest'ultimo, il potere passò al figlio Commodo, che portò il principato verso una forma più autocratica e teocratica. Il potere delle istituzioni tradizionali si andò indebolendo e il fenomeno proseguì con i suoi successori, sempre più bisognosi dell'appoggio dell'esercito per governare. Il ruolo del Senato nei secoli successivi si ridusse progressivamente, fino a divenire del tutto formale. La dipendenza sempre più accentuata del potere imperiale dall'esercito condusse, nel 235 circa, a un periodo di crisi militare e politica, definito dagli storici come anarchia militare.

Nerva (96-98 d.C.)

Nerva nacque presso l'antica colonia romana di Narnia (l'odierna Narni, in provincia di Terni), nella Regio VI Umbria, figlio di Cocceio Nerva, famoso giureconsulto, e di Sergia Plautilla, figlia a sua volta del console Popilio Lena. Aveva un fratello, Gaio Cocceio Nerva.

Molto amico di Vespasiano, ne fu nominato generale e governatore della provincia Mauretania.

Nerva non aveva seguito l'usuale carriera amministrativa (il cursus honorum), anche se era stato console durante l'impero di Vespasiano nel 71 e con Domiziano nel 90.

Quando fu organizzata la congiura contro Domiziano, Nerva acconsentì a divenirne il successore. Egli era molto stimato come anziano senatore ed era noto come persona mite e accorta. Alla morte di Domiziano, Nerva fu acclamato imperatore in Senato da tutte le classi, concordi sul suo nome.

Durante il suo regno, breve ma significativo, apportò un grande cambiamento: il "principato adottivo". Questa riforma prevedeva che l'imperatore in carica dovesse decidere, prima della sua morte, il suo successore all'interno del Senato; questo faceva sì che i senatori venissero responsabilizzati. Inoltre, dall'anno dei quattro imperatori il Senato aveva subito un cambiamento epocale: i senatori cominciavano a provenire anche dalle province, rinnovando così l'antico e oligarchico senato romano. Nerva e Traiano, inoltre, furono abili nei confronti delle altre classi, annunciando che il successore poteva essere scelto anche tra la plebe.

Le loro speranze non andarono deluse: Nerva, infatti, nel suo breve regno fuse le idee di impero, libertà e pace, dando inizio a un secolo poi considerato d'oro.

Appena eletto, fece cessare le persecuzioni contro i cristiani, agli esiliati di rientrare a Roma, abolì i processi di lesa maestà, reintegrò il Senato nelle sue prerogative, prodigò le sue terre e i denari per soccorrere i poveri; inoltre abolì il fiscus iudaicus (che gravava sugli ebrei dell'Impero) e la vicesima hereditatum. Nonostante ciò, fu molto duro contro i suoi delatori.

Fu addirittura giudicato troppo mite dal Senato e subì una congiura che venne sventata, esiliando a Taranto colui che ne era a capo, il senatore Calpurnio Crasso; "Il console Frontone, secondo quanto si dice, dichiarò che era un male avere un imperatore sotto il quale nessuno poteva agire in alcun modo (Domiziano), ma era ancora peggio averne uno sotto il quale a tutti era lecito tutto". Nel 97 fu nominato console per la terza volta e gli fu collega Lucio Verginio Rufo.

In campo economico, Nerva attuò una politica di sgravi fiscali e di incentivi che doveva favorire le comunità italiche. Gli ebrei furono esentati dal tributo che era stato loro imposto sotto i Flavi.

Una legge agraria assegnò appezzamenti di terreno a cittadini nullatenenti. Le spese che le città dovevano sostenere per il mantenimento del cursus publicus, cioè del servizio postale, furono addossate alle casse imperiali. A Roma fu riorganizzato il sistema dell'approvvigionamento idrico; ci resta di quegli anni l'opera fondamentale scritta dal curatore delle acque, Sesto Giulio Frontino, sulla progettazione e la manutenzione degli acquedotti. Un altro grande provvedimento fu la "politica degli alimenta", che consisteva nell'erogare prestiti a tasso agevolato, sussidi alle famiglie povere e l'istruzione gratuita agli orfani.

Poiché Nerva sapeva che il suo incarico non sarebbe durato a lungo, ormai vecchio e malato decise di adottare un figlio. In omaggio all'interesse dello Stato, non scelse il successore nella propria famiglia, ma adottò Marco Ulpio Traiano, generale delle legioni a difesa del confine renano, a discapito del governatore della SiriaMarco Cornelio Nigrino Curiazio Materno. L'adozione coincise con un'importante vittoria militare in Pannonia, che diede all'adottato Traiano l'appellativo di Cesare Germanico. Traiano venne nominato proconsole e gli fu conferita la tribunicia potestas.

Nerva fu nuovamente nominato console, con Traiano, nel 98, ma morì dopo tre mesi di carica. Il suo successore volle un funerale di grande solennità. Le sue ceneri furono poste nel mausoleo di Augusto. Nonostante abbia governato per meno di due anni, egli è ricordato come uno dei migliori imperatori di Roma.  

Traiano (98-117)

Marco Ulpio Nerva Traiano (nelle epigrafi: IMPERATOR • CAESAR • DIVI • NERVAE • FILIVS • MARCVS • VLPIVS • NERVA • TRAIANVS • OPTIMVS • AVGVSTVS • FORTISSIMVS • PRINCEPS • GERMANICVS • DACICVS • PARTHICVS; è stato un imperatore romano, regnante dal 98 al 117.

Traiano proveniva da una colonia romana denominata Italica (odierna Santiponce, non lontano dall'attuale Siviglia), nella provincia dell'Hispania Baetica (all'incirca l'odierna Andalusia), situata nella parte meridionale della penisola iberica. La famiglia di Traiano, gli Ulpii Traiani, era originaria di Todi in Umbria. Italica era stata fondata nel 206 a.C. da un insieme di veterani (legionari romani e alleati italici) feriti o malati dell'esercito di Scipione Africano. È probabile che il primo degli antenati di Traiano a installarsi in Baetica provenisse proprio da questa armata, sebbene non sia da escludere che la famiglia vi si sia stanziata successivamente, secondo alcuni alla fine del I secolo a.C. Traiano è stato spesso ed erroneamente indicato come il primo imperatore di origine provinciale, mentre egli proveniva da una famiglia italica residente in una colonia romana di provincia.

Il giorno della sua nascita è il quattordicesimo giorno prima delle Calende di ottobre, vale a dire il 18 settembre. Tuttavia, l'anno della sua nascita è il più discusso: alcuni autori suggeriscono infatti l'anno 56, basato sulla sua carriera come senatore, ma la stragrande maggioranza degli storici moderni considera che Traiano sia nato nel 53.

Era figlio di una donna iberica, Marcia, di cui si sa poco, e di un importante senatore che portava il suo stesso nome e che era stato pretore attorno al 59/60, poi legatus legionis della legio X Fretensis durante la prima guerra giudaica nel 67, probabilmente prima di diventare preconsole nella Betica. Ulpio Traiano è forse uno dei primi cittadini romani che non dovette stabilirsi in Italia per accedere al rango di senatore romano e governare la propria provincia d'origine. In Giudea, servì sotto il comando di Vespasiano, insieme al figlio di lui, Tito. Ottenne quindi il consolato suffectus nel 70, oppure due anni più tardi nel 72.

Il padre fu quindi elevato al rango di patrizio nel 73/74, durante la censura congiunta di Vespasiano e del figlio Tito. E sempre a partire da questa data, fino al 76-78, Vespasiano gli affidò il governo, come legatus Augusti pro praetore, della provincia romana di Siria per circa 3-5 anni, mettendolo a capo della principale forza militare in Oriente. Tra la fine del 73 e l'inizio del 74, il padre di Traiano si scontrò con successo contro i Parti, respingendo facilmente un'incursione del loro re Vologase I. Per questi successi ricevette gli ornamenta triumphalia, titolo raro ed eccezionale per quell'epoca. Seguì quindi il proconsolato d'Asia (forse nel 79). poi la carica di sodalis Flavialis, come membro del collegio religioso associato al culto degli imperatori Vespasiano e Tito. Morì probabilmente prima dell'anno 98, quando il figlio divenne imperatore.

Grazie al suo consolato entrò a fare parte di quella classe superiore e ristretta dei vir triumphalis, potendo così offrire al figlio un cammino già prefigurato all'interno dell'ordine senatorio. E sempre dalla parte di suo padre Traiano ebbe una zia, Ulpia Traiana, che sposò un certo Publio Elio Adriano Marullino, e che ebbe un figlio, Publio Elio Adriano Afro, padre dell'imperatore Adriano. Nell'86 Adriano Afro morì e Traiano, insieme a un cavaliere romano di Italica, Publio Acilio Attiano, fu tutore del giovane Adriano, che allora aveva 10 anni, e di sua sorella Elia Domizia Paolina. Quest'ultima sposò pochi anni più tardi, attorno al 90, il futuro consolare per ben tre volte Lucio Giulio Urso Serviano.

Riguardo invece alla madre, potrebbe essere appartenuta alla gens Marcia, visto il nome della figlia e i collegamenti che Traiano ebbe in vita con questa famiglia, una famiglia probabilmente senatoria e di provenienza italica, oltreché di rango consolare all'epoca dell'imperatore Tiberio. Riguardo alla sorella, Ulpia Marciana, sappiamo che nacque prima del 50, che sposò un certo Matidius, identificabile probabilmente con Gaio Salonio Matidio Patruino, attorno al 63. Quest'ultimo era pretore e membro del collegio religioso degli Arvali prima che morisse nel 78; e da questa unione nacque Salonia Matidia. Quest'ultima si sposò almeno due volte, una prima con un certo Mindius, da cui nacque una figlia, Matidia, mentre la seconda volta fu con Lucio Vibio Sabino, console suffectus, e fu da questa unione che nacque Vibia Sabina, la futura sposa dell'imperatore Adriano. Il suo terzo matrimonio fu con Libo Rupilius Frugi, che era imparentato con una delle nonne di Marco Aurelio.

L'infanzia e l'adolescenza di Traiano sono oscure, ma ricevette sicuramente un'educazione appropriata al suo rango, imparando grammatica, retorica e greco Si sposò attorno al 75/76, prima di diventare imperatore, con Pompeia Plotina, figlia di Lucio Pompeio e Plozia, una potente famiglia probabilmente originaria dell'Hispania Baetica e che trascorse la sua infanzia a Escacena del Campo (Andalusia). Plotina era una donna sobria, colta e intelligente, di grandi virtù e pia. È anche conosciuta per il suo interesse in filosofia, tanto che la scuola epicurea di Atene era sotto la sua protezione. L'unione non diede figli.

Traiano fu per dieci anni nell'esercito, facendovi una reale esperienza delle armi e del comando. Percorse poi i gradi della carriera civile senatoria: fu pretore in Spagna, comandò una legione in Germania, dove partecipò alla repressione della ribellione di Antonio Saturnino, fu console ordinario (91) e, quando Domiziano fu ucciso (96), era governatore della Germania superiore.

Nerva, che aveva bisogno del sostegno d'un uomo forte e onesto non coinvolto nelle rivalità romane, e che godesse prestigio presso l'elemento militare, lo adottò come figlio, con cognome e dignità di Cesare, facendogli attribuire la potestà tribunicia (ottobre del 97). Morto Nerva (98), Traiano senza alcuna difficoltà gli succedette, assumendo l'impero. Non venne subito a Roma, ma si trattenne a sistemare il problema del confine renano, premurandosi nel contempo di inviare a Roma assicurazioni di amicizia per il senato. A Traiano, inoltre, è probabilmente da attribuire la costituzione di un'ulteriore milizia personale dell'imperatore, quella degli equites singulares, formata da elementi sceltissimi provenienti dalle popolazioni meno romanizzate dell'impero. 

Sistemato durevolmente il confine del Reno, Traiano passò a quello del Danubio, preoccupandosi specialmente della sistemazione della Dacia, mal risolta da Domiziano. Poi tornò a Roma (99), con modesto seguito, dando così inizio al suo sistema di governo, presto divenuto assai popolare presso tutti i ceti. Attivissimo e intelligente nell'amministrazione come nelle armi, amato dal popolo e dalla classe militare, Traiano riuscì durante il suo regno a mobilitare intorno a sé anche i migliori elementi senatorî ed equestri, cui infuse l'entusiasmo necessario per fondare e sostenere una buona tradizione amministrativa. 

L'imperatore si preoccupò di alleviare alcune imposte e di arricchire il fisco vendendo largamente beni che i precedenti imperatori avevano accumulato e immobilizzato nel proprio patrimonio mediante acquisti, confische, doni, legati testamentarî. La sicurezza e la facilità degli scambî commerciali nei confini dell'Impero aumentarono notevolmente; si creò un'atmosfera di grande e non fittizia sicurezza finanziaria (l'età di Traiano fu sempre ricordata come un'età d'oro).

Provvedimento notevole di Traiano fu l'istituzione degli alimenta, ossia la costituzione di una rendita destinata a fornire in Italia i mezzi di sussistenza a fanciulli e fanciulle povere, organizzata in modo tale da rappresentare al tempo stesso una forma di prestito agrario a basso interesse, onde agevolare il rifiorimento dell'agricoltura italica. Il principio del sistema consisteva nella destinazione di somme della cassa imperiale perché fossero date a prestito a proprietarî terrieri delle città italiane; i mutuatari dovevano far iscrivere uno o più fondi in garanzia; gli interessi erano devoluti in favore di fanciulli o fanciulle povere della città. 

In genere, Traiano curò al massimo l'onestà e l'efficienza dell'amministrazione e della giustizia. Sistemate le faccende interne, Traiano, forte temperamento di soldato, ritenne necessario risolvere definitivamente alcune gravi questioni di confine, in primo luogo quella del Danubio, da tempo minacciato dal potente regno di Dacia, col suo re Decebalo. 

Negli anni 101-102 e 105-106 ebbero così luogo, sotto la sua personale direzione, le guerre daciche, al termine delle quali l'intera regione era ordinata a provincia romana. Di questa Traiano si preoccupò subito, ordinando grandi lavori di civilizzazione (organizzazione dei distretti minerarî, fortificazioni, apertura di strade, tra le quali notevole quella danubiana, che saldava ormai l'intero percorso dalle foci alle fonti del fiume). Tornato a Roma, Traiano inaugurò grandi imprese di sistemazione urbanistica e monumentale a Roma, a Ostia, in altre parti dell'Impero. 

Tra i problemi di politica interna, egli doveva affrontare quello dei cristiani, verso i quali fu intransigente, cercando però di rispettare i principî di giustizia del diritto romano, istruendo i giudici a non tener conto delle denunce anonime, a dar luogo a processi solo dietro precise accuse, senza ricercare preventivamente i cristiani e a condannare questi solo se ostinati; tali principî egli espose in una lettera a Plinio il Giovane, che aveva consultato l'imperatore riguardo al trattamento da riservare ai cristiani nella provincia di Bitinia e Ponto; e tale fu poi il sistema di persecuzione più o meno rimasto in uso fino ai tempi di Decio, che dette inizio alle persecuzioni vere e proprie. 

Altro grave problema era quello dei rapporti col regno dei Parti, e Traiano colse l'occasione del contrasto scoppiato a proposito della successione al regno di Armenia, per iniziare, più che sessantenne, la nuova guerra. Precedentemente, i legati di Traiano avevano mutato assai favorevolmente la situazione orientale, battendo i Nabatei (105), e costituendo la nuova provincia di Arabia. Traiano compì vittoriosamente grandi operazioni militari, annettendo l'Armenia, giungendo in Mesopotamia, e scendendo con la flotta il Tigri, fino a Babilonia e al Golfo Persico. Ma una violenta sollevazione dei Giudei, il riapparire di forze nemiche qua e là nelle regioni conquistate, la ribellione di città occupate, e altri improvvisi rovesci, lo costrinsero a rinunciare al disegno della conquista totale e a incoronare egli stesso un nuovo re dei Parti (presto sostituito con un altro, eletto dai Parti stessi). Ammalatosi in Siria, Traiano affidò l'esercito al parente P. Elio Adriano (il futuro imperatore), e si avviò per tornare a Roma, ma a Selinunte di Cilicia improvvisamente morì. La sua fama rimase perpetua nella tradizione romana come quella di ottimo principe, e nel basso Impero l'acclamazione dei Cesari suonava Felicior Augusto, melior Traiano.

L'impero, che fino a quel momento si era ampliato in continuazione, sotto Traiano finalmente impegnò le sue risorse per il miglioramento delle condizioni di vita piuttosto che sulle nuove conquiste. Traiano promosse così grandi opere pubbliche e rafforzò le comunicazioni intervenendo in due modi: restaurando le principali strade e ampliando o costruendo nuovi porti, in modo da collegare più efficacemente l'Urbe al resto dell'Impero.  

Costruì ex novo il celeberrimo porto di Traiano esagonale nella zona di Fiumicino (i cui resti sono ancora oggi imponenti) che collegava Roma con le regioni occidentali dell'Impero. L'opera fu senz'altro tra le più importanti per la Città, che ovviò così ai suoi problemi di approvvigionamento ormai fuori dalla portata del già esistente "Porto di Claudio". Incaricato del progetto fu l'architetto greco-nabateo Apollodoro di Damasco; i lavori durarono dal 100 al 112, con la creazione di un bacino di forma esagonale con lati di 358 metri e profondo cinque metri (al contrario della trascuratezza degli ingegneri di Claudio), con una superficie di 32 ettari e 2000 metri di banchina. Fu costruito un ulteriore canale e il collegamento a Ostia fu assicurato da una strada a due corsie lastricata. Il porto di Ostia era utile soprattutto per i traffici con il mar Mediterraneo occidentale; per facilitare la navigazione tra Roma e l'Oriente.  

Intorno al 100 d.C. Traiano ordinò l'ampliamento del porto adriatico di Ancona, in modo da collegare Roma con le province orientali dell'Impero. Per realizzare l'ampliamento, Traiano fece costruire un poderoso molo, per migliorare la protezione dalle onde già offerta dal promontorio sul quale sorge la città. Il Senato e il popolo romano fecero costruire sul nuovo molo un arco, per ringraziare l'imperatore di avere reso più sicuro "l'ingresso d'Italia" (così si legge sull'iscrizione posta sull'attico).

Le opere anconitane sono anch'esse attribuite ad Apollodoro di Damasco[121]. Ancora oggi il molo di Traiano è parte fondamentale del porto di Ancona e l'arco eretto in suo onore svetta ancora su di esso. Una zona archeologica mostra i resti dei cantieri navali traianei e dei magazzini portuali.  

Traiano inoltre diede l'incarico sempre a Apollodoro di Damasco di costruire il porto di Civitavecchia, quando fu chiaro che il porto di Ostia tendeva a insabbiarsi nonostante i lavori prolungati. Con la costruzione del porto nacque la città di Centumcellae intorno al 106 d.C. L'idea dell'imperatore era quella di facilitare con un altro approdo sicuro il piano annonario a favore di Roma e i lavori vennero progettati dall'architetto Apollodoro di Damasco. L'impianto originale del porto rispecchiava i criteri architettonici del tempo con un grande bacino quasi circolare di circa 500 metri, due grandi moli e un antemurale, un'isola artificiale protesa in mare a protezione del bacino. L'intera struttura era sormontata da due torri contrapposte, in seguito dette del Bicchiere e del Lazzaretto (ancora visibile, e ricostruita da Sangallo).

L'imperatore Traiano ordinò anche l'ampliamento del porto di Terracina, del quale ancora oggi esistono le strutture principali. Il taglio del Pisco Montano contribuì in qualche modo a orientare verso il porto tutto il movimento della città.  

Per rendere più agevole il passaggio dell'Appia attraverso l'estrema appendice dei Monti Ausoni che all'epoca di Traiano venne eseguito il taglio del Pisco Montano, enorme sperone calcareo separato dalla massa del Monte Sant'Angelo che tuttora sovrasta la regina viarum costituendo un aspetto caratteristico del paesaggio tra il mare e la montagna.

Fra il 108 e il 110 d.C., pensando anche al miglioramento delle comunicazioni terrestri, Traiano curò un nuovo tragitto per la via Appia che partiva dall'arco di Benevento e giungeva al porto di Brindisi. L'opera sfruttò un preesistente tracciato di età repubblicana.  

A Roma rinnovò il centro cittadino con la costruzione di un immenso foro e di edifici in laterizio a esso contigui, destinati alla pubblica amministrazione, che si appoggiavano al taglio delle pendici del Quirinale e della sella montuosa tra esso e il Campidoglio. Lo straordinario complesso del foro Traianeo, inaugurato nel 113, risolse i problemi di congestione e sovraffollamento dell'area nel centro della città antica attorno alla Via Sacra.

Le dimensioni straordinarie dell'opera (anche questa supervisionata da Apollodoro di Damasco) erano tali da emulare in grandezza quella di tutti gli altri fori messi insieme. Oltre alla pubblica Basilica Ulpia, la piazza, i colonnati, gli uffici, le biblioteche, e il tempio del divo Traiano, eresse nel suo foro la Colonna Traiana come celebrazione delle sue conquiste militari nella campagna di Dacia, ancora oggi uno dei simboli dell'eternità di Roma. Alta 30 metri circa e larga 4, in origine colorata, all'interno una scala a chiocciola porta sulla cima. All'esterno si avvolge a spirale sulla colonna un fregio di 200 metri largo 1 con scolpite più di 2 000 figure in bassorilievo. La colonna era sormontata da una statua dell'imperatore (sostituita nel 1588 da una di san Pietro).  

A Traiano si deve la costruzione di un altro acquedotto che che aumentava ulteriormente la portata dei rifornimenti idrici in Roma, che erano già abbondantemente assicurati dagli acquedotti costruiti in precedenza e soprattutto da quello noto come Anio Novus (costruito sotto Claudio). I lavori iniziarono nel 109, la struttura avrebbe dovuto raccogliere le acque delle sorgenti sui monti Sabatini, presso il lago di Bracciano (lacus Sabatinus). La lunghezza complessiva era di circa 57 km e la portata giornaliera di circa 2.848 quinarie, pari a poco più di 118.000 m³. Raggiungeva la città con un percorso in gran parte sotterraneo lungo le vie Clodia e Trionfale e poi su arcate lungo la via Aurelia. Arrivava a Roma sul colle Gianicolo, sulla riva destra del fiume Tevere.  

L'estensione della rete idrica fu incentivata non solo a Roma, ma anche in Dalmazia, nella natia Spagna e in oriente, cioè laddove i climi aridi richiedevano maggiori approvvigionamenti idrici.

A Roma Traiano fece ampliare i canali sotterranei e i cunicoli della Cloaca Massima per il deflusso più efficiente delle acque piovane e delle acque reflue che venivano scaricate nel Tevere. Quest'ultimo poi venne rinforzato con argini e canali lungo tutto il suo perimetro più a rischio in modo da evitare straripamenti da parte del fiume della Città. Per lo svago e il piacere della plebe Traiano fece eseguire alcuni dei lavori che danno a Roma l'aspetto che grossomodo hanno tutti nell'immaginario comune della Città. Fece ricostruire e ampliare definitivamente il Circo Massimo del quale i primi tre anelli alla base della struttura furono eretti con calcestruzzo e rivestiti da mattoni e marmi, solo l'anello superiore rimase in legno; la struttura divenne sicura e antincendio, favorendo la costruzione di botteghe e negozi ai suoi lati. Sul colle Oppio fece erigere delle grandiose terme sui resti della Domus Aurea di Nerone; si accedeva da un grande propileo che immetteva direttamente alla natatio, la piscina a cielo aperto. Sulla riva destra del Tevere dove sorge l'attuale Castel Sant'Angelo fece realizzare un'area per le naumachie (riproduzione di battaglie navali). Gli sforzi edilizi dell'imperatore non si concentrarono solo sulla Capitale, ma su tutto l'impero.

Attuò una serie di bonifiche nell'Agro Pontino nella regione delle Paludi Pontine; vennero così strappati numerosi terreni agli acquitrini.

In Egitto collegò il Nilo al Mar Rosso con un grande canale (fiume Traiano). Fondò molte colonie per l'Impero. In Dacia (dopo averla sottomessa) favorì la colonizzazione e la fondazione di nuove colonie che romanizzarono rapidamente la provincia. La Colonia Ulpia Traiana sorse sulle ceneri della barbara Sarmizegetusa Regia. Fece costruire molti ponti, tra i più famosi ricordiamo quello sul Tago nei pressi della città spagnola di Alcantara e, il più lungo, sul Danubio presso Drobeta, costruito in occasione della campagna di Dacia (1.135 m); costruito con il duplice intento di garantire una via di rifornimento per le legioni che avanzavano e di terrorizzare e scoraggiare i nemici di fronte a una simile dimostrazione di superiorità tecnologica, logistica e militare.  

Alla sua morte Traiano venne deificato dal Senato e le sue ceneri furono poste ai piedi della colonna Traiana. Gli succedette suo figlio adottivo e pronipote, Adriano, nonostante non fosse chiaro a tutti quando e se fosse stato effettivamente designato come suo erede. Adriano non continuò con la politica espansionistica di Traiano e abbandonò tutti i territori conquistati ai Parti, avendo posto al centro della sua politica le province romane e la loro romanizzazione.

Adriano (117-138)

Adriano (78-138 d.C.) fu imperatore di Roma dal 117 al 138 d.C. ed è conosciuto come il terzo dei cinque buoni imperatori che governarono con giustizia (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio). Il suo regno segnò l'apice dell'Impero Romano, solitamente posto nel 117 d.C., e fornì una solida base per il suo successore.

Nato come Publio Elio Adriano a Italica (nell’odierna Spagna), Adriano è conosciuto soprattutto per la sua attività letteraria, gli importanti progetti edilizi in tutto l'Impero Romano e, in particolare, il Vallo di Adriano, nella Britannia settentrionale. È anche ricordato per la sua storia d'amore con il giovane bitinio Antinoo (circa 110-130 d.C.) che divinizzò dopo la morte, dando origine al culto popolare di Antinoo che, all'inizio, rivaleggiava con il Cristianesimo.

Adriano era profondamente interessato alla letteratura, in particolare a quella greca, al misticismo e alla magia egiziani. Era tra gli imperatori romani più colti - anche tra i famosi cinque migliori - scrisse poesie e altre opere e insistette per supervisionare personalmente il maggior numero possibile dei progetti edilizi che aveva commissionato. Sotto il suo regno scoppiò in Giudea la rivolta di Bar Kokhba (132-136 d.C.) che Adriano represse personalmente; in seguito cancellò il nome della regione, rinominandola Siria Palestina, ed esiliò la popolazione ebraica dalla zona.

La rivolta ebbe un impatto enorme sull'imperatore, che soffriva di problemi di salute dal 127 d.C. e la cui salute peggiorò costantemente dal 136 d.C. Sua moglie, Vibia Sabina (83 -137 circa d.C.), morì nel 136/137 d.C. e lui la fece divinizzare, ma il loro era stato un matrimonio infelice poiché Adriano era omosessuale e aveva frequenti relazioni con uomini più giovani. Adottò Antonino Pio (imperatore dal 138 al 161 d.C.) come suo successore e morì, molto probabilmente di infarto, nel 138 d.C.

Adriano fu istruito nella sua città natale, Italica Hispania (l'odierna Siviglia, Spagna) da un tutore privato o in una scuola per i figli dei Romani di classe elevata, alla quale appartenevano i suoi genitori. Suo padre era un senatore che morì quando Adriano aveva dieci anni: fu mandato allora a scuola a Roma e nell’86 d.C. circa Traiano lo prese sotto la propria protezione, prima di diventare imperatore. La moglie di Traiano, Plotina, amava il giovane Adriano e incoraggiava la sua attività letteraria, in particolare l’interesse per la poesia e la cultura greca.

Iniziò allora l'ammirazione di Adriano per la Grecia, che durò per tutta la vita e che durante il suo regno lo unì alla Grecia e alla sua cultura. Anche oggi spesso si ritiene erroneamente che Adriano fosse greco o di discendenza greca.

La sua prima carica fu quella di tribuno sotto l'imperatore Nerva (imperatore dal 96 al 98 d.C.); fu scelto per portare a Traiano la notizia che sarebbe stato il successore di Nerva. Quando Nerva morì, Traiano salì al trono. Traiano (imperatore dal 98 al 117 d.C.) fu il primo imperatore romano di origine provinciale. I biografi successivi avrebbero tentato di collocare la nascita di Traiano e Adriano nella città di Roma, ma entrambi erano di etnia spagnola, e alcuni ritengono che sia questa la ragione dell'adozione di Adriano da parte di Traiano come suo successore. Tuttavia la maggior parte degli studiosi contesta questo punto, poiché è possibile che Traiano non abbia nominato affatto Adriano.

Traiano morì durante una campagna in Cilicia nel 117 d.C., mentre Adriano era al comando della sua retroguardia, e non si ritiene che abbia nominato un successore. La moglie di Traiano, Plotina, firmò i documenti di successione, sostenendo che Traiano aveva scelto Adriano, e si pensa che lei, non l'imperatore, fosse responsabile dell'adozione di Adriano come erede. Comunque sia, è noto che Traiano rispettava Adriano e lo considerava come suo successore anche se non lo designò ufficialmente. Il servizio che Adriano rese a Traiano è ben documentato dalle varie importanti cariche che ricoprì prima di diventare imperatore.

Sembra però che nel 100 d.C. alcuni contrasti abbiano messo i due uomini l’uno contro l’altro. Non vi è alcuna documentazione al riguardo, ma da allora in poi Traiano si rifiutò di elevare il rango di Adriano: infatti le posizioni che gli furono assegnate lo allontanarono dalla cerchia di Traiano. Poiché entrambi erano omosessuali e Traiano si circondava di giovani favoriti, si è pensato che Adriano potrebbe aver sedotto, o tentato di sedurre, uno di loro, mentre era sposato con Sabina, causando una spaccatura con Traiano, ma questa è solo un’ipotesi.  

Chiaramente fu Plotina, non Traiano, la forza principale dietro i progressi di Adriano dal momento in cui entrò nella sua sfera di influenza. Plotina e Salonia Matidia (la nipote di Traiano, anche lei affezionata ad Adriano) spinsero per il suo matrimonio con la figlia di Matidia, Vibia Sabina, e anche Matidia potrebbe aver contribuito a renderlo imperatore. Sarebbe stato di gran lunga migliore come imperatore che come marito. Sembra che Sabina non abbia mai accettato il matrimonio, sin dall’inizio, e Adriano preferiva la compagnia degli uomini. Sebbene il suo matrimonio non possa essere considerato un successo da nessun punto di vista, il suo regno fu spettacolare.

Lo stretto rapporto di Adriano con le truppe comportava l’immediato sostegno dell'esercito, e anche se il Senato romano avesse voluto mettere in dubbio la sua successione, non avrebbe potuto fare nulla. Adriano fu sostenuto dalla maggior parte del popolo di Roma e fu molto ammirato per tutto il tempo in cui rimase in carica. La sua popolarità come imperatore è attestata dal fatto che, anche se fu assente da Roma per la maggior parte del regno, nelle sue prime biografie non appare nessun segno di rimprovero o critica. I primi imperatori romani, come Nerone (imperatore dal 54 al 68 d.C.), furono duramente criticati per aver trascorso lontano dalla città un tempo di gran lunga inferiore.

La sua devozione all'esercito romano era tale che dormiva e mangiava tra i soldati; inoltre è comunemente raffigurato in abiti militari, anche se il suo regno fu caratterizzato da una relativa pace. La stabilità dell'impero e la crescente prosperità concessero ad Adriano il lusso di viaggiare nelle province, dove ispezionò in prima persona i progetti che aveva commissionato stando a Roma.

I progetti edilizi di Adriano sono forse la sua eredità più duratura. Visitò la Britannia nel 122 d.C., poco dopo la repressione di una rivolta, e ordinò la costruzione di un lungo muro difensivo per prevenire una facile invasione da parte dei Pitti del Nord; questa struttura è il famoso Vallo di Adriano, nell’odierna Inghilterra. Fondò città, innalzò monumenti, migliorò strade e rafforzò le infrastrutture delle province in tutta la penisola balcanica, in Egitto, Asia Minore, Nord Africa e Grecia. Visitò la Grecia almeno due volte e si fece iniziare ai Misteri Eleusini. L'Arco di Adriano, costruito dai cittadini di Atene nel 131/132 d.C., onora Adriano come fondatore della città. Le iscrizioni sull'arco citano Teseo (il fondatore tradizionale) ma anche Adriano, per i suoi importanti contributi ad Atene, come il grande Tempio di Zeus.

Adriano protesse notevolmente l'arte essendo egli stesso un fine intellettuale, amante delle arti figurative, della poesia e della letteratura. Anche l'architettura lo appassionava molto e durante il suo principato si adoperò per dare un'impronta stilistica personale agli edifici via via edificati. Villa Adriana a Tivoli fu l'esempio più notevole di una dimora immensa costruita con passione, intesa come luogo della memoria, intessuto di citazioni architettoniche e paesaggistiche, di riproduzioni, su varia scala, di luoghi come il Pecile ateniese o Canopo in Egitto.

Anche a Roma il Pantheon, costruito da Agrippa, fu re-instaurato, edificato nuovamente, sotto Adriano e con la forma definitiva che tuttora conserva (non fu semplicemente restaurato). La città fu inoltre ulteriormente arricchita di templi, come il tempio di Venere e Roma e di edifici pubblici. Sembra che spesso l'imperatore in persona mettesse mano ai progetti il che, secondo Cassio Dione Cocceiano, portò a un conflitto con Apollodoro di Damasco, architetto di corte ufficialmente investito dell'incarico progettuale.

Il più famoso di tutti i suoi significativi monumenti ed edifici è il Vallo di Adriano, nella Britannia settentrionale. La costruzione del muro, noto nell'antichità come Vallum Hadriani, iniziò intorno al 122 d.C., in occasione della visita di Adriano nella provincia. Segnava il confine settentrionale dell'Impero Romano in Britannia, ma la lunghezza e l'ampiezza del progetto (che si estendeva da costa a costa) suggerisce che lo scopo più importante del muro fosse la dimostrazione del potere di Roma. A est del fiume Irthing il muro era originariamente largo 3 metri e alto circa 6 metri, tutto costruito in pietra; a ovest del fiume era largo 6 m e alto 3,5 m, costituito da pietra e manto erboso, e si estendeva per 120 km su un terreno irregolare.  

Fu costruito in sei anni dalle legioni di stanza nella Britannia romana. Lungo tutto il muro c'erano tra le 14 e le 17 fortificazioni; un vallum (un fossato appositamente costruito con lavori di sterro) correva parallelamente al muro. Il vallum misurava 6 m di larghezza per 3 m di profondità ed era fiancheggiato da grandi cumuli di terra compatta. Poiché la politica estera di Adriano era "pace attraverso la forza", si pensa che il muro, in origine intonacato e imbiancato, avrebbe chiaramente rappresentato la potenza dell'Impero Romano.

Dopo la sua visita in Britannia, Adriano andò in Asia Minore e si recò nella regione della Bitinia per ispezionare il restauro di Nicomedia, che egli aveva finanziato dopo che la città era stata danneggiata da un terremoto. Fu a Nicomedia o nella vicina Claudiopoli che nel 123 d.C. incontrò il giovane Antinoo, che per i successivi sette anni divenne il suo compagno quasi inseparabile. Antinoo aveva forse 13-15 anni, ma i legami omosessuali tra uomini più anziani e ragazzi erano accettabili nella cultura romana, purché entrambe le parti acconsentissero. Alcune di queste storie d'amore erano brevi "avventure" ma altre, come quella di Adriano e Antinoo, erano relazioni serie e impegnate.

Adriano fece in modo che Antinoo fosse inviato in una prestigiosa scuola di Roma, che addestrava i giovani alla vita di corte, e poi, dal 125-130 d.C., il giovane fu l'amante di Adriano, vivendo con lui nella villa fuori Roma e accompagnandolo nei viaggi verso le province. La loro relazione seguiva il modello greco, in cui un uomo più anziano aiutava un giovane nello sviluppo morale e intellettuale e nel progresso sociale. Secondo le regole, avrebbe trattato il ragazzo con rispetto, lo avrebbe corteggiato e gli avrebbe dato la possibilità di scegliere se accettare o meno le sue avances. Qualsiasi "favore" concesso ad Adriano sarebbe stato accompagnato da un serio impegno per lo sviluppo morale di Antinoo mentre diventava adulto.

Questo sembra essere stato esattamente il percorso seguito da Adriano. La coppia viaggiò insieme dal 127 al 130 d.C., arrivando in Egitto in tempo per celebrare la Festa di Osiride nell'ottobre del 130 d.C. A un certo punto, verso la fine del mese, poco prima della festa, Antinoo annegò nel fiume Nilo. Adriano riferì il fatto come se fosse stato un incidente, ma storici come Dione Cassio (circa 155 - circa 235 d.C.) e Aurelio Vittore (circa 320 - circa 390 d.C.) sostengono che Antinoo si sarebbe sacrificato in un rituale per curare Adriano da una malattia (non si sa precisamente quale) di cui soffriva da qualche anno. 

Questa versione è rafforzata dall'osservazione che Antinoo, come amato favorito di Adriano, sarebbe stato senza dubbio assistito da servitori che lo avrebbero salvato dal fiume; inoltre poco prima della morte di Antinoo la coppia fece un viaggio a Eliopoli, dove ebbe con un sacerdote un incontro riguardante i riti mistici. Sembra che la salute di Adriano in seguito migliorasse, ma il dolore per la perdita del suo amante e migliore amico fu devastante.  

Adriano divinizzò immediatamente Antinoo, un fatto senza precedenti perché, di solito, un imperatore sottoponeva la proposta al Senato per l’approvazione. In onore di Antinoo ordinò la costruzione della città di Antinopoli, sulla riva del Nilo nel punto in cui era annegato e, abbastanza rapidamente, intorno al giovane crebbe un culto che si diffuse rapidamente nelle province. Antinoo divenne la figura di un dio che muore e resuscita e che, poiché una volta era umano, si pensava rispondesse più rapidamente di altre divinità alle suppliche. Fu considerato dio della guarigione e della compassione e i suoi seguaci innalzarono sue statue nei templi e nei santuari in tutto l'impero. Si stima che una volta ci fossero più di 2.000 statue di Antinoo: ne sono state recuperate 115. Il culto di Antinoo divenne così popolare che, più di 200 anni dopo, rivaleggiava con la nuova religione del Cristianesimo e con il ben consolidato culto di Iside.

Adriano affrontò il suo dolore come meglio poteva e continuò il viaggio nelle province. Sebbene fosse un uomo colto e istruito, non sempre rispettò la sua politica di relazioni pacifiche con gli altri, sia a livello personale sia professionale. Era noto che perdeva spesso le staffe con gli studiosi di corte con cui non era d'accordo e una volta accecò accidentalmente un servo a un occhio, lanciandogli uno stilo in preda alla rabbia. A Gerusalemme, quando gli Ebrei si rivoltarono contro la sua costruzione di un tempio, Adriano diede pieno sfogo al suo temperamento in maniera tragica.  

Nel 132 d.C. Adriano visitò Gerusalemme, che era ancora in rovina dopo la Prima Guerra Romano-Ebraica del 66-73 d.C. Ricostruì la città secondo i suoi progetti e la ribattezzò Aelia Capitolina Jupiter Capitolinus dal suo nome e da quello del re degli dei romani. Quando costruì un tempio a Giove sulle rovine del Tempio di Salomone (il Secondo Tempio, considerato sacro dagli Ebrei), la popolazione si sollevò sotto la guida di Simon bar Kochba (chiamato anche Shimon Bar-Cochba, Bar Kokhbah, Ben-Cozba, Cosiba o Coziba), in quella che è conosciuta come la Rivolta di Bar-Kochba.

Le perdite romane in questa campagna furono enormi, ma le perdite ebraiche non furono meno significative. Quando la ribellione fu sedata, 580.000 ebrei erano stati uccisi e oltre 1000 città e villaggi distrutti. Adriano quindi bandì i rimanenti ebrei dalla regione e la ribattezzò Siria Palestina, dal nome dei tradizionali nemici del popolo ebraico, i Filistei. Ordinò di bruciare pubblicamente la Torah, giustiziò gli studiosi ebrei e proibì la pratica e l'osservanza del Giudaismo.

La gestione della rivolta di Bar-Kochba da parte di Adriano è l'unica macchia sul suo regno altrimenti ammirevole; egli fece le sue scelte in base alla tradizionale politica romana nella gestione delle rivolte: una risposta dura seguita dalla restaurazione. Forse spinse la sua reazione a tal punto a causa dell'indignazione personale, per il fatto che qualcuno aveva messo in discussione il suo tempio o qualsiasi altra sua decisione.

Poiché la sua salute peggiorava, Adriano tornò a Roma e si diede a scrivere poesie e a occuparsi di affari amministrativi. Nominò come suo successore Antonino Pio, a patto che Antonino a sua volta adottasse il giovane Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180 d.C.). Aurelio avrebbe co-governato con Lucio Vero (imperatore dal 161 al 169 d.C.), il cui padre era il figlio adottivo di Adriano. Adriano morì nel 138 d.C., all'età di 62 anni, presumibilmente per un attacco di cuore.

Fu sepolto prima a Pozzuoli, su un terreno appartenuto al retore Cicerone (in omaggio all'amore per il sapere di Adriano), ma quando l’anno successivo Antonino Pio completò la grande tomba di Adriano a Roma, il suo corpo fu cremato e le ceneri furono seppellite in quel luogo, con quelle di sua moglie e del figlio adottivo Lucio Elio Cesare, padre di Lucio Vero. Antonino Pio fece divinizzare Adriano e costruì templi in suo onore.

Il regno di Adriano è generalmente considerato in accordo con la valutazione di Gibbon. Anche tra i cinque buoni imperatori dell'antica Roma, Adriano si distingue come uno statista eccezionale. Aurelio, l'ultimo dei cinque buoni imperatori, avrebbe regnato in tempi molto più travagliati di quelli conosciuti da Adriano, e suo figlio, Commodo (imperatore dal 176 al 192 d.C.), divenne di fatto un dittatore, il cui regno irregolare e il cui assassinio portarono a disordini politici e sociali inimmaginabili sotto Adriano.

Antonino Pio (138-161)

Antonino Pio (138-161), capostipite della Dinastia degli Antonini, continuò la politica pacifica del predecessore, fu un saggio amministratore e riconfermò al senato le prerogative passate, tanto da meritarsi l'appellativo di Pio.

Alla fine del 136 Adriano rischiò di morire per emorragia. Convalescente nella sua villa di Tivoli, scelse inizialmente Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo come suo figlio. Dopo una breve permanenza lungo la frontiera del Danubio, Lucio tornò a Roma ma si ammalò e morì di emorragia il 1º gennaio del 138. Il 24 gennaio Adriano scelse allora Aurelio Antonino come suo nuovo successore.

Dopo essere stato esaminato per alcuni giorni, Antonino fu accettato dal Senato e adottato il 25 febbraio. A suo volta, come da disposizioni dello stesso princeps, Antonino adottò il giovane Marco Aurelio (nipote di Antonino, in quanto figlio del fratello di sua moglie Faustina maggiore) e il giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Cesare.

La salute di Adriano continuava a peggiorare tanto da desiderare la morte anche se questa non arrivava, tentando anche il suicidio, impedito dal successore Antonino. L'imperatore, ormai gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae, località balneare sulla costa campana. Le sue condizioni però continuarono a peggiorare fino alla morte, che avvenne il 10 luglio del 138. Le sue spoglie furono sepolte inizialmente a Pozzuoli, per poi essere traslate nel mausoleo monumentale che egli stesso aveva fatto costruire a Roma. 

La successione di Antonino si rivelò ormai stabilita e priva di possibili colpi di mano: Antonino continuò a sostenere i candidati di Adriano ai vari pubblici uffici, cercando di venire incontro alle richieste del Senato, rispettandone i privilegi e sospendendo le condanne a morte pendenti sugli uomini accusati negli ultimi giorni di vita da Adriano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo "Pio".

Uno dei primi atti ufficiali di governo (acta) fu la divinizzazione del suo predecessore, alla quale si oppose fieramente tutto il senato, che non aveva dimenticato che Adriano aveva diminuito l'autorità dell'assemblea e ne aveva mandato a morte alcuni membri. Fu forse questo l'atto che gli valse l'appellativo di Pius ("pio, devoto"), per la pietas filiale dimostrata nei confronti del suo padre adottivo e predecessore.

Ligio alla religione e agli antichi riti, nel 148 celebrò solennemente il novecentesimo anniversario della fondazione di Roma. Fu anche un ottimo amministratore delle finanze imperiali, lasciando ai suoi successori un patrimonio di oltre due miliardi e mezzo di sesterzi, segno evidente dell'ottima cura con cui resse le redini dello Stato. Continuò l'opera del suo predecessore nel campo dell'edilizia (furono costruiti ponti, strade, acquedotti in tutto l'impero anche se pochi sono i monumenti dell'Urbe da lui fatti costruire che ci sono giunti) e aiutò con la sospensione del tributo dovuto diverse città colpite da calamità varie (incendi: RomaNarbonaAntiochiaCartagine, terremoti: Rodi e l'Asia minore). Senza ridurre le spese per le province, aumentò quelle per l'Italia, a differenza del predecessore. Infine aumentò la distribuzione di sussidi, inaugurata da Traiano, alle orfane italiche, dette "Puellae Faustinianae" dal nome della moglie di Antonino, quando questa morì nel 141.

Notevole fu l'impronta da lui lasciata nel campo del diritto tramite i giureconsulti Vindio Vero, Salvio Valente, Volusio Meciano, Vepio Marcello e Diaboleno. Sotto il suo regno giunse a conclusione e ci fu il riconoscimento giuridico formale della distinzione tra le classi superiori (honestiores) e le altre (humiliores), distinzione espressa nelle diverse pene cui le classi erano soggette. Si nota la tendenza a sottoporre i ceti più umili della società, siano pure cittadini romani, a pene generalmente riservate in età repubblicana agli schiavi.

Nel 156 Antonino Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di Marco cominciò così a crescere sempre più, in particolare quando il prefetto del pretorio Gavio Massimo morì, tra il 156 ed il 157. Egli aveva mantenuto questo importante ruolo per quasi vent'anni, risultando pertanto di fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare. Il suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il princeps e poi non durò a lungo. 

Nel 160 Marco e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo cominciava a stare male. Antonino morì nei primi mesi del 161: due giorni prima della sua morte, che nei racconti della Historia Augusta fu "molto dolce, come il più tranquillo dei sonni", l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, aveva mangiato formaggio alpino a cena, piuttosto avidamente. Vomitò nella notte e gli comparve la febbre. Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio imperiale (compresi i prefetti del pretorio, Furio Vittorino e Sesto Cornelio Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco. Egli ordinò che la statua d'oro della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da Marco. Diede poi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità». Poi si girò, come per andare a dormire, e morì all'età di settantacinque anni.

Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169)

Marco Aurelio Antonino Augusto (Roma, 26 aprile 121 – Sirmio o Vindobona, 17 marzo 180), meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato nel 138 dal futuro suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale.

Nato come Marco Annio Catilio Severo, divenne Marco Annio Vero (Marcus Annius Verus), che era il nome di suo padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia di Antonino, e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso.

Marco Aurelio fu imperatore dal 161 sino alla sua morte, avvenuta per malattia nel 180 a Sirmio secondo il contemporaneo Tertulliano o presso Vindobona. Fino al 169 mantenne la coreggenza dell'impero assieme a Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da Antonino Pio. Dal 177, morto Lucio Vero, associò al trono suo figlio Commodo. È considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon. Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e marcomanniche), da carestie e pestilenze.

La famiglia di Marco era di origine romana, ma stabilita da tempo a Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi, odierna Espejo), una piccola cittadina della Spagna romana situata a sud est di Cordŭba. Essa salì alla ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu senatore e forse pretore. Nel 73-74 il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposò Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, aveva ereditato una grande fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole espansione edilizia.

La famiglia della madre era di rango consolare, mentre quella del padre vantava addirittura una discendenza da Numa Pompilio.  

Marco Aurelio nacque a Roma da Lucilla e Vero il 26 aprile del 121, secondo il calendario romano il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla fondazione di Roma; la sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero morì giovane, durante la sua pretura, presumibilmente nel 124, quando Marco aveva solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, Marco Aurelio scrisse nelle sue Meditazioni che aveva imparato "modestia e virilità" dal ricordo di suo padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposò più.

La madre di Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio, affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me.

Dopo la morte del padre, il piccolo Marco Aurelio andò a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma anche Lucio Catilio Severo, descritto come il "bisnonno materno" di Marco (probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipò alla sua istruzione. Marco crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio.

Era una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per il giovane Marco.

La sua istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione. Nell'aprile del 132, per volere di Diogneto, Marco prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco.

Altri tutores, Trosio Apro, Tuticio Proculo e il grammatico Alessandro di Cotieno, descritto come un importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo), continuarono a occuparsi della sua istruzione nel 132-133. Marco deve ad Alessandro la sua formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con sé stesso.  

Alla fine del 136 Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e il 1º gennaio del 138 morì, costringendo il princeps Adriano a indicare un nuovo successore; era il 24 gennaio del 138 quando la scelta cadde su Aurelio Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso princeps, Antonino adottò Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco mutò il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Marco rimase sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote: solo con riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano, che il Birley ritiene non fosse ancora la «casa di Tiberio» (come veniva chiamata la residenza imperiale sul Palatino).

Poco tempo più tardi, Adriano chiese in Senato che Marco fosse esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima questore nel 139, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius nel 139-140 e il consolato nel 140, a soli diciotto anni. L'adozione facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione privata.

La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore, gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae, località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare il 10 luglio del 138. La successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo "Pio".  

Subito dopo la morte di Adriano, Antonino pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Marco ricoprì il suo primo consolato nel 140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il titolo di Cesare, divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato, Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis e i septemviri epulones.

Antonino gli chiese di prendere la residenza nella Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche, anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver abusato della vita di corte di fronte alla società.

Come questore, Marco sembra abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare lo Stato.

Il 1º gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta, a soli ventiquattro anni. 

Nell'aprile del 145 Marco sposò la quattordicenne Faustina, come era stato programmato sin dal 138. Secondo il diritto romano, per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina.  

Dopo aver indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino, Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da parte di Antonino, nel 138. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda sofistica, una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma, Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con sé stesso.

Erode era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista; Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei decenni successivi.

Frontone godeva di grande reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura latina era considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco.

Frontone non divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a far riconciliare i due.

All'età di venticinque anni Marco cominciò a disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua salute. Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo. Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico a suggerire.  

Il 30 novembre 147 Faustina diede alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe partorito nei successivi ventitré anni. Il giorno successivo, 1º dicembre, Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato conferito nel 139-140. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.

La prima menzione di Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma. Lui e Faustina furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi nel 151.

Nel 149 nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta "felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono sepolti nel mausoleo di Adriano.

Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153 (un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui mancò la sorella di Marco, Cornificia.

Un settimo figlio nacque e morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di Faustina e di Marco. Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare, Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo.  

Nel 152 Lucio divenne questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni). Nel 154 ottenne il consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere, in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. 

Antonino Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da Adriano, seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato.

Nel 156 Antonino Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il princeps e poi non durò a lungo. 

Nel 161 Marco e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti della Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre. 

Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi si girò, come per andare a dormire, e morì all'età di settantacinque anni.

ASCESA -

Dopo la morte di Antonino Pio, Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu "costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita filosofica, ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo.

Anche se nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per Adriano, Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli stessi onori: alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il nome di famiglia di Marco, Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo, divenne Imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma veniva governata da due imperatori nello stesso tempo.

Fin dalla sua ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di parità (diarchia), con gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato massimo che non si poteva condividere. La formula era innovativa: per la prima volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra i due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono completamente chiare. A dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando superiore al fratello più giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce all'imperatore.

Subito dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla cerimonia di insediamento presso i Castra Praetoria, l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò le truppe schierate, che acclamarono la coppia di imperatores. Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise alle truppe un donativo speciale, che fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a diversi anni di stipendium, le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia non del tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta d'argento, il denario, cominciò un lento processo di svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che del suo titolo (% di argento presente nella lega), che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%.

Il funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di tre mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. Il 31 agosto a Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero auspici positivi per i due neonati. Le nascite furono celebrate sulla monetazione imperiale.

Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i bambini poveri, come aveva fatto in precedenza Antonino Pio quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani divennero popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori concessero piena libertà di parola, come dimostra il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus, poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio.

Marco Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio Volusiano, responsabile della corrispondenza imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario del Norico, che aveva prestato servizio militare nella guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator Augusti in cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto. Marco lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei futuri consoli di età severiana Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio Frontone, venne nominato governatore della Germania superiore.

Non appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una nota al liberto imperiale Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente agli imperatori. L'innsegnante si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi.

Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine della Felicitas temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato.

Nell'autunno del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando alcune comunità italiche e gran parte di Roma. Annegarono molti animali, lasciando la città in preda alla carestia. Maro e Lucio affrontarono personalmente questi disastri e le comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate, permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le comunità italiche fuori dai granai romani.

Gli insegnamenti di Frontone continuarono nei primi anni di regno di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale aveva per un certo periodo di tempo perso interesse.

I primi giorni di regno di Marco furono i più felici della vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante, eloquente come lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del disastro, e il senato era stato intimorito e Frontone ne fu enormemente soddisfatto.

In politica interna, Marco Aurelio si comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè "primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle magistrature. Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena consapevolezza del proprio potere.

Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti i libelli diffamatori che circolavano su molte persone. Proibì i processi pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio, o in fortezze, accampamenti e città. Egli non amava particolarmente i giochi gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.

Trascorse, inoltre, molto tempo del suo regno a difendere le frontiere.

Tra le altre leggi proibì la tortura per i cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi, come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve.

Nei processi da lui presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando doveva emettere una condanna secondo le leggi. Marco e Lucio stabilirono ad esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale. Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri cittadini (decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò sui suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava affrontando a causa delle guerre marcomanniche.

E mentre il fratello Lucio era impegnato in Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel suo testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia: Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes. Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo, studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la decisione finale.

Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte, applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito.

Per Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato profondamente ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche.

Marco mostrò un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò numerose norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già promulgate dai suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio il concetto di diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore.

Sul letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di alcuni re clienti, che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia incoraggiato Vologese IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui gradito, Pacoro III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima (114-116), era così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli antichi territori dell'Impero persiano.

Il governatore della Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i Parti facillmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente distrutta.

E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico, dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare, avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano.

Poco dopo giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei migliori ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così strategicamente importante. Marco pose a capo della spedizione il fratello Lucio perchè era robusto e più giovane del fratello Marco, più adatto all'attività militare. In ogni caso, il Senato diede il suo assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario affiancare a Lucio un adeguato staff militare, ampio e ricco di esperienza, e che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito Furio Vittorino.

I rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium, una nota località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei particolari quello che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato. Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare, prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di palaestra, di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue notti insonni a risolvere questioni giudiziarie.

Frontone rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera, piena di riferimenti storici, indicata, nelle edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla guerra partica).

Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo "quartier generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e le estati a Daphne.

Durante la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla madre Faustina, insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non preparassero alcun ricevimento ufficiale.

La capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus, pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno successivo. Al contrario, quando Lucio venne acclamato imperator, anche Marco accettò la sua seconda salutatio imperatoria.

Nel 164 le armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo, venne incoronato re tributario d'Armenia, con l'assenso di Marco. Il 165 vide le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove posero sul trono il re vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date alle fiamme. Cassio, nonostante la penuria di rifornimenti e i primi effetti della peste contratta a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua armata vittoriosa. Lucio venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme a Marco venne salutato nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale. 

Nel 166 ancora Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri, permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco otteneva la IV salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus.

I Parti si ritirarono nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di dover ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus legionis della III Gallica, una delle legioni siriane.

Al ritorno dalla campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).

Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda, infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo predecessore, Antonino Pio.

Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale.

A partire dal 160, le tribù germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia, clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori compresi tra il Danubio e il fiume Tibisco.

Secondo la Historia Augusta, conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una coalizione di natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia, dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della piana del Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi, sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia per il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre, attratti dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano.

In quel periodo la frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi, sia perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica prolungatasi per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel 166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera di poche bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di Carnunto (nel 168).

Al ritorno dalla campagna partica l'esercito portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la "peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a partire dalla fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o morbillo, avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi. La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni.

Dopo che la morte colse Lucio agli inizi del 169, Marco Aurelio si trovò ad affrontare da solo i barbari ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali, organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo, vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie, oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano.

In quell'anno Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato in seguito con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma egli rifiutò sempre la porpora imperiale.

Frattanto lungo il fronte settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord Italia.

Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia, spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi. Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che qui si erano stabiliti in precedenza.

Marco fu così costretto a combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia Cisalpina, del Norico e della Rezia (170-171), poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio germanico (172-173) e sarmatico (174-175), in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore, in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento; tuttavia egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non riuscirà più a far ritorno a Roma.

Dione e gli altri biografi raccontano anche alcuni episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco Aurelio. I Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono a stento da un possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani per sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a ottenere la pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di fede cristiana.

Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve tempo.

Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia che il governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti militari romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia Augusta, Avidio Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo giovane. Cassio venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la gran parte delle province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si schieravano a fianco dei ribelli.  

All'inizio Marco cercò di tenere segreta la notizia dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò ufficialmente falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La testa dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.

Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma. Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le province orientali nel 175-176. Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza all'età di 45 anni.

Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a essere insignita del titolo di mater castrorum. Halala, il villaggio dove era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola italica. Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio, spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia Augusta.

Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato, incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese, quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove ricevette una delegazione dei Parti.

Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi "protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici, aristotelici, epicurei e stoici. In Grecia prese parte anche ai riti dei misteri eleusini. Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani.

Il 27 novembre del 176, Marco decise di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità. Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina.

A Roma, si dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di spesa a quelli gladiatorii. Il 23 dicembre del 176, Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei Conservatori.

L'apparente tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178 Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia. 

Dopo una vittoria decisiva nel 178, il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia), per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno.

Marco Aurelio morì il 17 marzo 180, secondo Aurelio Vittore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna). Secondo invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia), che fungeva da quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di Sirmio.

Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così la malattia per morire il più rapidamente possibile. Il sesto giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio, rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte morì. Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi".

Officiato il funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori successivi, finché, nel 410, il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio.

Marco Aurelio aveva stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore) nel 177. Questa decisione, che mise di fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici, appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso prendeva parte), passione ereditata dalla madre.

Marco Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero come quello romano, ma così non fu.

Commodo (180-192)

Cesare Lucio Marco Aurelio Commodo Antonino Augusto, nato Lucio Elio Aurelio Commodo (Lanuvio, 31 agosto 161 – Roma, 31 dicembre 192), è stato un imperatore romano, membro della dinastia degli Antonini; regnò dal 180 al 192. 

Figlio dell'imperatore filosofo Marco Aurelio, Commodo fu associato al trono nel 177, succedendo al padre nel 180. Avverso al Senato, governò in maniera autoritaria, esibendosi anche come gladiatore e in prove di forza, e facendosi soprannominare l'Ercole romano.

Durante i dodici anni di principato, nonostante la fama di despota, a Commodo sono riconosciuti dei meriti: per esempio esercitò un'ampia tolleranza religiosa, ponendo fine alle persecuzioni contro i cristiani dopo alcuni anni dall'ascesa al trono, le quali ricominciarono dopo la sua morte. Egli stesso praticò culti orientali e stranieri; il regno di Commodo diede anche un nuovo impulso alle arti, che si svilupparono rispetto all'arte dei primi Antonini. Durante il suo regno egli eresse vari monumenti celebranti le imprese del padre Marco Aurelio, tra i quali la Colonna Aureliana, e forse completò anche la statua equestre di Marco Aurelio che si trova oggi nei Musei Capitolini (una copia è esposta al centro della piazza del Campidoglio).

Amato dal popolo e appoggiato dall'esercito, al quale aveva elargito consistenti somme di denaro, riuscì a mantenere il potere tra numerose congiure, finché non fu assassinato in un complotto di alcuni senatori, pretoriani e della sua amante Marcia, strangolato dal suo maestro di lotta, l'ex gladiatore Narcisso; l'assassinio portò al potere Pertinace. Sottoposto a damnatio memoriae dal Senato, fu riabilitato e divinizzato dall'imperatore Settimio Severo, che voleva ricollegarsi alla dinastia antoniniana cercando il favore dei membri superstiti della famiglia di Commodo e Marco Aurelio.  

Commodo, figlio del regnante imperatore Marco Aurelio, nacque come Lucio Elio Aurelio Commodo a Lanuvio, l'antica Lanuvium vicino a Roma. Aveva un fratello gemello, Tito Aurelio Fulvio Antonino, morto nel 165. Il 12 ottobre 166, Commodo fu nominato Cesare insieme al fratello minore, Marco Annio Vero Cesare; quest'ultimo morì nel 169, perciò l'unico figlio superstite rimase Lucio Aurelio Commodo.

Secondo alcuni storici Commodo era ben proporzionato e attraente, con capelli biondi e ricci. Portava la barba e gli occhi erano leggermente sporgenti. Come Nerone e Caligola era considerato folle e come Domiziano e Tiberio era considerato crudele e arbitrario. Pareva strano che fosse figlio dell'imperatore filosofo Marco Aurelio e così fu messa in giro la voce che fosse il figlio naturale di un gladiatore. 

Finché il padre fu in vita Commodo si comportò apparentemente in maniera normale, anche se si racconta che da giovane cercò di fare bruciare vivo un servo delle terme perché gli aveva preparato un bagno troppo caldo, nonché di altri comportamenti crudeli e considerati indegni (per esempio esibirsi come attore e gladiatore, frequentare prostitute, uccidere persone che non aveva in simpatia senza processo).

Tuttavia bisogna ricordare che le fonti erano tutte ostili. Da imperatore si paragonava a Ercole, scendendo nell'arena contro individui non allenati o zoppi, o uccidendo moltissimi struzzi e animali poco pericolosi, ma in alcuni casi anche elefanti. Tuttavia anche i detrattori gli riconoscono una certa destrezza nel combattimento corpo a corpo e nel tiro con l'arco. Per molti era semplicemente affascinato, come già Caligola e successivamente Eliogabalo, dalla figura ellenistica e orientale del sovrano divino (venerava il culto orientale di Mitra, nonché quelli egiziani di Iside e Anubi) e, comunque, era inadatto al governo di Roma.

Per altri aveva invece un vero squilibrio mentale e caratteriale, con comportamenti che oggi definiremmo sociopatici, cioè privi di rispetto per le regole sociali e i sentimenti altrui sebbene non fosse pazzo. Cassio Dione lo descrisse come cresciuto in un clima stoico e austero, e divenuto quindi un ribelle appena poté avere il potere, benché non fosse di indole malvagia, traviato ben presto dai suoi amici a causa della sua debolezza di carattere.

Egli ricevette una buona istruzione da "un'abbondanza di buoni maestri" secondo le parole di Marco Aurelio. Nell'aprile del 175 Avidio Cassio, governatore della Siria, si dichiarò imperatore in seguito alla voce che Marco Aurelio fosse morto. Essendo stato riconosciuto imperatore dalla Siria, Palestina ed Egitto, Cassio portò avanti la sua ribellione nonostante Marco Aurelio fosse ancora in vita.

Durante i preparativi per la campagna contro Cassio, il principe assunse la sua toga sul fronte del Danubio il 7 luglio 175, entrando così ufficialmente nell'età adulta. Cassio, invece, fu ucciso da uno dei suoi centurioni prima che iniziasse la campagna contro di lui. Commodo accompagnò il padre in un lungo viaggio nelle province orientali, durante il quale visitò Antiochia. L'imperatore e il figlio si recarono anche ad Atene, poi tornò a Roma nell'autunno del 176. Marco Aurelio fu il secondo imperatore dopo Vespasiano ad avere un figlio proprio, e sembra fosse sua intenzione che Commodo divenisse il suo erede, nonostante da molto tempo gli imperatori, spesso senza figli maschi adulti, adottassero i loro eredi. Commodo fu l'unico dei molti figli maschi di Marco Aurelio a sopravvivergli (l'altro erede designato, Marco Annio Vero Cesare, era morto molto giovane, e ancora giovanissimo e lontano da Roma era l'unico nipote in vita, Tiberio Claudio Severo Proculo, nipote di Commodo che fu poi console sotto Settimio Severo, nonché suocero di Eliogabalo).

Il 27 novembre 176 Marco Aurelio conferì a Commodo il rango di Imperator, e nel 177, il titolo di Augusto, attribuendo al figlio la sua stessa posizione, e formalmente condivise il potere con lui. Il 23 dicembre dello stesso anno, ottenne la tribunicia potestas. Il 1º gennaio 177 Commodo divenne console per la prima volta, a 15 anni, il più giovane console nella storia romana fino a quel momento. Durante il regno assieme al padre, Commodo non commise stranezze né crudeltà. Sposò poi Bruzia Crispina prima di accompagnare suo padre ancora una volta al fronte del Danubio nel 178 contro i barbari, dove poi Marco Aurelio morì il 17 marzo 180, lasciando imperatore il diciannovenne Commodo.

Ascesa - Dopo una nuova serie di vittorie decisive negli anni 178-179 contro Marcomanni e Quadi, il padre, Marco Aurelio, si ammalò gravemente nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. Marco Aurelio morì il 17 marzo 180, a circa cinquantanove anni, secondo Aurelio Vittore nella citta-accampamento di Vindobona (Vienna).

Secondo quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia), che fungeva da quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di Sirmio.  

Iniziando a stare male chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre. Chiese pertanto di potere aspettare pochi giorni prima di partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile.

Il sesto giorno, chiamati gli amici e "deridendo le cose umane" disse a loro: "perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene". Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla domanda su "a chi affidasse il figlio", rispose ai subordinati: "a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali". Nel settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo.

Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte morì. Cassio Dione Cocceiano aggiunge che vi furono delle negligenze da parte dei medici, che avrebbero voluto accelerare la successione per compiacere Commodo, ma potrebbero essere solo dicerie. Marco Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero come quello romano.

E poiché Commodo non era pazzo, come molti sostennero, anche se amava esibirsi come gladiatore e in prove di forza, egli intelligentemente si assicurò subito la fedeltà dell'esercito e del popolo romano con ampie elargizioni, governando così da vero e proprio monarca assoluto, al riparo dalle continue congiure del Senato e mantenendo il potere per dodici lunghi anni. In una di queste congiure venne coinvolta anche la sorella, Lucilla (oltre ad altri membri della famiglia, come il cognato e un nipote, figlio di Cornificia), che Commodo fece prima esiliare e poi uccidere (non invece il marito, Pompeiano, che preferì autoesiliarsi, e Cornificia). Un'altra sorella, Fadilla, fu invece, insieme al marito, una delle più fedeli consigliere del fratello. 

Tra i primi atti di Commodo vi fu, oltre alla divinizzazione del padre, la costruzione della grande colonna celebrativa delle vittorie del padre sulle genti barbariche del Nord.

Cominciò il suo regno con un trattato di pace sfavorevole concordato con le tribù dei Marcomanni, Quadi e Buri (tribù dei Germani), che erano state in guerra contro Marco Aurelio. Più tardi egli stesso intraprese guerre contro i Germani, riportando spesso parziali vittorie, per le quali inoltre pretendeva onori dal Senato. A differenza di quanto riportano alcuni storici Commodo non era però un pessimo stratega come poteva apparire.

Stabilì ricche ricompense per le delazioni, purché i delatori rivelassero vizi virtù e segreti di ogni senatore. Assillato dal pensiero che tutti cospirassero contro di lui, e molto spesso questi pensieri erano fondati, istituì un documento ufficiale, da lui redatto ogni giorno, denominato lista di proscrizione: una serie di persone sospette, più o meno fondatamente, veniva poi bandita o giustiziata.

Commodo aveva la passione - come la madre Faustina e lo zio e cognato Lucio Vero (co-imperatore di Marco Aurelio) - per i combattimenti gladiatori e quelli contro le bestie, al punto da scendere egli stesso nell'arena vestito da gladiatore, come l'Ercole romano indossando una pelle di leone e facendosi addestrare da Narcisso, uno dei più forti in quei tempi nei combattimenti gladiatori, impiegando quasi tutto il suo tempo rubato ai piaceri e gozzovigli. Partecipò a 735 giochi, pretendendo di essere regolarmente registrato e pagato come un normale gladiatore, ma naturalmente nessuno poteva batterlo, anche grazie all'assegnazione di armi smussate e scudi manomessi; tutti i prescelti finivano inesorabilmente sconfitti e chiunque veniva a conoscenza del trucco era inserito con un documento ufficiale in una lista di proscrizione e quindi bandito o giustiziato. Nel corpo a corpo aveva scelto la figura del Secutor, affrontando gli avversari con elmo scudo e spada, all'epilogo spesso fingeva di graziarli per poi mutilarli o sfregiarli. Uccise anche migliaia di animali selvaggi tra cui elefanti, rinoceronti, ippopotami, leoni, orsi, leopardi e struzzi, questi ultimi una sua passione poiché dopo essere decapitati continuavano a correre per una manciata di secondi; in una delle sue ultime apparizioni nell'arena, afferrò una testa di struzzo mostrandola ai senatori e proclamò che avrebbe fatto lo stesso all’intero Senato.

La partecipazione ai giochi nelle arene era considerato scandaloso dai Romani: la morale comune poneva i gladiatori nei ranghi più bassi della scala sociale. Ereditò, pare, tale passione dalla madre: una leggenda priva di fondamento voleva, del resto, che non fosse figlio di Marco Aurelio ma di un gladiatore.

L'instabilità di Commodo non si limitava a questo "hobby". Nel 190 una parte della città di Roma fu distrutta da un incendio e Commodo colse l'opportunità per "rifondarla", chiamandola in suo onore Colonia Commodiana (come forse avrebbe voluto fare Nerone nel 64). Anche i mesi del calendario furono rinominati in suo onore, e perfino al Senato cambiò il nome in Senato della Fortuna Commodiana, mentre l'esercito divenne Esercito commodiano e così pure la flotta Classis Commodiana. Questi atteggiamenti da monarca erano considerati gravemente offensivi dal Senato.

Inoltre aveva una propensione per ciò che era sessualmente stravagante o insano; abusò di tutte le sorelle, alle sue concubine imponeva di mettersi il nome della madre Faustina durante gli amplessi, aveva allestito una sorta di harem composto da trecento ragazze e trecento ragazzi a uso della sua cerchia di amici e cortigiani, mettendo in scena spettacoli orgiastici a tema, come per esempio l'Ercole Rustico.

Nel 182 un gruppo di membri della famiglia imperiale riuniti intorno alla sorella Annia Aurelia Galeria Lucilla - la figlia del primo matrimonio, un nipote (figlio dell'altra sorella, Annia Cornificia Faustina Minore), il proprio cugino paterno, l'ex console Marco Numidio Quadrato e la sorella di quest'ultimo Numidia Cornificia Faustina - pianificò l'assassinio di Commodo immaginando di vedere Lucilla e suo marito come nuovi governanti di Roma. Il nipote di Quintiniano irruppe dal suo nascondiglio con un pugnale cercando di colpire Commodo. Gli disse "Qui c'è il pugnale che ti spedisce il Senato" svelando la sua intenzione prima ancora di agire. Le guardie furono più veloci di lui, fu sopraffatto e disarmato senza riuscire nemmeno a ferire l'imperatore.

Commodo ordinò la sua condanna a morte e quella di Marco Numidio Quadrato; Lucilla, sua figlia e Numidia Cornificia Faustina furono esiliate nell'isola di Capri. Un anno dopo Commodo spedì un centurione a Capri per uccidere le tre donne. Altri complotti coinvolsero di nuovo il secondo marito di Lucilla, Tiberio Claudio Pompeiano, che scampò alla repressione auto-esiliandosi. L'altra sorella che risiedeva a Roma, Fadilla, fu invece molto vicina a Commodo, e lo sostenne con il marito in qualità di consigliere.

Nel 192 Commodo divorziò da Bruzia Crispina, facendola esiliare per adulterio. Di fronte al crescente malcontento per gli eccessi di Commodo, il prefetto del Pretorio Quinto Emilio Leto e il cubicularius Ecletto, temendo per la propria vita dopo essersi opposti alle ultime stravaganze dell'imperatore ed essere stati inseriti in una lista di proscrizione, organizzarono una congiura con Cassio Dione e numerosi altri senatori, anch'essi esasperati dallo stato delle cose. Venne ben presto coinvolta la concubina Marcia, favorita di Commodo di probabile fede cristiana (aveva spinto Commodo a interrompere le persecuzioni e a graziare papa Vittore I), cosicché, approfittando della sua prossimità al principe, si riuscisse ad avvelenarlo in modo da ucciderlo segretamente, in maniera non plateale o cruenta e senza uno scontro fisico.

L'attentato venne messo in atto il 31 dicembre 192, vigilia dell'insediamento dei nuovi consoli, durante un banchetto gli venne avvelenato il vino. L'imperatore, però, credendo di sentirsi appesantito dal lauto pasto si ritirò nei suoi appartamenti e chiese ai domestici di aiutarlo a vomitare, salvandosi così inconsapevolmente. A quel punto, essendo fallito l'avvelenamento e temendo di potere essere presto scoperti, i congiurati si rivolsero al campione dei gladiatori Narcisso, istruttore personale dell'imperatore, consegnandogli una spada; il gladiatore, spinto dalla promessa di una ricca ricompensa e dalla rivalsa personale per essere stato inserito in una lista di proscrizione, uccise quella sera stessa Commodo nei bagni, forse strangolandolo o trafiggendolo. Nell'anno seguente Narcisso venne giustiziato come assassino dell'imperatore durante la guerra civile, e Marcia condannata a morte dal nuovo imperatore. Cassio Dione invece si salvò e scrisse uno dei pochissimi resoconti di queste vicende.

Il giorno successivo, 1º gennaio 193, dopo un brevissimo interregno, i congiurati sparsero la voce dell'improvvisa e provvidenziale morte dell'Imperatore per un colpo apoplettico e di come quel fortuito evento avesse evitato appena in tempo il piano di Commodo per assassinare i consoli designati, Quinto Pompeio Sosio Falcone e Gaio Giulio Erucio Claro Vibiano, per poi recarsi in Senato, accompagnato da un gladiatore e vestito egli stesso in abiti da arena, per essere assieme a questi acclamato console per l'ottava volta.

Leto ed Ecletto si recarono quindi dal Praefectus Urbi Publio Elvio Pertinace, generale e console in carica e collega dell'imperatore defunto, offrendogli la porpora imperiale. Questi, temendo dapprima per la propria vita, si convinse ad accettare solo quando, condotto al Palatino, vide il corpo di Commodo privo di vita. A Roma, la notizia della morte del Principe spinse il Senato e il popolo a chiedere che il cadavere fosse trascinato con un uncino e precipitato nel Tevere, così come voleva un'antica usanza per i nemici della Patria.

Pertinace diede tuttavia incarico affinché Commodo fosse segretamente sepolto nel mausoleo di Adriano. Avutane notizia, il Senato dichiarò allora Commodo hostis publicus e ne decretò la damnatio memoriae: venne ripristinato il nome corretto delle istituzioni, mentre le statue e gli altri monumenti eretti dall'Imperatore defunto venivano abbattuti. Appena due anni dopo tuttavia, nel 195, l'imperatore Settimio Severo, cercando di legittimare il proprio potere ricollegandosi alla dinastia di Marco Aurelio e in aperta contrapposizione con il Senato, riabilitò la memoria di Commodo, ordinando che ne fosse decretata l'apoteosi. Commodo passò quindi dall'essere un nemico dello Stato alla condizione di divus, con un apposito flamine preposto al proprio culto.  

Pertinace (193)

Publio Elvio Pertinace (Alba1º agosto 126 – Roma28 marzo 193) è stato un politicomilitareconsole e imperatore romano.

Pertinace fu proclamato imperatore il 1º gennaio 193 e regnò per tre mesi, prima di essere assassinato dai pretoriani il 28 marzo 193. Successivamente venne divinizzato.  

La sua carriera prima di divenire imperatore, come si trova documentata nella Historia Augusta, è confermata da iscrizioni che si possono ritrovare in molti luoghi.

Nato ad Alba Pompeia (l'odierna Alba, in provincia di Cuneo), nella Regio IX Liguria, in una famiglia di liberti, Pertinace svolse dapprima l'attività d'insegnante di grammatica dopodiché, grazie all'intercessione d'un patrocinatore, intraprese fruttuosamente la carriera militare, arrivando a ricoprire il grado di prefetto della cohors IIII Gallorum equitata di stanza in Rezia.  

Iniziò la carriera militare come cavaliere e fu posto al comando di una corte di fanteria ausiliaria in Siria negli anni compresi tra il 157 ed il 162. Si trattava molto probabilmente della Cohors VII Gallorum. Dopo essersi distinto nella guerra contro i Parti di Lucio Vero (162-166), venne promosso ed inviato in Britannia, prima come praepositus della Cohors I o II Tungrorum (163-164?), poi come tribuno angusticlavio della Legio VI Victrix (164-166?). In seguito (attorno al 167), lo troviamo lungo il Danubio come praefectus alae della ala I Flavia Augusta Britannica milliaria che era dislocata a Sirmium, sotto il comando dell'allora legatus Augusti pro praetoreTiberio Claudio Pompeiano, del quale divenne grande amico e suo protetto.

Negli anni successivi servì prima come procurator Augusti ad Alimenta in regio VIII Aemilia (per la logistica delle operazioni militari degli anni 167-168 durante le guerre marcomanniche), poi come praefectus classis Germanica di stanza a Colonia Agrippina (poco prima del 169), ed infine come procuratore ducenarius (con uno stipendium di 200.000 sesterzi) delle tre Dacie (nel 169-170).

A questo punto della carriera, cadde in disgrazia e venne rimosso dall'incarico di procurator Augusti in Dacia, vittima probabilmente di intrighi di corte durante il regno di Marco Aurelio, ma subito dopo fu richiamato per assistere Claudio Pompeiano nella guerra contro i Germani, ottenendo importanti successi in Pannonia inferiore e in Dacia (nel 170), forse con il grado di legatus legionis o di dux di un esercito formato da alcune vexillationes affidategli dal suo patrono. Per questi successi l'imperatore romano, Marco Aurelio, gli ottenne un'adlectio in senato e, per compensare l'ingiustizia subita precedentemente, venne promosso tra i pretorii.

In seguito sembra abbia affiancato nuovamente Pompeiano in operazioni militari per scacciare le genti germaniche da Norico e Rezia, ottenendo l'incarico di legatus legionis della I Adiutrix (171-172), normalmente di stanza a Brigetio. Sembra che abbia combattuto poco dopo lungo il fronte danubiano contro i Naristi (in bello Naristarum) che a quell'epoca si trovavano di fronte alle province romane di Norico e Pannonia superiore.

Nel 175 ricevette per gli alti meriti militari conseguiti negli anni precedenti la nomina a console. Ottenne quindi l'incarico di governare entrambe le due Mesie (Superior et Inferior), per poi accompagnare, come comes Augusti, Marco Aurelio a causa dell'usurpazione in Oriente di Avidio Cassio (primavera del 175). Poco dopo fece ritorno lungo il fronte danubiano e continuò ad amministrare entrambe le due province di Mesia, almeno fino al 178/179.

Divenne quindi governatore delle Tres Daciae nel 179/180. Subito dopo questo incarico venne nominato legatus Augusti pro praetore della Siria dove rimase fino a non più tardi del 183, quando venne richiamato dal prefetto del pretorio Tigidio Perenne e sostituito da Gaio Domizio Destro. La Historia Augusta racconta che egli fu costretto a ritirarsi nei suoi possedimenti nella natìa Alba Pompeia.

La morte di Perenne permise a Pertinace di ritornare alla ribalta in seno alla corte di Commodo, anche grazie alla necessità di reprimere gli ammutinamenti militari che erano scoppiati nel 184 in Britannia. Fu così che la sua carriera riprese e venne nominato governatore dell'isola, dove si recò poco dopo, riuscendo a sedare la rivolta. Qui sembra rimase dal 185 al 187/188. Una volta tornato a Roma, venne nominato praefectus Urbis (189) e poco dopo proconsole d'Africa (190). Ebbe quindi un secondo consolato, questa volta ordinario, avendo come collega lo stesso imperatore Commodo nel 192. In seguito venne nominato imperatore dal prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto e dal cubicolario Ecletto dopo che Commodo fu assassinato l'ultimo giorno di quell'anno (31 dicembre del 192).  

Quello di Pertinace fu un regno corto e inquieto. Devotissimo al Senato, tanto da pensare in un primo momento di cedere il trono al nobile senatore Acilio Glabrione, egli trovò le finanze esauste e tentò di imitare i risparmi di Marco Aurelio, cercando di riformare le distribuzioni di alimenti e di terre, ma si scontrò con l'antagonismo di molti quartieri.

Gli scrittori antichi precisano come la guardia pretoriana si aspettasse la liquidazione di tutti i ministri e fiancheggiatori di Commodo, la confisca dei loro beni e di conseguenza generosi doni con la salita al trono di Pertinace. Pertinace invece non intendeva sanzionare chi aveva semplicemente obbedito per dovere all'imperatore. I pretoriani delusi si agitarono fino a che Pertinace non distribuì loro del denaro, spendendo dalle proprietà di Commodo, inclusi concubine e ragazzi che Commodo aveva tenuto presso di sé per il suo piacere sessuale. Pertinace successivamente scoprì all'ultimo momento una cospirazione di un gruppo che voleva sostituirlo e ne fece uccidere tutti i congiurati.

Ma una seconda cospirazione finì, il 28 marzo dell'anno 193, con il suo assassinio. La guardia pretoriana assalì il palazzo imperiale. Abbandonato dalle sue guardie, Pertinace non cercò di fuggire, ma attese l'assalto assieme al suo segretario Ecletto. In un primo momento i soldati si fermarono di fronte al grande coraggio e alle parole di Pertinace, ma un certo Tungas, dopo averli incitati, scagliò la lancia e trafisse al petto l’imperatore. Pertinace cadde e si velò il capo, rivolgendo un'ultima preghiera a Giove Vendicatore. I soldati lo finirono con i pugnali mentre Ecletto combatteva coraggiosamente, trafiggendo due soldati prima di essere anche lui ucciso. I pretoriani decapitarono Pertinace e infilarono la sua testa su una lancia, per poi sfilare per le strade di Roma.

Pertinace sembrava essere cosciente del pericolo che correva assumendo il potere: per questo rifiutò gli attributi imperiali per la moglie e per il figlio Publio Elvio, per proteggerli dalle conseguenze di un suo eventuale assassinio.

Niccolò Machiavelli ne Il Principe (cap. XIX Come evitare il disprezzo e l'odio) sostiene che Pertinace era un amante della giustizia e della pace. Ma fu l'amore per questi ideali a condurlo alla morte. Durante l'antica Roma infatti i soldati apprezzavano molto di più i principi dall'animo bellicoso che dessero sfogo alla loro rapacità. Per mantenere il potere era dunque necessario assecondare la corruzione dei soldati, cosa che l'onesto Pertinace, suo malgrado, non fece. Per questo il Machiavelli sottolinea che Pertinace è un chiaro esempio di come ci si può procurare odio anche a causa della troppa onestà, in quanto nell'arte di governare bisogna essere pronti a "essere non buoni" se le circostanze lo richiedono.  

Dopo aver vinto una vera e propria asta indetta dai pretoriani il ricchissimo senatore Didio Giuliano si proclamò quindi nuovo imperatore, atto che scatenò una breve guerra civile per la successione, al termine della quale Settimio Severo sconfisse Clodio Albino e Pescennio Nigro e fu acclamato imperatore nell'anno 193. Alla sua salita al potere, Settimio Severo riconobbe Pertinace come legittimo imperatore, e non solo fece pressioni sul Senato perché concedesse l'apoteosi e i funerali di stato. Come nuova divinità assunta al cielo (Divus) a Pertinace per qualche tempo furono organizzati giochi per l'anniversario della salita al potere e per il giorno della sua nascita.

Didio Giuliano (193)

Marco Didio Severo Giuliano (Mediolanum30 gennaio 133 – Roma1º giugno 193), meglio noto semplicemente come Didio Giuliano, è stato un imperatore romano, regnante per pochi mesi dal 28 marzo al 1º giugno del 193.

Fu un ricchissimo senatore che riuscì a divenire imperatore comprandosi la carica dai pretoriani i quali, avendo assassinato il precedente imperatore Pertinace, l'avevano messa praticamente all'asta in cerca del partito a loro più favorevole. Riconosciuto anche dal Senato, non seppe guadagnarsi però la benevolenza della popolazione, né tantomeno il necessario appoggio delle legioni, presso le quali si levarono dalle provincie alcuni pretendenti al soglio che ne causarono infine la caduta dopo soli pochi mesi di governo.

Giuliano nacque a Mediolanum (l'odierna Milano), nella Regio XI Transpadana, nel 133 o nel 137, figlio di Quinto Petronio Didio Severo, politico romano di origini insubri per parte paterna, e di Emilia Clara, donna romana originaria di Hadrumetum (l'odierna Susa, in Tunisia), nella provincia dell'Africa Proconsolare.

Improbabile la notizia, riportata nella Historia Augusta, che fosse bisnipote di Salvio Giuliano, poiché quest'ultimo, nato verso la fine del I secolo, non poteva essere bisnonno di qualcuno nato non più tardi del 137.

La sua carriera fu ricca di cariche: questore a ventiquattro anni (nel 157), uno meno dell'età minima, fu poi edile e pretore nel 163. Fu quindi legatus legionis della XXII Primigenia a Mogontiacum, poi governatore di rango pretorio della Gallia Belgica per lungo tempo (170-174 circa), riuscendo a respingere un'invasione di Cauci dal mare e una di Catti, tanto da fargli meritare il consolato insieme al futuro imperatore Pertinace. In seguito divenne governatore, prima della Dalmazia (dal 176 forse fino al 180), poi della Germania inferiore tra il 180 e il 184, e infine prefetto dell'annona.

Sotto Commodo rischiò di essere condannato per una denuncia collegata alla cosiddetta congiura di Lucilla, sorella dell'imperatore, ma l'imperatore non credette all'accusa. Giuliano comunque preferì ritirarsi a vita privata. In seguito Commodo lo nominò prima governatore della Bitinia (probabilmente tra il 185 e il 189), poi nuovamente console e infine governatore dell'Africa (190-192).

Alla morte di Pertinace, con il quale sembra avesse un buon rapporto, fu nominato imperatore al posto di Sulpiciano, perché aveva offerto più sesterzi (25.000 secondo l'Historia Augusta) ai pretoriani di quest'ultimo. Lo stesso giorno fu riconosciuto anche dal senato, che nominò auguste la moglie Manlia Scantilla e la figlia Didia Clara.

Solo il popolo gli fu sempre ostile, visto anche lo scherno mostrato nei confronti della frugalità del predecessore, notizia questa ritenuta falsa nella Historia Augusta. Più volte il popolo lo criticò aspramente e non cambiò idea neanche sotto la minaccia "della spada" e la promessa "dell'oro". I veri problemi non venivano dal popolino di Roma, ma dagli eserciti delle province, che non avevano giurato fedeltà all'imperatore, tanto che in più parti erano scoppiate rivolte: Clodio Albino con gli eserciti della Britannia, Pescennio Nigro con quelli della Siria e Settimio Severo con quelli dell'Illirico.

Didio Giuliano mandò uomini e ambascerie per eliminare il problema alla radice e nel frattempo si preparò allo scontro, mal riponendo la sua fiducia nei pretoriani. Dopo aver tentato di bloccare Settimio Severo, che attraversando l'Italia e discendendo verso Roma si era pure impadronito della flotta di Ravenna, intraprese con lui trattative diplomatiche per associarlo al trono, ma la posizione di Didio Giuliano era ormai troppo compromessa e Settimio Severo rifiutò l'offerta. Senza più nessuno dalla sua parte, fu ucciso in un luogo remoto dai pretoriani, su ordine del Senato, mediante decapitazione il 1º giugno 193.

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