- Età
repubblicana
- Tramonto
della repubblica romana
146 - 27 a.C.)
Dopo
avere costretto alla resa
definitiva cartaginesi e
macedoni, Roma decise di
risolvere una volta per tutte
anche la questione spagnola,
che si trascinava da diversi
decenni, ovvero da quando nel
197 a.C., dopo la Seconda
guerra punica, i Romani
avevano suddiviso il
territorio in due province, la Spagna
citeriore (Hispania
Citerior) e la Spagna
ulteriore (Hispania
Ulterior), con capitali,
rispettivamente, Tarragona e Cordova.
Il
malgoverno sfrenato e lo
spietato sfruttamento
provocarono una violenta
rivolta che si estese anche
alle popolazioni confinanti
dei Lusitani e dei Celtiberi e
che, dopo esiti alterni e
battaglie cruente con costi
enormi in uomini e denaro,
venne infine risolta con
l'uccisione del capo dei
Lusitani Viriato (139 a.C.) e con la presa per fame della roccaforte dei Celtiberi, Numanzia,
nel 133. a.C.
Circostanze
assai strane portarono,
invece, nel 133 a.C.
all'annessione del regno
di Pergamo, che fu poi nel 129
a.C. ridotto a provincia (i
Romani la chiamarono provincia
d'Asia). Il re Attalo III aveva
lasciato in eredità il
proprio regno a Roma, ma
occorsero tre anni prima che i
Romani potessero dominare
direttamente quel territorio,
dato che sotto la guida di un
certo Aristonico era
scoppiata una violenta
insurrezione popolare, domata
a fatica. Roma poteva ormai
considerarsi la potenza
egemone nel Mediterraneo.
Qualche
anno più tardi, nel 121 a.C.,
vennero poste le basi anche
per la futura espansione nella Gallia
Transalpina, con la riduzione
a provincia della Gallia
Narbonense (l'attuale Provenza).
Con
la sconfitta dei nemici contro
cui combatteva da anni su
entrambi i fronti, Roma era
diventata padrona del
Mediterraneo. Le nuove
conquiste, tuttavia, portarono
anche notevoli cambiamenti
nella società romana: i
contatti con la cultura ellenistica,
temuta e osteggiata dallo
stesso Catone, modificarono
profondamente gli usi che fino
ad allora si rifacevano al mos
maiorum, trasformando
radicalmente la società
dell'Urbe.
LE RIFORME DEI GRACCHI
(133-121 a.C.) - Il
periodo che va dalle
agitazioni gracchiane alla
dominazione di Lucio
Cornelio Silla, segnò
l'inizio della crisi che,
quasi un secolo dopo, portò
la repubblica aristocratica al
tracollo definitivo. Lo
storico Ronald Syme ha
chiamato il periodo di
passaggio dalla Repubblica al
principato augusteo
"rivoluzione
romana".
L'espansione
così grande e repentina nel
bacino del Mediterraneo aveva,
infatti, costretto la
Repubblica ad affrontare
problemi enormi e di vario
genere: le istituzioni romane
erano fino ad allora concepite
per amministrare un piccolo
stato; adesso le province si
stendevano dall'Iberia,
all'Africa,
alla Grecia,
all'Asia
Minore.
A
partire dalla riforma agraria
proposta dal tribuno
della plebe Tiberio
Sempronio Gracco nel 133
a.C., le convulsioni
politiche divennero sempre più
gravi, producendo una serie di
dittature, guerre civili e
temporanee tregue armate nel
corso del secolo successivo.
Gli intenti di Tiberio erano
sostanzialmente conservatori.
Preoccupato dalla penuria di
uomini che aveva notato in
varie parti d'Italia e dalla
povertà di molti e convinto
che in queste condizioni
sarebbe stato impossibile
mantenere l'ordinamento
sociale che era l'ossatura
dell'esercito, egli si
proponeva, mediante nuove
distribuzioni di terre,
stabilite da un collegio che
le assegnava secondo un
principio quantitativo,
concedendo quelle in eccesso
ai cittadini meno abbienti, di
dar nuovo vigore al ceto dei
piccoli proprietari agricoli,
che si trovava in grave
difficoltà a causa da una
parte del "prelievo"
dovuto alle continue guerre,
dall'altra della pressione dei
grandi proprietari, che
estendevano i loro domini
attraverso l'evizione dei
coloni debitori o l'acquisto
dei loro fondi. Le continue
guerre in patria e all'estero,
infatti, avevano da una parte
costretto i piccoli
proprietari terrieri ad
abbandonare per lunghi anni i
propri poderi per prestare
servizio nelle legioni,
dall'altro avevano finito per
rifornire Roma (grazie ai
saccheggi e alle conquiste) di
una quantità enorme di merci
a buon mercato e di
schiavi, i quali venivano
usualmente impiegati nelle
aziende agricole dei patrizi
romani, con
ripercussioni tremende nel
tessuto sociale romano, dato
che la piccola proprietà
terriera non era in grado di
competere con i latifondi
schiavistici (che producevano
praticamente a costo zero).
Tutte quelle famiglie che, a
causa dei debiti, erano state
costrette a lasciare le
campagne, si rifugiarono a
Roma, dove diedero vita al
cosiddetto sottoproletariato
urbano: una massa di persone
che non avevano un lavoro, una
casa e di che sfamarsi, con
inevitabili e pericolose
tensioni sociali.
L'aristocrazia
senatoria, arroccandosi in una
migliore difesa dei propri
interessi particolari, ostacolò
inizialmente Tiberio,
corrompendo un altro tribuno
della plebe, Ottavio, che
tuttavia venne dichiarato
decaduto dalla carica dallo
stesso Tiberio, che lo accusò
di aver agito contro gli
interessi della plebe. Per
superare l'opposizione del
collega tribuno, attuata
mediante il veto alle sue
proposte di riforma, Tiberio,
contrariamente agli usi
tradizionali, si presentò nel 132
a.C. alle elezioni
per essere rieletto al
tribunato e poter completare
le sue riforme. A questo
punto, temendo un'ulteriore
deriva in senso popolare del
governo della Repubblica,
durante le convulse fasi
antecedenti le elezioni dei
tribuni della plebe, una banda
di senatori, guidati da Scipione
Nasica, attaccò
Tiberio al Campidoglio causandone
la morte, assieme a trecento
suoi seguaci.
Otto
anni dopo, Gaio
Sempronio Gracco,
eletto tribuno della plebe
dell'anno 123
a.C., riprese l'azione
politica del fratello,
spingendola su posizioni
sempre più popolari ed
anti-nobiliari, cercando di
procurarsi il favore, oltre
che dei proletari, anche dei
"soci" italici
(emarginati politicamente
dalle conquiste) e della
classe equestre. Come il
fratello, sempre contro le
consuetudini, anche Gaio si
presentò l'anno successivo
per concorrere all'elezione al
tribunato, carica alla quale
fu eletto, rendendosi
promotore di una forte
battaglia politica di
opposizione alla classe
senatoriale. Nel 121
a.C. non riuscì
però a farsi eleggere per la
terza volta al tribunato, e ad
impedire così la politica di
restaurazione dei privilegi
senatoriali operata dalla
nuova classe politica. Per
opporsi a questo nuovo corso,
Gaio non esitò ad operare
come "agitatore
politico" esternamente
alle istituzioni pubbliche,
cosa questa che alla fine gli
valse la messa in accusa come
nemico della repubblica.
Abbandonato dai molti dei suoi
sostenitori, si fece uccidere
da un suo servo sul Gianicolo.
GIUGURTA,
I GERMANI E GAIO MARIO (112
– 100 a.C
.) - Negli anni successivi
la politica romana fu
caratterizzata sempre più dal
radicalizzarsi della lotta tra
il partito degli ottimati e
quello dei popolari.
In questo contesto irruppe
nella storia romana un Homo
novus, cittadino romano
proveniente però dalla
provincia: Gaio Mario.
Mario,
dopo essersi distinto per le
sue capacità militari in
Spagna, rientrò a Roma con
l'intento di costruirsi una
propria carriera politica, il
cosiddetto Cursus
honorum, che lo
portasse al consolato. Riuscì
ad ottenere le cariche di questore, tribuno
della plebe e pretore.
Dopo
aver condotto con successo una
campagna militare nella Spagna
Ulteriore, tornò a
Roma, dove sposò Giulia,
sorella di Gaio
Giulio Cesare, padre di Gaio
Giulio Cesare, il
dittatore. Nel 109
a.C. partì per
l'Africa come legato di Quinto
Cecilio Metello, a cui
il Senato aveva affidato la
guerra contro Giugurta,
non giudicando soddisfacente
l'andamento di questa.
Nel 108 Mario
tornò a Roma per concorrere
al consolato, al quale fu
eletto nel 107
a.C. anche grazie
alle accuse di incapacità
militare che rivolse ai
patrizi, Metello in
primis. Come console riuscì a
farsi affidare la conduzione
della guerra contro Giugurta,
che sconfisse nel 105
a.C. Roma occupò
così la Numidia.
Mentre
Mario portava vittoriosamente
a termine la guerra in Africa,
Roma stava subendo pesanti
sconfitte da parte delle tribù
germaniche dei Cimbri e
dei Teutoni.
Nel 107
a.C. l'esercito di Lucio
Cassio Longino fu
sconfitto, e lo stesso
generale ucciso in battaglia,
nella Gallia
Narbonense. Ma fu la
tremenda sconfitta del 105
a.C. ad Arausio,
dove perirono circa 120 000
romani tra soldati ed
ausiliari, che gettò i romani
nel panico.
In
questo clima di paura Mario,
visto come unico generale in
grado di organizzare
l'esercito contro i germani,
venne eletto console per ben
cinque volte consecutive, dal 104 al 100
a.C., fino a che la
minaccia dell'invasione
germanica non fu sventata con
le vittorie ad Aquae
Sextiae e a Vercelli.
Contro Teutoni e Cimbri Mario
utilizzò il nuovo,
formidabile esercito nato
dalla sua riforma avviata nel
107 a.C. A differenza di
quello precedente, formato da
cittadini-contadini ansiosi di
tornare ai propri campi una
volta finite le campagne
belliche, questo era un
esercito stanziale e
permanente di volontari
arruolati con ferma quasi
ventennale, ovvero un esercito
di professionisti attratti non
solo dal salario, ma anche dal
miraggio del bottino e dalla
promessa di una terra alla
fine del servizio. I proletari
ed i nullatenenti vi si
arruolarono in massa. Non era
tanto un esercito di cittadini
motivati dal senso del dovere,
ma piuttosto di militari
legati dallo spirito di corpo
e dalla fedeltà al capo.
In
tutto questo periodo, sia
contro Giugurta che contro i
Germani, Mario ebbe come
legato un giovane nobile, di
cui apprezzava le capacità
militari: Lucio
Cornelio Silla.
GUERRA
SOCIALE (91 - 88 a.C.) -
Già dal tempo dei Gracchi a Roma si
avanzavano proposte
d'estensione dei diritti di
cittadinanza anche ad altri
popoli italici fino ad allora federati,
ma i tentativi non ebbero
successo. La speranza degli
alleati italici era che a Roma
prevalesse il partito di
coloro che volevano concedere
agli alleati italici la cittadinanza
romana.
Ma
quando nel 91
a.C. il tribuno Marco
Livio Druso, che stava
preparando una proposta di
legge per concedere la
cittadinanza agli alleati fu
ucciso, ai più apparve chiaro
che Roma non avrebbe concesso
spontaneamente la
cittadinanza. Fu l'inizio
della guerra che dal 91 a.C.
all'88 a.C. vide combattersi
gli eserciti romani e quelli
italici.
Gli
ultimi a cedere le armi ai
Romani, capeggiati tra gli
altri da Silla e Gneo
Pompeo Strabone, padre
del futuro Pompeo
Magno, furono i Sanniti.
Alla fine della guerra, però,
gli italici della penisola,
nonostante la sconfitta,
riuscirono a ottenere
l'agognata cittadinanza
romana.
DITTATURA
DI SILLA (88 - 78 a.C.) -
In Senato lo scontro politico
tra le due fazioni avverse,
quella degli ottimati che
aveva trovato il suo
"campione militare"
nel nobile Lucio
Cornelio Silla, e
quella dei mariani guidata dal
generale ed "uomo
nuovo" Gaio
Mario, si stava sempre
più radicalizzando, non
trovando le due fazioni più
alcun terreno di concordia
comune sugli elementi fondanti
dello Stato, come la
cittadinanza, la suddivisione
delle sempre maggiori
ricchezze che affluivano a
Roma e il controllo
dell'esercito, che si stava
trasformando da esercito
cittadino in esercito di
professionisti.
Questa
tensione, fino a che Gaio
Mario rimase in vita, si
risolse sempre nella lotta per
l'ottenimento del consolato
per i candidati della propria
parte politica. Morto Mario, e
trovandosi Quinto
Sertorio in
Spagna, forse l'unico tra i
mariani che potesse
contrastare militarmente
Silla, Lucio Cornelio, al
ritorno dalla vittoriosa
guerra in oriente, ritenne di
poter forzare la mano e con
l'esercito in armi marciò
contro Roma nell'82
a.C. Qui, a Porta
Collina, Silla ottenne
la vittoria decisiva nella guerra
civile contro i
mariani.
Per
consolidare la sua vittoria
Silla si fece eleggere
dittatore a vita e iniziò una
vasta e sistematica
persecuzione nei confronti dei
rappresentanti della parte
avversa (le liste di
proscrizione sillane) da cui
il giovane Giulio Cesare,
nipote di Gaio
Mario, riuscì a stento
a sottrarsi.
Fino
a che morì, nel 78
a.C., l'unica seria
opposizione che continuò ad
essere condotta contro Silla,
fu quella condotta da Sertorio
dalla Spagna.
GUERRE
MITRIDATICHE (88 - 63 a.C.)
- Nel 111
a.C., salì al trono
del regno
del Ponto, Mitridate
VI, figlio dello
scomparso Mitridate
V. Il nuovo sovrano
mise subito in atto (fin dal 110
a.C.) una politica
espansionistica nell'area del Mar
Nero, conquistando
tutte le regioni da Sinope alle
foci del Danubio, compresa
la Colchide,
il Chersoneso
Taurico e la
Crimmeria (attuale Crimea),
e poi sottomettendo le vicine
popolazioni scitiche e
dei sarmati Roxolani. Il
giovane re volse, quindi, il
suo interesse verso la penisola
anatolica, dove la
potenza romana era, però, in
costante crescita. Sapeva che
uno scontro con quest'ultima
sarebbe risultato mortale per
una delle due parti.
La prima
guerra mitridatica iniziò
verso la fine dell'89
a.C. Le ostilità
si erano aperte con due
vittorie del sovrano del Ponto
sulle forze alleate dei
Romani, prima del re
di Bitinia, Nicomede
IV e poi dello
stesso inviato romano Manio
Aquilio, a capo di una
delegazione in Asia
Minore. L'anno
successivo Mitridate decise di
continuare nel suo progetto di
occupazione dell'intera penisola
anatolica, ripartendo
dalla Frigia.
La sua avanzata proseguì,
passando dalla Frigia alla Misia,
e toccando quelle parti di Asia che
erano state recentemente
acquisite dai Romani. Poi mandò
i suoi ufficiali per le
province adiacenti,
sottomettendo la Licia,
la Panfilia,
ed il resto della Ionia.
Non
molto tempo dopo Mitridate
riuscì a catturare il massimo
esponente romano in Asia,
il consolare Manio
Aquilio e lo
uccise barbaramente. Sembra
che a questo punto, la maggior
parte delle città dell'Asia si
arresero al conquistatore
pontico, accogliendolo come un
liberatore dalle popolazioni
locali, stanche del malgoverno
romano, identificato da molti
nella ristretta cerchia dei pubblicani. Rodi,
invece, rimase fedele
a Roma.
Non
appena queste notizie giunsero
a Roma,
il Senato dichiarò
guerra contro il re
del Ponto, seppure
nell'Urbe vi
fossero gravi dissensi tra le
due principali fazioni interne
alla Res publica (degli Optimates e
dei Populares)
ed una guerra
sociale non fosse
stata del tutto condotta a
termine. Si procedette,
quindi, a decretare a quale
dei due consoli,
sarebbe spettato il governo
della provincia
d'Asia, e questa toccò
in sorte a Lucio
Cornelio Silla.
Mitridate,
frattanto, preso possesso
della maggior parte dell'Asia
Minore, dispose che
tutti coloro, liberi o meno,
che parlavano una lingua
italica, fossero
barbaramente trucidati; non
solo quindi i pochi soldati
romani rimasti a presidio
delle guarnigioni locali.
80.000 tra cittadini
romani e non,
furono massacrati nelle due
ex-province
romane d'Asia e Cilicia (episodio
noto come Vespri
asiatici). La
situazione precipitò
ulteriormente, quando a
seguito delle ribellioni nella
provincia asiatica, insorse
anche l'Acaia contro Roma. Il
re del Ponto appariva ai loro
occhi come un liberatore della
grecità, quasi fosse un nuovo Alessandro
Magno.
Con
l'arrivo di Lucio
Cornelio Silla in Grecia nell'87
a.C. le sorti
della guerra
contro Mitridate cambiarono
a favore dei Romani. Espugnata
prima Atene ed
il Pireo, il
comandante romano ottenne due
successi determinanti ai fini
della guerra, prima a
Cheronea, dove secondo Tito
Livio caddero ben
100.000 armati del regno
del Ponto, ed
infine ad Orcomeno.
Contemporaneamente,
agli inizi dell'85
a.C., il prefetto della cavalleria, Flavio
Fimbria, a capo di un
secondo esercito romano, si
diresse anch'egli contro le
armate di Mitridate, in Asia,
uscendone più volte
vincitore, riuscendo a
conquistare la nuova capitale
di Mitridate, Pergamo, e
poco mancò che non riuscisse
a far prigioniero lo stesso
re. Intanto Silla
avanzava dalla Macedonia,
massacrando i Traci che
sulla sua strada gli si erano
opposti.
Dopo
una serie di trattative
iniziali, Mitridate e Silla si
incontrarono a Dardano,
dove si accordarono per un
trattato di pace, che
costringeva Mitridate a
ritirarsi da tutti i domini
antecedenti la guerra, ma
ottenendo in cambio di essere
ancora una volta considerato
"amico
del popolo romano".
Un espediente per Silla, per
poter tornare nella capitale a
risolvere i suoi problemi
personali, interni alla
Repubblica romana.
Nel 74
a.C. divenne provincia
romana la Bitinia (Bythinia),
quando Nicomede
IV lasciò
anch'egli in eredità allo
stato romano, il proprio regno.
Pochi anni più tardi (nel 63
a.C.), al termine della terza
guerra mitridatica, la
sconfitta del regno
del Ponto portò
alla creazione di una nuova
provincia (Bythinia
et Pontus che univa i
territori dei due regni ora
sotto il dominio romano),
grazie alle campagne militari
condotte nell'area, da Lucio
Licinio Lucullo (dal
74 al 67
a.C.).
E
mentre Lucullo era ancora
impegnato con Mitridate e con Tigrane
II, Gneo
Pompeo Magno riusciva
nel 67
a.C. a ripulire
l'intero bacino del
Mediterraneo dai pirati,
strappando loro l'isola di Creta,
le coste della Licia,
della Panfilia e
della Cilicia,
dimostrando straordinaria
disciplina ed abilità
organizzativa. La Cilicia vera
e propria (Trachea e Pedias),
che era stata covo di pirati
per oltre quarant'anni, fu così
definitivamente sottomessa. In
seguito a questi eventi la
città di Tarso divenne
la capitale dell'intera
provincia
romana. Furono poi
fondate ben 39 nuove città.
La rapidità della campagna
indicò che Pompeo aveva avuto
talento, come generale, anche
in mare, con forti capacità
logistiche.
Fu
allora incaricato Pompeo di
condurre una nuova guerra
contro Mitridate
VI re del Ponto,
in Oriente (nel 66
a.C.), grazie alla lex
Manilia, proposta dal tribuno
della plebe Gaio
Manilio, ed appoggiata
politicamente da Cesare e Cicerone. Questo
comando gli affidava
essenzialmente, la conquista e
la riorganizzazione
dell'intero Mediterraneo
orientale, avendo il potere di
proclamare quali fossero i popoli
clienti e quali
quelli nemici, con un potere
illimitato mai prima d'ora
conferito a nessuno, ed
attribuendogli tutte le forze
militari al di là dei confini
dell'Italia
romana.
dei
quali Pompeo, tornato quindi
nella nuova
provincia di Siria,
dopo aver sottomesso
anche i Giudei, si
apprestò a riorganizzare
l'intero Oriente romano,
gestendo al meglio le alleanze
che vi gravitavano attorno (si
veda Regno
cliente).
Nella
nuova riorganizzazione, fu
trovato un accordo tra la
Repubblica ed il regno dei Parti,
secondo il quale, il fiume
Eufrate avrebbe costituito,
d'ora in poi, il confine tra i
due stati; lasciò a
Tigrane II l'Armenia;
a Farnace il Bosforo; ad Ariobarzane
la Cappadocia ed
alcuni territori limitrofi; ad Antioco
di Commagene aggiunse Seleucia e
parti della Mesopotamia che
aveva conquistato; a Deiotaro,
tetrarca della Galazia,
aggiunse i territori dell'Armenia
Minore, confinanti con
la Cappadocia; fece di Attalo
il principe di Paflagonia e
di Aristarco quello della Colchide;
nominò Archelao sacerdote
della dea venerata a Comana;
ed infine fece di Castore di
Phanagoria, un fedele alleato
e amico del popolo romano.
Il
proconsole romano decise,
inoltre, di fondare alcune
nuove città (sembra otto,
secondo Cassio
Dione Cocceiano), come
Nicopoli
al Lico in Armenia
Minore, chiamata così
in ricordo della vittoria
ottenuta su Mitridate;
poi Eupatoria,
costruita dal re pontico ed
intitolata a sé stesso, ma
poi distrutta perché aveva
ospitato i Romani, che Pompeo
ricostruì e rinominò Magnopolis.
In Cappadocia ricostruì Mazaca,
che era stata completamente
distrutta dalla guerra.
Restaurò poi molte altre città
in molte regioni, che erano
state distrutte o danneggiate,
nel Ponto, in Palestina, Siria
Coele ed in Cilicia, dove
aveva combattuto
la maggior parte dei pirati,
e dove la città, in
precedenza chiamata Soli,
fu ribattezzata Pompeiopolis.
Per
questi successi il Senato gli
decretò il meritato trionfo il
29 settembre del 61
a.C. e fu
acclamato da tutta l'assemblea
con il nome di Magnus.
Pompeo
non solo era riuscito a
vincere Mitridate nella Terza
guerra mitridatica (del 63
a.C.), ma anche a
battere Tigrane II, re
di Armenia, con cui in
seguito fissò dei trattati.
Pompeo impose una
riorganizzazione generale ai
re delle nuove province
orientali, tenendo
intelligentemente conto dei
fattori geografici e politici
connessi alla creazione di una
nuova frontiera di Roma in
oriente. Le ultime campagne
militari avevano così ridotto
il Ponto,
la Cilicia
campestre, la Siria (Fenicia, Coele e Palestina)
a nuove province
romane, mentre Gerusalemme era
stata conquistata. La provincia
d'Asia era stata a
sua volta ampliata, sembra
aggiungendo Frigia,
parte della Misia adiacente
alla Frigia, in aggiunta Lidia, Caria e Ionia.
Il Ponto fu quindi aggregato
alla Bitinia, venendo così a
formare un'unica provincia di Ponto
e Bitinia. A ciò
si aggiungeva un nuovo sistema
di "clientele" che
comprendevano dall'Armenia di
Tigrane II, al Bosforo di
Farnace, alla Cappadocia, Commagene, Galazia, Paflagonia,
fino alla Colchide.

RIVOLTA
DI SPARTACO (73-71 a.C.) - La
situazione politica si
caratterizzava da una costante
instabilità, favorita dai
continui contrasti tra la
fazione dei populares e
quella degli optimates:
dopo la guerra
civile tra l'homo
novus Mario e
l'aristocratico Silla e la
successiva dittatura
sillana, si era
consolidato il predominio
della fazione aristocratica,
divenuta sempre più la
padrona incontrastata del senato e
della politica romana. Da
questa situazione di conflitto
si sviluppò nell'80
a.C. la rivolta
del popolare Quinto
Sertorio: egli radunò
attorno a sé i seguaci
mariani sfuggiti alle proscrizioni di
Silla e si rifugiò in Hispania,
dove ottenne l'alleanza dei Lusitani,
mai realmente sottomessi
all'autorità di Roma. Contro
lo Stato ribelle organizzato
da Sertorio grazie al continuo
afflusso di "perseguitati
politici" da Roma fu
inviato, nel 76
a.C., Gneo
Pompeo, che poté avere
la meglio solo quando la
confederazione guidata da
Sertorio si sfaldò, nel 72
a.C. Contemporaneamente,
i Romani erano impegnati a
Oriente nella terza
guerra contro Mitridate
VI del Ponto, condotta
dal generale Lucio
Licinio Lucullo: il
duplice impegno militare
riduceva di fatto la presenza
di truppe in Italia, rendendo
l'esercito inadeguato e
permettendo l'iniziale
successo della rivolta guidata
da Spartaco.
Altro
stimolo alla rivolta da parte
degli schiavi (rivolta
peraltro generale più che
regionale, al contrario della prima e
della seconda
guerra servile) fu
certamente il successo e
l'inquietudine sociale dei popoli
italici (che, in
precedenza, erano sempre stati
considerati solo federati), i
quali erano riusciti ad
ottenere, a prezzo di una
lunga e sanguinosa "guerra
interna" durata
ben tre anni (91-88
a.C.), un'estensione
dei diritti di cittadinanza.
L'agricoltura su
vasta scala nella penisola
italiana dipendeva, inoltre,
dallo sfruttamento degli schiavi nelle
grandi proprietà terriere (latifundia).
Le brutali condizioni in cui
gli schiavi venivano tenuti fu
spesso causa di feroci e
pericolose rivolte, che già
nei decenni precedenti alla
rivolta di Spartaco avevano
causato diversi problemi ai
Romani, soprattutto in Sicilia
(guerre
servili).
Spartaco era
uno schiavo della Tracia, e
venne addestrato come gladiatore.
Nel 73
a.C., assieme ad alcuni
compagni, si ribellò a Capua e
fuggì verso il Vesuvio. Il
numero di ribelli crebbe
rapidamente fino a 70.000,
composti principalmente di
schiavi traci, galli e
germanici.
Inizialmente,
Spartaco e il suo secondo in
comando Crixus riuscirono a
sconfiggere diverse legioni
inviate contro di loro. Una
volta che venne stabilito un
comando unificato sotto Marco
Licinio Crasso, che
aveva sei legioni, la
ribellione venne schiacciata
nel 71
a.C. Circa
diecimila schiavi fuggirono
dal campo di battaglia. Gli
schiavi in fuga vennero
intercettati da Pompeo,
aiutato dai pirati che,
inizialmente, avevano promesso
loro di trasportarli verso la
Sicilia salvo poi tradirli,
presumibilmente in base ad un
accordo con Roma, che stava
ritornando dalla Spagna,
e 6.000 vennero crocifissi
lungo la Via
Appia, da Capua a Roma.
Pompeo
e Crasso seppero cogliere
appieno i frutti politici
della loro vittoria sui
ribelli; entrambi tornarono a Roma con
le loro legioni, rifiutandosi
di scioglierle e accampandosi
appena fuori dalle mura della
città.
I
due generali si candidarono al
consolato per l'anno 70
a.C., anche se Pompeo
non era eleggibile a causa
della sua giovane età e del
fatto che non aveva ancora
servito come pretore o questore,
come richiedeva, invece, il cursus
honorum. Cionondimeno,
entrambi furono eletti, anche
a causa della minaccia
implicita rappresentata dalle
legioni in armi accampate
fuori dalla città.
Gli
effetti della terza guerra
servile sull'atteggiamento dei
Romani verso la schiavitù e
sulle relative istituzioni
sono più difficili da
determinare. Certamente la
rivolta aveva scosso il popolo
romano, che «a causa della
grande paura sembrò iniziare
a trattare i propri schiavi
meno duramente di prima». I
ricchi possessori di latifundia iniziarono
a ridurre il numero di schiavi
impiegati nell'agricoltura,
scegliendo di impiegare come mezzadri alcuni
degli ex-piccoli proprietari
terrieri spossessati. Più
tardi, terminate la conquista
della Gallia ad
opera di Gaio
Giulio Cesare nel 52
a.C. e le altre
grandi conquiste territoriali
operate dai Romani fino al
periodo del regno di Traiano (98-117),
si interruppero le guerre di
conquista contro nemici
esterni, e con esse cessò
l'arrivo in massa di schiavi
catturati come prigionieri. Si
incrementò, al contrario,
l'impiego di lavoratori liberi
in campo agricolo.
Anche
la condizione legale e i
diritti degli schiavi romani
iniziarono a mutare. Più
tardi, durante il regno
dell'imperatore Claudio
(41-54), fu promulgata una
costituzione che considerava
omicidio e puniva l'assassinio
di uno schiavo anziano o
ammalato, e che dava la libertà
agli schiavi abbandonati dai
loro padroni. Durante il
regno di Antonino
Pio (138-161), i
diritti degli schiavi furono
ulteriormente allargati, e i
padroni furono ritenuti
direttamente responsabili
dell'uccisione dei loro
schiavi, mentre gli schiavi
che dimostravano di essere
stati maltrattati potevano
forzare legalmente la propria
vendita; fu contemporaneamente
istituita un'autorità
teoricamente indipendente cui
gli schiavi si potevano
appellare. Sebbene questi
cambiamenti legali abbiano
avuto luogo molto tempo dopo
la rivolta di Spartaco per
poterne essere considerati le
dirette conseguenze, sono
nondimeno la traduzione in
legge dei cambiamenti
dell'atteggiamento dei Romani
nei confronti degli schiavi
evolutosi per decenni.
LA
CONGIURA DI CATILINA (63 a.C.)
- Nel 63
a.C., dopo essergli
stato più volte vietato di
diventare console, Lucio
Sergio Catilina decise
di ordire una congiura per
rovesciare la Repubblica. Ma
il console in carica, Marco
Tullio Cicerone riuscì
a sventare la congiura e a
ripristinare (anche se per
poco tempo) l'ordine a Roma. Catilina
contava soprattutto sulla
plebe, a cui prometteva
radicali riforme, e sugli
altri nobili decaduti, ai
quali prospettava un
vantaggioso sovvertimento
dell'ordine costituito, che lo
avrebbe probabilmente portato
ad assumere un potere
monarchico o quasi. Venuto
a conoscenza del pericolo che
lo stato correva grazie alla
soffiata di Fulvia, amante del
congiurato Quinto Curio, Cicerone
fece promulgare dal senato un senatus
consultum ultimum de re
publica defendenda, cioè
un provvedimento con cui si
attribuivano, come era
previsto in situazioni di
particolare gravità, poteri
speciali ai consoli.
Sfuggito poi ad un
attentato da parte dei
congiurati, Cicerone
convocò il senato nel tempio
di Giove Statore, dove
pronunciò una violenta accusa
a Catilina, con il discorso
noto come Prima
Catilinaria. Catilina,
visti i suoi piani svelati, fu
costretto a lasciare Roma per
ritirarsi in Etruria presso il
suo sostenitore Gaio Manlio,
lasciando la guida della
congiura ad alcuni uomini di
fiducia, Lentulo
Sura e Cetego.
Grazie
alla collaborazione con una
delegazione di ambasciatori
inviati a Roma dai Galli Allobrogi,
Cicerone poté però
trascinare anche Lentulo e
Cetego davanti al senato: gli
ambasciatori, incontratisi con
i congiurati, che avevano dato
loro documenti scritti in cui
promettevano grandi benefici
se avessero appoggiato
Catilina, furono arrestati in
modo del tutto fittizio, e i
documenti caddero nelle mani
di Cicerone. Questi portò
Cetego, Lentulo e gli altri
davanti al senato, ma nel
decidere quale pena dovesse
essere applicata, si scatenò
un acceso dibattito: dopo che
molti avevano sostenuto la
pena capitale, Gaio
Giulio Cesare propose
di punire i congiurati con il
confino e la confisca dei
beni. Il discorso di Cesare
provocò scalpore, ed avrebbe
probabilmente convinto i
senatori se Marco
Porcio Catone Uticense non
avesse pronunciato un
altrettanto acceso discorso in
favore della pena di morte. I
congiurati furono quindi
giustiziati, e Cicerone
annunziò la loro morte al
popolo con la formula: «Vixerunt»
/ «Vissero»
Catilina
fu poi sconfitto, nel gennaio
62, in battaglia assieme al
suo esercito.
Cicerone,
che non smise mai di vantare
il proprio ruolo determinante
per la salvezza dello stato
(si ricordi il famigerato
verso di Cicerone sul suo
consolato: "Cedant arma
togae", trad: che le
armi lascino il posto alla
toga del magistrato), grazie
al ruolo svolto nel reprimere
la congiura, ottenne un
prestigio incredibile, che gli
valse addirittura
l'appellativo di pater
patriae. Nonostante ciò, la
scelta di autorizzare la
condanna a morte dei
congiurati senza concedere
loro la provocatio
ad populum (ovvero
l'appello al popolo, che
poteva decretare la
commutazione della pena
capitale in una pena
detentiva) gli sarebbe costata
cara soltanto pochi anni dopo.
Fine
della Repubblica (66-27 a.C.)
Alla
fine, il mondo Romano divenne
troppo grande e complicato per
le strutture della Repubblica;
le sue contraddizioni erano
amplificate dallo scontro tra
le due fazioni che si
contendevano il potere in
senato; quella dei Populares
guidata da Giulio Cesare e
quella degli Optimates, che
troverà il suo campione in
Pompeo.
Lo
scontro, sempre latente, si
mantenne sempre entro i limiti
delle tradizionali forme di
governo del potere romano,
fino al 49 a.C., quando il
senato intimò a Cesare di
rimettere il suo comando delle
legioni che aveva condotto
alla conquista delle Gallie, e
di tornare a Roma da privato
cittadino. Il 10 gennaio
abbandonando gli ultimi dubbi,
Cesare attraversò con le sue
truppe il Rubicone dando
inizio alla guerra civile
contro la fazione opposta.
GUERRA
CIVILE ROMANA - La
Guerra civile romana del 49 a.C.,
nota anche come Guerra civile
di Cesare, è uno degli ultimi
conflitti all'interno della
Repubblica Romana. Essa
consistette in una serie di
scontri politici e militari
fra Giulio Cesare, i suoi
sostenitori politici, e le sue
legioni, contro la fazione
tradizionalista e
conservatorista nel Senato
Romano, chiamati anche
Optimates, spalleggiati dalle
legioni di Pompeo.
Molti
storici concordano nel dire
che la guerra civile fu una
logica conseguenza di un lungo
processo di decadenza delle
istituzioni politiche di Roma,
iniziata con la carriera
disastrosa di Tiberio Gracco,
e continuata con la riforma
delle legioni di Gaio Mario,
la sanguinaria dittatura di
Lucio Cornelio Silla, ed
infine nella svolta del Primo
Triumvirato. Che l'analisi sia
o meno corretta, questi eventi
ruppero le fondamenta della
Repubblica, è chiaro che
Cesare sfruttò l'opportunità
offerta dalla decadenza delle
istituzioni. Dopo una lunga
lotta militare e politica fra
il 49 e il 45 a.C., combattuta
in Italia, Grecia, Egitto,
Africa, e Spagna, Cesare
sconfisse nella Battaglia di
Munda l'ultima fazione
tradizionalista del senato.
Questa
guerra civile aprì la strada
alla fine della Roma
repubblicana, a cui il colpo
di grazia sarà dato dalla
guerra civile tra Ottaviano e
Marco Antonio (terminata con
la battaglia di Azio del 31
a.C.). Gli effetti della
guerra civile di Cesare
portarono profondi cambiamenti
nelle tradizioni politiche
della repubblica che da questo
punto in poi non furono più
recuperati.
Il
primo Triumvirato, un patto
siglato fra Giulio Cesare,
Crasso, e Pompeo, divenne
attivo nel 59 a.C. quando
Cesare fu eletto Console. Il
programma di riforma del
triumvirato fu attuato e
Cesare fu nominato governatore
dell'Illiria e della Gallia.
Finito il primo triumvirato,
il senato sostenne Pompeo, che
nel 52 a.C. divenne unico
console. Nel frattempo, Cesare
era diventato un eroe militare
ed anche un eroe per il
popolo.
I
poteri proconsolari di Caio
Giulio Cesare avrebbero dovuto
finire il 31 dicembre 50 a.C.,
dopo la proroga di cinque anni
che gli era stata accordata al
convegno di Lucca. Ma nel
marzo del 51 a.C., Cesare
aveva inviato una lettera al
Senato con la richiesta di un
ulteriore prolungamento del
suo Imperium. In questo
modo, questo sarebbe scaduto
nel 49 a.C.. In questo modo
non ci sarebbe stato nessun
intervallo tra la fine del
proconsolato e l'inizio del
suo secondo consolato (il 1
gennaio 48 a.C.).
Il
Senato sapeva che sarebbe
voluto diventare console
quando il suo mandato in
Gallia si sarebbe concluso e
temendo ciò gli fu chiesto di
sciogliere il suo esercito.
Nel dicembre del 50 a.C.,
Cesare scrisse al Senato
dicendo che accettava di
sciogliere l'esercito se anche
Pompeo avesse fatto
altrettanto. La lettera irritò
gli optimates che non
potevano contestare la logica
legale della richiesta. Il
Senato intimò ancora una
volta a Cesare di congedare il
suo esercito per evitare di
essere dichiarato nemico
del popolo.
Due
tribuni fedeli a Cesare, Marco
Antonio e Gaio Cassio Longino
posero il proprio veto alla
proposta di dichiarare Cesare
nemico del popolo ma furono
velocemente espulsi dal Senato
e andarono a Ravenna da Cesare
che radunò l'esercito
chiedendo alle legioni
l'appoggio per combattere
contro il senato.
Nel
50 a.C., il Senato,
appoggiandosi alla forza delle
legioni di Pompeo e dando a
queste legittimità politica,
ordinò a Cesare di rientrare
a Roma e congedare il proprio
esercito perché il suo
mandato come Proconsole era
terminato. Inoltre, il Senato
gli proibì di avere un
secondo mandato come Console in
absentia (fuori da Roma).
Cesare sapeva che se fosse
rientrato a Roma senza godere
dell'immunità come Console e
senza essere spalleggiato dal
suo esercito, sarebbe stato
perseguitato ed emarginato
politicamente. Pompeo accusò
Cesare di insubordinazione e
tradimento. La situazione
precipitò e alla fine il
senato, su proposta di Pompeo,
che si era ormai schierato
contro il suo vecchio alleato,
proclamò che lo stato era in
pericolo, affidando la
Repubblica ai consoli e ai
proconsoli, in pratica la
metteva nelle mani di Pompeo.
Il
10 gennaio del 49 a.C.,
Cesare, forse pronunciando
davvero la famosa frase Alea
iacta est attraversa il
Rubicone (il confine
dell'Italia) con solo una
legione dando inizio alla
Guerra civile. Gli storici non
concordano su ciò che Cesare
disse nella traversata del
Rubicone; le due teorie più
diffuse sono "Alea iacta
est" ("Il dado è
tratto"), e "si
getti il dado!" ma
Svetonio riporta "Iacta
alea est".
Cesare
avanzò fino ad Ascoli Piceno
dove attrasse le coorti di
Publio Cornelio Lentulo
Spintere; occupò Etruria,
Umbria e i territori dei Marsi
e quello dei Peligni e si
spostò ad assediare Corfinio,
città difesa da Lucio
Vibullio Rufo che era riuscito
a raccogliere tredici coorti e
da Lucio Domizio Enobarbo che
comandava altre venti coorti.
Domizio chiese l'aiuto di
Pompeo fermo a Lucera. Pompeo
però compì l'errore di non
intervenire, anzi, di
spostarsi a Brindisi. Nel
frattempo a Cesare arrivarono
ventidue coorti dell'Ottava
Legione e trecento cavalieri
inviati dal re del Norico.
Domizio tentò la fuga ma
venne catturato assieme ad
altri comandanti di Pompeo.
Cesare, prese con sé gli
uomini e, mostrando clemenza,
lasciò andare i capi. A soli
sette giorni dal suo arrivo a
Corfinio era già in Puglia,
aveva raccolto sei legioni,
tre di veterani e tre
completate durante la marcia.
Cesare era ormai è a contatto
con Pompeo e tentò di
chiudere la flotta senatoriale
nel porto di Brindisi.
Presi
dal panico, nonostante
avessero la possibilità di
gestire discrete forze armate,
Pompeo e buona parte dei
senatori si rifugiarono oltre
l'Adriatico, a Durazzo.
Cesare, fermato dalla mancanza
di navi, inviò parte delle
sue forze in Sardegna e in
Sicilia dove le popolazioni
insorsero contro il Senato e
accolsero i cesariani. Cesare
stesso rientrò a Roma, convocò
il Senato (i senatori rimasti
ma non per questo tutti a lui
favorevoli).
Gli
Optimates, tra cui
Metello Scipione e Catone il
giovane, fuggirono a Capua.
Lucio Domizio Enobarbo, che
era stato rilasciato da Cesare
a Corfinio si spostò a
Marsiglia. L'antica colonia
focese, da secoli alleata con
Roma ma non ancora compresa
nell' imperium romano
aveva ricevuto grandi benefici
sia da Pompeo che da Cesare,
sotto la spinta politica di
Domizio si schierò con
Pompeo.
Non
essendo riuscito a bloccare la
fuga del Senato, Cesare si
spostò in Provenza diretto
verso la Spagna dove altre
truppe pompeiane si stavano
radunando ma che Cesare sapeva
di poter affrontare in
condizioni di parità
operativa.

Sdegnato
per l'atteggiamento di
Marsiglia Cesare ne decise
l'assedio, ordinò la
costruzione di trenta navi ad
Arelate, nell'interno, e lasciò
tre legioni al comando di
Decimo Bruto e Gaio Trebonio
(che vedremo poi entrambi
colpire, alle Idi di Marzo)
per portare avanti un assedio
difficile perché Marsiglia
era protetta dal mare su tre
lati e il quarto era difeso da
solide mura. In trenta giorni
le navi furono armate e il
porto di Marsiglia venne
chiuso ai traffici. Cesare
lasciò i legati e si diresse
in Spagna preceduto da Gaio
Fabio che con le sue truppe
doveva aprire i passi dei
Pirenei.
La
Spagna era governata da tre
legati di Pompeo: Lucio
Afranio, Marco Petreio il
vincitore di Catilina e Marco
Terenzio Varrone Reatino.
Costoro potevano contare
complessivamente su sette
legioni, grandi risorse
economiche e sul carisma di
Pompeo che in quelle province
aveva ben operato e le aveva
pacificate dopo la rivolta di
Sertorio.
Cesare
stesso nel De bello civili
narra tutto il susseguirsi dei
scontri, inseguimenti, piccoli
assedi ai campi avversari,
astuzie e debolezze dei vari
comandanti, la campagna di
Lerida, il tentativo di
spostamento dei pompeiani
verso Tarragona, il blocco di
Cesare, il tentativo di
ritorno a Ilerda, la resa di
Afranio e Petreio. Cesare
consentì addirittura ai
pompeiani, nel nome della
comune cittadinanza romana,
scegliere se arruolarsi fra le
sue file oppure stabilirsi in
Spagna come civili o, infine,
di essere congedati una volta
ritornati al fiume Varo al
confine fra la Provenza e
l'Italia.
Ritornando
a Roma Cesare portò
vittoriosamente a termine
l'assedio di Marsiglia. A
questo punto tutto l'Occidente
era ora sotto il suo
controllo. Solo in Africa le
sue truppe, guidate da
Scribonio Curione, furono
rovinosamente sconfitte da re
Giuba I di Numidia, alleato di
Pompeo, e di Publio Azio Varo.
Ciò privò a Roma di
un'importante fonte di
approvvigionamento di grano.
Il danno fu però mitigato con
l'occupazione della Sicilia e
della Sardegna.
Rientrato
a Roma, Cesare resse la
dittatura per 11 giorni ai
primi di dicembre, abbastanza
per farsi eleggere console e
iniziare le riforme che aveva
in programma occupandosi dei
problemi di chi era debitore,
della situazione elettorale
creata dalla legge di Pompeo.
appena poté partì per per la
Grecia all'inseguimento di
Pompeo.
Marco
Calpurnio Bibulo da Corcira
gestiva le flotte pompeiane
che controllano la costa
dell'Epiro ma Cesare, con
sette legioni, riuscì a
sbarcare a Paleste e da lì a
salire verso Orico. Pompeo che
era stanziato in Macedonia
all'efficace ricerca di
rinforzi, cercò di fermare
Cesare prima che potesse
arrivare ad Apollonia ma il
suo avverdsario lo precedette.
I due eserciti si incontrarono
sulle due sponde del fiume
Apso fra Apollonia e Durazzo.
Il
10 luglio del 48 a.C. si
scontrò con Pompeo a
Dyrrhachium, ma perse 1.000
veterani e fu costretto a
retrocedere e iniziare una
lunga ritirata verso sud, con
Pompeo al suo inseguimento. Un
primo scontrò avvenne nella
pianura di Petra, vicino a
Durazzo, dove Cesare rischiò
di essere sconfitto. Ma per
sua fortuna, Pompeo non impegnò
in battaglia il grosso delle
sue forze, che non giudicava
ancora pronte a scontarsi coi
veterani cesariani. Ciò
permise al conquistatore delle
Gallie di disimpegnarsi.
Ne
nacque una guerra di posizione
con la costruzione di
fortificazioni e trincee
durante la quale i due
contendenti cercarono di
circondarsi a vicenda. Marco
Antonio riuscì a lasciare le
coste
della Puglia e si unì a
Cesare con altri rinforzi.
Pompeo, più forte
militarmente ma in grande
difficoltà per la carenza di
rifornimenti di viveri e armi,
riuscì a forzare il blocco e
cercò di conquistare
nuovamente Apollonia. Ancora
una volta venne preceduto da
Cesare che però quasi subito
abbandonò la città Epirota
per dirigersi verso la
Tessaglia. Anche Cesare doveva
risolvere il problema dei
rifornimenti e voleva
ricongiungersi alle truppe che
gli sta portando Domizio.
Anziché puntare alla
riconquista dell'Italia, che
in questo momento era priva di
reali difese, Pompeo decise di
braccare Cesare in Tessaglia,
in pratica precedendolo perché
poteva utilizzare3 la Via
Egnatia mentre Cesare era
costretto ad arrampicarsi per
antichi sentieri del Pindo.
Nel
tragitto, Cesare espugnò
Gonfi e ricevette la resa di
Metropoli con le relative
forniture di vettovaglie e
finanziamenti. Il 29 luglio
del 48 a.C. Cesare arrivò
sulla piana di Farsalo. Due
giorni dopo vi giunse Pompeo
che aveva ricevuto anche le
truppe portategli da Scipione.
Pompeo tentava di stancare le
ridotte forze di Cesare e
contestualmente risparmiare le
forze senatorie con un'azione
di logoramento consistente in
una serie di finte e brevi
spostamenti. I nobili presenti
nell'entourage di Pompeo,
tanto sicuri della vittoria da
litigare per i futuri posti
eccellenti nella politica
dell'Urbe, gli forzarono la
mano e lo convinsero ad
affrontare Cesare in campo
aperto.
Era
il 9 agosto e i due eserciti
romani si scontrarono nella
decisiva Farsalo: le forze
pompeiane furono rovinosamente
sconfitte. I prigionieri
furono graziati dal vincitore.
Molti pompeiani ripararono in
Spagna e in Africa. Pompeo
tentò di raggiungere la
Provincia di Africa che giuba
aveva mantenuto a Pompeo e
dove si erano rifugiati molti optimates
fra cui Catone. Pompeo
raggiunge prima a Larissa e
poi ad Anfipoli, poi Mitilene.
Antiochia gli chiude le porte.
Rodi non lo accoglie. Infine
il fuggiasco rifugiò a
Pelusio, in Egitto ma la sua
sorte era segnata. Potino il
massimo consigliere del re
Tolomeo lo fece uccidere da
Achilla scortato, per non far
destare dubbi, dal tribuno
Lucio Settimio (ex centurione
di Pompeo contro i pirati nel
67 a.C.).
Pompeo
morì il 28 settembre, alla
vigilia del suo
cinquantottesimo compleanno.
A
Roma, nel frattempo, Cesare
venne nominato dittatore, con
Marco Antonio come suo magister
equitum; Cesare si dimise
da questo dittatorato dopo
undici giorni e venne eletto
ad un secondo mandato come
console, assieme a Publio
Servilio Vatia Isaurico.
Cesare inseguì l'esercito di
Pompeo fino ad Alessandria,
dove si accamparono e vennero
coinvolti nella guerra civile
alessandrina tra Tolomeo e sua
sorella, moglie e regina
coregnante, Cleopatra VII.
Forse per via del ruolo di
Tolomeo nell'uccisione di
Pompeo, Cesare si schierò al
fianco di Cleopatra; si narra
che pianse alla vista della
testa di Pompeo, che gli venne
offerta in dono dal
ciambellano di Tolomeo. In
ogni caso, Cesare sconfisse le
armate di Tolomeo e installò
Cleopatra come regnante, con
la quale ebbe il suo unico
figlio biologico conosciuto,
Tolomeo XV Cesare, meglio noto
come "Caesarion".
Cesare e Cleopatra non si
sposarono mai, a causa della
legge romana che proibiva il
matrimonio con chi non era
cittadino di Roma.
Dopo
aver passato i primi mesi del
47 a.C. in Egitto, Cesare si
recò in Siria e quindi nel
Ponto per trattare con Farnace
II, un re alleato di Pompeo
che si era avvantaggiato del
fatto che i romani fossero
impegnati nella guerra civile
per opporsi a Deiotaro
(amichevole nei confronti di
Roma) e nominarsi regnante
della Colchide e dell'Armenia
Inferiore. A Nicopoli egli
sconfisse la scarna resistenza
romana che poté essere
raccolta dal luogotenente di
Cesare, Domizio Calvino.
Farnace prese anche la città
di Amisus, alleata di Roma,
rese eunuchi tutti i ragazzi e
vendette gli abitanti ai
commercianti di schiavi. Dopo
questo sfoggio di forza contro
i romani, Farnace si ritirò
per sopprimere una rivolta
nelle terre appena
conquistate.
L'avvicinarsi
estremamente rapido di Cesare
in persona costrinse Farnace a
volgere la sua attenzione ai
romani. Inizialmente,
riconoscendo il pericolo, fece
offerte di sottomissione, con
il solo scopo di guadagnare
tempo sperando che Cesare
fosse presto costretto a
impegnarsi in altre battaglie.
Per sua sfortuna la rapidità
di Cesare lo costrinse ad
accettare lo scontro in tempi
brevi. Nella battaglia che si
svolse nei pressi di Zela
(l'odierna Zile in Turchia),
Farnace venne sbaragliato con
solo un piccolo distaccamento
di cavalleria. La vittoria
romana fu così fulminea e
completa che lo stesso Cesare,
in una lettera ad un amico a
Roma, la descrisse con la
famosa frase "Veni, vidi,
vici" - che potrebbe
essere stata l'etichetta
mostrata sulle spoglie sfilate
nel suo trionfo pontico.
Farnace
fuggì verso il Bosforo, dove
riuscì ad assemblare una
piccola forza di truppe scite
e sarmate, con le quali fu in
grado di prendere il controllo
di alcune città.
Ciononostante un suo ex
governatore, Asandar, attaccò
le sue truppe e lo uccise. Lo
storico Appiano dichiara che
morì in battaglia; Cassio
Dione riferisce che venne
catturato e ucciso.
Cesare
tornò a Roma per fermare
l'ammutinamento di alcune
legioni. Mentre Cesare era
stato in Egitto installando
Cleopatra come regina, quattro
delle sue legioni veterane si
accamparono fuori Roma al
comando di Marcantonio. Le
legioni erano in attesa del
congedo e della paga
straordinaria che Cesare aveva
promesso prima della battaglia
di Farsalo. A causa della
lunga assenza di Cesare la
situazione si deteriorò
rapidamente. Marco Antonio
perse il controllo delle
truppe che iniziarono a
saccheggiare le proprietà a
sud della capitale. Diverse
delegazioni vennero inviate
per cercare di sedare
l'ammutinamento. Niente ebbe
effetto e gli ammutinati
continuarono a richiedere il
congedo e la paga. Dopo
diversi mesi, Cesare giunse
finalmente per rivolgersi alle
truppe di persona. Sapeva di
aver bisogno di loro per
occuparsi dei sostenitori di
Pompeo in Nordafrica, che
avevano radunato 14 legioni.
Cesare sapeva anche che non
aveva i fondi per pagarli,
sarebbe costato molto meno
indurli a arruolarsi
nuovamente per la campagna in
Africa.
Freddamente
Cesare chiese alle truppe ciò
che volevano da lui.
Vergognandosi di chiedere i
soldi, i soldati domandarono
il congedo. Cesare li chiamò
cittadini invece di soldati,
sottolineando che stava
trattando con dei civili,
quindi già congedati. Ma non
con l'honesta missio
che significava una pensione
più ricca. Ma li informò che
il pagamento sarebbe arrivato
quando sarebbe stato sconfitto
l'esercito pompeiano in
Africa. E che egli lo avrebbe
sconfitto con altri soldati.
Gli ammutinati rimasero
colpiti da questo
maltrattamento; dopo quindici
anni di fedeltà mai avrebbero
pensato che Cesare avrebbe
potuto fare a meno di loro.
Cesare fu pregato di tenerli
con sé e di portarli in
Africa. Benignamente Cesare
acconsentì. La sua conoscenza
della psicologia delle masse e
il suo carisma permisero a
Cesare di riunire quattro
legioni di veterani senza
spendere un solo sesterzio.
Nello
stesso anno Cesare raggiunse
l'Africa, dove i seguaci di
Pompeo erano fuggiti, per
sconfiggere la loro
opposizione guidata da Catone
il giovane. Cesare vinse
velocemente la prima
significativa battaglia,
Battaglia di Tapso nel 46
a.C., contro le forze guidate
da Catone (che si suicidò) e
da Cecilio Metello Scipione
(che morì in battaglia).
Nonostante
queste vittorie e queste morti
eccellenti la guerra continuò.
I figli di Pompeo Gneo Pompeo
e Sesto Pompeo, insieme a Tito
Labieno, precedentemente
propretore di Cesare e suo
secondo in comando durante la
guerra in Gallia, fuggirono in
Spagna. Cesare li inseguì e
sconfisse gli ultimi epigoni
dell'opposizione nella
battaglia di Munda nel marzo
del 45 a.C.. Durante quel
periodo, Cesare fu eletto per
il terzo e quarto mandato a
console; nel 46 a.C. con Marco
Emilio Lepido e nel 45 a.C.
(senza collega).
Idi
di Marzo: il caos dopo la
tragedia
Il
primo "imperatore"
di Roma non fu, in realtà, Augusto, ma Caio Giulio
Cesare. Nelle
lotte civili che agitarono
Roma nel corso della prima metà
del I secolo a.C, Cesare aveva
conquistato il proprio diritto
all'autocrazia (cioè un
governo con illimitati poteri)
combattendo un altro
autocrate, Pompeo. Il
conflitto scoppiò nel 49 a.C,
quando Cesare, contro gli
ordini del Senato che era
sotto il controllo del suo
rivale, non solo atraversò
fisicamente il Rubicone, ma
superò la linea di confine
che nessun servitore dello
Stato avrebbe mai dovuto
superare: la lealtà
all'ordine costituito.
Mettendo in atto una serie di
fulminanti campagne militari,
Cesare sconfisse Pompeo, e
contemporaneamente stravolse i
principi fondamentali della
vecchia Repubblica creando un
regime di dominio personale,
che raggiunse l'apice con la
sua designazione a dittatore a
vita il 14 febbraio del 44
a.C.
Per
governare lo Stato, Cesare creò una nuova classe
senatoriale formata da vecchi
amici, nemici riabilitati e
uomini nuovi, arrivati dal
resto d'Italia e dalle
province. L'arma si rivelò
tuttavia a doppio taglio,
allorché le sue intenzioni
assolutiste risultarono del
tutto evidenti. Caio Cassio,
Marco Giunio Bruto e Decimo
Giunio Bruto organizzarono una
congiura alla quale
parteciparono, secondo
Svetonio, più di sessanta
persone: i cosiddetti
Liberatori, appellativo che
costoro si diedero evocando i
tirannicidi dell'antica
Grecia. In pochi giorni,
scelsero la data e il luogo
per assassinare Cesare: il 15
marzo (Idi di Marzo), nella
Curia del teatro di Pompeo, al
Campo di Marte, dove si
svolgevano le sessioni del
Senato.
IL
MOMENTO DI MARCO ANTONIO - Cesare
aveva ricevuto alcuni segnali,
sotto forma di presagi e
profezie ma, non avendovi
prestato attenzione, il giorno
stabilito si presentò come di consueto alla Curia. Mentre si trovava
accanto alla statua di Pompeo,
Cimbro Tillio lo prese per la
toga e Senilio Casca gli
assestò il primo colpo.
Cesare si trascinò sotto la
statua di Pompeo ma venne
raggiunto da 23 pugnalate che
ne causarono la morte. Gli
assassini fuggirono e il
cadavere di Cesare rimase
abbandonato a terra finché
non sopraggiunsero tre schiavi
che con una lettiga lo
trasportarono a casa. Roma e i
suoi estesi domini rimanevano
senza una guida, in
un'inquietante situazione di
assenza di potere.
Per
un certo tempo, il popolo
romano trattenne il respiro,
prevedendo la reazione dei partigiani di Cesare.
Tuttavia, il console Marco
Antonio, suo cugino di secondo
grado e luogotenente, evitò
di dar subito sfogo alla
propria ira, cosa del tutto
inusuale per lui, e riuscì a
ritardare temporaneamente la
vendetta, placando gli animi
di altri comandanti seguaci
ili Cesare, come Lepido e
Balbo. In un incontro con i
Liberatori, si decise pragmaticamente
di accettare le ultime
disposizioni del dittatore
(dalle quali tutti ricevevano
benefici come magistrature o
governi di province),
dichiarare valido il suo
testamento (nel quale nominava
erede e figlio adottivo il
pronipote Ottaviano) e di
concedergli un funerale
pubblico. Durante le esequie,
Antonio pronunciò il famoso elogio funebre
dell'estinto e ottenne il
sostegno della plebe
leggendone il testamento, i
cui termini erano estremamente
generosi nei confronti del
popolo romano.
I
Liberatori avevano sperato che
il proprio gesto delittuoso
avrebbe permesso di
ripristinare un governo
repubblicano, quindi di
tornare alla situazione
antecedente alla guerra civile
tra Cesare e Pompeo. Il
Senato, tuttavia, era stato
epurato durante la dittatura
di Cesare, e Cicerone, che ne
era l'unica voce autorevole,
dopo essersi appellato alla
concordia il 17 marzo, tacque
inspiegabilmente per i sei
mesi successivi. Constatando
la mancanza di sostenitori sia
nel popolo sia nel Senato, e
di fronte alle minacce da
parte della fazione cesariana, i Liberatori
abbandonarono Roma,
commettendo lo stesso errore
fatale che a Pompeo cinque
anni prima era costato la
sconfitta con Cesare. Per
alcune settimane, essi si
stabilirono nelle vicinanze
della città, senza osare
dirigersi da nessun'altra
parte.
In
compenso, la fortuna sembrava
arridere a Marco Antonio.
Nella sua persona erano
concentrate prerogative
fondamentali: la parentela con
il dittatore (era infatti
figlio di Giulia, cugina
carnale di Cesare), il potere
legittimo, in quanto console,
e il potere economico, giacché
gestiva il patrimonio di
Cesare, affidatogli dalla sua
vedova Calpurnia. Inoltre,
poteva contare sull'appoggio
del popolo, che era ancora in
preda all'emozione, e sul
sostegno militare degli altri
comandanti cesariani, che
guidavano le truppe
acquartierate in Gallia,
a Roma e nel resto della
penisola.
Antonio
riuscì
pertanto a imporsi, in quelle
prime settimane dopo la
scomparsa di Cesare, come
nuovo capo del partito
cesariano. Si assicurò
rapidamente un esercito
personale, con le sei legioni
di Macedonia che gli vennero
assegnate in qualità di
proconsole (governatore) per
l'anno successivo. Ma era
ancora troppo poco: in giugno
propose a Decimo Bruto di
scambiare la provincia della
Macedonia con la Gallia
Cisalpina (l'attuale Italia
settentrionale) e con la
Gallia Comata (la Francia,
esclusa la Provenza),
recentemente conquistata da
Cesare. Lo scambio metteva
nelle sue mani una terra ricca
di risorse e di veterani, con
i quali formare un nutrito
esercito in breve tempo. Ciò
significava in sostanza avere
in mano le chiavi dell'Italia.
Entra
in scena Ottaviano - Fu a
questo punto che in Italia
fece la sua comparsa Caio
Ottaviano, il pronipote di
Giulio Cesare (Ottaviano era
figlio di Azia, a sua volta
figlia della sorella di
Cesare, Giulia minore). Il
dittatore lo aveva adottato e
Ottaviano ora veniva a
reclamare la sua eredità. Sebbene Antonio si
rifiutasse di consegnargli il
patrimonio del padre adottivo,
Ottaviano, con le proprie
risorse, mise in pratica le
disposizioni testamentarie del
dittatore a favore dei
veterani e del popolo romano,
guadagnandosi l'appoggio di
costoro, oltre a quello dei
cesariani scontenti della
gestione politica di Antonio.
Fino al mese di maggio,
Ottaviano si trattenne nei
pressi della capitale,
incontrandosi con membri
importanti della fazione
cesariana, come Balbo, Filippo,
o i futuri consoli Irzio e
Pansa. Compì
anche una visita di cortesia a
Cicerone, che viveva a Cuma, e
che ingannò con le sua
adulazioni.
Nelle
prime settimane dell'estate
del 44 a.C., a Roma si viveva
in un'atmosfera rarefatta. Da
un lato, Antonio imponeva al
Senato di votare mozioni in
favore dei suoi interessi;
dall'altro, i Liberatori non
sapevano se fermarsi in Italia
o partire per andare a
svolgere i prestigiosi
incarichi concessi loro da
Antonio nelle province; nel
frattempo, estraneo a questa
tensione tra Antonio e gli
assassini di Cesare, Ottaviano
creava i presupposti per la
sua precoce carriera di
politico abile, celebrando o
disputando in prima persona
fino a tre Giochi in onore del
dittatore defunto. Inoltre,
egli trovava proseliti tra i
soldati di Cesare,
manipolandone i sentimenti di
dolore per la perdita del loro
comandante e la loro avidità
di possedere terreni,
incarichi e denaro. La sua
popolarità crebbe perciò a
dismisura. Con la plebe e
l'esercito a disposizione,
Ottaviano si dedicò a
convincere i cesariani più
moderati a passare dalla sua
parte, e i repubblicani
timorosi di Antonio a non
prendere posizione.
Di
fronte all'avanzare di
Ottaviano, Antonio si
riavvicinò
ai Liberatori e li convinse ad
accettare il governo delle
province lontane, Creta e
Cirene, verso le quali
partirono alla fine di agosto.
Fu a questo punto che
Cicerone, tornato a Roma,
decise di pronunciare contro
Antonio, suo antico nemico, la
prima delle sue Filippiche,
ancora, tuttavia, con un tono
moderato.
Di
fronte all'indignata risposta
del destinatario, Cicerone ne
scrisse una seconda, che
sembra non sia mai stata
letta, che conteneva un
attacco furibondo alla vita e
alle gesta di Antonio,
ricordandogli che la
Repubblica era in grado di
difendersi da sola ed
esortandolo a difenderla egli
stesso. Sembrava ancora
possibile un accordo, ma
l'iniziativa militare di
Antonio contro Decimo Bruto,
per impadronirsi della sua
provincia Cisalpina, avrebbe
cambiato completamente la
situazione.
ANTONIO,
NEMICO PUBBLICO - Di
fronte all'esitazione di
Decimo Bruto a restituirgli la
provincia della Gallia, Marco
Antonio marciò alla volta di Brindisi per raccogliere quattro
delle sue legioni di
Macedonia, con l'intenzione di
minacciare Bruto a nord. A
questo punto, Ottaviano attuò
il suo primo colpo di Stato.
Nel corso delle settimane
precedenti aveva percorso in
lungo e in largo la Campania
comprando, nel vero senso
della parola, veterani di
Cesare, offrendo loro il
doppio della paga annuale e
promettendo di retribuirli con
una cifra dieci volte
superiore. In tal modo, con
una legione reclutata come
esercito personale, il 10
novembre occupò
il Foro Romano con la scusa di
ristabilire l'ordine
pubblico.
Poiché
le legioni di Antonio
rappresentavano un pericolo,
anche quelle erano state
tentate dai favori di
Ottaviano, cosicché due su
quattro di esse erano passate
dalla sua parte, ed egli si
ritirò per sicurezza in
Etruria. Alla fine, Antonio
lasciò Roma gli ultimi giorni
di novembre e si diresse verso
nord con quanto rimaneva delle
sue truppe, riuscendo a porre
sotto
assedio Decimo Bruto a
Modena.
La
prima delle guerre civili
dell'era dopo-Cesare aveva
avuto inizio. Cicerone,
arbitro della situazione all'interno del
Senato, in un primo momento
non sapeva da che parte
schierarsi poi, l'avversione
per Antonio lo indusse a
rivolgergli, in un nuovo
discorso delle Filippiche,
violenti insulti dandogli
della
"volgare prostituta"
o dell'ubriacone. Decise
insomma di prestare
apertamente appoggio a
Ottaviano, ritenendolo il male
minore rispetto a Marco
Antonio.
Il
20 dicembre del 44 a.C, in
Senato, Cicerone definì
un criminale Antonio, che era
un console legittimo, e
magnificò come difensori
dell'ordine pubblico
Ottaviano, già autore di un
colpo di Stato, e Marco Bruto,
un governatore ribelle. Il
Senato, che all'epoca non
brillava per la presenza di
personalità coraggiose, seguì
Cicerone senza esitazioni. Alcuni
giorni dopo, Irzio e Pansa
furono eletti consoli e, dopo
un lungo dibattito, gli
eserciti illegali di Bruto e
Ottaviano ottennero il
riconoscimento dello Stato,
insieme con il benestare su
quanto stavano per
intraprendere.
In
seguito al fallimento di
un'ambasciata inviata ad
Antonio, il Senato, manipolato
da Cicerone, gli dichiarò guerra, e
contemporaneamente sigillò
un'alleanza con i Liberatori,
che erano riusciti a
convogliare tutte le legioni
dell'Oriente romano, dalla
Macedonia fino alla Siria.
Cicerone, che pur non avendo
partecipato alla morte di
Cesare, l'aveva desiderata, e
che pertanto era un Liberatore
che agiva nell'ombra, riuscì
a ottenere dal Senato la
nomina di Bruto come
proconsole di Macedonia,
Illiria e Acaia.
A
nulla servivano gli sforzi
diplomatici del Senato e di
personaggi come Lepido o
Munazio Planco, che trovavano
l'opposizione inflessibile di
Cicerone, il quale faceva del
suo repubblicanesimo una religione
e della sua inimicizia verso
Antonio una dottrina. Messa da
parte la penna, ora occorreva
usare la spada. I consoli
Irzio e Pansa partirono alla
volta di Modena in aiuto del
proconsole Bruto, assediato da
Antonio.
Nell'aprile
del 43 a.C., ebbero luogo, a
Forum Gallorum (presso
l'attuale Castelfranco Emilia)
e Mutina (Modena), due
battaglie che, pur non
risultando decisive,
rappresentarono una sconfitta
per Antonio, costretto a
ripiegare verso nord. Cicerone
riuscì a far dichiarare Marco
Antonio nemico pubblico, e ciò
significava che qualsiasi
cittadino romano aveva
l'obbligo di ucciderlo ovunque
si trovasse. Tuttavia, la
soddisfazione per la vittoria
ottenuta dalla fazione
senatoriale, si scontrò con
la dura realtà della morte
dei consoli, Irzio e Pansa,
nel combattimento.
Antonio
riuscì a riprendersi
rapidamente dalla doppia
sconfitta. Facendo mostra di
una grande velocità militare,
raggiunse verso la metà di
maggio la Gallia Narbonense
(Provenza-Linguadoca), dove si
incontrò con il generale Publio Ventidio e le sue
legioni. Anche Lepido, inviato
dal Senato, si trovava nella
zona, ma le legioni di
entrambi rifiutarono di
combattersi e alla fine Lepido
decise di schierarsi dalla
parte di Antonio. A poco a
poco, le file dei cesariani si
ricomponevano di fronte alla
coalizione dei repubblicani.

IL
PATTO DEI TRIUNVIRI - Ottaviano
aveva constatato con grande
malessere che gran parte del
merito della guerra contro
Antonio, dopo la morte dei due
consoli, era stato attribuito
a Decimo Bruto e non a lui. Ciò gli fece percepire
l'insicurezza della sua
posizione tra le tre fazioni
in gioco: quella di Antonio
(in fin dei conti suo
parente), quella di Cicerone e
della Repubblica, alleati
inaffidabili, e quella dei
Liberatori con le loro 17
legioni, nemici indiscutibili.
La sua preoccupazione
crebbe nel verificare che
anche Sesto Pompeo, figlio
minore del grande rivale di
Cesare, si alleava con
Cicerone e con la Repubblica,
ai danni di Antonio. Era
dunque chiaro che gli rimaneva
una sola via d'uscita: unirsi
al partito cesariano cercando
un accordo con quest'ultimo.
Il
primo passo della strategia di
Ottaviano fu quello di
appropriarsi della dignità
consolare, allora vacante.
Molti volevano ottenerla, e
tra loro lo stesso Cicerone,
ma Ottaviano riuscì a vincere
la sfida. Per prima cosa,
presentò la propria
candidatura mediante una
commissione di soldati e
centurioni; quando la proposta
fu respinta dal Senato, egli
marciò direttamente su Roma
al comando di otto legioni.
Entrò in città senza
spargimenti di sangue e il 19
agosto venne eletto console,
insieme con un
suo oscuro parente, Quinto
Pedio. Ottaviano non aveva
ancora compiuto ventanni. La
violazione della legalità repubblicana non poteva
essere più esplicita, giacché
l'età minima per accedere al
consolato era di quarantadue
anni.
La
prima iniziativa che prese il
nuovo console fu approvare una
legge per processare i
Liberatori e Sesto Pompeo. In
seguito, riabilitò Antonio,
Lepido e gli altri cesariani
nemici di Cicerone. Antonio
non ebbe esitazioni ad
accettare questa offerta di
alleanza. Volendo porre in
pratica i termini
dell'accordo, i due si
riunirono a novembre a Bologna
insieme con Lepido, patrizio e
antico esponente del partito
cesariano. In quella
circostanza, i tre
deliberarono di formare
un'associazione, o
triunvirato, composto da
sedicenti "triumviri
costituenti della
Repubblica", e con ciò
richiamandosi al triunvirato
sottoscritto da Pompeo, Cesare
e Crasso nel 60 a.C. Si
trattava, in realtà, di un
direttorio militare
illegittimo, della durata di
cinque anni, che doveva
servire a spartirsi l'Impero
occidentale. A Ottaviano
spettarono l'Africa e le
isole; a Lepido la Gallia
Narbonense e l'Hispania, ad
Antonio la Gallia Comata e
Cisalpina. Lepido, inoltre,
sarebbe rimasto a Roma a
governare l'Italia, territorio
comune.
Dopo
l'ingresso a Roma dei tre
triunviri, questa ripartizione
del potere venne ratificata
con una legge firmata con il
sangue: quella delle
cosiddette liste di
proscrizione, che provocò la
morte per assassinio di
centinaia di senatori e
cavalieri. Si creò pertanto
un vero e proprio clima di
terrore, che non aveva altra
giustificazione se non di
confiscare le proprietà e le
ricchezze dei senatori e degli
abbienti cittadini
assassinati, e che segnò la
fine della "Repubblica
libera". Secondo fonti
dell'epoca, in quelle
settimane morirono tra i 130 e
i 300 senatori, e tra i 2.000
e i 3.000 cavalieri. La
vittima più insigne fu Marco
Tullio Cicerone, raggiunto da
un sicario a Gaeta, nel Lazio,
mentre tentava di fuggire. La
sua testa e la sua mano destra
furono inviate a Roma, per
essere esposte nel Foro.
I
triunviri erano oramai
completamente padroni di un
Senato i cui rappresentanti
erano tutti dalla loro parte,
mentre le casse traboccavano
delle ricchezze confiscate ai
proscritti. Per compiere la
missione di vendicare la morte
di Cesare, decisero di
proclamare la sua divinità il
1° gennaio del 42 a.C., cosa
che permise a Ottaviano di
attribuirsi il titolo di Dvi
Filius. "Figlio di
Dio".
Successivamente,
i triunviri deliberarono di
lanciare un'offensiva contro
gli unici che ancora resistevano
al loro potere: Bruto e i
Liberatori. Riunirono dunque
18 legioni, per un totale di
più di 100.000 uomini. Mentre Lepido rimaneva a Roma
a governare un Senato ormai
tranquillo, Antonio e
Ottaviano si diressero verso
Brindisi e da lì, apertisi un
varco tra le navi dei
repubblicani e di Pompeo,
partirono alla volta di
Dyrrachium (Durazzo), sulla
costa dalmata, al comando del
loro esercito. Alla fine
dell'estate, Bruto e Cassio
giunsero in Macedonia, con 19
legioni e numerose truppe di
principi vassalli provenienti
da Oriente, con l'intenzione
di dare battaglia.
FILIPPI:
LA FINE DELLA REPUBBLICA - Il destino
della Repubblica si decise
nello stretto passo montano di
Filippi, in due battaglie che
ebbero luogo nell'ottobre e
nel novembre dell'anno 42 a.C.
Il primo scontro, uno dei più
sanguinosi nella storia di
Roma, finì pari, poiché
Bruto riuscì a occupare
l'accampamento di Ottaviano,
mentre Antonio s'impossessò
di quello di Cassio.
Quest'ultimo si suicidò in
maniera del tutto precipitosa,
lasciando di fatto i
Liberatori privi del comando
del generale più esperto di
cui disponevano. Il secondo
scontro ebbe luogo il 14
novembre e stavolta i
Repubblicani combatterono
tentando il tutto per tutto,
sotto il comando di Marco
Bruto. Nella battaglia perse
la vita il fior fiore dei
repubblicani, tra i quali lo
stesso Bruto, che si suicidò.
I sopravvissuti della fazione
di Bruto passarono dalla parte
di Antonio o fuggirono per
unirsi a Sesto Pompeo. I due
vincitori si spartirono i beni
degli sconfitti; in seguito
Ottaviano tornò in Italia a
pagare quanto promesso ai suoi
soldati, mentre Antonio si
trasferì in Oriente, a
saccheggiare le province per
acquisire ricchezze.
Il
triunvirato continuò a
esistere ma solo di nome,
giacché Lepido, che non aveva
né potere né seguaci, in
seguito a una nuova
ripartizione, fu privato delle
sue province, e gli venne
lasciata solo quella
dell'Africa, a titolo di
consolazione. Roma, che fino a
due anni prima era stata
governata da un solo Cesare,
era ora guidata da due; il suo
cugino di secondo grado,
Antonio, e il suo pronipote e
figlio adottivo Ottaviano.
Undici anni dopo, Ottaviano
sarebbe riuscito a concentrare
tutto il potere su di sé, in
seguito alla schiacciante
sconfitta subita da Antonio ad
Azio. Tuttavia, ciò che
Filippi aveva decretato era la
morte dell'antica Repubblica
romana, sostituita dal nuovo
regime imperiale fondato da
Ottaviano, il futuro Augusto.

Chiusa
la partita coi cesaricidi, il
triumvirato si incrinò:
Lepido fu estromesso dai due
colleghi, che lo accusarono di
aver tramato contro di loro
insieme a Sesto Pompeo, figlio
del defunto Pompeo Magno.
Antonio e Ottaviano si
spartirono di nuovo le
province e i poteri: dato che
era stato Antonio il vero flagello
dei cesaricidi, era lui in
questo momento a trovarsi in
una posizione di maggior forza
rispetto a Ottaviano, a cui fu
affidato l’ingrato compito
di trovare i fondi necessari
per pagare i circa 100.000
soldati che avevano combattuto
a Filippi e che ora dovevano
essere congedati. Le confische
territoriali fatte in Italia
nel 41 a.C. crearono ulteriori
inimicizie a Ottaviano, sulle
quali fecero leva Fulvia e
Lucio Antonio, rispettivamente
moglie e fratello del
triumviro, che ora si trovava
in Oriente.
Muovendosi
però in maniera troppo
frettolosa, i due offrirono a
Ottaviano il pretesto per
agire nella legalità. Lucio
Antonio ammassò infatti
truppe a Preneste e si recò
poi a Roma, promettendo che il
fratello avrebbe restaurato la
Repubblica. Il Senato gli
conferì l’imperium
per muovere contro Ottaviano,
che non fu però abbandonato
dalle sue truppe, che anzi si
strinsero compatte intorno al
loro condottiero. Alla fine,
Lucio Antonio fu assediato
nella città di Perugia e,
lasciato solo dal fratello
Marco, si arrese
nell’inverno 41-40 a.C..
Dopo
la fine della guerra di
Perugia, Ottaviano si vendicò
sterminando l’aristocrazia
della città etrusca. Fulvia
fu esiliata a Sicione (in
Grecia), dove morì di
malattia, mentre Lucio ebbe il
governatorato della Spagna. Il
figlio adottivo di Cesare
occupò poi tutta la Gallia,
impossessandosi in questo di
tutto l’Occidente romano.
Giunto in Italia nel 40, Marco
Antonio accettò le
giustificazioni addotte da
Ottaviano sul perché delle
sue azioni, e così i
triumviri giunsero a un nuovo
accordo e a una nuova
spartizione dei domini
(accordi di Brindisi): a
Ottaviano l’Occidente e ad
Antonio l’Oriente, mentre a
Lepido andò l’Africa.
Ottaviano a Antonio strinsero
anche un’alleanza
matrimoniale: Antonio, che era
rimasto vedovo di Fulvia, sposò
Ottavia, sorella del figlio
adottivo di Cesare.
Una
spina nel fianco dei triumviri
era Sesto Pompeo, figlio del
defunto Pompeo Magno, che,
rifugiatosi in Spagna con
quanto restava delle armate
del partito pompeiano, dopo il
cesaricidio era stato
perdonato dal Senato, che anzi
gli aveva affidato il comando
della flotta al tempo della
guerra di Modena. Con questa
forza navale, Sesto aveva però
occupato la Sicilia (42 a.C.),
raccogliendo intorno a sé
tutti i nemici dei triumviri.
Sesto aveva quindi dato vita a
un vero e proprio blocco
navale contro Roma, che si era
dunque trovata senza adeguati
rifornimenti granari (39
a.C.). Dopo un momentaneo
compromesso (che però nessuno
rispettò fino in fondo), tra
le due parti si riaccesero le
ostilità. Nel 38 a.C.
Ottaviano fu battuto in mare
da Sesto, riportando gravi
perdite umane. Ottaviano
richiamò allora dalla Gallia
il suo legato, Marco Vipsanio
Agrippa, e chiese anche aiuto
ad Antonio, che gli promise
120 navi in cambio di 20.000
soldati arruolati in Italia.
Dopo adeguati preparativi,
seguiti con grande scrupolo da
Agrippa, nel 36 a.C. Ottaviano
attaccò di nuovo Sesto
Pompeo, che venne sconfitto
nella battaglia di Nauloco.
Fuggito in Oriente, Sesto fu
catturato e giustiziato da un
ufficiale di Antonio. Dopo la
vittoria, Ottaviano dovette
far fronte alle richieste di
Lepido, che voleva per sé la
Sicilia. Ma abbandonato da
tutti i suoi soldati, Lepido
fu punito dal figlio adottivo
di Cesare con la privazione di
tutti i suoi poteri. Ottaviano
gli risparmiò però la vita e
gli lasciò la carica,
puramente onorifica, di pontifex
maximus (che egli aveva
ricevuto per volere di Antonio
dopo la morte di Cesare).
Dopodiché si riconciliò con
il Senato e fece una serie di
campagne militari nell’area
balcanica.
Negli
anni che erano seguiti alla
battaglia di Filippi,
l’interesse di Antonio si
era rivolto principalmente
all’Oriente, con l’intento
di portare avanti quella
campagna militare contro i
parti che Cesare aveva
progettato. Intanto, Antonio
era entrato in stretti
rapporti con la regina
egiziana Cleopatra, con la
quale ebbe una relazione. Nel
frattempo, tra il 40 e il 37
a.C., approfittando della
situazione caotica che Roma
stava vivendo, i parti avevano
occupato gran parte
dell’Asia Minore, della
Siria e della Palestina. Ben
presto però, a causa di
conflitti dinastici, il regno
dei parti entrò in crisi, e
così nel 36 a.C. Antonio
diede inizio alla spedizione
pianificata da Cesare.
Ma
dopo alcuni successi iniziali,
dovette ritirarsi. Tentò poi
una seconda spedizione nel 34
a.C., che però ebbe risultati
molto limitati. Nel frattempo,
Antonio aveva ripudiato
Ottavia, sorella di Ottaviano,
e aveva riallacciato la sua
relazione con Cleopatra. Fu ciò
a segnare la fine di Antonio:
nel 34 a.C., ad Alessandria
d'Egitto, Antonio proclamò
pubblicamente che Cesarione
(il figlio che Cleopatra aveva
avuto da Cesare) era il
legittimo erede di Cesare e
gli diede il titolo di re
dei re (Cleopatra regina
dei re). Madre e figlio
ebbero il potere su Egitto e
Cipro, mentre i tre figli che
Antonio aveva avuto da
Cleopatra avrebbe regnato su
diverse zone dell’Oriente.
Tutto
ciò scatenò l’indignazione
generale dei romani.
Cavalcando questa situazione,
Ottaviano riuscì a screditare
definitivamente Antonio,
ottenendo il consolato per
l’anno 31 e la dichiarazione
di guerra contro Cleopatra,
che intanto si era portata in
Grecia col suo esercito e con
Antonio. Contro quest’ultimo
Roma non prese provvedimenti
in maniera esplicita, ma ormai
egli era considerato un
mercenario al soldo della
regina straniera. Lo scontro
finale avvenne il 2 settembre
del 31 a.C. nella baia di
Azio. La battaglia di Azio finì
con la sconfitta e la fuga di
Cleopatra e Antonio in Egitto.
Ottaviano non poté inseguirli
subito, perché dovette domare
una rivolta dei suoi soldati.
Nel 30 a.C., però, si diresse
in Egitto, deciso a chiudere
la partita. Sia Antonio sia
Cleopatra si suicidarono per
non essere catturati.
Ottaviano
era ormai il signore
indiscusso di Roma. Tre anni
dopo, con l’assunzione del
titolo di princeps,
Ottaviano, il futuro Augusto,
avrebbe posto definitivamente
fine al regime repubblicano,
dando così inizio all’età
imperiale, che in questa prima
fase è conosciuta col nome di
Principato.
L
'
istituzione, a carattere
privato, del Primo
Triumvirato, rappresentò la
materializzazione dei
dissapori e delle divergenze
che i suoi membri nutrivano in
seno contro un antiquata e
inetta costituzione
repubblicana, non più atta ad
amministrare un territorio che
abbracciava un mosaico di
culture e civiltà così
variopinte, da non poter più
essere assimilate alle vigenti
catalogazioni stereotipate
ideate in un tempo quando Roma
esercitava la sua egemonia
esclusivamente sulla penisola
italiana, e che adesso
andavano rielaborate per
imbrigliare le forze
centrifughe che ogni provincia
promuoveva. I protagonisti
furono tre personaggi eminenti
della scena politica
romana,Cesare, Pompeo e
Crasso, quest
'
ultimo offuscato dall'
antagonismo tra i due più
potenti contendenti,
emarginazione costernante che
si risolse con una sterile
campagna militare indetta dal
triumviro ai danni dei Parti
dove nel 53 a.C. Crasso perì
incrinando il prestigio della
potenza romana oltre confine.
Ma era sul fronte gallico che
si decideva la sorte della
repubblica romana. Quando
Pompeo e il Senato capirono le
mire di Cesare, il
"Consul sine
collega" destituì il
futuro padre dell
'
Impero che però, in una
seduta di un sempre meno
importante triumvirato
tenutosi a Lucca, rivelando
una raffinata diplomazia e
abilità persuasiva, fece sì
che il mandato, in qualità di
proconsole della Gallia, gli
fosse reiterato per un altro
quinquennio così da
perseguire tutti i suoi
obiettivi e varcare il
Rubicone in aspettativa del
trionfo di Roma.
LA
MORTE A TRADIMENTO E
L'APOTEOSI POSTUMA

La
mattina delle Idi di marzo (15
del mese) il Senato romano
doveva riunirsi sotto i
portici (1) del teatro
di Pompeo. Giulio Cesare
giunse all'Assemblea alle 11
di mattina. Accolto dai
senatori, il dittatore a vita
si sedette in un seggio (2).
A quel punto, i congiurati lo
circondarono e, spingendolo
verso la statua di Pompeo (3),
gli assestarono in tutto 23
pugnalate. I senatori
abbandonarono il luogo
terrorizzati, mentre i
cospiratori e i loro
gladiatori si diressero verso
il Foro (4). Il
cadavere di Cesare (5)
rimase lì disteso fino a
sera, quando tre schiavi
vennero a raccoglierlo.

Cinque
giorni dopo l'omicidio del
dittatore, Marco Antonio
organizzò nel Foro (1)
il tradizionale omaggio, o
laudatio, al defunto. Il
cadavere d Cesare venne
esposto su un palco rialzato
coperto da drappi. I Romani,
commossi per la lettura del
testamento del dittatore, si
lasciarono trascinare dagli
elogi di Antonio (2),
che esclamò: "Per quanto
mi riguarda, oh Giove
protettore di Roma, oh voi
altri Dei! Io sì, sono
disposto a vendicare
Cesare". Poi sollevò la
toga di Cesare (3),
scoprendo le macchie di
sangue. La folla si slanciò
verso il palco (4) per
cremare il corpo del dittatore
su una pira improvvisata nel
Foro.