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Città del Vaticano - Italia
   
 
  
PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1980-1990
 

  

 

Età repubblicana
Tramonto della repubblica romana 146 - 27 a.C.)

Dopo avere costretto alla resa definitiva cartaginesi e macedoni, Roma decise di risolvere una volta per tutte anche la questione spagnola, che si trascinava da diversi decenni, ovvero da quando nel 197 a.C., dopo la Seconda guerra punica, i Romani avevano suddiviso il territorio in due province, la Spagna citeriore (Hispania Citerior) e la Spagna ulteriore (Hispania Ulterior), con capitali, rispettivamente, Tarragona e Cordova. Il malgoverno sfrenato e lo spietato sfruttamento provocarono una violenta rivolta che si estese anche alle popolazioni confinanti dei Lusitani e dei Celtiberi e che, dopo esiti alterni e battaglie cruente con costi enormi in uomini e denaro, venne infine risolta con l'uccisione del capo dei Lusitani Viriato (139 a.C.) e con la presa per fame della roccaforte dei Celtiberi, Numanzia, nel 133. a.C.

Circostanze assai strane portarono, invece, nel 133 a.C. all'annessione del regno di Pergamo, che fu poi nel 129 a.C. ridotto a provincia (i Romani la chiamarono provincia d'Asia). Il re Attalo III aveva lasciato in eredità il proprio regno a Roma, ma occorsero tre anni prima che i Romani potessero dominare direttamente quel territorio, dato che sotto la guida di un certo Aristonico era scoppiata una violenta insurrezione popolare, domata a fatica. Roma poteva ormai considerarsi la potenza egemone nel Mediterraneo.

Qualche anno più tardi, nel 121 a.C., vennero poste le basi anche per la futura espansione nella Gallia Transalpina, con la riduzione a provincia della Gallia Narbonense (l'attuale Provenza).

Con la sconfitta dei nemici contro cui combatteva da anni su entrambi i fronti, Roma era diventata padrona del Mediterraneo. Le nuove conquiste, tuttavia, portarono anche notevoli cambiamenti nella società romana: i contatti con la cultura ellenistica, temuta e osteggiata dallo stesso Catone, modificarono profondamente gli usi che fino ad allora si rifacevano al mos maiorum, trasformando radicalmente la società dell'Urbe.

LE RIFORME DEI GRACCHI (133-121 a.C.) - Il periodo che va dalle agitazioni gracchiane alla dominazione di Lucio Cornelio Silla, segnò l'inizio della crisi che, quasi un secolo dopo, portò la repubblica aristocratica al tracollo definitivo. Lo storico Ronald Syme ha chiamato il periodo di passaggio dalla Repubblica al principato augusteo "rivoluzione romana".

L'espansione così grande e repentina nel bacino del Mediterraneo aveva, infatti, costretto la Repubblica ad affrontare problemi enormi e di vario genere: le istituzioni romane erano fino ad allora concepite per amministrare un piccolo stato; adesso le province si stendevano dall'Iberia, all'Africa, alla Grecia, all'Asia Minore.

A partire dalla riforma agraria proposta dal tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco nel 133 a.C., le convulsioni politiche divennero sempre più gravi, producendo una serie di dittature, guerre civili e temporanee tregue armate nel corso del secolo successivo. Gli intenti di Tiberio erano sostanzialmente conservatori. Preoccupato dalla penuria di uomini che aveva notato in varie parti d'Italia e dalla povertà di molti e convinto che in queste condizioni sarebbe stato impossibile mantenere l'ordinamento sociale che era l'ossatura dell'esercito, egli si proponeva, mediante nuove distribuzioni di terre, stabilite da un collegio che le assegnava secondo un principio quantitativo, concedendo quelle in eccesso ai cittadini meno abbienti, di dar nuovo vigore al ceto dei piccoli proprietari agricoli, che si trovava in grave difficoltà a causa da una parte del "prelievo" dovuto alle continue guerre, dall'altra della pressione dei grandi proprietari, che estendevano i loro domini attraverso l'evizione dei coloni debitori o l'acquisto dei loro fondi. Le continue guerre in patria e all'estero, infatti, avevano da una parte costretto i piccoli proprietari terrieri ad abbandonare per lunghi anni i propri poderi per prestare servizio nelle legioni, dall'altro avevano finito per rifornire Roma (grazie ai saccheggi e alle conquiste) di una quantità enorme di merci a buon mercato e di schiavi, i quali venivano usualmente impiegati nelle aziende agricole dei patrizi romani, con ripercussioni tremende nel tessuto sociale romano, dato che la piccola proprietà terriera non era in grado di competere con i latifondi schiavistici (che producevano praticamente a costo zero). Tutte quelle famiglie che, a causa dei debiti, erano state costrette a lasciare le campagne, si rifugiarono a Roma, dove diedero vita al cosiddetto sottoproletariato urbano: una massa di persone che non avevano un lavoro, una casa e di che sfamarsi, con inevitabili e pericolose tensioni sociali.

L'aristocrazia senatoria, arroccandosi in una migliore difesa dei propri interessi particolari, ostacolò inizialmente Tiberio, corrompendo un altro tribuno della plebe, Ottavio, che tuttavia venne dichiarato decaduto dalla carica dallo stesso Tiberio, che lo accusò di aver agito contro gli interessi della plebe. Per superare l'opposizione del collega tribuno, attuata mediante il veto alle sue proposte di riforma, Tiberio, contrariamente agli usi tradizionali, si presentò nel 132 a.C. alle elezioni per essere rieletto al tribunato e poter completare le sue riforme. A questo punto, temendo un'ulteriore deriva in senso popolare del governo della Repubblica, durante le convulse fasi antecedenti le elezioni dei tribuni della plebe, una banda di senatori, guidati da Scipione Nasica, attaccò Tiberio al Campidoglio causandone la morte, assieme a trecento suoi seguaci.

Otto anni dopo, Gaio Sempronio Gracco, eletto tribuno della plebe dell'anno 123 a.C., riprese l'azione politica del fratello, spingendola su posizioni sempre più popolari ed anti-nobiliari, cercando di procurarsi il favore, oltre che dei proletari, anche dei "soci" italici (emarginati politicamente dalle conquiste) e della classe equestre. Come il fratello, sempre contro le consuetudini, anche Gaio si presentò l'anno successivo per concorrere all'elezione al tribunato, carica alla quale fu eletto, rendendosi promotore di una forte battaglia politica di opposizione alla classe senatoriale. Nel 121 a.C. non riuscì però a farsi eleggere per la terza volta al tribunato, e ad impedire così la politica di restaurazione dei privilegi senatoriali operata dalla nuova classe politica. Per opporsi a questo nuovo corso, Gaio non esitò ad operare come "agitatore politico" esternamente alle istituzioni pubbliche, cosa questa che alla fine gli valse la messa in accusa come nemico della repubblica. Abbandonato dai molti dei suoi sostenitori, si fece uccidere da un suo servo sul Gianicolo.  

GIUGURTA, I GERMANI E GAIO MARIO (112 – 100 a.C .) - Negli anni successivi la politica romana fu caratterizzata sempre più dal radicalizzarsi della lotta tra il partito degli ottimati e quello dei popolari. In questo contesto irruppe nella storia romana un Homo novus, cittadino romano proveniente però dalla provincia: Gaio Mario.

Mario, dopo essersi distinto per le sue capacità militari in Spagna, rientrò a Roma con l'intento di costruirsi una propria carriera politica, il cosiddetto Cursus honorum, che lo portasse al consolato. Riuscì ad ottenere le cariche di questoretribuno della plebe e pretore.  

Dopo aver condotto con successo una campagna militare nella Spagna Ulteriore, tornò a Roma, dove sposò Giulia, sorella di Gaio Giulio Cesare, padre di Gaio Giulio Cesare, il dittatore. Nel 109 a.C. partì per l'Africa come legato di Quinto Cecilio Metello, a cui il Senato aveva affidato la guerra contro Giugurta, non giudicando soddisfacente l'andamento di questa.

Nel 108 Mario tornò a Roma per concorrere al consolato, al quale fu eletto nel 107 a.C. anche grazie alle accuse di incapacità militare che rivolse ai patrizi, Metello in primis. Come console riuscì a farsi affidare la conduzione della guerra contro Giugurta, che sconfisse nel 105 a.C. Roma occupò così la Numidia.

Mentre Mario portava vittoriosamente a termine la guerra in Africa, Roma stava subendo pesanti sconfitte da parte delle tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Nel 107 a.C. l'esercito di Lucio Cassio Longino fu sconfitto, e lo stesso generale ucciso in battaglia, nella Gallia Narbonense. Ma fu la tremenda sconfitta del 105 a.C. ad Arausio, dove perirono circa 120 000 romani tra soldati ed ausiliari, che gettò i romani nel panico.

In questo clima di paura Mario, visto come unico generale in grado di organizzare l'esercito contro i germani, venne eletto console per ben cinque volte consecutive, dal 104 al 100 a.C., fino a che la minaccia dell'invasione germanica non fu sventata con le vittorie ad Aquae Sextiae e a Vercelli. Contro Teutoni e Cimbri Mario utilizzò il nuovo, formidabile esercito nato dalla sua riforma avviata nel 107 a.C. A differenza di quello precedente, formato da cittadini-contadini ansiosi di tornare ai propri campi una volta finite le campagne belliche, questo era un esercito stanziale e permanente di volontari arruolati con ferma quasi ventennale, ovvero un esercito di professionisti attratti non solo dal salario, ma anche dal miraggio del bottino e dalla promessa di una terra alla fine del servizio. I proletari ed i nullatenenti vi si arruolarono in massa. Non era tanto un esercito di cittadini motivati dal senso del dovere, ma piuttosto di militari legati dallo spirito di corpo e dalla fedeltà al capo.

In tutto questo periodo, sia contro Giugurta che contro i Germani, Mario ebbe come legato un giovane nobile, di cui apprezzava le capacità militari: Lucio Cornelio Silla.

GUERRA SOCIALE (91 - 88 a.C.) - Già dal tempo dei Gracchi a Roma si avanzavano proposte d'estensione dei diritti di cittadinanza anche ad altri popoli italici fino ad allora federati, ma i tentativi non ebbero successo. La speranza degli alleati italici era che a Roma prevalesse il partito di coloro che volevano concedere agli alleati italici la cittadinanza romana.

Ma quando nel 91 a.C. il tribuno Marco Livio Druso, che stava preparando una proposta di legge per concedere la cittadinanza agli alleati fu ucciso, ai più apparve chiaro che Roma non avrebbe concesso spontaneamente la cittadinanza. Fu l'inizio della guerra che dal 91 a.C. all'88 a.C. vide combattersi gli eserciti romani e quelli italici.

Gli ultimi a cedere le armi ai Romani, capeggiati tra gli altri da Silla e Gneo Pompeo Strabone, padre del futuro Pompeo Magno, furono i Sanniti. Alla fine della guerra, però, gli italici della penisola, nonostante la sconfitta, riuscirono a ottenere l'agognata cittadinanza romana.  

DITTATURA DI SILLA (88 - 78 a.C.) - In Senato lo scontro politico tra le due fazioni avverse, quella degli ottimati che aveva trovato il suo "campione militare" nel nobile Lucio Cornelio Silla, e quella dei mariani guidata dal generale ed "uomo nuovo" Gaio Mario, si stava sempre più radicalizzando, non trovando le due fazioni più alcun terreno di concordia comune sugli elementi fondanti dello Stato, come la cittadinanza, la suddivisione delle sempre maggiori ricchezze che affluivano a Roma e il controllo dell'esercito, che si stava trasformando da esercito cittadino in esercito di professionisti.

Questa tensione, fino a che Gaio Mario rimase in vita, si risolse sempre nella lotta per l'ottenimento del consolato per i candidati della propria parte politica. Morto Mario, e trovandosi Quinto Sertorio in Spagna, forse l'unico tra i mariani che potesse contrastare militarmente Silla, Lucio Cornelio, al ritorno dalla vittoriosa guerra in oriente, ritenne di poter forzare la mano e con l'esercito in armi marciò contro Roma nell'82 a.C. Qui, a Porta Collina, Silla ottenne la vittoria decisiva nella guerra civile contro i mariani.

Per consolidare la sua vittoria Silla si fece eleggere dittatore a vita e iniziò una vasta e sistematica persecuzione nei confronti dei rappresentanti della parte avversa (le liste di proscrizione sillane) da cui il giovane Giulio Cesare, nipote di Gaio Mario, riuscì a stento a sottrarsi.

Fino a che morì, nel 78 a.C., l'unica seria opposizione che continuò ad essere condotta contro Silla, fu quella condotta da Sertorio dalla Spagna.  

GUERRE MITRIDATICHE (88 - 63 a.C.) - Nel 111 a.C., salì al trono del regno del PontoMitridate VI, figlio dello scomparso Mitridate V. Il nuovo sovrano mise subito in atto (fin dal 110 a.C.) una politica espansionistica nell'area del Mar Nero, conquistando tutte le regioni da Sinope alle foci del Danubio, compresa la Colchide, il Chersoneso Taurico e la Crimmeria (attuale Crimea), e poi sottomettendo le vicine popolazioni scitiche e dei sarmati Roxolani. Il giovane re volse, quindi, il suo interesse verso la penisola anatolica, dove la potenza romana era, però, in costante crescita. Sapeva che uno scontro con quest'ultima sarebbe risultato mortale per una delle due parti.

La prima guerra mitridatica iniziò verso la fine dell'89 a.C. Le ostilità si erano aperte con due vittorie del sovrano del Ponto sulle forze alleate dei Romani, prima del re di BitiniaNicomede IV e poi dello stesso inviato romano Manio Aquilio, a capo di una delegazione in Asia Minore. L'anno successivo Mitridate decise di continuare nel suo progetto di occupazione dell'intera penisola anatolica, ripartendo dalla Frigia. La sua avanzata proseguì, passando dalla Frigia alla Misia, e toccando quelle parti di Asia che erano state recentemente acquisite dai Romani. Poi mandò i suoi ufficiali per le province adiacenti, sottomettendo la Licia, la Panfilia, ed il resto della Ionia.

Non molto tempo dopo Mitridate riuscì a catturare il massimo esponente romano in Asia, il consolare Manio Aquilio e lo uccise barbaramente. Sembra che a questo punto, la maggior parte delle città dell'Asia si arresero al conquistatore pontico, accogliendolo come un liberatore dalle popolazioni locali, stanche del malgoverno romano, identificato da molti nella ristretta cerchia dei pubblicaniRodi, invece, rimase fedele a Roma.

Non appena queste notizie giunsero a Roma, il Senato dichiarò guerra contro il re del Ponto, seppure nell'Urbe vi fossero gravi dissensi tra le due principali fazioni interne alla Res publica (degli Optimates e dei Populares) ed una guerra sociale non fosse stata del tutto condotta a termine. Si procedette, quindi, a decretare a quale dei due consoli, sarebbe spettato il governo della provincia d'Asia, e questa toccò in sorte a Lucio Cornelio Silla.

Mitridate, frattanto, preso possesso della maggior parte dell'Asia Minore, dispose che tutti coloro, liberi o meno, che parlavano una lingua italica, fossero barbaramente trucidati; non solo quindi i pochi soldati romani rimasti a presidio delle guarnigioni locali. 80.000 tra cittadini romani e non, furono massacrati nelle due ex-province romane d'Asia e Cilicia (episodio noto come Vespri asiatici). La situazione precipitò ulteriormente, quando a seguito delle ribellioni nella provincia asiatica, insorse anche l'Acaia contro Roma. Il re del Ponto appariva ai loro occhi come un liberatore della grecità, quasi fosse un nuovo Alessandro Magno.

Con l'arrivo di Lucio Cornelio Silla in Grecia nell'87 a.C. le sorti della guerra contro Mitridate cambiarono a favore dei Romani. Espugnata prima Atene ed il Pireo, il comandante romano ottenne due successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, dove secondo Tito Livio caddero ben 100.000 armati del regno del Ponto, ed infine ad Orcomeno.

Contemporaneamente, agli inizi dell'85 a.C., il prefetto della cavalleriaFlavio Fimbria, a capo di un secondo esercito romano, si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo, e poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re. Intanto Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si erano opposti.

Dopo una serie di trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si accordarono per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi da tutti i domini antecedenti la guerra, ma ottenendo in cambio di essere ancora una volta considerato "amico del popolo romano". Un espediente per Silla, per poter tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla Repubblica romana.

Nel 74 a.C. divenne provincia romana la Bitinia (Bythinia), quando Nicomede IV lasciò anch'egli in eredità allo stato romano, il proprio regno. Pochi anni più tardi (nel 63 a.C.), al termine della terza guerra mitridatica, la sconfitta del regno del Ponto portò alla creazione di una nuova provincia (Bythinia et Pontus che univa i territori dei due regni ora sotto il dominio romano), grazie alle campagne militari condotte nell'area, da Lucio Licinio Lucullo (dal 74 al 67 a.C.).

E mentre Lucullo era ancora impegnato con Mitridate e con Tigrane IIGneo Pompeo Magno riusciva nel 67 a.C. a ripulire l'intero bacino del Mediterraneo dai pirati, strappando loro l'isola di Creta, le coste della Licia, della Panfilia e della Cilicia, dimostrando straordinaria disciplina ed abilità organizzativa. La Cilicia vera e propria (Trachea e Pedias), che era stata covo di pirati per oltre quarant'anni, fu così definitivamente sottomessa. In seguito a questi eventi la città di Tarso divenne la capitale dell'intera provincia romana. Furono poi fondate ben 39 nuove città. La rapidità della campagna indicò che Pompeo aveva avuto talento, come generale, anche in mare, con forti capacità logistiche.

Fu allora incaricato Pompeo di condurre una nuova guerra contro Mitridate VI re del Ponto, in Oriente (nel 66 a.C.), grazie alla lex Manilia, proposta dal tribuno della plebe Gaio Manilio, ed appoggiata politicamente da Cesare e Cicerone. Questo comando gli affidava essenzialmente, la conquista e la riorganizzazione dell'intero Mediterraneo orientale, avendo il potere di proclamare quali fossero i popoli clienti e quali quelli nemici, con un potere illimitato mai prima d'ora conferito a nessuno, ed attribuendogli tutte le forze militari al di là dei confini dell'Italia romana.

dei quali Pompeo, tornato quindi nella nuova provincia di Siria, dopo aver sottomesso anche i Giudei, si apprestò a riorganizzare l'intero Oriente romano, gestendo al meglio le alleanze che vi gravitavano attorno (si veda Regno cliente).

Nella nuova riorganizzazione, fu trovato un accordo tra la Repubblica ed il regno dei Parti, secondo il quale, il fiume Eufrate avrebbe costituito, d'ora in poi, il confine tra i due stati; lasciò a Tigrane II l'Armenia; a Farnace il Bosforo; ad Ariobarzane la Cappadocia ed alcuni territori limitrofi; ad Antioco di Commagene aggiunse Seleucia e parti della Mesopotamia che aveva conquistato; a Deiotaro, tetrarca della Galazia, aggiunse i territori dell'Armenia Minore, confinanti con la Cappadocia; fece di Attalo il principe di Paflagonia e di Aristarco quello della Colchide; nominò Archelao sacerdote della dea venerata a Comana; ed infine fece di Castore di Phanagoria, un fedele alleato e amico del popolo romano.

Il proconsole romano decise, inoltre, di fondare alcune nuove città (sembra otto, secondo Cassio Dione Cocceiano), come Nicopoli al Lico in Armenia Minore, chiamata così in ricordo della vittoria ottenuta su Mitridate; poi Eupatoria, costruita dal re pontico ed intitolata a sé stesso, ma poi distrutta perché aveva ospitato i Romani, che Pompeo ricostruì e rinominò Magnopolis. In Cappadocia ricostruì Mazaca, che era stata completamente distrutta dalla guerra. Restaurò poi molte altre città in molte regioni, che erano state distrutte o danneggiate, nel Ponto, in Palestina, Siria Coele ed in Cilicia, dove aveva combattuto la maggior parte dei pirati, e dove la città, in precedenza chiamata Soli, fu ribattezzata Pompeiopolis.

Per questi successi il Senato gli decretò il meritato trionfo il 29 settembre del 61 a.C. e fu acclamato da tutta l'assemblea con il nome di Magnus.

Pompeo non solo era riuscito a vincere Mitridate nella Terza guerra mitridatica (del 63 a.C.), ma anche a battere Tigrane II, re di Armenia, con cui in seguito fissò dei trattati. Pompeo impose una riorganizzazione generale ai re delle nuove province orientali, tenendo intelligentemente conto dei fattori geografici e politici connessi alla creazione di una nuova frontiera di Roma in oriente. Le ultime campagne militari avevano così ridotto il Ponto, la Cilicia campestre, la Siria (Fenicia, Coele e Palestina) a nuove province romane, mentre Gerusalemme era stata conquistata. La provincia d'Asia era stata a sua volta ampliata, sembra aggiungendo Frigia, parte della Misia adiacente alla Frigia, in aggiunta LidiaCaria e Ionia. Il Ponto fu quindi aggregato alla Bitinia, venendo così a formare un'unica provincia di Ponto e Bitinia. A ciò si aggiungeva un nuovo sistema di "clientele" che comprendevano dall'Armenia di Tigrane II, al Bosforo di Farnace, alla CappadociaCommageneGalaziaPaflagonia, fino alla Colchide.

RIVOLTA DI SPARTACO (73-71 a.C.) - La situazione politica si caratterizzava da una costante instabilità, favorita dai continui contrasti tra la fazione dei populares e quella degli optimates: dopo la guerra civile tra l'homo novus Mario e l'aristocratico Silla e la successiva dittatura sillana, si era consolidato il predominio della fazione aristocratica, divenuta sempre più la padrona incontrastata del senato e della politica romana. Da questa situazione di conflitto si sviluppò nell'80 a.C. la rivolta del popolare Quinto Sertorio: egli radunò attorno a sé i seguaci mariani sfuggiti alle proscrizioni di Silla e si rifugiò in Hispania, dove ottenne l'alleanza dei Lusitani, mai realmente sottomessi all'autorità di Roma. Contro lo Stato ribelle organizzato da Sertorio grazie al continuo afflusso di "perseguitati politici" da Roma fu inviato, nel 76 a.C.Gneo Pompeo, che poté avere la meglio solo quando la confederazione guidata da Sertorio si sfaldò, nel 72 a.C. Contemporaneamente, i Romani erano impegnati a Oriente nella terza guerra contro Mitridate VI del Ponto, condotta dal generale Lucio Licinio Lucullo: il duplice impegno militare riduceva di fatto la presenza di truppe in Italia, rendendo l'esercito inadeguato e permettendo l'iniziale successo della rivolta guidata da Spartaco.

Altro stimolo alla rivolta da parte degli schiavi (rivolta peraltro generale più che regionale, al contrario della prima e della seconda guerra servile) fu certamente il successo e l'inquietudine sociale dei popoli italici (che, in precedenza, erano sempre stati considerati solo federati), i quali erano riusciti ad ottenere, a prezzo di una lunga e sanguinosa "guerra interna" durata ben tre anni (91-88 a.C.), un'estensione dei diritti di cittadinanza.

L'agricoltura su vasta scala nella penisola italiana dipendeva, inoltre, dallo sfruttamento degli schiavi nelle grandi proprietà terriere (latifundia). Le brutali condizioni in cui gli schiavi venivano tenuti fu spesso causa di feroci e pericolose rivolte, che già nei decenni precedenti alla rivolta di Spartaco avevano causato diversi problemi ai Romani, soprattutto in Sicilia (guerre servili).

Spartaco era uno schiavo della Tracia, e venne addestrato come gladiatore. Nel 73 a.C., assieme ad alcuni compagni, si ribellò a Capua e fuggì verso il Vesuvio. Il numero di ribelli crebbe rapidamente fino a 70.000, composti principalmente di schiavi traci, galli e germanici.

Inizialmente, Spartaco e il suo secondo in comando Crixus riuscirono a sconfiggere diverse legioni inviate contro di loro. Una volta che venne stabilito un comando unificato sotto Marco Licinio Crasso, che aveva sei legioni, la ribellione venne schiacciata nel 71 a.C. Circa diecimila schiavi fuggirono dal campo di battaglia. Gli schiavi in fuga vennero intercettati da Pompeo, aiutato dai pirati che, inizialmente, avevano promesso loro di trasportarli verso la Sicilia salvo poi tradirli, presumibilmente in base ad un accordo con Roma, che stava ritornando dalla Spagna, e 6.000 vennero crocifissi lungo la Via Appia, da Capua a Roma.

Pompeo e Crasso seppero cogliere appieno i frutti politici della loro vittoria sui ribelli; entrambi tornarono a Roma con le loro legioni, rifiutandosi di scioglierle e accampandosi appena fuori dalle mura della città. 

I due generali si candidarono al consolato per l'anno 70 a.C., anche se Pompeo non era eleggibile a causa della sua giovane età e del fatto che non aveva ancora servito come pretore o questore, come richiedeva, invece, il cursus honorum. Cionondimeno, entrambi furono eletti, anche a causa della minaccia implicita rappresentata dalle legioni in armi accampate fuori dalla città.

Gli effetti della terza guerra servile sull'atteggiamento dei Romani verso la schiavitù e sulle relative istituzioni sono più difficili da determinare. Certamente la rivolta aveva scosso il popolo romano, che «a causa della grande paura sembrò iniziare a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». I ricchi possessori di latifundia iniziarono a ridurre il numero di schiavi impiegati nell'agricoltura, scegliendo di impiegare come mezzadri alcuni degli ex-piccoli proprietari terrieri spossessati. Più tardi, terminate la conquista della Gallia ad opera di Gaio Giulio Cesare nel 52 a.C. e le altre grandi conquiste territoriali operate dai Romani fino al periodo del regno di Traiano (98-117), si interruppero le guerre di conquista contro nemici esterni, e con esse cessò l'arrivo in massa di schiavi catturati come prigionieri. Si incrementò, al contrario, l'impiego di lavoratori liberi in campo agricolo.

Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare. Più tardi, durante il regno dell'imperatore Claudio (41-54), fu promulgata una costituzione che considerava omicidio e puniva l'assassinio di uno schiavo anziano o ammalato, e che dava la libertà agli schiavi abbandonati dai loro padroni. Durante il regno di Antonino Pio (138-161), i diritti degli schiavi furono ulteriormente allargati, e i padroni furono ritenuti direttamente responsabili dell'uccisione dei loro schiavi, mentre gli schiavi che dimostravano di essere stati maltrattati potevano forzare legalmente la propria vendita; fu contemporaneamente istituita un'autorità teoricamente indipendente cui gli schiavi si potevano appellare. Sebbene questi cambiamenti legali abbiano avuto luogo molto tempo dopo la rivolta di Spartaco per poterne essere considerati le dirette conseguenze, sono nondimeno la traduzione in legge dei cambiamenti dell'atteggiamento dei Romani nei confronti degli schiavi evolutosi per decenni.

LA CONGIURA DI CATILINA (63 a.C.) - Nel 63 a.C., dopo essergli stato più volte vietato di diventare console, Lucio Sergio Catilina decise di ordire una congiura per rovesciare la Repubblica. Ma il console in carica, Marco Tullio Cicerone riuscì a sventare la congiura e a ripristinare (anche se per poco tempo) l'ordine a Roma. Catilina contava soprattutto sulla plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi. Venuto a conoscenza del pericolo che lo stato correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli. Sfuggito poi ad un attentato da parte dei congiurati, Cicerone convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria. Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.

Grazie alla collaborazione con una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati in modo del tutto fittizio, e i documenti caddero nelle mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, ed avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la formula: «Vixerunt» / «Vissero»

Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo esercito.

Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello stato (si ricordi il famigerato verso di Cicerone sul suo consolato: "Cedant arma togae", trad: che le armi lascino il posto alla toga del magistrato), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.

Fine della Repubblica (66-27 a.C.) 

Alla fine, il mondo Romano divenne troppo grande e complicato per le strutture della Repubblica; le sue contraddizioni erano amplificate dallo scontro tra le due fazioni che si contendevano il potere in senato; quella dei Populares guidata da Giulio Cesare e quella degli Optimates, che troverà il suo campione in Pompeo.

Lo scontro, sempre latente, si mantenne sempre entro i limiti delle tradizionali forme di governo del potere romano, fino al 49 a.C., quando il senato intimò a Cesare di rimettere il suo comando delle legioni che aveva condotto alla conquista delle Gallie, e di tornare a Roma da privato cittadino. Il 10 gennaio abbandonando gli ultimi dubbi, Cesare attraversò con le sue truppe il Rubicone dando inizio alla guerra civile contro la fazione opposta.

GUERRA CIVILE ROMANA -  La Guerra civile romana del 49 a.C., nota anche come Guerra civile di Cesare, è uno degli ultimi conflitti all'interno della Repubblica Romana. Essa consistette in una serie di scontri politici e militari fra Giulio Cesare, i suoi sostenitori politici, e le sue legioni, contro la fazione tradizionalista e conservatorista nel Senato Romano, chiamati anche Optimates, spalleggiati dalle legioni di Pompeo.

Molti storici concordano nel dire che la guerra civile fu una logica conseguenza di un lungo processo di decadenza delle istituzioni politiche di Roma, iniziata con la carriera disastrosa di Tiberio Gracco, e continuata con la riforma delle legioni di Gaio Mario, la sanguinaria dittatura di Lucio Cornelio Silla, ed infine nella svolta del Primo Triumvirato. Che l'analisi sia o meno corretta, questi eventi ruppero le fondamenta della Repubblica, è chiaro che Cesare sfruttò l'opportunità offerta dalla decadenza delle istituzioni. Dopo una lunga lotta militare e politica fra il 49 e il 45 a.C., combattuta in Italia, Grecia, Egitto, Africa, e Spagna, Cesare sconfisse nella Battaglia di Munda l'ultima fazione tradizionalista del senato.

Questa guerra civile aprì la strada alla fine della Roma repubblicana, a cui il colpo di grazia sarà dato dalla guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio (terminata con la battaglia di Azio del 31 a.C.). Gli effetti della guerra civile di Cesare portarono profondi cambiamenti nelle tradizioni politiche della repubblica che da questo punto in poi non furono più recuperati.

Il primo Triumvirato, un patto siglato fra Giulio Cesare, Crasso, e Pompeo, divenne attivo nel 59 a.C. quando Cesare fu eletto Console. Il programma di riforma del triumvirato fu attuato e Cesare fu nominato governatore dell'Illiria e della Gallia. Finito il primo triumvirato, il senato sostenne Pompeo, che nel 52 a.C. divenne unico console. Nel frattempo, Cesare era diventato un eroe militare ed anche un eroe per il popolo.

I poteri proconsolari di Caio Giulio Cesare avrebbero dovuto finire il 31 dicembre 50 a.C., dopo la proroga di cinque anni che gli era stata accordata al convegno di Lucca. Ma nel marzo del 51 a.C., Cesare aveva inviato una lettera al Senato con la richiesta di un ulteriore prolungamento del suo Imperium. In questo modo, questo sarebbe scaduto nel 49 a.C.. In questo modo non ci sarebbe stato nessun intervallo tra la fine del proconsolato e l'inizio del suo secondo consolato (il 1 gennaio 48 a.C.).

Il Senato sapeva che sarebbe voluto diventare console quando il suo mandato in Gallia si sarebbe concluso e temendo ciò gli fu chiesto di sciogliere il suo esercito. Nel dicembre del 50 a.C., Cesare scrisse al Senato dicendo che accettava di sciogliere l'esercito se anche Pompeo avesse fatto altrettanto. La lettera irritò gli optimates che non potevano contestare la logica legale della richiesta. Il Senato intimò ancora una volta a Cesare di congedare il suo esercito per evitare di essere dichiarato nemico del popolo.

Due tribuni fedeli a Cesare, Marco Antonio e Gaio Cassio Longino posero il proprio veto alla proposta di dichiarare Cesare nemico del popolo ma furono velocemente espulsi dal Senato e andarono a Ravenna da Cesare che radunò l'esercito chiedendo alle legioni l'appoggio per combattere contro il senato.

Nel 50 a.C., il Senato, appoggiandosi alla forza delle legioni di Pompeo e dando a queste legittimità politica, ordinò a Cesare di rientrare a Roma e congedare il proprio esercito perché il suo mandato come Proconsole era terminato. Inoltre, il Senato gli proibì di avere un secondo mandato come Console in absentia (fuori da Roma). Cesare sapeva che se fosse rientrato a Roma senza godere dell'immunità come Console e senza essere spalleggiato dal suo esercito, sarebbe stato perseguitato ed emarginato politicamente. Pompeo accusò Cesare di insubordinazione e tradimento. La situazione precipitò e alla fine il senato, su proposta di Pompeo, che si era ormai schierato contro il suo vecchio alleato, proclamò che lo stato era in pericolo, affidando la Repubblica ai consoli e ai proconsoli, in pratica la metteva nelle mani di Pompeo.

Il 10 gennaio del 49 a.C., Cesare, forse pronunciando davvero la famosa frase Alea iacta est attraversa il Rubicone (il confine dell'Italia) con solo una legione dando inizio alla Guerra civile. Gli storici non concordano su ciò che Cesare disse nella traversata del Rubicone; le due teorie più diffuse sono "Alea iacta est" ("Il dado è tratto"), e "si getti il dado!" ma Svetonio riporta "Iacta alea est".

Cesare avanzò fino ad Ascoli Piceno dove attrasse le coorti di Publio Cornelio Lentulo Spintere; occupò Etruria, Umbria e i territori dei Marsi e quello dei Peligni e si spostò ad assediare Corfinio, città difesa da Lucio Vibullio Rufo che era riuscito a raccogliere tredici coorti e da Lucio Domizio Enobarbo che comandava altre venti coorti. Domizio chiese l'aiuto di Pompeo fermo a Lucera. Pompeo però compì l'errore di non intervenire, anzi, di spostarsi a Brindisi. Nel frattempo a Cesare arrivarono ventidue coorti dell'Ottava Legione e trecento cavalieri inviati dal re del Norico. Domizio tentò la fuga ma venne catturato assieme ad altri comandanti di Pompeo. Cesare, prese con sé gli uomini e, mostrando clemenza, lasciò andare i capi. A soli sette giorni dal suo arrivo a Corfinio era già in Puglia, aveva raccolto sei legioni, tre di veterani e tre completate durante la marcia. Cesare era ormai è a contatto con Pompeo e tentò di chiudere la flotta senatoriale nel porto di Brindisi.

Presi dal panico, nonostante avessero la possibilità di gestire discrete forze armate, Pompeo e buona parte dei senatori si rifugiarono oltre l'Adriatico, a Durazzo. Cesare, fermato dalla mancanza di navi, inviò parte delle sue forze in Sardegna e in Sicilia dove le popolazioni insorsero contro il Senato e accolsero i cesariani. Cesare stesso rientrò a Roma, convocò il Senato (i senatori rimasti ma non per questo tutti a lui favorevoli).

Gli Optimates, tra cui Metello Scipione e Catone il giovane, fuggirono a Capua. Lucio Domizio Enobarbo, che era stato rilasciato da Cesare a Corfinio si spostò a Marsiglia. L'antica colonia focese, da secoli alleata con Roma ma non ancora compresa nell' imperium romano aveva ricevuto grandi benefici sia da Pompeo che da Cesare, sotto la spinta politica di Domizio si schierò con Pompeo.

Non essendo riuscito a bloccare la fuga del Senato, Cesare si spostò in Provenza diretto verso la Spagna dove altre truppe pompeiane si stavano radunando ma che Cesare sapeva di poter affrontare in condizioni di parità operativa.

Sdegnato per l'atteggiamento di Marsiglia Cesare ne decise l'assedio, ordinò la costruzione di trenta navi ad Arelate, nell'interno, e lasciò tre legioni al comando di Decimo Bruto e Gaio Trebonio (che vedremo poi entrambi colpire, alle Idi di Marzo) per portare avanti un assedio difficile perché Marsiglia era protetta dal mare su tre lati e il quarto era difeso da solide mura. In trenta giorni le navi furono armate e il porto di Marsiglia venne chiuso ai traffici. Cesare lasciò i legati e si diresse in Spagna preceduto da Gaio Fabio che con le sue truppe doveva aprire i passi dei Pirenei.

La Spagna era governata da tre legati di Pompeo: Lucio Afranio, Marco Petreio il vincitore di Catilina e Marco Terenzio Varrone Reatino. Costoro potevano contare complessivamente su sette legioni, grandi risorse economiche e sul carisma di Pompeo che in quelle province aveva ben operato e le aveva pacificate dopo la rivolta di Sertorio.

Cesare stesso nel De bello civili narra tutto il susseguirsi dei scontri, inseguimenti, piccoli assedi ai campi avversari, astuzie e debolezze dei vari comandanti, la campagna di Lerida, il tentativo di spostamento dei pompeiani verso Tarragona, il blocco di Cesare, il tentativo di ritorno a Ilerda, la resa di Afranio e Petreio. Cesare consentì addirittura ai pompeiani, nel nome della comune cittadinanza romana, scegliere se arruolarsi fra le sue file oppure stabilirsi in Spagna come civili o, infine, di essere congedati una volta ritornati al fiume Varo al confine fra la Provenza e l'Italia.

Ritornando a Roma Cesare portò vittoriosamente a termine l'assedio di Marsiglia. A questo punto tutto l'Occidente era ora sotto il suo controllo. Solo in Africa le sue truppe, guidate da Scribonio Curione, furono rovinosamente sconfitte da re Giuba I di Numidia, alleato di Pompeo, e di Publio Azio Varo. Ciò privò a Roma di un'importante fonte di approvvigionamento di grano. Il danno fu però mitigato con l'occupazione della Sicilia e della Sardegna.

Rientrato a Roma, Cesare resse la dittatura per 11 giorni ai primi di dicembre, abbastanza per farsi eleggere console e iniziare le riforme che aveva in programma occupandosi dei problemi di chi era debitore, della situazione elettorale creata dalla legge di Pompeo. appena poté partì per per la Grecia all'inseguimento di Pompeo.

Marco Calpurnio Bibulo da Corcira gestiva le flotte pompeiane che controllano la costa dell'Epiro ma Cesare, con sette legioni, riuscì a sbarcare a Paleste e da lì a salire verso Orico. Pompeo che era stanziato in Macedonia all'efficace ricerca di rinforzi, cercò di fermare Cesare prima che potesse arrivare ad Apollonia ma il suo avverdsario lo precedette. I due eserciti si incontrarono sulle due sponde del fiume Apso fra Apollonia e Durazzo.

Il 10 luglio del 48 a.C. si scontrò con Pompeo a Dyrrhachium, ma perse 1.000 veterani e fu costretto a retrocedere e iniziare una lunga ritirata verso sud, con Pompeo al suo inseguimento. Un primo scontrò avvenne nella pianura di Petra, vicino a Durazzo, dove Cesare rischiò di essere sconfitto. Ma per sua fortuna, Pompeo non impegnò in battaglia il grosso delle sue forze, che non giudicava ancora pronte a scontarsi coi veterani cesariani. Ciò permise al conquistatore delle Gallie di disimpegnarsi.

Ne nacque una guerra di posizione con la costruzione di fortificazioni e trincee durante la quale i due contendenti cercarono di circondarsi a vicenda. Marco Antonio riuscì a lasciare le coste della Puglia e si unì a Cesare con altri rinforzi. Pompeo, più forte militarmente ma in grande difficoltà per la carenza di rifornimenti di viveri e armi, riuscì a forzare il blocco e cercò di conquistare nuovamente Apollonia. Ancora una volta venne preceduto da Cesare che però quasi subito abbandonò la città Epirota per dirigersi verso la Tessaglia. Anche Cesare doveva risolvere il problema dei rifornimenti e voleva ricongiungersi alle truppe che gli sta portando Domizio. Anziché puntare alla riconquista dell'Italia, che in questo momento era priva di reali difese, Pompeo decise di braccare Cesare in Tessaglia, in pratica precedendolo perché poteva utilizzare3 la Via Egnatia mentre Cesare era costretto ad arrampicarsi per antichi sentieri del Pindo.

Nel tragitto, Cesare espugnò Gonfi e ricevette la resa di Metropoli con le relative forniture di vettovaglie e finanziamenti. Il 29 luglio del 48 a.C. Cesare arrivò sulla piana di Farsalo. Due giorni dopo vi giunse Pompeo che aveva ricevuto anche le truppe portategli da Scipione. Pompeo tentava di stancare le ridotte forze di Cesare e contestualmente risparmiare le forze senatorie con un'azione di logoramento consistente in una serie di finte e brevi spostamenti. I nobili presenti nell'entourage di Pompeo, tanto sicuri della vittoria da litigare per i futuri posti eccellenti nella politica dell'Urbe, gli forzarono la mano e lo convinsero ad affrontare Cesare in campo aperto.

Era il 9 agosto e i due eserciti romani si scontrarono nella decisiva Farsalo: le forze pompeiane furono rovinosamente sconfitte. I prigionieri furono graziati dal vincitore. Molti pompeiani ripararono in Spagna e in Africa. Pompeo tentò di raggiungere la Provincia di Africa che giuba aveva mantenuto a Pompeo e dove si erano rifugiati molti optimates fra cui Catone. Pompeo raggiunge prima a Larissa e poi ad Anfipoli, poi Mitilene. Antiochia gli chiude le porte. Rodi non lo accoglie. Infine il fuggiasco rifugiò a Pelusio, in Egitto ma la sua sorte era segnata. Potino il massimo consigliere del re Tolomeo lo fece uccidere da Achilla scortato, per non far destare dubbi, dal tribuno Lucio Settimio (ex centurione di Pompeo contro i pirati nel 67 a.C.).

Pompeo morì il 28 settembre, alla vigilia del suo cinquantottesimo compleanno.  

A Roma, nel frattempo, Cesare venne nominato dittatore, con Marco Antonio come suo magister equitum; Cesare si dimise da questo dittatorato dopo undici giorni e venne eletto ad un secondo mandato come console, assieme a Publio Servilio Vatia Isaurico. Cesare inseguì l'esercito di Pompeo fino ad Alessandria, dove si accamparono e vennero coinvolti nella guerra civile alessandrina tra Tolomeo e sua sorella, moglie e regina coregnante, Cleopatra VII. Forse per via del ruolo di Tolomeo nell'uccisione di Pompeo, Cesare si schierò al fianco di Cleopatra; si narra che pianse alla vista della testa di Pompeo, che gli venne offerta in dono dal ciambellano di Tolomeo. In ogni caso, Cesare sconfisse le armate di Tolomeo e installò Cleopatra come regnante, con la quale ebbe il suo unico figlio biologico conosciuto, Tolomeo XV Cesare, meglio noto come "Caesarion". Cesare e Cleopatra non si sposarono mai, a causa della legge romana che proibiva il matrimonio con chi non era cittadino di Roma.

Dopo aver passato i primi mesi del 47 a.C. in Egitto, Cesare si recò in Siria e quindi nel Ponto per trattare con Farnace II, un re alleato di Pompeo che si era avvantaggiato del fatto che i romani fossero impegnati nella guerra civile per opporsi a Deiotaro (amichevole nei confronti di Roma) e nominarsi regnante della Colchide e dell'Armenia Inferiore. A Nicopoli egli sconfisse la scarna resistenza romana che poté essere raccolta dal luogotenente di Cesare, Domizio Calvino. Farnace prese anche la città di Amisus, alleata di Roma, rese eunuchi tutti i ragazzi e vendette gli abitanti ai commercianti di schiavi. Dopo questo sfoggio di forza contro i romani, Farnace si ritirò per sopprimere una rivolta nelle terre appena conquistate.

L'avvicinarsi estremamente rapido di Cesare in persona costrinse Farnace a volgere la sua attenzione ai romani. Inizialmente, riconoscendo il pericolo, fece offerte di sottomissione, con il solo scopo di guadagnare tempo sperando che Cesare fosse presto costretto a impegnarsi in altre battaglie. Per sua sfortuna la rapidità di Cesare lo costrinse ad accettare lo scontro in tempi brevi. Nella battaglia che si svolse nei pressi di Zela (l'odierna Zile in Turchia), Farnace venne sbaragliato con solo un piccolo distaccamento di cavalleria. La vittoria romana fu così fulminea e completa che lo stesso Cesare, in una lettera ad un amico a Roma, la descrisse con la famosa frase "Veni, vidi, vici" - che potrebbe essere stata l'etichetta mostrata sulle spoglie sfilate nel suo trionfo pontico.

Farnace fuggì verso il Bosforo, dove riuscì ad assemblare una piccola forza di truppe scite e sarmate, con le quali fu in grado di prendere il controllo di alcune città. Ciononostante un suo ex governatore, Asandar, attaccò le sue truppe e lo uccise. Lo storico Appiano dichiara che morì in battaglia; Cassio Dione riferisce che venne catturato e ucciso.

Cesare tornò a Roma per fermare l'ammutinamento di alcune legioni. Mentre Cesare era stato in Egitto installando Cleopatra come regina, quattro delle sue legioni veterane si accamparono fuori Roma al comando di Marcantonio. Le legioni erano in attesa del congedo e della paga straordinaria che Cesare aveva promesso prima della battaglia di Farsalo. A causa della lunga assenza di Cesare la situazione si deteriorò rapidamente. Marco Antonio perse il controllo delle truppe che iniziarono a saccheggiare le proprietà a sud della capitale. Diverse delegazioni vennero inviate per cercare di sedare l'ammutinamento. Niente ebbe effetto e gli ammutinati continuarono a richiedere il congedo e la paga. Dopo diversi mesi, Cesare giunse finalmente per rivolgersi alle truppe di persona. Sapeva di aver bisogno di loro per occuparsi dei sostenitori di Pompeo in Nordafrica, che avevano radunato 14 legioni. Cesare sapeva anche che non aveva i fondi per pagarli, sarebbe costato molto meno indurli a arruolarsi nuovamente per la campagna in Africa.

Freddamente Cesare chiese alle truppe ciò che volevano da lui. Vergognandosi di chiedere i soldi, i soldati domandarono il congedo. Cesare li chiamò cittadini invece di soldati, sottolineando che stava trattando con dei civili, quindi già congedati. Ma non con l'honesta missio che significava una pensione più ricca. Ma li informò che il pagamento sarebbe arrivato quando sarebbe stato sconfitto l'esercito pompeiano in Africa. E che egli lo avrebbe sconfitto con altri soldati. Gli ammutinati rimasero colpiti da questo maltrattamento; dopo quindici anni di fedeltà mai avrebbero pensato che Cesare avrebbe potuto fare a meno di loro. Cesare fu pregato di tenerli con sé e di portarli in Africa. Benignamente Cesare acconsentì. La sua conoscenza della psicologia delle masse e il suo carisma permisero a Cesare di riunire quattro legioni di veterani senza spendere un solo sesterzio.

Nello stesso anno Cesare raggiunse l'Africa, dove i seguaci di Pompeo erano fuggiti, per sconfiggere la loro opposizione guidata da Catone il giovane. Cesare vinse velocemente la prima significativa battaglia, Battaglia di Tapso nel 46 a.C., contro le forze guidate da Catone (che si suicidò) e da Cecilio Metello Scipione (che morì in battaglia).

Nonostante queste vittorie e queste morti eccellenti la guerra continuò. I figli di Pompeo Gneo Pompeo e Sesto Pompeo, insieme a Tito Labieno, precedentemente propretore di Cesare e suo secondo in comando durante la guerra in Gallia, fuggirono in Spagna. Cesare li inseguì e sconfisse gli ultimi epigoni dell'opposizione nella battaglia di Munda nel marzo del 45 a.C.. Durante quel periodo, Cesare fu eletto per il terzo e quarto mandato a console; nel 46 a.C. con Marco Emilio Lepido e nel 45 a.C. (senza collega).  

Idi di Marzo: il caos dopo la tragedia 

Il primo "imperatore" di Roma non fu, in realtà, Augusto, ma Caio Giulio Cesare. Nelle lotte civili che agitarono Roma nel corso della prima metà del I secolo a.C, Cesare aveva conquistato il proprio diritto all'autocrazia (cioè un governo con illimitati poteri) combattendo un altro autocrate, Pompeo. Il conflitto scoppiò nel 49 a.C, quando Cesare, contro gli ordini del Senato che era sotto il controllo del suo rivale, non solo a­traversò fisicamente il Rubicone, ma superò la linea di confine che nessun servitore dello Stato avrebbe mai dovuto superare: la lealtà all'ordine costituito. Mettendo in atto una serie di fulminanti campagne militari, Cesare sconfisse Pompeo, e contemporaneamente stravolse i principi fondamentali della vecchia Repubblica creando un regime di dominio personale, che raggiunse l'apice con la sua designazione a dittatore a vita il 14 febbraio del 44 a.C.

Per governare lo Stato, Cesare creò una nuova classe senatoriale formata da vecchi amici, nemici riabilitati e uomini nuovi, arrivati dal resto d'Italia e dalle province. L'arma si rivelò tuttavia a doppio taglio, allorché le sue intenzioni assolutiste risultarono del tutto evidenti. Caio Cassio, Marco Giunio Bruto e Decimo Giunio Bruto organizzarono una congiura alla quale parteciparono, secondo Svetonio, più di sessanta persone: i cosiddetti Liberatori, appellativo che costoro si diedero evocando i tirannicidi dell'antica Grecia. In pochi giorni, scelsero la data e il luogo per assassinare Cesare: il 15 marzo (Idi di Marzo), nella Curia del teatro di Pompeo, al Campo di Marte, dove si svolgevano le sessioni del Senato.

IL MOMENTO DI MARCO ANTONIO - Cesare aveva ricevuto alcuni segnali, sotto forma di presagi e profezie ma, non avendovi prestato attenzione, il giorno stabilito si presentò come di consueto alla Curia. Mentre si trovava accanto alla statua di Pompeo, Cimbro Tillio lo prese per la toga e Senilio Casca gli assestò il primo colpo. Cesare si trascinò sotto la statua di Pompeo ma venne raggiunto da 23 pugnalate che ne causarono la morte. Gli assassini fuggirono e il cadavere di Cesare rimase abbandonato a terra finché non sopraggiunsero tre schiavi che con una lettiga lo trasportarono a casa. Roma e i suoi estesi domini rimanevano senza una guida, in un'inquietante situazione di assenza di potere. 

Per un certo tempo, il popolo romano trattenne il respiro, prevedendo la reazione dei partigiani di Cesare. Tuttavia, il console Marco Antonio, suo cugino di secondo grado e luogotenente, evitò di dar subito sfogo alla propria ira, cosa del tutto inusuale per lui, e riuscì a ritardare temporaneamente la vendetta, placando gli animi di altri comandanti seguaci ili Cesare, come Lepido e Balbo. In un incontro con i Liberatori, si decise pragmaticamente di accettare le ultime disposizioni del dittatore (dalle quali tutti ricevevano benefici come magistrature o governi di province), dichiarare valido il suo testamento (nel quale nominava erede e figlio adottivo il pronipote Ottaviano) e di concedergli un funerale pubblico. Durante le esequie, Antonio pronunciò il famoso elogio funebre dell'estinto e ottenne il sostegno della plebe leggendone il testamento, i cui termini erano estremamente generosi nei confronti del popolo romano.

I Liberatori avevano sperato che il proprio gesto delittuoso avrebbe permesso di ripristinare un governo repubblicano, quindi di tornare alla situazione antecedente alla guerra civile tra Cesare e Pompeo. Il Senato, tuttavia, era stato epurato durante la dittatura di Cesare, e Cicerone, che ne era l'unica voce autorevole, dopo essersi appellato alla concordia il 17 marzo, tacque inspiegabilmente per i sei mesi successivi. Constatando la mancanza di sostenitori sia nel popolo sia nel Senato, e di fronte alle minacce da parte della fazione cesariana, i Liberatori abbandonarono Roma, commettendo lo stesso errore fatale che a Pompeo cinque anni prima era costato la sconfitta con Cesare. Per alcune settimane, essi si stabilirono nelle vicinanze della città, senza osare dirigersi da nessun'altra parte.

In compenso, la fortuna sembrava arridere a Marco Antonio. Nella sua persona erano concentrate prerogative fondamentali: la parentela con il dittatore (era infatti figlio di Giulia, cugina carnale di Cesare), il potere legittimo, in quanto console, e il potere economico, giacché gestiva il patrimonio di Cesare, affidatogli dalla sua vedova Calpurnia. Inoltre, poteva contare sull'appoggio del popolo, che era ancora in preda all'emozione, e sul sostegno militare degli altri comandanti cesariani, che guidavano le truppe acquartierate in Gallia, a Roma e nel resto della penisola. 

Antonio riuscì pertanto a imporsi, in quelle prime settimane dopo la scomparsa di Cesare, come nuovo capo del partito cesariano. Si assicurò rapidamente un esercito personale, con le sei legioni di Macedonia che gli vennero assegnate in qualità di proconsole (governatore) per l'anno successivo. Ma era ancora troppo poco: in giugno propose a Decimo Bruto di scambiare la provincia della Macedonia con la Gallia Cisalpina (l'attuale Italia settentrionale) e con la Gallia Comata (la Francia, esclusa la Provenza), recentemente conquistata da Cesare. Lo scambio metteva nelle sue mani una terra ricca di risorse e di veterani, con i quali formare un nutrito esercito in breve tempo. Ciò significava in sostanza avere in mano le chiavi dell'Italia.

Entra in scena Ottaviano - Fu a questo punto che in Italia fece la sua comparsa Caio Ottaviano, il pronipote di Giulio Cesare (Ottaviano era figlio di Azia, a sua volta figlia della sorella di Cesare, Giulia minore). Il dittatore lo aveva adottato e Ottaviano ora veniva a reclamare la sua eredità. Sebbene Antonio si rifiutasse di consegnargli il patrimonio del padre adottivo, Ottaviano, con le proprie risorse, mise in pratica le disposizioni testamentarie del dittatore a favore dei veterani e del popolo romano, guadagnandosi l'appoggio di costoro, oltre a quello dei cesariani scontenti della gestione politica di Antonio. Fino al mese di maggio, Ottaviano si trattenne nei pressi della capitale, incontrandosi con membri importanti della fazione cesariana, come Balbo, Filippo, o i futuri consoli Irzio e Pansa. Compì anche una visita di cortesia a Cicerone, che viveva a Cuma, e che ingannò con le sua adulazioni. 

Nelle prime settimane dell'estate del 44 a.C., a Roma si viveva in un'atmosfera rarefatta. Da un lato, Antonio imponeva al Senato di votare mozioni in favore dei suoi interessi; dall'altro, i Liberatori non sapevano se fermarsi in Italia o partire per andare a svolgere i prestigiosi incarichi concessi loro da Antonio nelle province; nel frattempo, estraneo a questa tensione tra Antonio e gli assassini di Cesare, Ottaviano creava i presupposti per la sua precoce carriera di politico abile, celebrando o disputando in prima persona fino a tre Giochi in onore del dittatore defunto. Inoltre, egli trovava proseliti tra i soldati di Cesare, manipolandone i sentimenti di dolore per la perdita del loro comandante e la loro avidità di possedere terreni, incarichi e denaro. La sua popolarità crebbe perciò a dismisura. Con la plebe e l'esercito a disposizione, Ottaviano si dedicò a convincere i cesariani più moderati a passare dalla sua parte, e i repubblicani timorosi di Antonio a non prendere posizione.

Di fronte all'avanzare di Ottaviano, Antonio si riavvicinò ai Liberatori e li convinse ad accettare il governo delle province lontane, Creta e Cirene, verso le quali partirono alla fine di agosto. Fu a questo punto che Cicerone, tornato a Roma, decise di pronunciare contro Antonio, suo antico nemico, la prima delle sue Filippiche, ancora, tuttavia, con un tono moderato.

Di fronte all'indignata risposta del destinatario, Cicerone ne scrisse una seconda, che sembra non sia mai stata letta, che conteneva un attacco furibondo alla vita e alle gesta di Antonio, ricordandogli che la Repubblica era in grado di difendersi da sola ed esortandolo a difenderla egli stesso. Sembrava ancora possibile un accordo, ma l'iniziativa militare di Antonio contro Decimo Bruto, per impadronirsi della sua provincia Cisalpina, avrebbe cambiato completamente la situazione.

ANTONIO, NEMICO PUBBLICO - Di fronte all'esitazione di Decimo Bruto a restituirgli la provincia della Gallia, Marco Antonio marciò alla volta di Brindisi per raccogliere quattro delle sue legioni di Macedonia, con l'intenzione di minacciare Bruto a nord. A questo punto, Ottaviano attuò il suo primo colpo di Stato. Nel corso delle settimane precedenti aveva percorso in lungo e in largo la Campania comprando, nel vero senso della parola, veterani di Cesare, offrendo loro il doppio della paga annuale e promettendo di retribuirli con una cifra dieci volte superiore. In tal modo, con una legione reclutata come esercito personale, il 10 novembre occupò il Foro Romano con la scusa di ristabilire l'ordine pubblico. 

Poiché le legioni di Antonio rappresentavano un pericolo, anche quelle erano state tentate dai favori di Ottaviano, cosicché due su quattro di esse erano passate dalla sua parte, ed egli si ritirò per sicurezza in Etruria. Alla fine, Antonio lasciò Roma gli ultimi giorni di novembre e si diresse verso nord con quanto rimaneva delle sue truppe, riuscendo a porre sotto assedio Decimo Bruto a Modena. 

La prima delle guerre civili dell'era dopo-Cesare aveva avuto inizio. Cicerone, arbitro della situazione all'interno del Senato, in un primo momento non sapeva da che parte schierarsi poi, l'avversione per Antonio lo indusse a rivolgergli, in un nuovo discorso delle Filippiche, violenti insulti dandogli della "volgare prostituta" o dell'ubriacone. Decise insomma di prestare apertamente appoggio a Ottaviano, ritenendolo il male minore rispetto a Marco Antonio.

Il 20 dicembre del 44 a.C, in Senato, Cicerone definì un criminale Antonio, che era un console legittimo, e magnificò come difensori dell'ordine pubblico Ottaviano, già autore di un colpo di Stato, e Marco Bruto, un governatore ribelle. Il Senato, che all'epoca non brillava per la presenza di personalità coraggiose, seguì Cicerone senza esitazioni. Alcuni giorni dopo, Irzio e Pansa furono eletti consoli e, dopo un lungo dibattito, gli eserciti illegali di Bruto e Ottaviano ottennero il riconoscimento dello Stato, insieme con il benestare su quanto stavano per intraprendere.

In seguito al fallimento di un'ambasciata inviata ad Antonio, il Senato, manipolato da Cicerone, gli dichiarò guerra, e contemporaneamente sigillò un'alleanza con i Liberatori, che erano riusciti a convogliare tutte le legioni dell'Oriente romano, dalla Macedonia fino alla Siria. Cicerone, che pur non avendo partecipato alla morte di Cesare, l'aveva desiderata, e che pertanto era un Liberatore che agiva nell'ombra, riuscì a ottenere dal Senato la nomina di Bruto come proconsole di Macedonia, Illiria e Acaia. 

A nulla servivano gli sforzi diplomatici del Senato e di personaggi come Lepido o Munazio Planco, che trovavano l'opposizione inflessibile di Cicerone, il quale faceva del suo repubblicanesimo una religione e della sua inimicizia verso Antonio una dottrina. Messa da parte la penna, ora occorreva usare la spada. I consoli Irzio e Pansa partirono alla volta di Modena in aiuto del proconsole Bruto, assediato da Antonio.

Nell'aprile del 43 a.C., ebbero luogo, a Forum Gallorum (presso l'attuale Castelfranco Emilia) e Mutina (Modena), due battaglie che, pur non risultando decisive, rappresentarono una sconfitta per Antonio, costretto a ripiegare verso nord. Cicerone riuscì a far dichiarare Marco Antonio nemico pubblico, e ciò significava che qualsiasi cittadino romano aveva l'obbligo di ucciderlo ovunque si trovasse. Tuttavia, la soddisfazione per la vittoria ottenuta dalla fazione senatoriale, si scontrò con la dura realtà della morte dei consoli, Irzio e Pansa, nel combattimento. 

Antonio riuscì a riprendersi rapidamente dalla doppia sconfitta. Facendo mostra di una grande velocità militare, raggiunse verso la metà di maggio la Gallia Narbonense (Provenza-Linguadoca), dove si incontrò con il generale Publio Ventidio e le sue legioni. Anche Lepido, inviato dal Senato, si trovava nella zona, ma le legioni di entrambi rifiutarono di combattersi e alla fine Lepido decise di schierarsi dalla parte di Antonio. A poco a poco, le file dei cesariani si ricomponevano di fronte alla coalizione dei repubblicani.

IL PATTO DEI TRIUNVIRI - Ottaviano aveva constatato con grande malessere che gran parte del merito della guerra contro Antonio, dopo la morte dei due consoli, era stato attribuito a Decimo Bruto e non a lui. Ciò gli fece percepire l'insicurezza della sua posizione tra le tre fazioni in gioco: quella di Antonio (in fin dei conti suo parente), quella di Cicerone e della Repubblica, alleati inaffidabili, e quella dei Liberatori con le loro 17 legioni, nemici indiscutibili. La sua preoccupazione crebbe nel verificare che anche Sesto Pompeo, figlio minore del grande rivale di Cesare, si alleava con Cicerone e con la Repubblica, ai danni di Antonio. Era dunque chiaro che gli rimaneva una sola via d'uscita: unirsi al partito cesariano cercando un accordo con quest'ultimo.

Il primo passo della strategia di Ottaviano fu quello di appropriarsi della dignità consolare, allora vacante. Molti volevano ottenerla, e tra loro lo stesso Cicerone, ma Ottaviano riuscì a vincere la sfida. Per prima cosa, presentò la propria candidatura mediante una commissione di soldati e centurioni; quando la proposta fu respinta dal Senato, egli marciò direttamente su Roma al comando di otto legioni. Entrò in città senza spargimenti di sangue e il 19 agosto venne eletto console, insieme con un suo oscuro parente, Quinto Pedio. Ottaviano non aveva ancora compiuto ventanni. La violazione della legalità repubblicana non poteva essere più esplicita, giacché l'età minima per accedere al consolato era di quarantadue anni. 

La prima iniziativa che prese il nuovo console fu approvare una legge per processare i Liberatori e Sesto Pompeo. In seguito, riabilitò Antonio, Lepido e gli altri cesariani nemici di Cicerone. Antonio non ebbe esitazioni ad accettare questa offerta di alleanza. Volendo porre in pratica i termini dell'accordo, i due si riunirono a novembre a Bologna insieme con Lepido, patrizio e antico esponente del partito cesariano. In quella circostanza, i tre deliberarono di formare un'associazione, o triunvirato, composto da sedicenti "triumviri costituenti della Repubblica", e con ciò richiamandosi al triunvirato sottoscritto da Pompeo, Cesare e Crasso nel 60 a.C. Si trattava, in realtà, di un direttorio militare illegittimo, della durata di cinque anni, che doveva servire a spartirsi l'Impero occidentale. A Ottaviano spettarono l'Africa e le isole; a Lepido la Gallia Narbonense e l'Hispania, ad Antonio la Gallia Comata e Cisalpina. Lepido, inoltre, sarebbe rimasto a Roma a governare l'Italia, territorio comune. 

Dopo l'ingresso a Roma dei tre triunviri, questa ripartizione del potere venne ratificata con una legge firmata con il sangue: quella delle cosiddette liste di proscrizione, che provocò la morte per assassinio di centinaia di senatori e cavalieri. Si creò pertanto un vero e proprio clima di terrore, che non aveva altra giustificazione se non di confiscare le proprietà e le ricchezze dei senatori e degli abbienti cittadini assassinati, e che segnò la fine della "Repubblica libera". Secondo fonti dell'epoca, in quelle settimane morirono tra i 130 e i 300 senatori, e tra i 2.000 e i 3.000 cavalieri. La vittima più insigne fu Marco Tullio Cicerone, raggiunto da un sicario a Gaeta, nel Lazio, mentre tentava di fuggire. La sua testa e la sua mano destra furono inviate a Roma, per essere esposte nel Foro. 

I triunviri erano oramai completamente padroni di un Senato i cui rappresentanti erano tutti dalla loro parte, mentre le casse traboccavano delle ricchezze confiscate ai proscritti. Per compiere la missione di vendicare la morte di Cesare, decisero di proclamare la sua divinità il 1° gennaio del 42 a.C., cosa che permise a Ottaviano di attribuirsi il titolo di Dvi Filius. "Figlio di Dio". 

Successivamente, i triunviri deliberarono di lanciare un'offensiva contro gli unici che ancora resistevano al loro potere: Bruto e i Liberatori. Riunirono dunque 18 legioni, per un totale di più di 100.000 uomini. Mentre Lepido rimaneva a Roma a governare un Senato ormai tranquillo, Antonio e Ottaviano si diressero verso Brindisi e da lì, apertisi un varco tra le navi dei repubblicani e di Pompeo, partirono alla volta di Dyrrachium (Durazzo), sulla costa dalmata, al comando del loro esercito. Alla fine dell'estate, Bruto e Cassio giunsero in Macedonia, con 19 legioni e numerose truppe di principi vassalli provenienti da Oriente, con l'intenzione di dare battaglia.

FILIPPI: LA FINE DELLA REPUBBLICA - Il destino della Repubblica si decise nello stretto passo montano di Filippi, in due battaglie che ebbero luogo nell'ottobre e nel novembre dell'anno 42 a.C. Il primo scontro, uno dei più sanguinosi nella storia di Roma, finì pari, poiché Bruto riuscì a occupare l'accampamento di Ottaviano, mentre Antonio s'impossessò di quello di Cassio. Quest'ultimo si suicidò in maniera del tutto precipitosa, lasciando di fatto i Liberatori privi del comando del generale più esperto di cui disponevano. Il secondo scontro ebbe luogo il 14 novembre e stavolta i Repubblicani combatterono tentando il tutto per tutto, sotto il comando di Marco Bruto. Nella battaglia perse la vita il fior fiore dei repubblicani, tra i quali lo stesso Bruto, che si suicidò. I sopravvissuti della fazione di Bruto passarono dalla parte di Antonio o fuggirono per unirsi a Sesto Pompeo. I due vincitori si spartirono i beni degli sconfitti; in seguito Ottaviano tornò in Italia a pagare quanto promesso ai suoi soldati, mentre Antonio si trasferì in Oriente, a saccheggiare le province per acquisire ricchezze. 

Il triunvirato continuò a esistere ma solo di nome, giacché Lepido, che non aveva né potere né seguaci, in seguito a una nuova ripartizione, fu privato delle sue province, e gli venne lasciata solo quella dell'Africa, a titolo di consolazione. Roma, che fino a due anni prima era stata governata da un solo Cesare, era ora guidata da due; il suo cugino di secondo grado, Antonio, e il suo pronipote e figlio adottivo Ottaviano. Undici anni dopo, Ottaviano sarebbe riuscito a concentrare tutto il potere su di sé, in seguito alla schiacciante sconfitta subita da Antonio ad Azio. Tuttavia, ciò che Filippi aveva decretato era la morte dell'antica Repubblica romana, sostituita dal nuovo regime imperiale fondato da Ottaviano, il futuro Augusto.

Chiusa la partita coi cesaricidi, il triumvirato si incrinò: Lepido fu estromesso dai due colleghi, che lo accusarono di aver tramato contro di loro insieme a Sesto Pompeo, figlio del defunto Pompeo Magno. Antonio e Ottaviano si spartirono di nuovo le province e i poteri: dato che era stato Antonio il vero flagello dei cesaricidi, era lui in questo momento a trovarsi in una posizione di maggior forza rispetto a Ottaviano, a cui fu affidato l’ingrato compito di trovare i fondi necessari per pagare i circa 100.000 soldati che avevano combattuto a Filippi e che ora dovevano essere congedati. Le confische territoriali fatte in Italia nel 41 a.C. crearono ulteriori inimicizie a Ottaviano, sulle quali fecero leva Fulvia e Lucio Antonio, rispettivamente moglie e fratello del triumviro, che ora si trovava in Oriente. 

Muovendosi però in maniera troppo frettolosa, i due offrirono a Ottaviano il pretesto per agire nella legalità. Lucio Antonio ammassò infatti truppe a Preneste e si recò poi a Roma, promettendo che il fratello avrebbe restaurato la Repubblica. Il Senato gli conferì l’imperium per muovere contro Ottaviano, che non fu però abbandonato dalle sue truppe, che anzi si strinsero compatte intorno al loro condottiero. Alla fine, Lucio Antonio fu assediato nella città di Perugia e, lasciato solo dal fratello Marco, si arrese nell’inverno 41-40 a.C.. 

Dopo la fine della guerra di Perugia, Ottaviano si vendicò sterminando l’aristocrazia della città etrusca. Fulvia fu esiliata a Sicione (in Grecia), dove morì di malattia, mentre Lucio ebbe il governatorato della Spagna. Il figlio adottivo di Cesare occupò poi tutta la Gallia, impossessandosi in questo di tutto l’Occidente romano. Giunto in Italia nel 40, Marco Antonio accettò le giustificazioni addotte da Ottaviano sul perché delle sue azioni, e così i triumviri giunsero a un nuovo accordo e a una nuova spartizione dei domini (accordi di Brindisi): a Ottaviano l’Occidente e ad Antonio l’Oriente, mentre a Lepido andò l’Africa. Ottaviano a Antonio strinsero anche un’alleanza matrimoniale: Antonio, che era rimasto vedovo di Fulvia, sposò Ottavia, sorella del figlio adottivo di Cesare.

Una spina nel fianco dei triumviri era Sesto Pompeo, figlio del defunto Pompeo Magno, che, rifugiatosi in Spagna con quanto restava delle armate del partito pompeiano, dopo il cesaricidio era stato perdonato dal Senato, che anzi gli aveva affidato il comando della flotta al tempo della guerra di Modena. Con questa forza navale, Sesto aveva però occupato la Sicilia (42 a.C.), raccogliendo intorno a sé tutti i nemici dei triumviri. Sesto aveva quindi dato vita a un vero e proprio blocco navale contro Roma, che si era dunque trovata senza adeguati rifornimenti granari (39 a.C.). Dopo un momentaneo compromesso (che però nessuno rispettò fino in fondo), tra le due parti si riaccesero le ostilità. Nel 38 a.C. Ottaviano fu battuto in mare da Sesto, riportando gravi perdite umane. Ottaviano richiamò allora dalla Gallia il suo legato, Marco Vipsanio Agrippa, e chiese anche aiuto ad Antonio, che gli promise 120 navi in cambio di 20.000 soldati arruolati in Italia. Dopo adeguati preparativi, seguiti con grande scrupolo da Agrippa, nel 36 a.C. Ottaviano attaccò di nuovo Sesto Pompeo, che venne sconfitto nella battaglia di Nauloco. Fuggito in Oriente, Sesto fu catturato e giustiziato da un ufficiale di Antonio. Dopo la vittoria, Ottaviano dovette far fronte alle richieste di Lepido, che voleva per sé la Sicilia. Ma abbandonato da tutti i suoi soldati, Lepido fu punito dal figlio adottivo di Cesare con la privazione di tutti i suoi poteri. Ottaviano gli risparmiò però la vita e gli lasciò la carica, puramente onorifica, di pontifex maximus (che egli aveva ricevuto per volere di Antonio dopo la morte di Cesare). Dopodiché si riconciliò con il Senato e fece una serie di campagne militari nell’area balcanica.

Negli anni che erano seguiti alla battaglia di Filippi, l’interesse di Antonio si era rivolto principalmente all’Oriente, con l’intento di portare avanti quella campagna militare contro i parti che Cesare aveva progettato. Intanto, Antonio era entrato in stretti rapporti con la regina egiziana Cleopatra, con la quale ebbe una relazione. Nel frattempo, tra il 40 e il 37 a.C., approfittando della situazione caotica che Roma stava vivendo, i parti avevano occupato gran parte dell’Asia Minore, della Siria e della Palestina. Ben presto però, a causa di conflitti dinastici, il regno dei parti entrò in crisi, e così nel 36 a.C. Antonio diede inizio alla spedizione pianificata da Cesare. 

Ma dopo alcuni successi iniziali, dovette ritirarsi. Tentò poi una seconda spedizione nel 34 a.C., che però ebbe risultati molto limitati. Nel frattempo, Antonio aveva ripudiato Ottavia, sorella di Ottaviano, e aveva riallacciato la sua relazione con Cleopatra. Fu ciò a segnare la fine di Antonio: nel 34 a.C., ad Alessandria d'Egitto, Antonio proclamò pubblicamente che Cesarione (il figlio che Cleopatra aveva avuto da Cesare) era il legittimo erede di Cesare e gli diede il titolo di re dei re (Cleopatra regina dei re). Madre e figlio ebbero il potere su Egitto e Cipro, mentre i tre figli che Antonio aveva avuto da Cleopatra avrebbe regnato su diverse zone dell’Oriente. 

Tutto ciò scatenò l’indignazione generale dei romani. Cavalcando questa situazione, Ottaviano riuscì a screditare definitivamente Antonio, ottenendo il consolato per l’anno 31 e la dichiarazione di guerra contro Cleopatra, che intanto si era portata in Grecia col suo esercito e con Antonio. Contro quest’ultimo Roma non prese provvedimenti in maniera esplicita, ma ormai egli era considerato un mercenario al soldo della regina straniera. Lo scontro finale avvenne il 2 settembre del 31 a.C. nella baia di Azio. La battaglia di Azio finì con la sconfitta e la fuga di Cleopatra e Antonio in Egitto. Ottaviano non poté inseguirli subito, perché dovette domare una rivolta dei suoi soldati. Nel 30 a.C., però, si diresse in Egitto, deciso a chiudere la partita. Sia Antonio sia Cleopatra si suicidarono per non essere catturati.

Ottaviano era ormai il signore indiscusso di Roma. Tre anni dopo, con l’assunzione del titolo di princeps, Ottaviano, il futuro Augusto, avrebbe posto definitivamente fine al regime repubblicano, dando così inizio all’età imperiale, che in questa prima fase è conosciuta col nome di Principato.

L ' istituzione, a carattere privato, del Primo Triumvirato, rappresentò la materializzazione dei dissapori e delle divergenze che i suoi membri nutrivano in seno contro un antiquata e inetta costituzione repubblicana, non più atta ad amministrare un territorio che abbracciava un mosaico di culture e civiltà così variopinte, da non poter più essere assimilate alle vigenti catalogazioni stereotipate ideate in un tempo quando Roma esercitava la sua egemonia esclusivamente sulla penisola italiana, e che adesso andavano rielaborate per imbrigliare le forze centrifughe che ogni provincia promuoveva. I protagonisti furono tre personaggi eminenti della scena politica romana,Cesare, Pompeo e Crasso, quest ' ultimo offuscato dall' antagonismo tra i due più potenti contendenti, emarginazione costernante che si risolse con una sterile campagna militare indetta dal triumviro ai danni dei Parti dove nel 53 a.C. Crasso perì incrinando il prestigio della potenza romana oltre confine. Ma era sul fronte gallico che si decideva la sorte della repubblica romana. Quando Pompeo e il Senato capirono le mire di Cesare, il "Consul sine collega" destituì il futuro padre dell ' Impero che però, in una seduta di un sempre meno importante triumvirato tenutosi a Lucca, rivelando una raffinata diplomazia e abilità persuasiva, fece sì che il mandato, in qualità di proconsole della Gallia, gli fosse reiterato per un altro quinquennio così da perseguire tutti i suoi obiettivi e varcare il Rubicone in aspettativa del trionfo di Roma.

LA MORTE A TRADIMENTO E L'APOTEOSI POSTUMA

La mattina delle Idi di marzo (15 del mese) il Senato romano doveva riunirsi sotto i portici (1) del teatro di Pompeo. Giulio Cesare giunse all'Assemblea alle 11 di mattina. Accolto dai senatori, il dittatore a vita si sedette in un seggio (2). A quel punto, i congiurati lo circondarono e, spingendolo verso la statua di Pompeo (3), gli assestarono in tutto 23 pugnalate. I senatori abbandonarono il luogo terrorizzati, mentre i cospiratori e i loro gladiatori si diressero verso il Foro (4). Il cadavere di Cesare (5) rimase lì disteso fino a sera, quando tre schiavi vennero a raccoglierlo.

Cinque giorni dopo l'omicidio del dittatore, Marco Antonio organizzò nel Foro (1) il tradizionale omaggio, o laudatio, al defunto. Il cadavere d Cesare venne esposto su un palco rialzato coperto da drappi. I Romani, commossi per la lettura del testamento del dittatore, si lasciarono trascinare dagli elogi di Antonio (2), che esclamò: "Per quanto mi riguarda, oh Giove protettore di Roma, oh voi altri Dei! Io sì, sono disposto a vendicare Cesare". Poi sollevò la toga di Cesare (3), scoprendo le macchie di sangue. La folla si slanciò verso il palco (4) per cremare il corpo del dittatore su una pira improvvisata nel Foro.

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