- Età
repubblicana
- La
Repubblica mediterranea (264
a.C. - 146 a.C.)
Terminate
le guerre contro Pirro e le
colonie greche dell'Italia
meridionale, Roma aveva ormai
ottenuto il controllo della
penisola italiana, dagli
Appennini settentrionali fino
alla Puglia e alla Calabria.
La Sardegna e la Corsica erano
sotto il controllo dei
cartaginesi, che controllavano
anche la parte orientale della
Sicilia, mentre quella
occidentale era sotto il
controllo di Siracusa.
Fino
a questo momento Roma e
Cartagine non erano mai venute
a scontrarsi, sopratutto perché
differenti erano gli interessi
che muovevano le rispettive
politiche espansive; ciò
nonostante avevano già da
tempo sentito l
'
esigenza di regolare i
reciproci rapporti con dei
trattati, che definivano le
rispettive zone di influenza.
Questo
stato di cose cambiò quando
Roma, padrona della penisola
italiana, iniziò a pensare di
estendere la sua influenza
anche sulla Sicilia, che
rappresentava il principale e
più vicino
"granaio" da cui
Roma si poteva approvvigionare
per le sue crescenti esigenze.
L'occasione
di intervenire negli affari
siciliani fu data ai romani
dalla richiesta di aiuto fatta
dai Marmettini, che
governavano su Messina e che
erano posti sotto assedio dai
siracusani. I Cartaginesi
interpretarono questo
intervento come una violazione
dei trattati esistenti e
dichiararono guerra a Roma,
dando inizio alla prima della
guerre puniche
GUERRE
PUNICHE - Le
Guerre puniche furono una
serie di tre guerre combattute
fra Roma e Cartagine e che si
risolsero con la totale
supremazia di Roma sul Mar
Mediterraneo; supremazia
diretta nella parte
occidentale e controllo per
mezzo di regni a sovranità
limitata nell'Egeo e nel
Mar Nero. Sono conosciute come
puniche in quanto i
romani chiamavano punici
i cartaginesi. A sua volta il
termine punico è una
corruzione di fenicio,
come Cartagine è una
corruzione del fenicio Karth
Hadash (città nuova).
Le
due città, quasi
"coetanee" (814 a.C.
Cartagine), (753 a.C. Roma),
per lunghi secoli tennero un
atteggiamento di reciproco
rispetto anche se dai trattati
stipulati nel corso del tempo,
traspare una certa tendenza -
probabilmente motivata - di
Cartagine a sentirsi
"superiore". Polibio
ci informa di quattro trattati
fra Roma e Cartagine: 509
a.C., 348 a.C., 306 a.C., 279
a.C.. L'ultimo è addirittura
un'alleanza (anche se non
stretta) in funzione anti
Pirro, re dell'Epiro, che
imperversava prima nel sud
Italia chiamato da Taranto
contro i romani e poi in
Sicilia chiamato da Siracusa
contro i cartaginesi. Proprio
la sconfitta di Pirro a
Maleventum sancì il
definitivo ingresso di Roma
nel novero delle grandi
potenze del Mediterraneo.
Proprio
la precedente sconfitta di
Pirro in Sicilia per opera dei
cartaginesi segnò la
divisione dell'isola in due
settori: a ovest i punici, a
est Siracusa. Quest'ultima
città, per poter estendere il
suo potere dovette rivolgersi
contro i Mamertini di Messina
che inviarono ambasciatori per
chiedere aiuto a entrambe le
città. Un'antica comunità di
intenti, basata sulla
simmetria degli interessi
cessò all'improvviso. Per 110
anni la guerra imperversò,
gradualmente estendendosi a
tutto il Mediterraneo. Fino
alla totale distruzione di uno
dei contendenti: Cartagine.
PRIMA
GUERRA PUNICA - La Prima
guerra punica fu combattuta
fra Cartagine e Roma dal 264
a.C. al 241 a.C. e fu la prima
delle tre grandi guerre che
queste due superpotenze del
mondo antico ingaggiarono per
il controllo della Sicilia e
per la supremazia nel Mar
Mediterraneo. Dopo 23 anni di
combattimenti Roma vinse ed
impose a Cartagine pesanti
condizioni di pace.
Nel
280 a.C. la Repubblica di Roma
era in una condizione di
vittoriosa espansione. Dopo
secoli di conflitti e
ribellioni l'intera penisola
italiana a sud dell'Appennino
Tosco-emiliano era
strettamente controllata dalle
forze romane; tutti i nemici
prossimi come gli Etruschi, i
Sabini, i Volsci erano stati
sconfitti. I Marsi, gli Apuli,
i Vestini erano federati o
alleati.
I
Galli Senoni erano stati
fermati al Piceno (attuali
Marche). Roma aveva stretto
accordi di alleanza o di
non-interferenza con varie
popolazioni italiche e colonie
greche dell'Adriatico come
Ancona (aiutata contro i
Galli).
Operazioni
di consolidamento si stavano
effettuando soprattutto nei
territori del sud appena
entrati nell'orbita della
Repubblica. Roma era abituata
al successo e riponeva
un'enorme fiducia nel suo
sistema politico e nel suo
esercito. Per contro non
possedeva, in pratica, una
vera Marina e per i commerci
si affidava soprattutto agli
Etruschi e ai Greci. Le guerre
sannitiche avevano portato
Roma a cercare di accerchiare
il Sannio con l'alleanza degli
Apuli (in Puglia) e una
politica di controllo dei
Lucani. La Repubblica si venne
allora a trovare a stretto
contatto con le colonie greche
del Mar Ionio fra cui
Tarentum. I tarantini, in
lotta con Thurii che aveva
chiesto aiuto a Roma, dal
momento che la loro fragile
coalizione con Sanniti, Bruzi
e Lucani non riusciva ad aver
ragione delle forze romane, si
risolsero a chiedere aiuto a
Pirro, re dell'Epiro.
Pirro
aveva perso il trono nel 302
a.C. ed era stato mandato
quale ostaggio alla corte
egiziana di Tolomeo Soter.
Questi nel 297 a.C. lo aiutò
a rientrare nel suo regno. Nel
295 a.C. sposò la figlia di
Agatocle di Siracusa. Chiamato
dalle città greche contro
Roma, giunse in Italia nel 280
a.C. con un esercito di 25.000
uomini e 20 elefanti da
guerra. Dopo aver vinto la
Battaglia di Heraclea e
Battaglia di Ascoli Satriano,
tentò un accordo con Roma. Le
trattative fallirono per
intervento di Cartagine.
Cartagine
era da secoli un'affermata
potenza commerciale e navale,
controllava tutte le coste del
Mediteraneo Occidentale: Nord
Africa dall'Egitto fino
all'Algeria, le coste di
Spagna, Isole Baleari,
Sardegna e Corsica.
Resistevano solo Massalia
colonia greca, alcune città
della costa spagnola fra cui
la (più tardi) tristemente
famosa Sagunto, e le coste del
Mar Tirreno, monopolio
greco-etrusco.
Le
colonie e le tribù libiche
portavano a Cartagine tributi
per circa 12.000 talenti
d'argento (1 talento= 26 Kg).
Inoltre Cartagine possedeva
un'agricoltura sviluppatissima
e le vaste proprietà della
nobiltà punica erano
giustamente famose per la loro
ricchezza. I cartaginesi
dediti al commercio e
all'agricoltura avevano
affidato l'esercito a buoni
generali che però si
servivano quasi esclusivamente
di truppe mercenarie, per lo
più libiche. Un fattore che
ebbe grande importanza in
tutto il percorso bellico fra
Roma e la rivale. In questo
scorcio di secolo Cartagine
era, come già da decenni, in
guerra con Siracusa,
praticamente la sola città-stato
concorrente nel controllo
della Sicilia.
Siracusa
era all'epoca governata da
Gerone II che, eletto stratego
nel 275 a.C. per i suoi
successi contro i cartaginesi,
nel 265 a.C. venne proclamato
re dopo vittoriose azioni
contro i Mamertini di Messina.
La guerra contro questi
mercenari alleati a Roma lo
spinse a un'innaturale e
temporanea alleanza con
Cartagine.
La
potenza navale di Cartagine si
vide nel 278 a.C.. Attenta a
non far dimenticare i suoi
interessi sulle coste italiche
e preoccupata di un possibile
allargamento del regno di
Pirro, greco e
"imparentato" con
Siracusa, Cartagine inviò una
flotta di 120 navi, comandata
da Magone che si ancorò nel
porto di Ostia per forzare i
romani, impegnati nella guerra
con Pirro e che pensavano alla
pace, a continuare le ostilità.
Cartagine così ottenne di
avere mani più libere contro
Siracusa e la stipulazione di
un trattato (il quarto con
Roma) nel quale le due potenze
implicitamente spartivano le
zone di influenza. Il patto,
oltre a promesse di aiuto
economico e militare di
Cartagine contro i greci,
garantiva a Roma che i punici
non si accordassero con Pirro
(c'erano voci di accordi in
proposito) mentre Roma era
impegnata in combattimenti con
Sanniti, Lucani e Bruzi. La
zona di influenza di Roma
veniva fissata nell'Italia
peninsulare.
Pirro,
però, proprio nel 278 a.C.
sbarcò con 8.000 uomini a
Catania e Taormina, allontanò
i cartaginesi da Siracusa e
conquistò praticamente tutta
la Sicilia riducendo i punici
al possesso del solo Capo
Lilibeo. Due anni dopo dovette
però rientrare in Italia e
Cartagine ritornò sulle
posizioni precedenti.
Agatocle,
tiranno di Siracusa, era morto
nel 289 a.C.. Un gruppo di
mercenari italici, rimasti
senza lavoro, l'anno
successivo conquistò Messina.
Crearono una loro struttura
statale con a capo due meddices
(termine osco) e si
autonominarono Mamertini
(probabilmente dal nome di
Marte - dio della guerra).
Dalla base di Messina
saccheggiavano il territorio
circostante diventando ben
presto un serio problema per
Siracusa. I siracusani si
affidarono a Gerone che,
riorganizzato l'esercito
mercenario, dopo alterne
vicende riuscì a sconfiggere
i Mamertini a Milazzo e pose
Messina sotto assedio. I
Mamertini, scoprendo di avere
bisogno di aiuto militare,
inviarono due delegazioni,
contemporaneamente, a Roma e a
Cartagine, le due potenze che
erano in grado di sostenere un
simile attacco.
Cartagine
poteva essere interessata a
chiudere la partita con
Siracusa e conquistare
finalmente l'intera Sicilia.
Roma era ormai la
"padrona"
dell'Italia e i Mamertini
erano Italici.
All'inizio
Roma non gradiva l'idea di
aiutare un gruppo di militari
che perseguivano una guerra
"ingiusta" avendo
rubato la città ai veri
proprietari. In più Roma
aveva da pochi anni domato una
rivolta di mercenari della legio
Campana (Reghium, 271
a.C.) ed era riluttante ad
aiutare quella fazione.
Cartagine fu quindi la prima a
rispondere. Inviò truppe che
conquistarono Messina e navi
furono dislocate nel porto. A
meno di tre miglia dalla costa
italiana.
Probabilmente
questo fu il fattore
determinante. Forze
cartaginesi troppo vicine al
territorio romano e orientate
al controllo totale della
Sicilia che, a sua volta,
controllava il passaggio fra
le due parti, orientale e
occidentale, del Mediterraneo.
Roma formò un'alleanza con i
Mamertini e nel successivo 264
a.C. inviò truppe in Sicilia.
Era la prima volta che forze
romane uscivano dalla penisola
italiana.
Gerone
II, innaturalmente alleato a
Cartagine, dovette
fronteggiare le legioni di
Valerio Messala. Perse,
ottenne la pace versando 100
talenti, e divenne un fedele
alleato di Roma fornendole
aiuti, soprattutto grano e
macchine da guerra. In breve
tempo, così, rimasero in
campo solo i due eserciti
romano e cartaginese. La posta
era il possesso della Sicilia,
grande produttrice di grano e
testa di ponte di entrambe le
potenze per il controllo
commerciale e militare del
Mediterraneo centrale.
I
trattati vennero infranti, una
plurisecolare amicizia fra le
due città era terminata.
Iniziava la Prima guerra
punica.
La
Sicilia è una regione con un
territorio aspro e collinoso,
con ostacoli geografici e dove
le linee di comunicazione sono
difficili da mantenere. La
guerra terrestre, quindi, un
tipo di guerra che Roma
conosceva bene, giocò un
ruolo secondario nella Prima
guerra punica. Le operazioni
rimasero confinate ad alcune
scaramucce fra le forze in
campo, con solo qualche vera
battaglia. In genere si
assistette ad assedi e blocchi
di comunicazioni che furono le
sole operazioni degli
eserciti. Lo sforzo maggiore
fu posto nei tentativi di
chiudere i porti principali in
quanto i due contendenti erano
entrambi nella condizione di
dover rifornire le truppe di
viveri, materiali ed
effettivi, non avendo nessuna
delle due città vere e
proprie basi militari in
Sicilia.
Ciononostante
almeno due battaglie di larga
scala furono combattute
durante questa guerra. Nel 262
a.C. Roma assediò Agrigento
in un'operazione che coinvolse
entrambi gli eserciti
consolari per un totale di
quattro legioni (circa 20.000
legionari e 2.000 cavalieri) e
che tenne campo per molti
mesi. La guarnigione
cartaginese di Agrigento riuscì
a chiedere rinforzi che
giunsero, guidati da Annone. I
romani passarono quindi da
assedianti ad assediati e,
perso il supporto di Siracusa,
dovettero costruire un vallo
per propria difesa dalle
sopraggiungenti forze
cartaginesi. Dopo alcune
schermaglie si venne a una
vera battaglia che fu vinta
dai romani. Agrigento cadde e
questo diede coraggio a Roma
per ulteriori operazioni.
La
seconda operazione terrestre
su grande scala fu quella di
Marco Atilio Regolo. Fra il
256 a.C. e il 255 a.C. Roma
tentò di portare la guerra in
Africa invadendo le colonie
cartaginesi. Fu costruita una
grande flotta sia per il
trasporto delle truppe e dei
rifornimenti sia per la
protezione dei convogli.
Cartagine cercò di fermare
questa operazione ma venne
sconfitta nella Battaglia di
Capo Ecnomo. Le legioni di
Atilio Regolo sbarcarono in
Africa senza grosse difficoltà
e iniziarono a saccheggiare il
territorio per costringere
l'esercito cartaginese ad
entrare in azione. Questa
campagna ebbe risultati
contrastanti. All'inizio
Regolo vinse l'esercito
cartaginese nella battaglia di
Adys forzando Cartagine a
chiedere la pace. Furono però
presentate condizioni tanto
pesanti che i negoziati
fallirono e Cartagine, assunto
il mercenario spartano
Santippo per riorganizzare le
proprie forze, riuscì a
fermare l'avanzate romana.
Santippo sconfisse Regolo
nella battaglia di Tunisi e lo
catturò. L'invasione romana
dell'Africa ebbe fine con la
vittoria cartaginese.
Verso
la fine della guerra, nel 249
a.C. Cartagine inviò in
Sicilia il generale Amilcare
(il padre di Annibale).
Amilcare riuscì a porre sotto
il suo controllo la maggior
parte dell'interno dell'isola
e Roma dovette risolversi ad
affidarsi a un dittatore per
risolvere il problema. Le
forze terrestri di Amilcare
non furono mai sconfitte.
D'altra parte la guerra doveva
chiaramente essere decisa sul
mare. E sul mare avvenne lo
scontro decisivo. La battaglia
delle Isole Egadi del 241 a.C.
vinta dalla flotta romana,
segnò la fine della Prima
guerra punica, dimostrando,
per questo caso, la scarsa
importanza delle battaglie
terrestri.
A
causa delle difficoltà di
operare in Sicilia, la maggior
parte della Prima guerra
punica, comprese le battaglie
più decisive, fu combattuta
in mare, uno spazio ben noto
alle flotte cartaginesi che da
secoli lo percorrevano
vincenti. Di più, la guerra
navale permetteva il blocco
dei porti nemici con il
conseguente possibile o
mancato rinforzo per le truppe
a terra. Entrambi i
contendenti dovettero
investire pesantemente
nell'allestimento delle flotte
e questo diede fondo alle
finanze pubbliche sia di Roma
che di Cartagine.
Probabilmente segnò il corso
della guerra.
All'inizio
della Prima guerra Punica,
Roma non aveva nessuna
esperienza di guerra navale.
Le sue legioni erano
vittoriose da secoli nelle
terre italiche ma non esisteva
una Marina, tantomeno Marina
Militare. Nondimeno il Senato
comprese immediatamente
l'importanza del controllo del
Mediterraneo centrale nel
prosieguo del conflitto. La
prima grande flotta fu
costruita dopo la battaglia di
Agrigentum del 261 a.C. che fu
vinta ma che mise in evidenza
l'importanza del controllo
delle linee di comunicazione
nemiche.
Roma
mancava della tecnologia
navale e quindi dovette
costruire una flotta basandosi
sulle triremi e quinqeremi
cartaginesi catturate. Per
compensare la mancanza di
esperienza in battaglie fra
navi, Roma sviluppò una
tecnica di combattimento che
permetteva di sfruttare la
conoscenza delle tattiche di
combattimento terrestri in cui
era maestra. Le navi romane
furono equipaggiate con uno
speciale congegno
d'abbordaggio: il corvo.
Questo congegno agganciava le
navi nemiche e permetteva alla
fanteria di combattere quasi
come sulla terraferma.
L'efficienza di quest'arma fu
provata per la prima volta
nella battaglia di Milazzo, la
prima vittoria navale romana;
e continuò ad essere provata
negli anni successivi,
specialmente nella dura
battaglia di Capo Ecnomo.
L'aggiunta
del corvo forzò Cartagine a
rivedere le sue tattiche
militari e, poiché ebbe serie
difficoltà in questo senso,
Roma pervenne ad un vantaggio
anche in campo navale.
In
seguito, con la crescita
dell'esperienza romana nella
guerra navale, il corvo fu
abbandonato a causa del suo
impatto sulla navigabilità
dei vascelli da guerra.
Nonostante
le vittorie romane sul mare,
la Repubblica fu il
belligerante che ebbe maggiori
perdite, sia in vascelli che
in equipaggi, in larga parte a
causa di tempeste. In almeno
tre occasioni 255 a.C., 253
a.C. e 249 a.C. intere flotte
furono distrutte dal maltempo.
Il peso dei corvi sulle prue
delle navi fu il maggior
responsabile dei disastri.
Verso la fine della guerra
Cartagine comandava sul mare
in quanto Roma non pensava di
poter finanziare la
costruzione di un'altra
costosissima flotta. Ma
un'altra flotta fu varata,
attingendo a donazioni di
cittadini facoltosi.
La
Prima guerra punica fu decisa
nella battaglia delle Isole
Egadi (10 marzo 241 a.C.)
vinta dalla flotta romana
sotto la guida del console
Gaio Lutazio Catulo.
Cartagine, persa la maggior
parte delle navi, fu
economicamente incapace di
varare un'altra flotta o di
trovare nuovi equipaggi. Senza
navi che gli consentisse i
collegamenti con la
madrepatria, Amilcare, in
Sicilia, fu costretto ad
arrendersi.
Roma
vinse la Prima guerra punica
dopo 23 anni di combattimenti
e alla fine sostituì
Cartagine come maggiore
potenza del Mediterraneo. Nel
dopoguerra entrambi i
contendenti erano
finanziariamente e
demograficamente esausti. La
vittoria di Roma fu per lo più
dovuta alla sua persistenza
nel non ammettere la sconfitta
e nel non accontentarsi di
nulla di meno di una vittoria
totale. Inoltre, la capacità
della Repubblica di attrarre
investimenti privati nello
sforzo bellico, incanalando il
patriottismo dei cittadini per
trovare navi e uomini, fu uno
dei fattori decisivi,
specialmente se a paragone con
l'apparente mancanza di volontà
della nobiltà cartaginese di
rischiare le proprie fortune
per il bene comune.
È
quasi impossibile determinare
le perdite per i due
contendenti. Le fonti storiche
normalmente tendono ad
aumentare il valore di Roma.
Comunque, (escludendo la
guerra terrestre), si
consideri che: Roma perse 700
navi (massimamente per cattive
condizioni atmosferiche) e
almeno una parte degli
equipaggi, Cartagine perse 500
navi e almeno parte degli
equipaggi; ogni equipaggio era
composto mediamente da 100
uomini.
Se
ne trae la conclusione che le
perdite di uomini furono
pesanti per entrambe le parti.
Lo storico Polibio commenta
che la Prima guerra punica fu
per l'epoca la più
distruttiva in termini di vite
umane nella storia bellica,
comprese le campagne di
Alessandro Magno, e questo può
dare un'idea delle dimensioni.
Guardando ai dati del
censimento romano del terzo
secolo, A. Galsworthy notava
come durante il conflitto Roma
avesse perso circa 50.000
cittadini. E questo escludendo
le truppe ausiliarie e ogni
altro partecipante al
conflitto che non avesse avuto
il rango di civis romanus;
queste perdite non erano
determinabili.
- Le
condizioni poste da Roma
furono particolarmente
pesanti per Cartagine
che dovette accettarle,
non essendo in posizione
da poter trattare:
- -
Cartagine doveva
evacuare la Sicilia,
- -
Cartagine doveva
restituire i prigionieri
di guerra senza ottenere
riscatto mentre doveva
riscattare i propri
prigionieri,
- -
Cartagine doveva
impegnarsi a non
attaccare Siracusa e i
suoi alleati,
- -
Cartagine doveva
consegnare a Roma il
possesso di un gruppo di
piccole isole a nord
della Sicilia,
- -
Cartagine doveva pagare
un'indennità di guerra
di 1.000 talenti
immediatamente e 2.200
talenti in 10 rate
annuali.
Altre
clausole determinavano che gli
alleati di entrambe le parti
non sarebbero stati attaccati
dagli altri, nessun attacco
poteva essere effettuato dalle
due parti verso gli alleati
degli altri e fu proibito a
entrambi di raccogliere truppe
nel territorio della parte
avversa. Questo impediva ai
cartaginesi, che facevano
largo uso di mercenari,
soprattutto libici, di
accedere alle forze mercenarie
inquadrate fra le legioni e
quindi alla tecnologia e alla
superiore tecnica militare
romana.
Nel
dopoguerra Cartagine non aveva
virtualmente fondi e non fu in
grado nemmeno di pagare le
truppe mercenarie smobilitate.
Questo portò ad un conflitto
interno, la rivolta dei
mercenari, vinta dopo
durissimi combattimenti da
Amilcare Barca. Forse il
risultato politico più
immediato della Prima guerra
punica fu la caduta di
Cartagine come principale
forza navale. Le condizioni
poste a Cartagine ne
compromisero la situazione
economica e impedirono la
rinascita della città. Le
indennità richieste da Roma
causarono un aggravio
ulteriore per le finanze dello
Stato e forzarono i
cartaginesi verso la ricerca
di altre aree economiche per
trovare i fondi da versare a
Roma. Tutto ciò causò
l'aggressione dell'interno
dell'Iberia e lo sfruttamento
intensivo delle sue miniere
d'argento. E alla fine portò
alla Seconda guerra punica.
Per
Roma, la fine della Prima
guerra punica segnò l'inizio
dell'espansione fuori della
penisola italiana. La Sicilia,
tranne Siracusa, anziché un
alleato, divenne la prima
Provincia romana governata da
un pretore. Qualche anno dopo
nel 238 a.C. vennero aggiunte
Sardegna e Corsica (sempre
tolte agli ormai inermi
cartaginesi approfittando
della rivolta dei mercenari).
ILLIRI
E CELTI DELLA PIANURA PADANA
(230-219 a.C.) - Terminata
con successo la prima
guerra punica, il Senato
romano dibatteva non
sul "come" o sul
"se" allargare la
dominazione, ma sul
"dove" indirizzare
le capacità belliche e le
incredibili risorse economiche
che stavano arrivando all'Aerarium.
Decise alla fine di
indirizzarle in tutte le
direzioni. Iniziò così la
penetrazione nella Pianura
Padana, per sbarrare la
strada ai Liguri che
cercavano la via del sud e per
fermare definitivamente il
pericolo dei Galli.
Qualche
anno più tardi, dopo aver
fermato un'altra invasione
celtica che si era spinta fino
a Chiusi in Etruria (quella
dei Galli
Boi e degli Insubri dell'attuale
Lombardia) nella battaglia
di Talamone (225
a.C.), le legioni
passarono all'offensiva nella
pianura padana, riportando una
grande vittoria presso Clastidium (nel 222
a.C.), che fu seguita
dalla deduzione delle colonie
di Piacenza e Cremona (nel 218
a.C.) oltre alla
costruzione di arterie
stradali che collegassero i
nuovi territori con Roma,
come la via
Flaminia (nel 220
a.C.).
Contestualmente
cercava di dare sfogo alle
necessità di fornire la terra
ai reduci con la creazione di
varie colonie, iniziando a dar
vita ad una politica che fosse
attenta all'attività della
regina Teuta che,
alla testa dei pirati dell'Illiria,
disturbava la navigazione
nell'Adriatico (nel 230-229
a.C.). Roma riuscì
a sconfiggere
i pirati illirici,
sottoponendo poi buona parte
dell'Illiria a tributo e
cominciando la penetrazione in
quel territorio. L'intervento
romano fu risolutivo, poiché
nell'arco di dieci
anni la pirateria illirica fu
debellata. Questo
nuovo scenario diede la
possibilità a Roma di
affacciarsi nella parte
orientale del Mediterraneo,
entrando in contatto diretto
con le città-stato della Grecia,
della Macedonia,
della Lega
etolica sottoposte
in varia misura agli attacchi
dei pirati e in lotta fra di
loro.
SECONDA
GUERRA PUNICA
(219-202
a.C.) - La
Seconda guerra punica fu
combattuta tra Roma e
Cartagine nel III secolo a.C.,
dal 219 a.C. al 202 a.C.,
prima in Europa e
successivamente in Africa.
La
guerra cominciò per
iniziativa dei Cartaginesi,
che volevano riscattarsi dalla
sconfitta subita nella Prima
guerra punica e se non fu
certamente la più importante
per durata, lo fu per
l'ampiezza delle popolazioni
coinvolte, per i suoi costi
economici e umani, per le
decisive conseguenze sul piano
storico, politico e quindi
sociale dell'intero mondo
mediterraneo, conseguenze che,
per certi versi, si risentono
anche ai nostri giorni.
Contrariamente
alla prima guerra punica, che
fu combattuta e vinta
essenzialmente sul mare, la
seconda fu un continuo
succedersi di battaglie
terrestri con movimenti di
masse enormi di fanterie,
elefanti e cavalieri. Le
marine si scontrarono ma
furono quasi solamente
utilizzate per aiutare gli
eserciti nei loro spostamenti,
o per far viaggiare i
diplomatici da un regno
all'altro del Mediterraneo.

Anche
se la condotta della guerra
venne generalmente percepita
per lo più seguendo il
cammino di Annibale dalla
Spagna al sud Italia, in realtà
tutto il Mediterraneo fu
direttamente e indirettamente
coinvolto nella disputa fra
Roma e Cartagine. Teatro di
scontri terrestri furono
Iberia, Gallia, Gallia
cisalpina, Italia, Africa,
mentre le diplomazie dei due
contendenti si attivarono
verso la Numidia, la Grecia,
la Macedonia, la Siria, i
regni dell'Anatolia, l'Egitto.
Alla
fine della Prima guerra punica
Cartagine si trovava in una
situazione finanziaria
disastrosa. Enormi somme
dovevano essere versate ai
vincitori quale risarcimento.
La ricca Sicilia era persa e
passata sotto il controllo di
Roma e, nell’impossibilità
di pagare i mercenari libici e
numidi che utilizzava, dovette
subire una sanguinosa rivolta
che richiese 3 anni di sforzi
ed efferatezze per essere
domata. Una buona parte del
commercio, dal quale traeva la
maggiore quantità dei suoi
introiti era stata dirottata
verso lidi più tranquilli e
controllata dai nuovi padroni.
Le fazioni, sempre presenti in
città e causa quasi unica del
suo tragico destino, si
dividevano fra un'aristocrazia
ormai volta alla gestione di
vaste proprietà fondiarie
basate su un'agricoltura
specializzata, e una
"borghesia"
commerciale e artigianale che
vedeva di giorno in giorno
scendere il proprio potere e
la propria capacità economica
e imprenditoriale.
Roma
stava raccogliendo i frutti più
succosi di una secolare serie
di guerre espansionistiche.
Polibio si riprometteva di
studiare come avesse potuto
Roma, in soli 53 anni,
diventare padrona del mondo;
in realtà con la vittoria sui
Cartaginesi era stato fatto il
salto di qualità ma secoli di
preparazione erano stati
necessari.
Al
tempo della Prima guerra
punica, i romani non avevano
ancora terminato di unificare
l'Italia sotto la loro
dominazione. Colonie greche
erano ancora libere e ben
decise a rimanerlo,
popolazioni della costa
adriatica erano
"solo" alleate e i
Sanniti resistevano, vinti ma
non domi.
Dopo
la guerra Roma ebbe mano
libera nella penisola al di
sotto dell'Appennino
Tosco-Emiliano e si era
procurata una provincia, la
Sicilia, ricca, produttiva,
culturalmente evolutissima. Il
Senato dibatteva su dove
indirizzare le capacità
belliche e le incredibili
risorse economiche che stavano
arrivando all'Erario. Decise
alla fine di indirizzarle in
tutte le direzioni. Iniziò la
penetrazione nella Pianura
Padana, per sbarrare la strada
ai Liguri che cercavano la via
del sud e per fermare
definitivamente il pericolo
dei Galli. Contestualmente
cercava di dare sfogo alle
necessità di fornire la terra
ai reduci con la creazione di
varie colonie; iniziò una
politica di attenzione
all'attività della regina
Teuta che, alla testa dei
pirati dell'Illiria,
disturbava la navigazione
nell'Adriatico. Questo diede
la possibilità a Roma di
inserirsi nella politica delle
città-stato della Grecia,
della Macedonia, della Lega
Etolica sottoposte in varia
misura agli attacchi dei
pirati e in lotta fra di loro.
Roma, inoltre, approfittando
della debolezza di Cartagine
che era logorata e impegnata
dalla rivolta dei mercenari,
occupò Sardegna e Corsica,
che erano ancora sottoposte al
dominio punico.
Risolto
in qualche modo il problema
generato dai mercenari,
Cartagine cercò una via per
riprendere il suo cammino
storico. Il governo della città
era diviso principalmente fra
il partito dell'aristocrazia
terriera, capeggiato dalla
famiglia degli Annone da una
parte, e il ceto
imprenditoriale e commerciale
che faceva riferimento ad
Amilcare e in genere ai
Barcidi. Annone propugnava
l'accordo con Roma e
l'allargamento del potere
cartaginese verso l'interno
dell'Africa, in direzione
opposta alla città rivale.
Amilcare vedeva nella Spagna,
dove Cartagine già da secoli
manteneva larghi interessi
commerciali, il fulcro
economico per la ripresa delle
finanze puniche.
Politicamente
sconfitto Amilcare, che aveva
avuto un ruolo di primo piano
nella repressione della
rivolta dei mercenari, non
ottenendo dal Senato
cartaginese le navi per andare
in Spagna, prese il comando
dei reparti mercenari rimasti
e con una marcia incredibile
attraversò tutto il
nordafrica fiancheggiando la
costa fino allo stretto di
Gibilterra. Amilcare, che era
accompagnato dal figlio
Annibale e dal genero
Asdrubale attraversò lo
stretto di Gibilterra e,
seguendo la costa spagnola, la
percorse verso oriente alla
ricerca di nuove ricchezze per
la sua città.
La
spedizione cartaginese prese
l'aspetto di una conquista.
Dal 237 a.C., anno della
partenza dall'Africa al 229
a.C., anno della sua morte in
combattimento, Amilcare riuscì
a rendere la spedizione
autosufficiente dal punto di
vista economico e militare e
perfino a inviare a Cartagine
grandi quantità di merci e
metalli requisiti alle tribù
ispaniche come tributo. Morto
Amilcare il genero ne prese il
posto e iniziò una politica
di consolidamento delle
conquiste. Con patti e
trattati si accordò con i
vari popoli locali e fondò
una nuova città. La chiamò
Karth Hadash, cioè Città
Nuova, cioè Cartagine, oggi
Cartagena.
Impegnati
con i Galli, i romani
preferirono accordarsi con
Asdrubale e nel 226 a.C.,
spinti anche dall'alleata
Marsiglia che vedeva
avvicinarsi il pericolo,
stipularono un trattato che
poneva l'Ebro come limite
dell'espansione di Cartagine.
Si
riconosceva così, in modo
implicito, anche il nuovo
territorio soggetto al
controllo cartaginese. D'altra
parte un esercito di circa
50.000 fanti, 6.000 cavalieri
per lo più numidi e oltre 200
elefanti da guerra costituiva
una notevole potenza militare
ma soprattutto un problema
economico per il suo
mantenimento che dava
sicuramente da pensare ai
possibili bersagli. La svolta
si ebbe nel 221 a.C.:
Asdrubale, pare a causa di una
donna, fu ucciso da un
mercenario gallo e l'esercito
cartaginese scelse Annibale,
che aveva solo 26 anni, come
suo comandante. Cartagine non
disse di no.
Annibale
prima di partire era stato
condotto al cospetto degli dei
della città dal padre che gli
aveva fatto giurare odio
eterno a Roma. Era poco più
di un bambino ma aveva
compreso il significato intimo
del giuramento. A 26 anni,
capo dell'esercito, idolatrato
dai suoi uomini con cui aveva
vissuto per anni condividendo
pericoli e disagi, impresse
una svolta decisiva alla
politica cartaginese in
Spagna.
Il
trattato del 226 a.C. fissava
nell'Ebro il limite
dell'espansione punica ma
alcune città, anche se
comprese nel territorio
controllato dai cartaginesi
erano alleate di Roma:
Ampurias, Rosas e la più
famosa di tutte: Sagunto.
Posta in posizione munitissima
in cima a un'altura, Sagunto
sarebbe servita per rifinire
la preparazione dell'esercito
di Annibale, ottimizzandone la
qualità. E Sagunto fu scelta
come casus belli.
Con
un pretesto Annibale dichiarò
guerra alla città. Sagunto
chiese aiuto a Roma che però
si limitò a inviare degli
ambasciatori che Annibale non
ricevette. Sagunto venne
attaccata nel marzo del 219
a.C. e sottoposta a un
drammatico assedio che si
protrasse per otto mesi senza
che Roma decidesse di
attivarsi.
Alla
fine, la sfortunata città,
martirizzata da mesi di fame,
battaglie, lutti e
disperazione si arrese e venne
rasa al suolo.
Roma,
a questo punto, intervenne e
inviò una delegazione a
Cartagine chiedendo la
consegna di Annibale, ma con
le ricchezze che per anni
erano arrivate dalla Spagna il
partito della guerra aveva
ripreso vigore a Cartagine, e
Cartagine rifiutò. La
conseguenza ineluttabile fu
che Roma dichiarò guerra a
Cartagine.
Era alla fine del 219 a.C. e
iniziava la Seconda guerra
punica.
Nella
primavera del 218
a.C.,
pochi mesi dopo l'espugnazione
di Sagunto, Annibale completò
la seconda selezione del suo
esercito: fece arrivare da
Cartagine 15.000 uomini di cui
2.000 cavalieri numidi. Secondo
quanto racconta Polibio, attuò
una politica saggia e accorta,
facendo passare i soldati
della Libia in Iberia e
viceversa, cementando così i
vincoli di reciproca fedeltà
tra le due province. Lasciò,
quindi, in Spagna, sotto il
comando del fratello Asdrubale,
per tenere a bada le
popolazioni locali, una forza
navale formata da cinquanta quinqueremi,
due quadriremi e
cinque triremi;
450 cavalieri tra Libi-Fenici e Libici,
300 Ilergeti e
1.800 tra Numidi, Massili, Mesesuli, Maccei e Marusi; 11.850 fanti
libici, 300 Liguri,
500 Balearici e
21 elefanti.
A
Cartagine vennero mandati di
rinforzo 13.800 fanti e 1.200
cavalieri iberici, oltre a 870
balearici, assieme a 4.000
nobili spagnoli che,
apparentemente inviati come
"forze scelte",
erano in realtà ostaggi presi
per assicurarsi la lealtà
della Spagna.
Contemporaneamente rimase ad
aspettare l'arrivo dei
messaggeri inviati ai Celti della Gallia
Cisalpina,
contando sul loro odio nei
confronti dei Romani e avendo
promesso di tutto ai loro
capi.
Annibale
ottenne così di bilanciare il
controllo delle varie
posizioni militarmente o
politicamente pericolose con
truppe non legate al
territorio, che controllavano
ostaggi legati a un territorio
differente. Alle forze
lasciate in Iberia e inviate a
Cartagine, andavano, infine,
sommate quelle della
spedizione vera e propria in Italia,
vale a dire 80.000-90.000
fanti e 10.000-12.000
cavalieri, oltre a 37
elefanti.
Memore
delle battaglie navali della
Prima guerra punica, Roma
allestì una flotta di oltre
200 quinquiremi, la città
stessa fornì 24.000 legionari
e 2.000 cavalieri, gli alleati
italici aggiunsero 45.000
fanti e 4.000 cavalieri. I due
consoli si spartirono, come
d'uso, i compiti; Tito
Sempronio Longo venne mandato
in Sicilia con due legioni più
forze degli alleati, in tutto
24.000 fanti e 2.000 cavalieri
con l'incarico di passare in
Africa per attaccare
direttamente Cartagine. Una
flotta di 160 quinquiremi più
naviglio leggero doveva
trasportarli.
La
prima azione militare
consistette nell'espugnare la
piazzaforte punica di Melita
(Malta), che s'arrese subito
senza combattere. A Publio
Cornelio Scipione padre
dell'Africano ed al fratello
Gneo Cornelio Scipione venne
assegnata la Spagna con il
resto delle forze: due legioni
e le forze degli alleati:
22.000 fanti, 2.000 cavalieri
e una sessantina di navi. Il
piano prevedeva di colpire
Cartagine, ritenuta non del
tutto pronta, con un esercito
e attaccare Annibale in Spagna
cercando l'aiuto delle
popolazioni locali.
Vennero
inviati ambasciatori in Spagna
per cercare l'alleanza delle
tribù Celtibere, da anni in
lotta contro i cartaginesi. Ma
mentre qualche tribù accettò,
altre, ricordando il mancato
aiuto a Sagunto, rifiutarono
di aiutare Roma innestando una
reazione negativa che investì
anche la Gallia in entrambi i
versanti delle Alpi. Roma poté
contare solo sulle proprie
forze e quelle dell'Italia
appena conquistata ma ancora
percorsa da fremiti di libertà.
Nel
maggio del 218 a.C. Annibale
lasciò la penisola iberica,
con circa 90.000 fanti, 12.000
cavalieri e 37 elefanti.
Doveva muoversi in fretta se
voleva dividere le forze di
Roma per evitare l'attacco
diretto a Cartagine e doveva
terminare la guerra in breve
tempo per nuocere il meno
possibile ai commerci, linfa
vitale per Cartagine.
Passato
l'Ebro, in circa due mesi
sconfisse, perdendo però ben
22.000 uomini fra decessi e
defezioni, le popolazioni che
si frapponevano fra il
territorio cartaginese e i
Pirenei dove poi lasciò per
protezione un contingente di
oltre 10.000 uomini.
Cercò
l'alleanza delle popolazioni
galliche sulle cui terre
doveva forzatamente passare
rassicurandole di non volere
la loro conquista e cercando
invece di fomentarle contro
Roma. Il passaggio, però, non
fu facile e dovette farsi
strada con le armi perdendo
ancora 13.000 uomini di cui
1.000 cavalieri. Dopo la
diserzione di 3.000 Carpetani
permise ad altri 7.000 uomini,
poco desiderosi di seguirlo,
di ritornare a casa. Verso la
metà di agosto arrivarono al
Rodano 38.000 fanti e 8.000
cavalieri, truppe sicuramente
fedeli e già rodate da dure
battaglie.
Nel
frattempo la diplomazia di
Annibale nella Gallia
Cisalpina spinse i Galli Boi e
Insubri alla rivolta. Questi
scacciarono i coloni da
Piacenza e li spinsero fino a
Modena che venne assediata,
obbligando così Scipione a
dirottare verso al Pianura
Padana le sue forze che si
trovavano a Pisa in attesa
dell'imbarco verso la Gallia.
Scipione fu forzato a tornare
a Roma per arruolare una sesta
legione. A causa della
malaccorta condotta della
guerra ai Galli, Scipione si
vide costretto a mandare
contro di loro anche questa
legione. Tornato ancora a
Roma, levò altre forze e
finalmente riuscì ad arrivare
a Marsiglia per fronteggiare
Annibale, ma era passato
troppo tempo prezioso.
Annibale
doveva far passare il suo
esercito sulla riva sinistra
del Rodano. Lo aspettavano la
forte tribù dei Volcari e
Scipione con le sue legioni,
che erano partiti per la
Spagna e che, per gli
anzidetti ritardi e per la
veloce marcia di Annibale,
avevano deviato su Marsiglia.
Una volta sconfitti i Volcari
con un trucco, a seguito di
uno scontro fra le cavallerie,
il cartaginese si rese conto
di non poter passare in Italia
per la strada costiera e si
inoltrò fra le montagne
seguendo le vallate del Rodano
e dell'Isère.

Se
pensiamo che eravamo verso la
fine di settembre, l'epica
della traversata, raccontata
da tanti autori come di una
spedizione trascinata alla
meta solo dalla sovrumana
volontà del condottiero,
assume un aspetto meno eroico.
Il freddo e la fatica si
fecero certo sentire per
uomini e animali acclimatati
al sole della costa spagnola e
probabilmente non
sufficientemente attrezzati
per una traversata a tali
altezze, però l'esercito
punico raggiunse la Pianura
Padana prima che le nevi
avessero bloccato i passi.
Annibale
riuscì ad arrivare in Italia
dopo una ventina di giorni di
aspri combattimenti con le
popolazioni montanare che,
anche se terrorizzate
dall'avanzata di un esercito
di dimensioni, per loro,
incredibili, dettero filo da
torcere alle pur agguerrite
truppe cartaginesi. Ai piedi
dei monti rimasero al
condottiero 30.000 fanti,
6.000 cavalieri temprati da
tante scaramucce e 21 elefanti
da guerra superstiti. In
Gallia Cisalpina la prima
battaglia si rese necessaria
per raggiungere gli alleati
Galli Insubri e i Boi.
Annibale dovette passare per
il territorio dei loro nemici,
i Galli Taurini che
resistettero ma vennero
sopraffatti. Nel frattempo
Publio Scipione, inviato il
fratello Gneo in Spagna per
proseguire quella parte del
piano bellico, era ritornato
in Italia con pochi rinforzi
attestandosi a Piacenza.
Tiberio Sempronio Longo,
abbandonata l'idea di
attaccare Cartagine, risaliva
l'Italia con l'altro esercito.
Questa parte del piano di
Annibale aveva funzionato:
Cartagine non sarebbe stata
toccata, non subito.
Arrivato
a Piacenza, Scipione aggiunse
i suoi limitati rinforzi alle
truppe di stanza in Gallia
Cisalpina, provate dalle
battaglie contro i Galli e andò
incontro ad Annibale
oltrepassando il Ticino. La
battaglia del Ticino fu solo
un primo scontro ma diede la
misura delle capacità
belliche di Annibale. Questi,
utilizzando la cavalleria
numidica in modo non omogeneo
alle consuetudini militari
romane, sconfisse pesantemente
Scipione che restò ferito,
rischiò la morte in battaglia
e venne fortunosamente
salvato, a quanto riportano
gli storici, dal figlio
diciassettenne Publio Cornelio
Scipione che poi diventerà
"Africano".
Scipione
ripiegò su Piacenza. Qui
avvenne il tradimento di oltre
2.000 alleati Galli che, dopo
aver massacrato molti
commilitoni italici,
disertarono passando dalla
parte di Annibale che li inviò
alle rispettive tribù per
diffondere la defezione.
Scipione all'avvicinarsi di
Annibale e per non dare spazio
alla sua cavalleria,
avvantaggiata sul terreno
pianeggiante, si spostò verso
Stradella sulla riva destra
della Trebbia, ai piedi
dell'Appennino. L'esercito
cartaginese, per un altro
tradimento, questa volta del
capo della guarnigione,
conquistò Clastidium
(Casteggio) dove erano
ammassate grandi riserve
alimentari romane e si assicurò
buona parte dei rifornimenti
per l'inverno.
L'esercito
romano che era stato inviato a
sud per attaccare Cartagine
aveva nel frattempo
felicemente contrastato le
navi puniche e conquistato
Malta catturando i 2.000
uomini della guarnigione.
Quando il Senato ordinò a
Sempronio Longo di portare
aiuto al collega, questi aveva
risalito l'Adriatico ed era
sbarcato a Rimini. La notizia
dell'avvicinarsi di questo
esercito spinse Annibale ad
accelerare alcune operazioni
per convincere le tribù
celtiche ad unirsi a lui e a
mandare la cavalleria a
compiere rastrellamenti nel
territorio controllato. Le
tribù attaccate, però,
cercarono la protezione di
Roma e Annibale fu costretto a
scontrarsi con i romani per
non perdere i vantaggi
acquisiti. Ai primi di
dicembre Sempronio Longo
raggiunse Scipione con circa
16.000 legionari e 20.000
alleati, per lo più Galli
Cenomani a Stradella mentre
Annibale vide aumentare le sue
forze a circa 40.000 uomini
con l'arrivo di Galli Boi e
Insubri. In uno scontro la
cavalleria numidica venne
battuta dalle forze di
Sempronio e questo rese il
console poco prudente.
Un
freddo mattino di dicembre,
iniziò la battaglia della
Trebbia. Annibale inviò la
cavalleria a provocare i
romani fingendo un attacco
seguito da una fuga. Contro il
parere di Scipione, ancora
ferito, Sempronio prima mandò
all'attacco la cavalleria, poi
fece uscire i veliti e infine
tutto l'esercito ed ordinò
alle forze, ancora digiune, di
attraversare il fiume.
Annibale che aveva preparato i
suoi, asciutti e ben nutriti,
non ebbe difficoltà a
scardinare i manipoli di Roma
che, bagnati e affamati,
dovettero combattere con il
fiume gelato alle spalle.
L'esercito romano scompaginato
prima dagli elefanti e dalla
cavalleria e attaccato dalla
fanteria e infine aggirato e
attaccato anche sui fianchi
dovette faticosamente
ripiegare: si salvarono solo
parte dei cavalieri e circa
10.000 fanti che raggiunsero
Piacenza e Cremona.
Scipione
e Longo tornarono a Roma. Le
loro cariche scadevano alla
fine dell'anno, nuovi consoli
dovevano essere eletti e nuove
legioni dovevano essere
arruolate. La minaccia punica
si annunciava davvero
preoccupante e Roma allestì
nove ulteriori legioni: una
venne inviata in Sardegna, due
in Sicilia, due vennero poste
a difesa di Roma, due vennero
mandate in Spagna. Rinforzi
arrivarono alle legioni
rimaste nella Gallia Cisalpina
e alle guarnigioni della
penisola.
In
Spagna, nel frattempo, Gneo
Cornelio Scipione aveva
riconquistato Ampurias,
colonia greca di Marsiglia, e
si era diretto con i suoi
24.000 uomini verso l'Ebro,
battendosi vittoriosamente
contro alcune tribù locali e
contro Annone che era rimasto
a presidiare i Pirenei con
11.000 uomini. Annone venne
pesantemente sconfitto, subì
gravissime perdite e fu
catturato. Asdrubale, che con
8.000 uomini stava marciando
per ricongiungersi a lui, dopo
alcune scaramucce ritornò a
Cartagena per svernare mentre
Gneo Scipione pose la base
presso Ampurias.
Nell'anno
217 a.C. i nuovi consoli, Gneo
Servilio Gemino e Gaio
Flaminio con le quattro
legioni consolari e gli
alleati, in tutto circa 50.000
uomini, si spostarono nella
via ritenuta più logica per
marciare verso Roma. I resti
delle due legioni di Sempronio
Longo, rafforzate da nuovi
elementi e da alleati di
Siracusa, si fermarono a
presidiare l'Etruria sotto la
guida di Flaminio e altre due
legioni al comando di Servilio
Gemino si attestarono a
Rimini, confine nord della
penisola. Roma abbandonava la
Gallia Cisalpina dove aveva
appena iniziato a inserirsi.
Restavano fedeli i Galli
Cenomani e i Veneti; questi
alleati si riveleranno
preziosi per rifornire di cibo
le guarnigioni delle due
colonie di Cremona e Piacenza
che Roma era stata costretta
ad abbandonare in un mare di
nemici. Annibale svernò fra i
Galli Boi che, secondo
Polibio, non furono poi così
contenti di dover nutrire e
mantenere l'esercito punico.
Nella
primavera del 217 a.C.
Annibale decise di scendere
verso Roma. L'esercito era
riposato e contava circa
50.000 uomini, in massima
parte Galli che si erano
aggiunti ai superstiti della
marcia dell'anno precedente.
Per il freddo era rimasto
vivo, ma per poco, un solo
elefante da guerra. Sapendo
che le legioni romane si erano
attestate a Rimini e ad
Arezzo, il generale
cartaginese decise di
attraversare l'Appennino,
probabilmente al Passo di
Collina, e scendere verso
Pistoia. Il territorio,
all'epoca, era paludoso e
intransitabile, la marcia
dell'esercito cartaginese fu
lenta ed estremamente
difficoltosa; molti uomini,
per riposare, dovettero
dormire sulle carcasse degli
animali morti. Molti morirono
e lo stesso Annibale perse un
occhio a causa di
un'infezione.
Le
devastazioni dell'esercito
cartaginese costrinsero
Flaminio a spostarsi dalle
basi di Arezzo e dirigersi
verso sud per cercare di
intercettare Annibale.
Servilio, nel frattempo,
essendo partito da posizioni
ancora più lontane, stava
marciando lungo la nuovissima
Via Flaminia per
ricongiungersi al collega,
proprio quello che l'aveva
costruita. Annibale non attese
il ricongiungimento e alla
sera accampò le sue truppe
appiedate sulle colline sopra
il lago nascondendo in una
gola la micidiale cavalleria;
sulle rive del lago si
accamparono gli ignari romani.
Il giorno dopo iniziò la
battaglia del Lago Trasimeno.
In
una mattinata nebbiosa i
25.000 uomini di Flaminio, non
essendo a conoscenza della
posizione del nemico,
procedevano senza particolari
accorgimenti difensivi.
Annibale non schierò le sue
truppe, le scatenò
proditoriamente sulla colonna
in marcia che venne stretta
fra le colline e le rive del
lago e accerchiata. Fu un
massacro in cui persero la
vita lo stesso console e
15.000 romani; 6.000 furono i
prigionieri. Il giorno dopo
vennero sconfitti anche alcuni
reparti di cavalleria di
Servilio, appena arrivati, che
si scontrarono con la
cavalleria numida di Maarbale.
Qualche migliaio di superstiti
delle legioni si disperse in
Etruria o riuscì a
raggiungere Roma.
Questa
volta il disastro non venne
tenuto nascosto; il Trasimeno
era troppo vicino. Servilio
assunse il comando delle forze
navali, Regolo sostituì il
defunto Flaminio al consolato
ma, come sempre nelle più
dure avversità, Roma nominò
un dittatore: Quinto Fabio
Massimo che passerà alla
storia come Cunctator
(Temporeggiatore).
Annibale
fece trucidare i prigionieri
romani, mandò liberi e senza
riscatto i prigionieri
italici. Con questa mossa
cercava di staccare gli
alleati da Roma, ma le città
dell'Etruria non tradirono e
perfino i Sanniti, solo da
poco sottomessi, per il
momento non cambiarono
alleanza.
Il
mancato funzionamento della
mossa propagandistica,
probabilmente, cambiò il
corso della guerra. Non
potendo resistere a lungo in
un territorio totalmente
ostile e non potendo quindi
porre l'assedio a Roma stessa,
Annibale si diresse verso
l'Adriatico e poi lungo la
costa verso il sud dell'Italia
dove sapeva di trovare
popolazioni meno legate
all'Urbe: prima destinazione
l'Apulia.
Un
altro motivo del mancato
attacco cartaginese a Roma fu
probabilmente il blocco navale
posto dalla flotta romana alle
coste del Tirreno. Al comando
di Annone, una flotta
cartaginese di circa 70 navi
si riunì vicino alla Sardegna
e cercò di portare rinforzi
in Italia tentando di sbarcare
sulle coste dell'Etruria. Fu
ricacciata verso sud dalla
flotta romana, 120
quinquiremi, che pattugliava
il Tirreno, comandata da
Servilio. Nel viaggio di
ritorno verso l'Africa i
cartaginesi si scontrarono e
distrussero una flotta da
carico che Roma stava mandando
in Spagna come aiuto a Gneo e
Publio Scipione. Ma la flotta
da guerra di Servilio li
incalzò e, pur senza
raggiungere i nemici, arrivò
fino al Golfo della Sirte da
dove però venne respinta.
Tornando verso l'Italia
Servilio si accontentò di
rioccupare Pantelleria che era
caduta in mano cartaginese.
Anche
le forze cartaginesi in Spagna
non poterono mandare aiuti ad
Annibale. Alla ripresa delle
ostilità dopo l'inverno, con
una campagna diplomatica e
militare, con l'uso della
forza e degli ambasciatori,
Gneo Scipione riuscì a
riconquistare il territorio
fra l'Ebro e i Pirenei che
l'anno precedente era stato
preso da Annibale. Le
popolazioni degli Illergeti e
degli Ausertani che
resistevano a Roma vennero
sconfitte e Asdrubale fu
fermato al vecchio confine
dopo una serie di battaglie
terresti e navali. La flotta
cartaginese di stanza in
Spagna fu catturata da
Scipione e i romani arrivarono
a saccheggiare il territorio
vicino a Cartagena riuscendo
anche a sottomettere le isole
Baleari: Roma deteneva ora il
controllo totale del
Mediterraneo Occidentale.
Verso
la fine dell'anno in Spagna
arrivò anche il fratello di
Gneo Scipione, Publio, guarito
dalle ferite del Ticino. Con
una dote di 30 navi e una
legione. In Spagna Roma
schierava adesso due legioni,
10.000 alleati, 80
quinquiremi, 25.000 marinai.
Le forze cartaginesi erano
bloccate in Spagna, non
potevano passare per via di
terra senza cercare di
riaprirsi la strada con la
forza e non potevano usare le
navi perché Cartagine aveva
perso l'antico predominio
navale. Con la venuta
dell'inverno le operazioni si
fermarono nuovamente.
L'unico
alleato che avrebbe potuto
fare qualcosa per Annibale era
Filippo V di Macedonia. La
Macedonia era il più forte
stato ellenistico e vedeva con
preoccupazione l'ingerenza
romana sulla Lega Etolica e
sulla Grecia in genere.
Filippo temeva soprattutto
l'espansione di Roma nelle
coste illiriche cominciata con
l'attacco alla regina Teuta e
proseguita con la parziale
conquista dell'Illiria.
Filippo V intervenne contro
queste forze.
Scoppiò
così la Prima guerra
Macedonica: da una parte
Filippo V con l’alleata lega
Achea, dall'altra la Lega
Etolica con il supporto
romano. Vennero coinvolte
anche le diplomazie di Atene
da una parte e di Rodi
dall'altra. La prima guerra
macedonica terminò nel 205
a.C. con la pace di Fenice che
segnò il definitivo ingresso
di Roma nel mare Egeo e nella
politica del Mediterraneo
Orientale. Filippo V non fu un
vero aiuto per Annibale,
Annibale era solo.
Quinto
Fabio Massimo diede una svolta
alla strategia di Roma.
Prudente e deciso evitò
accuratamente tutti gli
scontri diretti che non
fossero strettamente necessari
cercando di fare "terra
bruciata" attorno
all'esercito di Annibale e
infliggendo continue perdite
al cartaginese che non poteva
rimpiazzarle con facilità.
Dall'Apulia, Annibale cambiò
ancora direzione e si diresse
sul Sannio e sulla Campania,
probabilmente nel tentativo di
raggiungere Roma da sud. Ma,
diretto verso Cassino e invece
guidato a Casilino, rischiò
di essere annientato da Fabio
Massimo che aspettava solo
un'occasione veramente
favorevole. Le forze di
Annibale chiuse in una
strettoia riuscirono a
sfuggire nella notte grazie ad
un ennesimo trucco del
generale. Alle corna di
duemila buoi furono appese
torce e Fabio Massimo,
vedendole in movimento e
credendo che fosse l'esercito
punico che si muoveva, seguì
le luci lasciando aperta la
strada della fuga ai
cartaginesi che si
attestarono, alla fine, nel
territorio di Geronio.
La
tattica di Fabio Massimo non
piaceva a molti fra i romani e
non piaceva a Marco Minucio
Rufo, magister equitum,
che continuamente la
contestava. In assenza di
Fabio Massimo, Rufo attaccò
un reparto di Annibale e
vinse. A Roma fu portata la
notizia di una grande vittoria
e Rufo, su proposta del
tribuno della plebe Marco
Metello, fu innalzato allo
stesso grado di Massimo. Si
ebbero così due dittatori.
Anziché comandare l'esercito
a giorni alterni, com'era
d'uso con i consoli, Fabio
Massimo preferì dividere le
forze. Annibale cercò di
approfittare di questa
debolezza avversaria e attirò
Rufo in una trappola. Le forze
di Rufo stavano per essere
distrutte quando il
Temporeggiatore, lanciò la
sua metà dell'esercito,
sbaragliò i cartaginesi e
salvò Rufo che, pentito e
grato, rinunciò alla carica
di dittatore.
La
carica di dittatore, a Roma,
durava al massimo sei mesi.
Quinto Fabio Massimo, alla
scadenza, restituì le insegne
e il comando ritornò ai
consoli Gneo Servilio Gemino e
Marco Attilio Regolo nel
frattempo eletto al posto di
Flaminio. Per tutto il resto
dell'anno i consoli
continuarono nella tattica di
Massimo e, dice Tito Livio,
Annibale fu ridotto a un tale
malpartito da pensare
seriamente di ritornare in
Gallia. Non lo fece, pare,
solo perché sarebbe sembrata
una fuga. Roma sembrò aver
assorbito il trauma e, visto
che gli alleati italici non
defezionavano, ricominciò a
tenere sotto controllo la
politica estera verso
l'Illiria, la Macedonia,
Siracusa, la Gallia, come se
Annibale non fosse nemmeno
presente.
L'anno
216 a.C., scaduti dalla carica
i consoli Servilio e Regolo,
dopo un breve interregno di
Veturio Filone e Pomponio
Matone, vennero eletti consoli
Lucio Emilio Paolo e Gaio
Terenzio Varrone. Paolo,
sostenuto dall'aristocrazia,
era il vincitore della guerra
in Illiria e propendeva per il
mantenimento della tattica di
Quinto Fabio Massimo. Varrone,
di parte plebea, figlio di un
macellaio arricchito, era un
demagogo impetuoso che aveva
però percorso la carriera
pubblica dall'edilità alla
pretura. Ma non sapeva come si
comandava un esercito. Le
forze armate di Roma erano
state aumentate e, contando
gli alleati, ben 90.000 uomini
erano schierati contro
Annibale. I consoli, a luglio,
si misero alla testa
dell'esercito contrastando
Annibale ancora attestato a
Geronio. Annibale si spostò
in Apulia in cerca di viveri e
qui lo seguì l'esercito
romano comandato a giorni
alterni da Paolo e da Varrone.
I due eserciti si avvicinarono
l'uno all'altro e a Canne,
dove Annibale aveva trovato e
requisito grandi ammassi di
grano raccolti dai romani, e
si ebbe lo scontro che, nelle
intenzioni di Varrone, doveva
essere decisivo.
Il
2 agosto 216 a.C. il comando
toccava a Varrone che forzò
la mano al collega e dispose
l'esercito per la battaglia.
Le truppe romane erano circa
il doppio delle forze di
Annibale: sembrava impossibile
perdere. Le legioni vennero
disposte in uno schieramento
chiuso, insolitamente
profondo, in modo, secondo le
intenzioni di Varrone, da
schiacciare le linee
cartaginesi col loro stesso
peso. Annibale dispose al
centro i Galli, secondo Tito
Livio in una curiosa
formazione a mezzaluna, con la
convessità rivolta verso
l'avversario, nella quasi
certezza che non avrebbero
retto alla pressione dello
schieramento romano. Vide
giusto. I Galli lentamente
cedettero terreno e le forze
romane avanzarono, attirate
sempre più verso il centro
dello schieramento dalla
retrocessione nemica. Annibale
rispose facendo avanzare le
ali e scatenando la terribile
cavalleria pesante di
Asdrubale, che già aveva dato
prova di essere la sua arma
migliore, contro le analoghe
formazioni romane che la
fronteggiavano. La cavalleria
romana cedette e si ritirò
lasciando aperta la strada ad
Asdrubale il quale poté
attaccare da dietro i reparti
di cavalleria alleata che, sul
fianco opposto, resistevano ad
Annone e ai suoi cavalieri
numidi. Sotto il doppio
attacco anche questi reparti
cedettero e i cavalieri punici
poterono rinforzare le ali di
fanteria che nel frattempo si
erano ripiegate a stringere i
fianchi delle legioni.
L'intero esercito romano fu
chiuso in un cerchio di ferro.

Roma
perse un console, Paolo
Emilio, che non voleva questa
battaglia, i due consolari
Servilio e Minucio che
combattevano al centro dello
schieramento, decine di
ufficiali appartenenti alle
grandi famiglie di Roma e
delle città alleate, ma
soprattutto caddero 30.000
uomini e 10.000 furono presi
prigionieri; altre fonti
parlano di 48.000 caduti e
19.000 prigionieri. Il console
superstite, Varrone, primo
responsabile della sconfitta,
con 10.000 sbandati si rifugiò
a Venusia. Si salvò anche un
certo Publio Cornelio
Scipione, che Annibale si
troverà davanti qualche anno
dopo in Africa, a Zama.
Annibale perse circa 6.000
uomini, ma cominciò a vedere
qualche risultato politico.
Alcuni centri cominciarono a
abbandonare i Romani: Arpi ed
altri centri del sud Italia,
qualche popolazione sannita,
ma soprattutto Capua che era
ancora, per importanza, la
seconda città dopo Roma.
Per
il resto dell'anno Annibale si
aggirò nelle regioni
meridionali conquistando
colonie latine e romane e
cercando di attirare dalla sua
parte le popolazioni italiche.
I risultati furono alterni.
Alcune città come Napoli,
Cuma, Nola e Pozzuoli
resistettero e il condottiero
scese nel Bruttium, dove cercò
l'alleanza con le città
greche della Magna Grecia.
Anche in questo caso i
risultati furono alterni, ma
riuscì a conquistare Locri
che divenne il porto per far
affluire rinforzi dall'Africa,
e Crotone. I greci, però,
vedendo in lui non tanto un
liberatore dai romani ma un
avversario cartaginese, si
guardarono bene dal cambiare
bandiera; soprattutto le
classi sociali elevate erano
restie a inimicarsi Roma,
fonte per loro di potere e
ricchezze, prima che la
situazione bellica e politica
non fosse stata chiara, e non
lo era. Annibale, per quanto
abbastanza autosufficiente
rispetto al problema degli
approvvigionamenti, lo era
molto meno come ricambio di
forze addestrate. Roma
possedeva un immenso serbatoio
umano al quale, nel momento
del pericolo, attinse a piene
mani.
Cartagine
aveva fatto sbarcare a Locri
4.000 cavalieri e una
quarantina di elefanti. Non
erano una grosso contingente
ma Annibale trovava grandi
difficoltà per il
vettovagliamento delle sue
truppe. Le requisizioni che
era costretto a compiere gli
alienavano la poca simpatia
che aveva raccolto fra le
popolazioni, ben felici di
togliersi di torno i
gabellieri romani ma
nient'affatto disposte a
pagare per la protezione
cartaginese.
In
Gallia Cisalpina due legioni
romane, che, al comando del
console designato Aulo
Postumio Albino eletto al
posto del defunto Emilio
Paolo, dovevano portare la
guerra ai Galli Boi e Insubri,
vennero pressoché distrutte.
Questo attacco avrebbe dovuto
far ritornare a nord le forze
locali che avevano seguito
Annibale, ma il risultato fu
una sconfitta per Roma. Le due
legioni caddero in
un'imboscata nella Selva
Litana fra Bologna e Ravenna.
I Galli avevano segato gli
alberi ma in modo che
restassero in apparenza ritti
e quando passarono le legioni
di Postumo li fecero cadere
sui Romani che morirono sotto
i tronchi o trafitti dai
nemici, divisi dai compagni e
bloccati dagli alberi. Circa
16.000 uomini dei 25.000
caddero con Postumio Albino
nel tentativo di resistere.
Un
evento di grande importanza
avvenuto nell'estate del 215
a.C. fu l'alleanza
conclusa da Cartagine con
Filippo V di Macedonia, da
cui Annibale forse sperava di
ottenere rinforzi dai Balcani
per la sua campagna in Italia. L'ambizioso
e giovane monarca ellenistico
considerava con viva
preoccupazione l'espansione
romana sulle coste dell'Illiria e
dell'Epiro dopo
le vittorie di Emilio Paolo
del 219 a.C. contro Demetrio
di Faro che dopo
la sconfitta aveva trovato
ricovero presso il re
macedone, divenendone un
fidato consigliere. Alla
notizia dell'esito inatteso
della battaglia del Trasimeno,
Filippo V decise, dopo
colloqui con Demetrio, di
chiudere rapidamente la guerra
contro la Lega
etolica con la pace
di Naupatto e
verosimilmente credette
possibile intervenire con
successo contro Roma per
conquistare le coste
dell'Adriatico orientale o
forse riprendere addirittura i
piani di Pirro.
Dopo la catastrofe romana a
Canne, una delegazione guidata
da Senofane venne inviata in
Italia per concludere precisi
accordi con Annibale; gli
inviati di Filippo sbarcarono
nel Bruzio nell'estate 215
a.C. e incontrarono il
condottiero cartaginese. I
dettagli dell'accordo
tramandato da Polibio
evidenziano la vasta portata
delle clausole previste;
inoltre la presenza alla
conclusione formale
dell'alleanza di alcuni
inviati del senato cartaginese
e di tre alti funzionari della
città punica testimonia come
Annibale agisse sotto il
controllo e con la piena
approvazione della
madrepatria. L'alleanza
stabiliva con chiarezza i
vantaggi che sarebbero
spettati dopo la vittoria a
Filippo V che avrebbe assunto
il controllo dei territori
romani in Illiria e su Corcyra;
gli obiettivi di guerra di
Annibale non venivano invece
indicati con precisione; in
ogni caso si prevedeva di
arrivare al punto di
costringere alla pace Roma di
cui tuttavia non si ipotizzava
la distruzione come stato
sovrano.
I
Romani appresero notizie
dirette dell'alleanza tra
Cartagine e la Macedonia
grazie alla cattura in alto
mare degli inviati di Filippo
V in viaggio di ritorno con i
documenti dell'accordo; ebbe
quindi inizio l'estensione
della guerra nell'Adriatico e
nel Mediterraneo orientale, la
cosiddetta Prima
guerra macedonica. Roma,
nonostante le enormi difficoltà
in Italia, prese subito
energiche misure per
fronteggiare la nuova
minaccia; il pretore stanziato
a Taranto, Marco
Valerio Levino, ricevette
l'ordine di appoggiare la
flotta di 55 navi posta sotto
il comando del praefectus
classis, Publio
Valerio Flacco,
inviando il suo legatus Lucio
Apustio Fullone con
alcuni armati. Scopo della
missione era controllare la
situazione e difendere i
possedimenti illirici. Nello
stesso tempo vennero reperiti
i fondi necessari alla
missione.
Nel
214 a.C. Filippo V attaccò le
basi romane in Illiria e pose
l'assedio ad Apollonia,
ma non ottenne grandi
successi. Valerio Levino
accorse sul posto, riconquistò
Orico e liberò Apollonia
costringendo Filippo a una
disastrosa ritirata in
Macedonia dopo averne
incendiato le navi.

Nell'inverno
del 216/215 a.C. morì a Siracusa l'anziano Basileus
di Sicilia Gerone
II che fino a quel
momento aveva assunto un
atteggiamento di prudente
appoggio a Roma; questo
evento provocò in breve una
svolta nella politica siracusana e
un'estensione della guerra
anche alla Sicilia.
Il nipote appena quindicenne, Geronimo,
influenzabile e ambizioso, al
fine di mantenere indipendente
la Sicilia e scongiurarne la
sottomissione al giogo romano,
decise di prendere contatti
con Annibale; una delegazione
si incontrò con il
condottiero cartaginese e
quindi alcuni emissari
di Siracusa si
recarono a Cartagine dove
venne discusso un concreto
patto di alleanza. Gli inviati
di Geronimo pretesero
addirittura che i cartaginesi
acconsentissero al dominio
assoluto di Siracusa su tutta
la Sicilia in cambio della
partecipazione diretta alla
guerra contro Roma. La flotta
siceliota di Siracusa si unì
quindi alle navi cartaginesi
in azione nelle acque
siciliane contro la flotta
romana con base a Lilibeo.
In
Spagna dopo i successi del 217
a.C. gli Scipioni ritornarono
a nord dell'Ebro per
riorganizzare le loro forze e
consolidare le posizioni
raggiunte, ma Asdrubale non
poté sfruttare la situazione
e dopo avere ricevuto
rinforzi, dovette impegnarsi
nel 216 a.C. a sedare
un'estesa rivolta della
popolazione iberica dei Turdetani.
Il senato cartaginese era però
deciso a fare muovere
Asdrubale verso l'Italia e il
condottiero ricevette gli
ordini di partire al più
presto con il suo esercito,
mentre altre forze e una
flotta al comando di Imilcone
vennero inviate in Spagna per
difendere il dominio punico
che era minacciato anche da
continue rivolte di
popolazioni locali. La
posizione dei Romani in questi
territori sarebbe rimasta
pericolosa, se non fosse
venuta in loro soccorso la
rivolta di Siface,
re dei Numidi Massesili (215
a.C.), che costrinse Cartagine
a richiamare Asdrubale in
Africa, indebolendo così l'esercito
cartaginese in
Iberia. Gneo e Publio
poterono così concludere
un'alleanza con i Celtiberi,
arruolando anche per la prima
volta dei soldati mercenari,
reclutati tra queste
popolazioni.
Nella
primavera del 215 a.C. sembrò
possibile per Cartagine
l'apertura di un nuovo teatro
di guerra e la riconquista
della Sardegna divenuta
provincia di Roma dopo la
rivolta dei mercenari seguita
alla prima guerra punica.
Alcuni inviati delle
popolazioni locali avvertirono
in segreto il senato di
Cartagine che Ampsicora,
l'abile e popolare capo
indipendentista della Sardegna
di origine punica, stava
organizzando una vasta
sollevazione contro
l'oppressione romana, grazie
anche alla collaborazione di
un senatore cartaginese
presente sul posto, Annone. La
rivolta avrebbe avuto inizio
all'arrivo del nuovo pretore
di Roma, il malato e inesperto
Quinto Muzio Scevola. I
dirigenti cartaginesi
accolsero con favore queste
notizie e decisero di inviare
un ingente corpo di spedizione
sull'isola per appoggiare i
rivoltosi di Ampsicora.
GUERRA
DI LOGORAMENTO (215 - 210
a.C.) - Nel 215 a.C.
Quinto Fabio Massimo venne
eletto console insieme a
Tiberio Sempronio Gracco; egli
poté quindi ritornare alle «tattiche
di logoramento» che, di
fronte all'impressionante
abilità militare di Annibale,
erano ormai concordemente
ritenute le sole applicabili
per evitare la sconfitta di
Roma, e che avevano
procurato al suo sostenitore
il titolo spregiativo di Cunctator,
"il
Temporeggiatore".
Si
fece un grande sforzo
finanziario per mobilitare
nuove forze; vennero mantenute
in mare circa 200 navi da
guerra (con 50.000 uomini di
equipaggio), mentre numerosi
eserciti legionari furono
messi in campo al comando dei
due consoli, Fabio Massimo e
Sempronio Gracco, e del
pretore Claudio Marcello,
schierati in posizioni di
copertura a Cales, Nola e Cuma,
rimaste fedeli a Roma; i
nuovi piani di Roma
prevedevano di evitare
battaglie in campo aperto, di
sorvegliare i movimenti di
Annibale, di rimanere sulla
difensiva di fronte al
condottiero cartaginese ma
prendere l'iniziativa contro i
suoi luogotenenti per
riconquistare progressivamente
le posizioni perdute
nell'Italia meridionale.
Annibale,
giunto a Capua dopo la
battaglia di Canne, aveva
inviato nel Bruzio il
suo luogotenente Annone per
occupare quel territorio
strategico; i Bruzi si
sollevarono a favore dei
cartaginesi ma le città
greche della Magna
Grecia, tradizionali
rivali di Cartagine, fecero
opposizione; in particolare le
fazioni aristocratiche
rimasero legate all'alleanza
con Roma. Annone nel 215
a.C. riuscì a conquistare Locri e Crotone dove
furono concentrati i Bruzi,
mentre Locri divenne il porto
dove avrebbero dovuto affluire
i rinforzi che Annibale si
attendeva dalla madrepatria. Il
condottiero cartaginese non
disponeva di forze
inesauribili; egli infatti non
poteva, secondo le clausole
dell'accordo con Capua,
effettuare arruolamenti in
Campania, mentre anche la
pratica di procurarsi
rifornimenti e
vettovagliamento attraverso
saccheggi e depredazioni
rischiava di inimicargli le
popolazioni italiche
inizialmente favorevoli alla
sua causa.
Il
condottiero cartaginese doveva
anche preoccuparsi di prestare
aiuto alle città italiche che
avevano defezionato e
proteggerle dalla reazione
delle legioni romane; Tiberio
Sempronio Gracco inflisse
subito una netta sconfitta
alle milizie di Capua ad Ame e
Annibale, subito intervenuto,
venne respinto alle porte
di Cuma che era rimasta fedele
a Roma.
Ritornato
a Capua, il condottiero ripartì
ben presto verso Nola per
contrastare l'azione del
nemico contro le popolazioni
alleate campane, sannitiche e
irpine; un nuovo
tentativo di prendere la città
di Nola venne
respinto da Claudio Marcello. Annibale
quindi si sganciò e, seguito
dall'esercito di Sempronio
Gracco, andò a svernare ad Arpi;
Sempronio pose il campo a
Lucera mentre Fabio Massimo
saccheggiava il territorio di
Capua.
Nel
214 a.C. i nuovi consoli
furono i due comandanti romani
più esperti, Quinto Fabio
Massimo e Claudio Marcello,
che con quattro legioni,
iniziarono le prime operazioni
per riconquistare il terreno
perduto in Campania; Roma
aveva ulteriormente potenziato
le sue forze e teneva in tutti
i teatri di guerra, nonostante
le grandi difficoltà
finanziarie, circa 200/250.000
soldati.
Annibale
dopo avere passato l'inverno
ad Arpi ritornò sul monte
Tifata nel territorio di
Capua, mentre Annone era
schierato nel Bruzio; il
condottiero cartaginese ordinò
ad Annone di
risalire a nord e sferrò
senza successo un
terzo attacco a Nola;
anche il tentativo di prendere Puteoli venne
respinto.
Annibale
aveva compreso come, di fronte
alla prudenza dei comandanti
avversari e al numero dei suoi
nemici, fosse ormai
impossibile raggiungere altre
grandi vittorie campali, egli
verosimilmente contava
sull'aiuto dalla madrepatria e
di Filippo V. Annibale continuò
peraltro a combattere
accanitamente mostrando grande
abilità anche in questa nuova
fase di guerra prevalentemente
difensiva.
I
Romani raggiunsero tuttavia
alcuni successi,
riconquistarono Compulteria, Telesia, Compsa
nel Sannio, Aecae in
Apulia, Claudio Marcello
strinse d'assedio Casilinum
che cadde con un colpo di
mano; Annone, portatosi
in Lucania, subì prima una
grave sconfitta nei pressi di
Grumento (215 a.C.) a opera di Tiberio
Sempronio Longo, e
poi a Benevento a
opera delle legioni di schiavi
volontari di Sempronio Gracco
(214 a.C.). Annibale
rinunciò a ulteriori attacchi
in Campania e fece un
tentativo di conquistare
Taranto ed Eraclea che però
venne sventato dall'intervento
della flotta romana di
Brindisi.
Intanto
a Roma (214 a.C.) i due Censori,
a causa della grave penuria di
denaro pubblico, ottennero che
molti di quelli che erano
soliti partecipare alle aste
per la manutenzione dei templi
e la fornitura dei cavalli
curuli, chiedessero all'aerarium il
pagamento di quanto a loro
dovuto solo a guerra
terminata. Identica condizione
di pagamento venne accordata
anche a tutti coloro che erano
stati padroni di quegli
schiavi liberati dal
proconsole Tiberio Gracco dopo
la vittoria
di Benevento. Questo
desiderio poi di porre un
rimedio alle difficoltà
dell'erario pubblico, fece sì
che molti prestarono denaro
alla Res publica,
finanziando le sostanze per
gli orfani minorenni e per le
vedove. Tale generosità
da parte dei privati si
diffuse anche all'interno
degli accampamenti militari,
tanto che nessun eques o centurione accettò
di riscuotere lo stipendium,
rimproverando tutti coloro che
lo facevano e chiamandoli
"mercenari".
Negli
altri teatri di operazioni la
guerra proseguiva con alterne
vicende. In Sicilia la
situazione nel 215 a.C.
divenne molto confusa: il
pretore del 216 a.C. Publio
Furio Filo, posto a
capo della flotta, si era
imbarcato per l'Africa ma,
gravemente ferito in
un'operazione bellica, fu
costretto a tornare a Lilibeo (l'attuale Marsala);
il propretore Tito
Otacilio Crasso segnalava,
inoltre, che ai soldati e alla
flotta non erano stati ancora
pagati gli stipendia (poco
dopo fu aiutato
finanziariamente da Gerone
II); i Romani
avevano inviato sull'isola due
legioni formate con i
superstiti dell'esercito
distrutto a Canne che
furono in grado di mantenere
le posizioni nella parte
settentrionale e orientale
contro l'esercito siracusano
appoggiato da contingenti
cartaginesi mentre la flotta
di cento quinqueremi,
posta sotto il comando di Appio
Claudio Pulcro controllava
i mari. Inoltre una congiura a
Siracusa portò all'assassinio
dell'inviso e crudele re
Geronimo mentre si trovava a Leontini;
seguirono violenti contrasti
tra fazioni filo-romana e
filo-cartaginse all'interno
della città e la guerra
contro Roma venne
temporaneamente sospesa.
In Sardegna giunse
un esercito punico di 15.000
uomini appena arruolati, ma
arrivò dopo che Tito
Manlio Torquato, forte
di oltre 20.000 uomini, aveva
sconfitto Ampsicora e
il figlio Josto.
Quando si giunse alla
battaglia fra le forze sarde
alleate dei Punici e quelle
Romane, i Nuragici furono
sbaragliati: persero 4.000
uomini fra caduti e
prigionieri. I Cartaginesi
resistettero più a lungo ma
perduti 3.500 uomini, si
reimbarcarono precipitosamente
verso l'Africa. La flotta, però,
venne intercettata da una
flotta romana, posta sotto il
comando di Tito Otacilio
Crasso, che aveva devastato in
precedenza il territorio
africano di Cartagine, e
sbaragliata. Sconfitti Punici
e Nuragici, seguì un periodo
di dura repressione che
richiese la presenza di due
legioni distolte dalla
penisola.
Anche
in Spagna i Cartaginesi
subirono una serie di
insuccessi; dopo avere avuto
la notizia della vittoria di
Canne, Asdrubale aveva
ricevuto l'ordine di lasciare
di presidio una parte delle
truppe al comando di Imilcone,
e partire con un corpo di
spedizione per rinforzare il
fratello in Italia.
Nell'autunno 216 a.C. si mosse
in direzione dell'Ebro con
25.000 uomini ma i fratelli
Scipioni che erano impegnati
nell'assedio della città di
Ibera, concentrarono le loro
truppe e sbarrarono il passo.
La successiva battaglia
di Dertosa si
concluse con una netta
vittoria dei Romani e
Asdrubale dovette ripiegare
rinunciando a marciare in
aiuto di Annibale in Italia
(215 a.C.). Questa
sconfitta cartaginese influì
anche sulla campagna in
Italia, rendendo impossibile
l'ulteriore invio di rinforzi
nella penisola. Era previsto
infatti l'invio ad Annibale
attraverso il porto di Locri
di un esercito al comando del
fratello Magone di 12.000
fanti, 1.500 cavalieri, venti
elefanti e sessanta navi, ma
la grave sconfitta di
Asdrubale che faceva temere un
crollo delle posizioni puniche
in Spagna, costrinse il senato
cartaginese a dirottare queste
forze; Magone quindi venne
inviato nella penisola iberica
per aiutare il fratello
Asdrubale e fermare l'avanzata
di Gneo e Publio Scipione.
Nell'estate
215 a.C. i fratelli Scipioni
ripresero l'iniziativa e
accorsero in aiuto della città
alleata di Iliturgi,
assediata dagli eserciti
riuniti cartaginesi di
Asdrubale e Magone. Secondo
Tito Livio i Romani, pur in
netta inferiorità numerica,
raggiunsero una brillante
vittoria, i cartaginesi
subirono pesanti perdite e
dovettero ritirarsi; poco dopo
vennero nuovamente sconfitti a
Intibili. Le vicende
successive della guerra in
Spagna rimangono, sulla base
delle fonti antiche,
abbastanza confuse; secondo
Tito Livio i fratelli Scipioni
ottennero nuove vittorie,
raggiunsero le regioni
meridionali, conquistarono
Castulo e fin dal 214 a.C.
rientrarono a Sagunto,
vendicando la caduta della
città alleata che aveva dato
inizio alla guerra. Gli
storici moderni hanno
manifestato molti dubbi sulla
cronologia di Livio; alcune
operazioni descritte
potrebbero essere duplicazioni
annalistiche di battaglie
precedenti e si è ritenuto
improbabile che i Romani siano
riusciti ad avanzare fino alla
Spagna meridionale. Le
ricostruzioni moderne
ritengono che la guerra in
Spagna in pratica si arrestò
dal 215 al 213 a.C. e che gli
Scipioni ripresero l'offensiva
nel 212 a.C. riuscendo a
riconquistare Sagunto
nonostante la presenza di tre
eserciti cartaginesi in Spagna
comandati da Asdrubale, Magone
e Asdrubale
Giscone.
Nel
213 a.C. inattesi e drammatici
sviluppi a Siracusa, a Taranto e
in altre città della Magna
Grecia (come Eraclea,
Metaponto e Turii) sembrarono
favorire in modo decisivo i
Cartaginesi e provocarono
nuove e pesanti difficoltà ai
Romani. A Siracusa dopo
l'assassinio del re Geronimo,
la nuova repubblica fu subito
dilaniata da violenti
contrasti tra le fazioni che
si risolsero a vantaggio dei
cartaginesi; i due
inviati di Annibale Ippocrate
e Epicide assunsero il potere
e ben presto la guerra esplose
in tutta la Sicilia
soprattutto dopo il brutale
comportamento di Claudio
Marcello che giunto sull'isola
con una legione per rinforzare
i presidi romani, reagì ad
atti di resistenza
distruggendo e saccheggiando
Leontini. Siracusa
venne ben presto assediata per
terra e per mare dalle forze
combinate di Claudio Marcello
e di Appio Claudio Pulcro ma i
primi attacchi furono respinti
grazie soprattutto alle
straordinarie macchine da
guerra progettate da Archimede;
l'assedio si prolungò mentre
la guerra nell'isola si
intensificava con l'arrivo del
corpo di spedizione
cartaginese di Imilcone che
riuscì a conquistare Agrigento. Un
attacco navale della flotta
cartaginese di Bomilcare non
ebbe successo, ma i
Romani persero il controllo di
gran parte della Sicilia
centrale dopo avere
schiacciato con estrema
brutalità la rivolta di Enna.
La
situazione strategica nel 212
a.C. divenne più difficile
per Annibale in Italia; mentre
egli era accampato a Salapia,
sei legioni romane furono
concentrate, al comando dei
nuovi consoli Appio Claudio
Pulcro e Quinto Fulvio Flacco,
intorno a Capua che
si trovò praticamente
assediata e con
gravi carenze di
approvvigionamento. In
tutto le forze
messe in campo dai Romani furono
aumentate a ben venticinque
legioni, che unite a quelle
alleate, costituivano un
esercito complessivo di
250.000 soldati circa. Si
trattava di uno sforzo
colossale per la repubblica
romana, come mai accaduto
prima d'allora.
Dopo
la sconfitta del suo
luogotenente Annone, Annibale
decise di prendere
l'iniziativa e marciare in
soccorso di Capua. Le truppe
di Sempronio Gracco schierate
a Benevento per bloccare il
passo al cartaginese furono
messe in rotta e lo stesso
Gracco venne ucciso durante
un'imboscata della cavalleria;
Annibale quindi poté aprirsi
la strada ed entrare a Capua
nel maggio 212 a.C. mentre le
legioni romane di Claudio
Pulcro e Quinto Fulvio Flacco
si affrettarono a interrompere
l'assedio e ripiegarono a
Cuma.
Annibale
ottenne nel 212 a.C. altri due
importanti successi locali disperdendo
facilmente sul Silaro le
deboli milizie
dell'ex-centurione Marco
Centenio Penula che
fu vinto e ucciso, e
infliggendo una pesante
sconfitta a Erdonia all'inetto
pretore Gneo
Fulvio Flacco.
La
tregua in Campania tuttavia fu
di breve durata; mentre
Annibale, preoccupato per la
situazione a Taranto,
ritornava in Apulia; nella
primavera del 211 a.C. Claudio
Pulcro e Quinto Fulvio Flacco,
confermati al comando come
proconsoli, ripresero con la
massima energia l'assedio
di Capua, cingendola
con una doppia
circonvallazione e la cui
situazione divenne drammatica.
Annibale
quindi ritornò alla fine di
marzo 211 a.C. sul monte
Tifata; ritenendo impossibile
un attacco frontale alle
posizioni trincerate delle
legioni, egli ideò un'audace
diversione per allentare
l'assedio romano a Capua. Il
condottiero cartaginese decise
di marciare
con il suo esercito contro
Roma e arrivò a
poca distanza dalla città, si
accampò in vista della città
(nella località ancora oggi
detta Campi
d'Annibale), ma non
prese d'assalto le mura. Fu un
momento terribile. Nessun
nemico si era spinto fin sotto
le porte di Roma dal tempo
dell'invasione
gallica, quasi duecento
anni prima.
Il
racconto di Tito Livio di
questa famosa incursione di
Annibale fino alle porte di
Roma (Hannibal ad portas)
inserisce elementi scarsamente
attendibili su eventi
climatici soprannaturali che
avrebbero scosso la
risolutezza del condottiero e
riferisce del comportamento
impavido del Senato di Roma
che, come gesto di sfida,
avrebbe messo in vendita i
terreni intorno alla città su
cui si era accampato
l'esercito cartaginese. In
realtà Annibale, avendo
ritenuto che il suo piano per
distrarre le legioni
dall'assedio di Capua fosse
fallito, decise, dopo avere
raccolto un notevole bottino
nel territorio intorno a Roma,
di ritornare in Campania.
Annibale inflisse una
sconfitta alle truppe romane
che, al comando del console Publio
Sulpicio Galba Massimo,
lo avevano seguito, ma non poté
più impedire la caduta di
Capua.
Nella
città campana le autorità
locali considerarono
impossibile prolungare
ulteriormente la resistenza;
ritenendo che Annibale non
potesse più portare aiuto e
sperando nella clemenza di
Roma, decisero di arrendersi
al proconsole Appio Claudio
Pulcro che aveva mantenuto
l'assedio della città. La
repressione di Roma fu
inesorabile: i nobili campani
vennero in buona parte
giustiziati e tutti gli
abitanti furono venduti come
schiavi; Capua, ridotta in
rovina, venne trasformata in
borgo agricolo sotto il
controllo di un prefetto
romano. Annibale nel
frattempo era ridisceso nel
Bruzio, raggiungendo Regium, per
congiungersi con le forze di Magone
il Sannita.
Roma,
impegnata su più fronti, vide
che Annibale non riusciva a
sferrare grandi offensive, e,
attenendosi ai principi
tattici di Fabio Massimo,
continuò a contendere
territorio e risorse al
cartaginese senza farsi
coinvolgere in grandi
battaglie campali.

Un
continuo stillicidio di
perdite, non rimpiazzabili,
costrinse così Annibale a una
serie di piccoli scontri non
decisivi fra le colline e le
montagne della Calabria e
della Lucania), anche se il
cartaginese nel 210 a.C. riuscì
ancora, nella seconda
battaglia di Erdonia, a
sconfiggere e infliggere
pesanti perdite all'esercito
del proconsole Gneo
Fulvio Centumalo Massimo,
forte di ventimila uomini.
Anche
Roma, persi buona parte degli
alleati nel sud, aveva grandi
difficoltà a reperire forze
armate e poteva contare quasi
solo sull'Etruria, sulle sue
colonie e su varie città
greche. Nonostante queste
difficoltà le legioni romane
progressivamente
riconquistavano i territori
perduti; dopo la caduta
di Capua nel 211
a.C., nel 210 a.C. venne
rioccupata la Daunia.
La
guerra continuava anche sul
mare con battaglie navali; in
Africa con scorrerie romane
come quella del praefectus
classis di
Sicilia, Valerio
Messalla (nel 210
a.C.), e attacchi del re
numida Siface,
il quale aveva richiesto
l'alleanza con Roma (nel 210
a.C.); con battaglie e
reclutamenti in Spagna;
creando in Grecia e nei
territori limitrofi
un'alleanza contro Filippo V
di Macedonia, che fu ridotto
sulla difensiva, composta da Elei, Spartani, nonché Attalo re
d'Asia, Pleurato di
Tracia e Scerdiledo d'Illiria.
La
conclusione della guerra in
Sicilia avvenne dopo che i
Romani ebbero espugnato
ventisei città, tra cui la città
di Siracusa da
parte delle forze di Marcello; Archimede
venne ucciso durante i
combattimenti. Siracusa poi -
non più regno alleato - venne
inglobata nella provincia
di Sicilia, divenendone
sede del governatore
provinciale. Pochi
giorni prima della presa della
città di Syrakousai, Tito
Otacilio Crasso passò
da Lilibeo a Utica con
ottanta quinqueremi e,
entrato nel porto all'alba, si
impadronì di numerose navi da
carico piene di grano. Quindi
sbarcò e saccheggiò gran
parte del territorio
circostante la città
cartaginese, per poi fare
ritorno a Lilibeo due giorni
più tardi, con 130 navi da
carico piene di grano e di
ogni sorta di bottino.
Quel
grano fu subito inviato a Syracusæ per
evitare che la fame potesse
minacciare vincitori e vinti. Poco
dopo Marcello ottenne una
nuova vittoria
nei pressi del fiume Imera contro
le forze congiunte
greco-puniche di Epicide,
Annone e Muttine.
Questa fu l'ultima battaglia
di Marcello in Sicilia. Gli
successe Valerio Levino, il
quale riuscì a occupare
Agrigento (210
a.C.), ponendo pressoché fine
alle ostilità in Sicilia.
Mentre
continuava la logorante guerra
in Italia la campagna in
Spagna aveva assunto un ruolo
sempre più importante; i
territori iberici
rappresentavano per Cartagine
la base economica e militare
di tutta la guerra. Era dalla
Spagna che venivano truppe
mercenarie, truppe alleate e,
soprattutto, argento e rame,
indispensabili supporti
finanziari per sopportare i
costi sempre crescenti dello
sforzo bellico, esteso ormai a
tutto il Mediterraneo, ed era
sulla Spagna che Cartagine
doveva appoggiarsi per mandare
aiuti ad Annibale. Intanto i
due Scipioni, Publio e Gneo,
erano riusciti ad assicurarsi
l'amicizia del re
di Numidia, Siface,
che fu però sconfitto in
Africa da Massinissa,
re dei Massili.
Dopo
la serie di vittorie di Gneo e
Publio Scipione negli anni
217-213 a.C., la situazione
militare in Spagna ebbe
un'inattesa svolta strategica,
quando Siface, alleato dei
Romani, fu vinto da Gaia,
re dei Numidi Massesili, e
dovette trattare (213 a.C.).
Allora Cartagine poté
rimandare in Spagna Asdrubale.
I due eserciti degli Scipioni furono
abbandonati dai mercenari
celtiberi e separatamente
distrutti in Andalusia (fine
del 212 a.C./inizi del 211
a.C.).
Asdrubale
era, infatti, tornato in
Spagna con notevoli rinforzi e
anche Massinissa era giunto
sul campo con i suoi reparti
di cavalleria; gli eserciti
cartaginesi al comando di
Asdrubale, Magone e Asdrubale
Giscone erano ora in netta
superiorità numerica ma gli
Scipioni decisero di
affrontare ugualmente la
battaglia, essi inoltre
divisero il loro esercito
trovandosi quindi in grande
difficoltà.
Molte
truppe spagnole aggregate alle
legioni romane defezionarono
costringendo Gneo Scipione
alle ritirata; nel frattempo
Publio Scipione venne
attaccato dagli eserciti di
Magone e Asdrubale Giscone,
rafforzati dalla cavalleria di
Massinissa; dopo una
coraggiosa resistenza i Romani
vennero sconfitti e Publio
Scipione cadde sul campo. Poco
dopo anche Gneo Scipione venne
intercettato durante la
ritirata dai tre eserciti
cartaginesi riuniti e
accerchiato su un'altura arida
e scoperta dove le legioni
romane vennero distrutte;
anche Gneo rimase ucciso. Solo
piccoli reparti romani
riuscirono a scampare a nord
dell'Ebro al comando del
coraggioso legato Lucio
Marcio. Anche Sagunto era
ormai perduta.
Morti
il padre e lo zio del futuro
"Africano", il
possesso della Spagna sarebbe
verosimilmente andato perduto
senza l'iniziativa di Lucio
Marcio, che riuscì a
riorganizzare i reparti
sopravvissuti alla disfatta e
fermare l'avanzata
cartaginese, ottenendo
un'insperata vittoria poco
a nord del fiume Ebro. Dopo
la resa
di Capua (211
a.C.), Gaio
Claudio Nerone venne
inviato a difendere in Spagna
la linea dell'Ebro con nuovi
rinforzi, dove rimase fino al
autunno del 210 a.C.. quando
il giovane venticinquenne, Publio
Scipione, dotato di un imperium proconsolare straordinario, lo
sostituì con l'aggiunta di
altri 11.000 uomini, e
con una serie di brillanti
operazioni belliche e
diplomatiche restrinse sempre
più il controllo cartaginese
nella penisola iberica. Il
senato romano aveva compreso
che una politica
puramente difensiva in Spagna non
avrebbe giovato alla guerra
che si combatteva in Italia.
Si ritenne, pertanto,
necessario un ritorno alla
strategia offensiva degli
Scipioni.

SUCCESSI
DI ROMA
(209 - 204 a.C.) - Evento
decisivo per la guerra in
Italia fu la conquista di
Taranto (213-212 a.C.).
Annibale, con l'aiuto di un
traditore, prese la città ma
non la rocca che bloccava il
porto, che, rimasta in mani
romane, poteva essere
rifornita dal mare. Così
Annibale non poteva usare lo
scalo, più capiente di quello
di Locri (già in suo
possesso) per ricevere i
necessari aiuti da Cartagine. Nel
209 a.C. Quinto Fabio Massimo
in persona marciò su
Taranto e la riconquistò,
grazie anche all'aiuto
dell'esercito proveniente
dalla Sicilia, che era
sbarcato a Brundisium,
e a un tradimento, prima che
il Cartaginese potesse
arrivare in suo soccorso; i
Romani si comportarono
brutalmente e 30.000 abitanti
furono venduti come schiavi.
La
perdita di Taranto fu un grave
colpo per Annibale che fu
privato definitivamente della
possibilità di usare
quell'importante porto; il
cartaginese si trovò quindi a
dovere dipendere da alleati
sempre più sfiduciati e da
aiuti della madrepatria sempre
più scarsi. Egli veniva,
pertanto, confinato
nell'estremo meridione della
penisola. Intanto a Roma
si decise di inviare degli
ambasciatori a Tolomeo IV d'Egitto per
ottenere rifornimenti di
grano, di cui l'Italia aveva
grande scarsità a causa della
guerra che ormai durava da
quasi un decennio. In effetti
secondo quanto ci tramanda
Polibio, a Roma la scarsità
di grano era talmente elevata
che un medimno siciliano costava
quindici dracme. Sempre
nel 209 a.C. dodici delle
trenta colonie latine allora
esistenti (tutte collocate in Italia),
si rifiutarono di fornire i
propri soldati agli eserciti
di Roma, lamentando mancanza
di uomini. Le altre diciotto
colonie fornirono invece i
contingenti richiesti.
Nel
208 a.C. la guerra in Italia
sembrò nuovamente volgere a
favore di Annibale: in un
agguato di cavalleria nei
pressi di Venosa venne
sorpreso e ucciso Claudio
Marcello, spintosi
imprudentemente in
esplorazione con le sue
avanguardie, e poco dopo cadde
anche l'altro console Tito
Quinzio Crispino per le
ferite riportate durante lo
scontro. Il condottiero
cartaginese, dopo un fallito
tentativo di conquistare Salapia con
l'inganno, si diresse quindi
verso Locri Epizefiri,
dove inflisse una pesante
sconfitta alle truppe romane
che stavano assediando la città. Annibale
tuttavia non poté sfruttare
questi successi e rimase
confinato nel Bruzio in attesa
dei rinforzi che il fratello
Asdrubale aveva promesso di
condurre personalmente in
Italia.
Asdrubale
condusse con abilità la
marcia del suo esercito verso
l'Italia; dopo avere
attraversato senza grandi
difficoltà i Pirenei e le
Alpi giunse in Gallia
cisalpina agli inizi del
207 a.C. con 20.000 armati, dove
poté rafforzare il suo
esercito con mercenari galli
(per un totale ora di 30.000
armati), ma perse tempo
prezioso assediando
inutilmente Placentia; la
situazione di Roma appariva
molto grave, il console Marco
Livio Salinatore si
diresse a nord per fermare la
marcia di Asdrubale, mentre
l'altro console Gaio
Claudio Nerone cercava di
bloccare Annibale nel Bruzio,
ma il condottiero cartaginese
riuscì a muovere verso
l'Apulia, respingendo i Romani
nella battaglia di
Grumento, e con una marcia
laterale raggiunse prima
Venosa e poi Canosa, dove si
fermò attendendo notizie sui
piani del fratello Asdrubale. Scullard
aggiunge che con quattro
legioni di fronte (Claudio
Nerone) e due alle sue spalle
a Taranto, Annibale non poteva
avanzare oltre Canosa senza
correre seri pericoli.
I
Romani tuttavia riuscirono a
intercettare i messaggeri di
Asdrubale inviati per
informare il fratello, e
quindi appresero che il
secondo esercito nemico era in
marcia verso Fano;
Annibale, all'oscuro di questi
progetti, rimase a Canosa,
mentre il console Nerone con
un'audace marcia forzata
raggiunse, insieme solo a una
piccola parte delle sue forze
(6.000 fanti e 1.000
cavalieri), Livio Salinatore a Sena
Gallica (Senigallia). Qui
poterono affrontare riuniti
Asdrubale. La battaglia
del Metauro si concluse
con la completa vittoria di
Roma; l'esercito cartaginese
fu distrutto e Asdrubale cadde
combattendo sul campo.
Annibale
apprese del tragico destino
del fratello solo quando la
testa di Asdrubale venne
gettata dai Romani nel suo
accampamento; egli decise di
abbandonare nuovamente
l'Apulia e la Lucania e
ritornare nel Bruzio. Aveva
rinunciato così a ogni
residua speranza di vittoria
finale, ora che era
rimasto in possesso del solo Bruzio.
Lo
scontro del Metauro vide Roma,
per la prima volta, vincere
una battaglia campale in
Italia dall'inizio della
guerra. Il tentativo di
inviare rinforzi ad Annibale
era fallito e Roma ne poteva
solo beneficiare anche di
fronte agli alleati italici.
Il Metauro «fu un evento
decisivo nella storia mondiale
e una vera benedizione per
Roma», come sostiene lo
Scullard.
Dopo
la disfatta e la morte di
Asdrubale, Annibale era
ritornato con il suo esercito
nel Bruzio, che era rimasta la
sua ultima roccaforte in
Italia; egli ritenne ormai
impossibile riprendere
operazioni offensive e si
limitò durante il 206 a.C. a
mantenere le posizioni.
Peraltro, nonostante la sua
crescente debolezza, i Romani
a loro volta non presero
iniziative aggressive e si
limitarono a controllare il
nemico senza osare attaccarlo.
Il prestigio del condottiero
cartaginese era ancora
altissimo. Annibale quindi
schierò il suo esercito nel
territorio compreso tra
Catanzaro, Cosenza e Crotone;
egli considerava importante
mantenere il possesso dei
porti di Locri e Crotone per
disporre di una via d'uscita
via mare, inoltre
verosimilmente sperava ancora
nell'arrivo di rinforzi e
nell'aiuto da parte di Filippo
V di Macedonia.
Scipione
era concentrato sui
preparativi per portare le
legioni in Africa e il
Senato voleva continuare con
la guerra di logoramento. Con
tutto ciò Annibale non era in
grado di compiere azioni di
rilevanza e doveva continuare
una guerriglia disperata.
Persa anche la base di Locri
per opera di Scipione, quando
questi ritornò in Sicilia
cercò di contrattaccare.
Scipione, alla notizia, ritornò
a Locri via mare e Annibale
dovette rinunciare anche a
quel porto. L'ultima
possibilità di ricevere
velocemente rinforzi
consistenti gli fu preclusa
quando fallì il tentativo di
Magone di invadere l'Italia
dalla Liguria, d'altro canto
il generale cartaginese
sentiva che la sua avventura
stava per concludersi.
Dopo
avere trascorso l'intero
inverno del 210/209 a.C. a
preparare la sua prima azione
offensiva in Iberia Scipione
mirò da subito a colpire il
cuore delle forze nemiche, con
una delle più audaci azioni
della storia militare romana:
la presa di Cartagena.
Contemporaneamente
si dedicò a rovesciare molte
delle alleanze fra Iberici e
Cartaginesi, rendendo
difficile il reclutamento di
forze mercenarie contro Roma,
e contestualmente sferrando
continui attacchi contro
colonie cartaginesi e città
loro alleate, spesso coronati
da successo, come la
riconquista di Sagunto. Dopo
questa prima brillante azione,
a Scipione venne prorogato il
comando in Spagna fino a
quando non fosse stato
richiamato dal senato, come in
effetti avvenne nel 206
a.C.
I
territori iberici sotto
controllo cartaginese si
ridussero progressivamente e
Scipione ottenne una nuova
vittoria nella battaglia
di Baecula (208 a.C.), ma
strategicamente l'azione del
generale romana fu un parziale
fallimento e venne aspramente
criticata in senato
soprattutto dalla fazione di
Fabio Massimo. In effetti
nonostante le vittorie,
Scipione non riuscì a
impedire che Asdrubale Barca
organizzasse un nuovo grande
corpo di spedizione con
il quale sfuggì al controllo
dei Romani e intraprese, verso
la fine del 208 a.C., una
seconda invasione dell'Italia
attraverso i Pirenei e le Alpi
per accorrere in aiuto di
Annibale.
Scipione
riuscì nel 206 a.C. a
imporre definitivamente il
predominio romano in Spagna.
Egli infatti ottenne un nuovo
successo a Ilipa, a
cui seguì l'occupazione di Carmo (Carmona)
e il dominio dell'intera Andalusia.
La sconfitta delle
forze cartaginesi comandante
da Asdrubale Giscone e
Magone Barca, costrinse i
Cartaginesi a evacuare tutti i
territori iberici e rifugiarsi
con le truppe superstiti a
Cadice. Poco dopo anche Cadice chiese
la pace e Roma le concesse
un'alleanza con condizioni
particolarmente favorevoli.
Intanto la flotta romana si
spingeva sotto il comando di Gaio
Lelio fino a Carteias (Algeciras). Roma
aveva così chiuso il fronte
occidentale del conflitto.
La
flotta cartaginese, che anni
prima era la dominatrice del
Mediterraneo, era ridotta
all'ombra di sé stessa. Ormai
Roma, che solo da pochi anni
aveva imparato l'importanza di
mantenere una flotta, era
regina incontrastata di tutti
i mari a ovest di Malta.
Sconfitti i pirati Illirici,
controllava l'Adriatico;
sconfitti i cartaginesi nella
prima guerra punica
controllava il Tirreno a est e
ovest della Sardegna; dalla
Provincia di Sicilia
controllava l'omonimo Canale e
lo Ionio. L'Egeo era greco ma
Rodi e Pergamo erano buoni
alleati di Roma mentre a
Cartagine restava solo il
Mediterraneo della costa
africana e della costa
spagnola. Con l'arrivo dei
romani in Spagna, in pochi
anni Cartagine perse anche
quella costa, tanto che
Nerone, quando portò gli
aiuti a Scipione, poté tirare
in secca le navi e arruolare i
marinai come truppe di terra.
Nondimeno
le flotte romana e punica si
scontrarono. Nel 208 a.C. Marco
Valerio Levino, dopo una
razzia ad Aspide, si dovette
difendere da una flotta
cartaginese di ottantasette
navi che nello scontro ne
perse ventuno (diciotto delle
quali furono catturate) e si
dovette ritirare. Questa fu la
più grande battaglia navale
della guerra e può dare la
misura delle dimensioni degli
scontri navali al paragone di
quelli della prima guerra
punica.
Le
coste africane e siciliane
furono, però, sempre sotto
attacco da parte delle
marinerie avversarie; in modo
particolare Cartagine compiva
scorrerie in Sicilia e mandava
truppe, poche per la verità,
in Calabria e Puglia, mentre
Roma, per contro, bersagliava
la costa della Libia (Leptis
in particolare) e della Tunisia.
Magone
intanto, non essendo riuscito
a impedire l'avanzata romana
in Spagna, si era ritirato
nelle Isole Baleari durante
l'inverno tra il 206 a.C. e il
205 a.C. Fu poi inviato da
Cartagine, che non poteva non
sapere ciò che si stava
preparando per la Sicilia, in
Liguria (205 a.C.). Egli sbarcò
a Savona con 12.000
fanti, 800 cavalieri e sette
elefanti. Prima distrusse Genua (Genova),
alleata di Roma, poi arruolò
Liguri e Galli, con l'ordine
di tentare di raggiungere
Annibale, sempre asserragliato
fra Crotone e Locri. Purtroppo
per Magone, per Annibale e per
Cartagine, Roma adesso aveva
meno problemi di reperimento
di forze armate. A Rimini
stazionavano la legione di
Marco Livio e in Etruria due
legioni con Lucrezio mentre i
Galli non risposero al
richiamo cartaginese, almeno
non quanto sarebbe stato
necessario.
Nel 203
a.C. Magone, forte di un
esercito di 30.000 armati,
dovette combattere nei pressi
di Mediolanum (Milano)
contro i Romani che, guidati
dal proconsole Marco
Cornelio Cetego e dal
pretore Publio Quintilio
Varo, marciarono contro di lui
da Ariminum.
Ferito e sconfitto si dovette
ritirare a Savona, dove
aveva posto la propria base.
Magone venne richiamato in
Africa per rinforzare le
difese. Buona parte delle
forze arrivò a Cartagine con
le navi, ma Magone morì per
le ferite durante la
traversata. Ancora una volta
Cartagine non era riuscita ad
aiutare Annibale.
Filippo
V di Macedonia non fu mai in
grado di portare alcun aiuto
ad Annibale per tutta la
durata della guerra. La
diplomazia e le legioni di
Roma chiudevano il re e i suoi
alleati in un cerchio composto
da forze romane a ovest, dalla
Lega Etolica (e da forze
romane, pari a circa 4.000
uomini) a sud e da Attalo
I di Pergamo a
est. A partire dal
212/211 a.C. Filippo fu così
costretto a difendersi
dall'alleanza che Marco
Valerio Levino aveva
scatenato contro di lui.
Le
convulsioni della situazione
politica e bellica in Grecia,
descritte da Polibio, si
intuisce fossero estremamente
complicate in questo
particolare momento storico
sia in Grecia, sia in Asia
Minore, e il comandante
romano ne approfittò, grazie
anche all'alleanza con Attalo
I di Pergamo e gli Etoli,
per evitare un dispendioso
intervento diretto in Grecia
da parte delle armate romane.
Tra le clausole inserite nel
trattato con essi, vi era che
tutte le città conquistate in
Grecia sarebbero state cedute
agli Etoli. Alla fine
Filippo fu costretto a firmare
la pace di Fenice (205
a.C.), dove Roma si assicurava
la tranquillità sul fronte
orientale, ma soprattutto
proiettando Roma per la prima
volta entro il mondo politico
ellenico, come garante nei
confronti di coloro che ne
avevano chiesto l'intervento
negli anni passati.
Nello
stesso anno 204 a.C. si
verificò un importante
avvenimento che simboleggiò
il crescente interesse di Roma
per l'Oriente ellenistico con
le sue vestigia della
mitologia troiana e la grande
importanza assunta dalla
famiglia degli Scipioni. Nel
quadro delle alleanze
organizzate da Roma per
contrastare Filippo V di
Macedonia, il re di
Pergamo, Attalo I,
consegnò agli inviati della
repubblica la Magna
Mater,
la pietra scura di forma
conica venerata a Pessinunte.
Secondo gli oracoli dei Libri
Sibillini, l'introduzione del
culto della Magna
Mater era una
condizione indispensabile per
raggiungere finalmente la
cacciata del nemico
cartaginese dall'Italia.
Nell'aprile 204 a.C. la pietra
nera di Pessinunte giunse a Ostia e
venne consegnata a Publio
Cornelio Scipione Nasica,
cugino di Publio Scipione e
figlio di Gneo Scipione morto
in Spagna nel 211 a.C.;
Scipione Nasica era stato
scelto dal Senato per il
prestigioso incarico in quanto
considerato il "miglior
cittadino" di Roma.
Una
volta tornato dalla Spagna
(autunno del 206 a.C.),
Scipione venne eletto console
nel 205 a.C. e gli
fu affidata la Sicilia, dove
dovette accontentarsi delle
"legioni Cannensi",
sebbene gli fosse stato
accordato il diritto di
reclutare dei volontari. Annunciò
quindi il suo ambizioso
programma di chiudere la
partita con Cartagine,
portando la guerra in Africa.
Invano a questo suo disegno
politico e strategico si
oppose il Senato romano,
capitanato dalla fazione
attendista di Quinto Fabio
Massimo e del figlio. Si può
comprendere come l'ex
dittatore, ora princeps
senatus,
ormai settantenne fosse
affezionato alla sua
concezione della guerra che
fino ad allora aveva permesso
a Roma di resistere.
Il
Senato di Roma, sotto la
pressione dei Fabii, voleva
prima sconfiggere Annibale in
Italia e rifiutava di
sostenere Scipione, che in
Sicilia aveva a sua
disposizione solo le legioni
"cannensi" e poche
navi. Le legioni
"cannensi" erano i
resti delle forze sbaragliate
a Canne da Annibale. Però
mentre Varrone, il maggiore
responsabile della disfatta,
tornato a Roma era stato
perdonato, la bassa forza,
come punizione era stata
mandata in Sicilia con il
divieto di tornare a Roma fino
a quando Annibale fosse
rimasto in Italia.
Le
devastazioni del territorio
erano impressionanti: oltre
dieci anni di guerra continua
avevano distrutto in pratica
l'economia agricola della
regione. La terra non poteva
essere lavorata senza che
fossero attivate razzie degli
eserciti di entrambe le parti.
I commerci erano bloccati per
carenza di denaro, per il
pericolo di rapine, per
mancanza di acquirenti. Gli
uomini validi venivano
arruolati, per volontà o per
forza, tanto che alcune
colonie romane furono esentate
dal fornire uomini; nel 209
a.C. dodici colonie
latine si erano rifiutate
di svolgere il servizio
militare, stanche della
guerra.
Del
resto Fabio, privo di quel
talento militare proprio del
suo avversario politico a
Roma, era stato costretto per
anni a rifugiarsi in una
strategia difensiva di
logoramento, che non a caso
gli aveva procurato
l'appellativo di Cunctator.
E pertanto, non sarebbe mai
stato capace di condurre una
campagna offensiva in Africa e
conquistare Cartagine.
Al
contrario Scipione, con le sue
riforme tattiche, non temeva
di scontrarsi con Annibale in
una battaglia campale. Alla
fine prevalse la posizione di
Scipione su quella di Fabio.
Preso
atto dell'atteggiamento del
Senato Scipione si rivolse
agli alleati italici per avere
uomini, armi, navi e
vettovaglie. La risposta,
leggiamo in Tito Livio, fu
entusiastica. Le città
dell'Etruria e del Lazio
fornirono ciurme per le trenta
navi, tela per le vele, grano
e farro e vivande di tutti i
tipi, punte di frecce, scudi,
spade, lance e uomini. In meno
di due mesi Scipione aggiunse
alle sue legioni
"cannensi" circa
7.000 volontari italici e
cominciò a preparare
seriamente lo sbarco in
Africa.
Convinto
da alcuni locresi a
riconquistare la città,
Scipione accettò e dopo la
sua caduta lasciò un
luogotenente, Quinto Pleminio,
a governare Locri. Le
malversazioni di Pleminio
vennero portate davanti a
Scipione che però non
credette ai locresi. Costoro
allora si appellarono al
Senato che inviò una
commissione. Per fortuna di
Scipione la commissione di
inchiesta prima, a Locri,
appurò che il console non
aveva avuto parte nel
comportamento di Pleminio e
poi, a Siracusa vide che
l'esercito approntato da
Scipione era perfettamente
addestrato e rifornito. La
commissione tornò a Roma
lodando Scipione e le sue
capacità di organizzazione e
di comando. Con tutte
queste difficoltà Scipione
perse un anno nella sua guerra
contro Annibale. Con l'anno 204
a.C., Scipione ottenne la
carica di proconsole in
Africa, potendo finalmente
portare avanti il progetto che
aveva in mente già dagli anni
delle campagne in Spagna:
portare la guerra in Africa,
tant'è vero che nel 205 a.C.
aveva inviato il fedele Gaio
Lelio con la flotta sulle
coste africane, nei pressi di Hippo
Regius,
per ottenere un incontro con
il giovane Massinissa, figlio
dell'ormai defunto Gaia (re
della Numidia orientale).
Scipione
da tempo osservava con
attenzione gli sviluppi e le
rivalità tra i re dei Numidi.
Cartagine, fino a quel
momento, aveva trovato nel re
dei Massili (Numidi
orientali), Gaia, il suo
alleato contro il re dei Massesili (Numidi
occidentali), Siface. Massinissa,
figlio di Gaia, aveva
combattuto contro Roma in
Spagna (dal 212 al 206 a.C.). All'inizio
Siface fu sconfitto da
Massinissa in Africa ma,
con le successive sconfitte
iberiche dei Cartaginesi (209
- 206 a.C.) la situazione si
invertì. Siface, se in un
primo momento rimase alleato
di Scipione che era giunto
dalla Spagna per incontrarlo, poco
dopo cementò la propria
alleanza con Cartagine,
prendendo in moglie la figlia
del comandante cartaginese Asdrubale
Giscone, Sofonisba (206
a.C.), e mettendo a
disposizione del cartaginese
altri 50.000 uomini e 10.000
cavalieri.
Una
volta morto Gaia, scoppiò una
guerra civile tra i suoi
eredi, tra i quali vi era
anche Massinissa. Siface,
cercando di approfittare di
questi scontri, provò ad
annettere al proprio regno il
territorio dei Massili,
accordandosi con Cartagine. Intanto
Massinissa che aveva
conosciuto e apprezzato
Scipione in Spagna, si alleò
con Roma. L'alleanza con
Siface sembrava favorire
Cartagine, ma Massinissa privò
Annibale dell'arma strategica
che aveva avuto in esclusiva:
la cavalleria numidica, che
Roma aveva sofferto dalla Trebbia a Canne e
che Scipione aveva imparato a
conoscere in Spagna.
Cartagine
che non era del tutto
preparata, cercò di
predisporre la difesa del
proprio territorio, operando
reclutamenti di mercenari,
acquisti di armi, grano e
ricercando alleati.
Scipione,
una volta sbarcato a terra
dalle navi, poteva contare su
25.000-30.000 uomini. Nella
primavera del 204 a.C.,
Scipione lasciò la Sicilia
per traghettare le proprie
forze in Africa. Si
trattava di una forza composta
da 400 navi da carico, una
scorta di 40 navi da guerra,
comandate da Gaio Lelio e
da Marco Porcio Catone Forse
su consiglio di Massinissa,
intendeva sbarcare nella parte
occidentale del golfo
delle Sirti (Emporia,
grosso centro commerciale
punico e fonte di enormi
entrate per Cartagine), ma il
mare agitato e la nebbia
obbligarono la sua flotta ad
approdare nei pressi di Utica (a Porto
Farina).
Le
forze cartaginesi erano
appostate quasi tutte a
Emporia, mentre uno squadrone
di 4.000 cavalieri, posso
sotto il comando di Annone
(figlio di Asdrubale
Giscone) venne mandato per
rendere difficili le
operazioni di sbarco ai
Romani. Annone si scontrò con
la cavalleria romana, ma
venne battuto e ucciso.
Caddero 1.000 uomini e 2.000
vennero presi prigionieri.
Scipione conquistò Selica e
si dedicò al saccheggio del
territorio, inviando il bottino
di guerra, tra cui 8.000
schiavi, a Roma, che esultava.
Scipione cercò
di conquistare Utica, ma
l'impresa non gli riuscì. Decise
allora di svernare nel suo
territorio, mentre poneva
l'assedio alla città e il
proprio accampamento (i Castra
Cornelia). Nel
frattempo portò dalla sua
parte Massinissa che,
acerrimo nemico di Siface da
cui era stato disastrosamente
sconfitto, stava attraversando
un periodo di sfortuna, ma
conservava un grande
ascendente sulle popolazioni
della Numidia.

Durante
l'inverno del 204-203 a.C.
Siface tentò di mediare una
pace proponendo il ritiro dei
Romani dall'Africa e dei
Cartaginesi dall'Italia.
Scipione non aveva però
alcuna intenzione di accettare
condizioni che non offrissero
a Roma un pagamento per tutti
i danni subiti in quasi
vent'anni di guerra. Il
comandante romano vide la
necessità di prolungare i
negoziati in modo da potere
visitare più e più volte gli
accampamenti del nemico,
raccogliendone informazioni
topografiche preziose per la
campagna dell'anno successivo.
I due accampamenti nei quali
erano alloggiate, in modo
disordinato, le truppe di
Siface e Asdrubale erano poste
su due alture adiacenti, a
circa 10 km dai Castra
Cornelia di Scipione.
La
campagna riprese l'anno
successivo, con la cessazione
delle trattative di pace
(primavera del 203 a.C.). Siface e Asdrubale
Giscone si trovavano ora
a capo di una forza pari a
circa 100.000 uomini
(probabilmente il dato è
eccessivo). Scipione, che
aveva ricevuto pochi rinforzi
di cavalleria da Massinissa,
poteva disporre di forze assai
inferiori in numero, forse
meno della metà, ma con un
attacco notturno improvviso,
dividendo in due parti il suo
esercito, il comandante romano
mandò Gaio Lelio e Massinissa ad
attaccare il campo di Siface,
mentre egli si occupò di
quello di Asdrubale. La strage
che ne seguì, vide le forze
romane incendiare i due
accampamenti nemici,
approfittando dello spavento e
della disorganizzazione
cartaginese. Al termine della
battaglia solo poco più di
20.000 uomini erano i
superstiti cartaginesi.
Asdrubale si ritirò a
Cartagine, mentre Siface tornò
in Numidia dove ebbe
la fortuna di trovare 4.000
mercenari celtiberi appena
giunti.
Galvanizzato
dalla vittoria Scipione partì
con 12.000 soldati, lasciando
le restanti truppe ad
assediare Utica. I Romani
raggiunsero i resti
dell'esercito
numidico-cartaginese (composto
da 20.000 armati) e presso i Campi
Magni (Souk el Kremis,
lungo il corso superiore del
fiume Bagradas,
a 120 km da Utica) lo
distrussero completamente. Le
truppe cartaginesi e numidiche
poste alle ali cedettero
completamente e solo l'eroica
resistenza dei celtiberi,
posti al centro, permise ad
Asdrubale e a Siface di
salvarsi con pochi uomini al
seguito. Asdrubale fu
condannato a morte, ma riuscì
a fuggire e a reclutare altri
10.000 uomini. Siface cercò
rifugio nella sua terra,
inseguito da Massinissa che
cercava la rivincita totale, e
fu catturato a Cirta.
Intanto Scipione rinunciò a
conquistare Utica e, dopo
avere dato alle fiamme le sue macchine
d'assedio, riuscì a espugnare Tunisi, che
si trovava a soli 24 km
dalla capitale punica. Ora
Cartagine era alle corde.
A
Cartagine prevalse il partito
della pace, e venne tentata
nuovamente la strada della
trattativa. Intanto si
approfittò del tempo concesso
per inviare messaggeri in
Italia. Uno raggiunse Magone in
Liguria, a cui fu ordinato di
tornare immediatamente in
patria, un altro raggiunse
Annibale nel Bruzio con
lo stesso ordine.
Scipione,
che non aveva come obbiettivo
quello di distruggere la
capitale punica, fissò le
condizioni:
-
Cartagine doveva rinunciare
all'Italia e alla Spagna;
-
consegnare la sua intera
flotta, a eccezione di venti
navi;
-
pagare un'indennità di 5.000
talenti;
-
riconoscere il regno di
Massinissa (a ovest) e
l'autonomia delle tribù di
Libia e Cirenaica (a est).
Queste
condizioni miravano a ridurre
la potenza di Cartagine sia
territorialmente, sia nei suoi
commerci, ma soprattutto a stato
cliente di Roma. Alla
fine Cartagine accettò e fu
conclusa una tregua, in attesa
che il senato romano ratificasse
questo trattato (inverno
203-202). Il fatto che molte
delle famiglie romane rivali
di Scipione ne invidiassero i
successi rallentò la
trattativa al punto che,
quando la guerra sembrava
ormai giunta al capolinea,
Annibale sbarcò in Africa,
riaccendendo le speranze dei
Cartaginesi.
Nell'estate
del 204 a.C. il
nuovo console, Publio
Sempronio Tuditano attaccò
Annibale a Crotone e ottenne
qualche modesto successo; le
perdite romane ammontarono
peraltro a oltre 1.000 uomini.
Venne inviato anche l'altro
esercito consolare sotto la
guida del proconsole Crasso
che nel frattempo aveva
occupato la zona di Cosenza.
In realtà Annibale manteneva
il controllo della situazione
e appariva sempre pericoloso e
invitto; l'andamento delle
operazioni nel Bruzio rinforzò
nel Senato la convinzione che
la tattica di Fabio Massimo
non doveva essere abbandonata.
In
realtà la situazione
strategica e logistica di
Annibale era ormai
compromessa; privo di aiuti,
informato della disfatta del
fratello Magone, era ormai
consapevole che la sua lunga
campagna nella penisola era
fallita; fin dal 205
a.C., seguendo la tradizione
dei condottieri ellenistici,
egli aveva fatto incidere
un'iscrizione bilingue (greca
e punica) in bronzo al tempio
di Era Lacinia presso Crotone,
dove venivano descritte le sue
imprese in Italia.
Nell'autunno
del 203 a.C. il senato
cartaginese sotto la pressione
dell'invasione di Scipione,
diede ordine ad Annibale di
imbarcarsi e tornare in
Africa; il condottiero
cartaginese apprese con
amarezza queste decisioni, ma
egli aveva indubbiamente
previsto questa possibilità.
Per la prima volta dopo ben
trentaquattro anni, Annibale
tornava nella patria che aveva
lasciato da ragazzo per
seguire il padre. Egli, dopo
avere perduto Locri (occupata
da Pleminio), abbandonata Thurii ai
suoi soldati e ridottosi ormai
al solo territorio di Crotone,
fece costruire una flotta con
il legname della Sila. Prima
di abbandonare per sempre
l'Italia, procedette a
effettuare vaste distruzioni e
saccheggi sul territorio per
non lasciare bottino nelle
mani dei Romani; inoltre,
massacrò i soldati italici
che si rifiutavano di seguirlo
in Africa. Salpò
dall'Italia insieme a circa
15.000-20.000 veterani delle
campagne in Italia, senza
alcuna opposizione da parte
delle forze romane del console Gneo
Servilio Cepione; giunse
indisturbato in Africa e sbarcò
a Leptis
Minor da
dove si diresse ad Adrumeto (oggi Susa).
Cartagine,
galvanizzata dall'arrivo del
suo eroe, interruppe le
trattative e cominciò a
riorganizzarsi. La pace, già
ratificata dai comizi romani,
venne rifiutata, e per poco
gli ambasciatori romani giunti
in Africa non furono uccisi. Scipione
dovette annullare la tregua,
mentre Annibale si apprestava
a raccogliere tutte le forze
cartaginesi disperse: gli
uomini del fratello Magone e
gli uomini di Asdrubale, per
lo più mercenari. Con queste
truppe si diresse verso la
Numidia per arruolare reparti
di cavalleria, anche se alla
fine dovette accontentarsi di
3.000 cavalieri forniti dal
figlio del deposto Siface, Vermina.
Scipione
non perse altro tempo: iniziò
a devastare la vallata del
fiume Bagradas e
chiese aiuto all'alleato
Massinissa, che stava
combattendo nella Numidia
occidentale. I due poi si
riunirono nell'interno, poiché
per il comandante romano era
di fondamentale importanza
disporre di un adeguato numero
di cavalieri numidi prima di
affrontare il Cartaginese.
Intanto Annibale marciò da
Adrumeto a Zama (quella
più a ovest fra le due città
che hanno lo stesso nome),
sperando di intercettare
l'armata di Scipione prima che
si congiungesse con la
cavalleria numida. A Naraggara (Sidi
Youssef) il comandante romano
fu raggiunto da Massinissa e
insieme marciarono fino a Seba
Biar. Annibale cercò di
evitare lo scontro per
mostrare, pare, alla fazione
pacifista cartaginese di avere
cercato una possibile
soluzione incruenta,
rendendosi inoltre conto di
trovarsi in uno stato di
inferiorità. I due più
grandi condottieri del periodo
si incontrarono di persona, ma
la trattativa fallì, poiché
Scipione pose delle condizioni
tali da non lasciare
alternative al suo avversario,
tanto che la parola passò
alle armi. Il Cartaginese
avrebbe accettato
l'evacuazione della Spagna, ma
domandava a Roma di rinunciare
all'indennità di guerra; il
Romano rifiutò. Annibale
sapeva che un'ultima vittoria
gli avrebbe permesso di
congelare la guerra, dando
voce a Roma a quel partito che
auspicava alla cessazione
definitiva delle ostilità.
I
due eserciti avevano più o
meno la stessa consistenza
numerica. Circa 350.000
Romani fronteggiavano
40/50.000 cartaginesi,
quest'ultimi però con una
cavalleria inferiore. Ma
la differenza qualitativa era
importante.
-
Annibale guidava forze di
fanteria più numerose ma
composite: 12.000 fanti celti
e liguri, 15.000 reduci dalle
campagne italiche, 18.000
mercenari di varia
provenienza, numidi, macedoni,
iberici e qualche cartaginese.
La cavalleria punica era
composta da 4.000 uomini.
Aveva a disposizione, inoltre,
ottanta elefanti da guerra su
cui contava molto.
-
Scipione aveva a sua
disposizione due legioni
addestrate, compatte e
disciplinate (circa 23.000
fanti e 2.000 cavalieri).
7.000 fanti e 4.500 cavalieri
erano forniti da Massinissa e
dal suo alleato Damakas.
Entrambi
gli schieramenti vennero
disposti su tre file.
-
Annibale compì secondo molti
storici moderni un capolavoro
di tattica, ponendo gli
elefanti davanti alla fanteria
per lanciarli in una carica di
sfondamento che avrebbe
permesso alle altre forze di
attaccare le linee romane
scompaginate. Dietro agli
elefanti, le linee cartaginesi
vedevano in prima fila i
mercenari galli, mauritani,
liguri e iberici (di cui si
fidava poco), in seconda linea
le forze terrestri libiche e
cartaginesi, poi a circa 200
metri dietro, i veterani delle
campagne d'Italia che dovevano
attaccare le truppe nemiche
quando fossero state stanche.
Le ali di cavalleria
cartaginese erano poste a
destra e quella numidica a
sinistra.
-
Scipione dispose i suoi uomini
sulle classiche tre file (triplex
acies). Prima gli hastati,
poi i princeps e
dietro i triarii,
ma con un'innovazione rispetto
alla classica disposizione
delle legioni. Egli evitò di
offrire un fronte compatto
lasciando spazio di manovra
fra un manipolo e l'altro. Le
ali di cavalleria vedevano, a
destra Massinissa e a sinistra
la cavalleria italica
comandata da Gaio Lelio. Lo
Scullard ritiene che
l'obbiettivo tattico di
Scipione fosse quello di «applicare
la manovra di aggiramento che
aveva eseguito con crescente
abilità, nei successi a Baecula,
a Ilipa e
ai Campi
Magni»,
grazie alla superiorità della
sua cavalleria.
Anche
questa volta Annibale compì
un vero e proprio capolavoro,
infliggendo al rivale una vera
e propria lezione di tattica,
fino a sfiorare la vittoria.
Giovanni Brizzi scrive «forse
solo un'altra battaglia, quella
di Waterloo, ha evidenziato
quanto Zama la superiore
abilità del vinto». E
tuttavia anche Annibale, come
duemila anni più tardi Napoleone,
non poté evitare di essere
sconfitto e perdere la guerra
in modo definitivo.
Il
Cartaginese lanciò, infatti,
la carica degli elefanti, che
in parte venne respinta dai
Romani e in parte finì nei
corridoi che il comandante
romano aveva predisposto
dietro la linea dei suoi velites.
Fu quindi la volta delle
cavallerie di Massinissa e
Lelio a sospingere fuori dallo
schieramento quelle nemiche,
che fuggirono e si
allontanarono dal teatro dello
scontro principale tra le
fanterie.
Subito
dopo fu la volta delle due
fanterie a scontrarsi.
Scipione, che aveva notato che
la terza linea di Annibale
rimaneva ferma, intuì di non
potere praticare la manovra di
aggiramento che aveva
applicato in altre precedenti
battaglie. Gli hastati
riuscirono a caricare la prima
linea dei mercenari di
Cartagine, che ripiegarono
verso le ali della seconda
linea, che non si era aperta
per accoglierli. Appoggiati
dalla seconda fila romana dei principes,
riuscirono a rompere anche il
secondo schieramento
cartaginese. A questo punto,
vista la distanza con il terzo
schieramento di Annibale, il
comandante romani preferì
interrompere la battaglia, sia
per riordinare il suo
schieramento (prolungandone il
fronte, disponendo principes e triarii ai
lati degli hastati),
sia per attendere il ritorno
della cavalleria romana.
Lo
scontro riprese ancor più
cruento. La situazione stava
diventando critica per
Scipione, ma Annibale aveva
davanti a sé le legioni di Canne.
Quegli uomini sconfitti dai
nemici ed esecrati dai loro
stessi concittadini ebbero,
alla fine, una seconda
possibilità e da quella
speranza, da quella rabbia,
trassero la forza di resistere
alle forze puniche che li
sovrastavano. Definitivamente
dispersa la cavalleria
avversaria o disperatamente
chiamati indietro da Scipione,
alla fine Lelio e Massinissa
tornarono con i loro
cavalieri, che si avventarono
alle spalle delle forze
cartaginesi e le annientarono.
Dalla
distruzione dell'esercito
cartaginese Annibale riuscì a
scampare tornando ad Adrumeto.
Scipione, intanto, dopo avere
compiuto un'azione
dimostrativa contro Cartagine,
accolse una delegazione di
pace a Tunisi. La seconda
guerra punica era terminata
con un ennesimo massacro sulle
rive di un fiume africano. Era
il 29 ottobre 202.
Resistere
ancora a Roma poteva
significare solo la
distruzione della città di
Cartagine. Anche Scipione
voleva la pace e l'Italia
aveva la necessità di
ricostruire dopo quindici anni
di distruzione. Venne pertanto
conclusa una tregua di tre
mesi, a condizione che
Cartagine consegnasse degli
ostaggi e fornisse frumento e
salario alle truppe romane per
tutta la durata della tregua.
Le
condizioni della pace furono
le seguenti e comportarono la
fine di Cartagine come potenza
mediterranea:
-
Cartagine manteneva una
parvenza di autonomia,
diventando di fatto un protettorato di
Roma, che le vietava di
prendere le armi senza il suo
permesso;
-
conservava il territorio a
oriente delle cosiddette «fosse
puniche» (all'incirca
l'attuale Tunisia, fino
al golfo di Gabès);
-
doveva evacuare i territori a
ovest delle «fosse puniche»
(che separavano il territorio
cartaginese da quello numida),
favorendo Massinissa che ne
approfittò per annettersi
larghe parti del territorio
soggetto a Cartagine;
-
Cartagine perdeva per sempre
la Spagna;
-
doveva versare un'indennità
di guerra di 10.000 talenti,
da pagare in cinquant'anni;
-
doveva consegnare tutti gli elefanti e
tutti i prigionieri di guerra;
-
la flotta era ridotta a sole
dieci triremi, appena
sufficienti per frenare i pirati;
-
non poteva più arruolare
truppe mercenarie in Gallia e
Liguria.
In
cambio le truppe romane
avrebbero evacuato l'Africa
entro cinque mesi. La guerra
ebbe così termine e le
condizioni di Scipione furono
ratificate dal Senato. Al
comandante che aveva sconfitto
Annibale fu conferito il cognomen
ex virtute di Africanus.
Mezzo
secolo dopo, quando Cartagine
infine si ribellò ai continui
attacchi di Massinissa, fu
questa sua reazione - non
autorizzata - a fornire ai
romani il casus belli per
scatenare la terza guerra
punica. Qualche anno dopo fu
anche imposto ai Cartaginesi
di aiutare Roma nella sua
avventura in Grecia e Asia
Minore contro gli Etoli e
il re seleucide, e navi
puniche servirono nella
campagna di Lucio
Cornelio Scipione Asiatico contro Antioco
III di Siria.
A
Roma la fine della guerra non
fu accolta bene da tutti per
ragioni sia politiche che
morali. Quando il Senato
decretò sul trattato di pace
con Cartagine Quinto Cecilio
Metello - già console nel 206
a.C. - affermò che non
riteneva la fine della guerra
essere un bene per Roma;
temeva che il popolo romano
non sarebbe ritornato allo
stato di quiete dal quale era
stato tratto con l'arrivo di
Annibale.
Altri,
come Catone il Censore
temevano che se Cartagine non
fosse stata del tutto
distrutta avrebbe presto
riacquistato la propria
potenza e ripreso le lotte con
Roma. E probabilmente Catone
non aveva torto; l'archeologia
ha scoperto che il famoso
porto militare
"Coton" fu costruito
dopo la guerra, poteva
contenere 200 triremi mentre a
Cartagine erano concesse solo
10 navi ed era protetto
dall'osservazione esterna.
Annibale per molti anni curò
i propri affari e riprese un
ruolo importante a Cartagine.
Per questo la nobiltà locale,
spaventata dalla sua deriva
democratica e dalla sua
battaglia contro la
corruzione, convinse i Romani
a forzarne l'esilio che lo
spinse verso le coste
dell'Asia sempre cercando di
rinnovare la lotta a Roma. A
Libyssa sulle spiagge
orientali del Mar di Marmara
prese quel veleno che, come
diceva, aveva a lungo
conservato in un anello.
Roma
ebbe le mani libere per
intraprendere con decisione la
conquista della Gallia
Cisalpina, della Gallia
Transalpina, dell'Illiria,
della Grecia, e di tutti i
regni della costa della Asia
che si affacciavano sul
Mediterraneo e sul Mar Nero.
Dei 53 anni calcolati da
Polibio, e per Pidna, ne
mancavano solo 34.
TERZA
GUERRA PUNICA -
La
Terza guerra punica fu
combattuta fra Cartagine e la
Repubblica di Roma fra il 149
a.C. e il 146 a.C.. Fu
l'ultima delle tre guerre fra
le antiche superpotenze del
Mar Mediterraneo.
Con
la sconfitta nella Prima
guerra punica Cartagine aveva
perso la parte della Sicilia
che aveva faticosamente
conquistato. La rivolta dei
mercenari permise ai romani di
appropriarsi di Sardegna e
Corsica. Dopo l'avventura di
Annibale, le cui imprese erano
alla base della Seconda guerra
punica, la città aveva dovuto
cedere anche le redditizie
conquiste in Spagna che
l'avevano sostenuta
finanziariamente - sia per il
pagamento delle indennità
conseguenti al primo
conflitto, sia il quindicennio
bellico di Annibale nella
penisola italica. Inoltre,
Cartagine stava pagando le
nuove indennità richieste
dopo la sconfitta di Annibale
(200 talenti d'argento annui
per 50 anni) e fu costretta a
prestare un contingente alle
forze di Roma nelle guerre
contro Antioco III, Filippo V
e Perseo. La relativa
decadenza dello stato era
mitigata da un riprendersi del
commercio in cui i cartaginesi
erano maestri e un nuovo
impulso dato all'agricoltura e
in particolare alle
coltivazioni di ulivo e vite
con tecniche moderne e ad alta
resa suggerite dal manuale
agronomico di Magone che era
tradotto anche a Roma.
Per
contro, subito dopo e in certi
casi anche durante la Seconda
guerra punica aveva iniziato
una fase di espansione
prodigiosa. Dal contrastato
controllo dell'Italia a sud
dell'Appennino tosco emiliano
aveva esteso la sua influenza
alla Pianura Padana alleandosi
ai Veneti e chiudendo la
partita con i Galli delle
varie tribù padane.
Per
completare il controllo della
Spagna, strappata ai
cartaginesi, si inserì nelle
lotte fra la colonia greca di
Marsiglia e i Galli
transalpini conquistandosi
quella che divenne la
Provincia Narbonese, costruì
la Via Domizia e intraprese
una dura lotta per
sottomettere le tribù dei
Celtiberi, dei Carpetani e dei
Lusitani. Intervenne
pesantemente anche nelle isole
maggiori, specialmente la
Sardegna per sottomettere le
tribù dell'interno.
Sul
fronte orientale le legioni di
Roma conquistarono l'Illiria
bloccando i pirati della
regina Teuta che operavano
nell'Adriatico e anche se non
ancora formalmente, la Grecia
delle città stato,
sottomisero la Macedonia
facendone una Provincia, e
intervennero sulla costa
mediorientale ponendo fine al
regno dei Seleucidi in Siria e
dirigendo la politica dei vari
regni in cui era divisa
l'Anatolia (La parte anatolica
del regno seleucida di Antioco
Ierace, Pergamo, Cappadocia,
Bitinia, Galazia, Paflagonia e
il Ponto).
In
sintesi di tutti i paesi
costieri del Mediterraneo
restavano indipendenti (ma
politicamente condizionati):
la Mauretania di Bocco,
l'Egitto dei Tolomei, alcune
città-stato come Marsiglia e
la Numidia, il regno che
Massinissa, alleato di Roma
contro Annibale, aveva
strappato a Siface alleato dei
punici. E la Numidia confinava
a est con quello che restava
dei possedimenti di Cartagine.
Come
si è detto, Cartagine subiva
le pesanti condizioni di
sconfitta e si atteneva ai
patti in modo scrupoloso per
evitare di dare ai romani
l'occasione di gravare
ulteriormente sulla città.
Roma,
però, non poteva dimenticare
il pesante carico di costi
economici, umani e psicologici
causati da Annibale nel corso
della precedente guerra.
"Annibale è alle
porte!" era diventata la
frase spauracchio per i
bambini (e non solo per i
bambini). I territori a sud di
Roma che avevano sopportato le
scorribande, dei cartaginesi
prima e delle legioni poi,
erano in condizioni disastrose
(nel solo 214 a.C. nove
villaggi distrutti e 32.000
civili resi schiavi). Lo
sforzo bellico fu grandioso in
termini di risorse umane.
Dalle
sei legioni che Roma manteneva
prima di Annibale, si era
passati alle 25 nel 212 a.C..
Si può calcolare che con le
forze degli alleati, Roma
dovesse mantenere oltre
200.000 uomini a combattere. A
questi bisogna aggiungere le
forze navali con i loro costi
e i loro uomini. Ogni
combattente era sottratto alla
produzione e soprattutto alle
campagne e all'agricoltura. Si
può quindi comprendere perché
Roma fosse ben attenta a far sì
che Cartagine non rialzasse la
testa.
E
a ricordare ai romani la loro
nemica pensava Catone il
Censore che terminava tutti i
suoi discorsi con la
famosissima frase "Ceterum
censeo Carthago delenda est"
(Cartagine deve essere
distrutta). Non tutti erano
dell'avviso, per esempio
Scipione Nasica, cugino
dell'Africano
rispondeva:"per me deve
vivere". Ma non aveva lo
stesso potere mediatico.
Nondimeno, la situazione
poteva mantenersi in uno stato
di precario equilibrio se non
fosse intervenuto Massinissa.
Ripresosi
il suo regno, che gli era
stato tolto da Siface,
Massinissa si era dedicato
allo sviluppo dei suoi
territori. Per prima cosa
inglobò alcuni regni minori
in modo più o meno pacifico
fino a portare la Numidia a
svilupparsi su quasi tutta la
costa dalla Tunisia
all'Atlantico. Con una serie
di riforme sociali ed
economiche iniziò la
trasformazione del regno da
pastorale con società nomade
ad agricolo e stanziale. Fondò
alcune città, ne ingrandì
altre e in genere mostrò la
sua aspirazione a fondare un
grande stato moderno. Per
raggiungere un reale sviluppo
territoriale, umano e tecnico,
per fornire ai suoi pastori e
neo agricoltori una base
culturale ed economica doveva,
però incorporare anche
Cartagine e le sue conoscenze
agricole, navali, commerciali.
Massinissa,
quindi approfittò degli
accordi di pace del 201 a.C.
fra Roma e Cartagine (che
vietavano a questa persino
l'autodifesa senza il consenso
dei vincitori) per iniziare
una serie di azioni di
disturbo verso la città
punica sottraendo territori di
confine con la forza e
contestandone per via
diplomatica il possesso di
altri.
Nel
193 a.C. Massinissa occupò
Emporia nella Syrtis Minor,
tanto ricca da rendere a
Cartagine un talento al
giorno. Alle lamentele di
Cartagine, il re numida ribatté
che i punici erano stranieri i
quali, avuto il permesso di
possedere tanta terra quanta
ne comprendeva una pelle di
bue, si erano impadroniti di
molta parte dell'Africa. Ad
ogni buon conto il Senato inviò
a Cartagine una delegazione
comprendente Publio Scipione
Africano che però non decise
alcuna mossa contro la
Numidia.
Incoraggiato,
nel 174 a.C. Massinissa occupò
Tisca e il territorio
circostante. Per salvare le
apparenze Roma invio in Africa
Catone alla guida di un'altra
commissione. Tornato in Italia
con ancora più radicata la
convinzione che Cartagine
stesse risorgendo
economicamente e anche
riarmandosi, Catone intensificò
la sua martellante campagna
per la distruzione della città.
Famoso l'aneddoto del cestino
di fichi che Catone, al suo
ritorno, mostrò in Senato;
erano ancora tanto freschi da
rendere evidente
"quanto" Cartagine
fosse vicina e tanto buoni da
far toccare con mano la
concorrenziale qualità dei
suoi prodotti.
Un
altro tassello alla guerra fu
portato dagli stessi
cartaginesi, una fazione
favorevole a Roma e
addirittura a Massinissa perse
il potere e 40 membri furono
esiliati. Rifugiatisi in
Numidia, senza grande fatica
spinsero il re, ottantenne, a
inviare a Cartagine i sui
figli per chiedere il rientro
degli esuli. Cartagine rifiutò
e Massinissa occupò la città
di Oroscopa. Sapendo ormai di
non poter ottenere giustizia
da Roma, nel 150 a.C.
l'esasperata Cartagine,
rompendo i patti, decise il
riarmo e apprestò un esercito
di 50.000 uomini (come sempre
in massima parte mercenari) e
cercò di riconquistare
Oroscopa. Però il re Numida,
disponendo di forze militari
di maggiore professionalità,
riuscì vincitore.
Il
rischio per Roma, adesso, era
che Cartagine, ancor più
indebolita, cadesse preda
della Numidia. Naturalmente a
Roma non si sarebbe visto di
buon occhio il formarsi in
Africa di uno stato
economicamente potente, esteso
dall'Atlantico all'Egitto e
con notevoli masse umane da
impiegare nelle inevitabili
guerre.
La rottura dei patti, in ogni
caso, era indiscutibile e fornì
Roma di pretesto perfetto per
poter intervenire.
Contrariamente ai desideri di
Catone che parteggiava per
un'immediata dichiarazione di
guerra, all'inizio mandò una
missione diplomatica per far
desistere i cartaginesi dal
riarmo, poi, anche per evitare
che Massinissa la conquistasse
e diventasse così troppo
potente e incontrollabile,
dichiarò guerra all'eterna
rivale.
Era
il 149 a.C. e iniziava la
Terza guerra punica.
Non
appena si seppe che i consoli
romani Lucio Marcio Censorino
e Manio Manilio Nepote erano
partiti per l'Africa dalle
basi siciliane con un esercito
di 80.000 uomini e 4.000
cavalieri, Cartagine capitolò
e cercò di minimizzare i
danni, rimettendosi alle
decisioni di Roma e inviando
300 ostaggi scelti fra gli
adolescenti della nobiltà
punica. I consoli romani
avevano però precise
istruzioni di eliminare per
sempre la città.
L'esercito
romano sbarcò vicino a Utica,
che si arrese, e iniziò le
operazioni. Partecipava anche,
come tribuno, Scipione
Emiliano, figlio del console
Paolo Emilio morto a Canne e
adottato nella gens Cornelia
dal figlio di Scipione
Africano.
I
consoli ricevetero gli
ambasciatori di Cartagine ai
quali rinfacciarono la ripresa
delle ostilità. I malcapitati
non poterono ribattere che
Roma non avesse protetto, come
invece promesso, i territori
della sconfitta rivale e
dovettero accettare le
condizioni che furono poste:
Cartagine consegnò al campo
romano di Utica 200.000
armature, 2.000 catapulte e
altro materiale bellico. Resi
inermi i cartaginesi,
Censorino disse che quello che
avevano fatto non era
sufficiente e che, per la
sicurezza di Roma, Cartagine
doveva essere distrutta.
"Escano dunque dalle mura
gli abitanti e vadano ad
abitare ad ottanta stadi dal
mare". Ben 15 Km più
all'interno, lontano dalla sua
prosperità; lontana dal mare.
Gli ambasciatori riusciro a
replicare che Roma non teneva
fede alle promesse ma fu loro
obiettato che Roma aveva
promesso la salvezza ai
cittadini, non alla città.
Gli
ambasciatori, al ritorno,
furono quasi uccisi dalla
folla. Il popolo si ribellò,
finalmente ma tardivamente
unito nell'odio agli invasori
e nel desiderio di salvare la
patria.
Per
prima cosa furono uccisi tutti
gli italici presenti in città,
furono liberati gli schiavi
per avere aiuto nella difesa,
richiamati Asdrubale e altri
esuli che erano stati
allontanati per compiacere
Roma. Fu chiesta una moratoria
di 30 giorni con il pretesto
di inviare una delegazione a
Roma.
In
questi giorni, sbarrate le
porte della città e
rinforzate le mura, iniziò
una frenetica corsa al riarmo.
I 300.000 cartaginesi fondendo
ogni metallo recuperabile
dagli edifici e dai templi,
perfino oro e argento,
riuscirono a produrre ogni
giorno 300 spade, 500 lance,
150 scudi e 1.000 proiettili
per le ricostruite catapulte.
Le donne offrirono i loro
capelli per fabbricare corde
per gli archi.
Quando
i romani, partiti da Utica per
distruggerla, arrivarono alle
mura di Cartagine le trovarono
chiuse e irte di armati.
Trovarono un intero popolo
compatto e stretto alla difesa
della sua città.
Cartagine
era estremamente ben difesa.
Le mura erano possenti, i
difensori decisi, i
rifornimenti sicuri e
abbondanti tramite il porto.
I
consoli trovarono una
situazione difficile. La sosta
aveva dato ad Asdrubale la
possibilità di raccogliere
circa 50.000 uomini ben
armati. Manio Manilio Nepote
portò i suoi uomini alle mura
della cittadella mentre
Censorino tentò di bloccare
il porto con la flotta. Iniziò
il lancio delle catapulte e i
romani riuscirono a produrre
una breccia nelle mura che però
fu subito richiusa. I
difensori contrattaccarono e
distrussero parte delle
macchine belliche. Quando i
manipoli furono lanciati
all'assalto della breccia
furono sanguinosamente
respinti. Censorino, da parte
sua cercò di attaccare il
borgo di Neferi ma fu
anch'egli respinto da
Asdrubale. Qui si distinse
Scipione Emiliano che riuscì
a portare nel campo dei romani
Imilcone, uno dei capi della
cavalleria cartaginese, con
oltre 1.200 cavalieri.
Nel
148 a.C. i nuovi consoli Lucio
Calpurnio Pisone e Lucio
Ostilio Mancino furono inviati
in Africa ma si rivelarono
ancora più incapaci dei
predecessori. In particolare
Pisone si fece battere dai
difensori di due città vicine
Clupea e Ippona.
Questi
insuccessi resero audaci i
cartaginesi che mandarono
delegazioni in vari stati
compresa la Numidia. Ma
l'eccesso di fiducia fu
letale. Asdrubale prese il
potere con un colpo di stato
rompendo la concordia
precedente e ordinò di
esporre sulle mura i
prigionieri romani,
orrendamente mutilati, per
intimorire le truppe nemiche.
Ottenne l'effetto contrario. I
romani, inaspriti, non
avrebbero concesso mercé.
Nel
147 a.C. Scipione Emiliano
venne nominato console pur
senza aver raggiunto l'età
prescritta di 47 anni avendo
come collega Gaio Livio Druso.
Appena giunto sotto le mura di
Cartagine dovette correre a
salvare Lucio Mancino che,
isolato da un contrattacco dei
difensori e non riuscendo a
sganciarsi, correva
addirittura il rischio di
morire di fame. Si doveva
concentrare l'attacco alla
città, dopo il restante
territorio avrebbe ceduto.
Asdrubale che difendeva il
porto con 7.000 uomini, fu
attaccato di notte e costretto
a riparare a Birsa. E ancora
le vettovaglie giungevano a
Cartagine.
Scipione,
con una diga di tre metri,
bloccò il porto attraverso il
quale ai cartaginesi
arrivavano i sempre più
scarsi rifornimenti. I
cartaginesi scavarono un
tunnel-canale per poter
rifornire la città e
riuscirono addirittura a
costruire cinquanta navi. La
rapidità di Scipione fu
fatale. La flotta fu
distrutta, il tunnel-canale
chiuso e presidiato.
Nel
frattempo Nefari che era
presidiata da un grosso nucleo
cartaginese e che si
dimostrava una spina nel
fianco, fu attaccata da truppe
romane comandate dal legato
Lelio e dal figlio di
Massinissa, Golussa, che
Scipione aveva convinto ad
allearsi a Roma. Si parlò di
70.000 morti e 4.000 sfuggiti
ma sono cifre riportate da
storici attenti a cantare le
lodi dei vincitori. La caduta
di Nefari portò con se la
resa delle altre città.
Per
tutto l'inverno durò l'agonia
della città. Senza più
viveri e attaccata perfino da
una pestilenza, Cartagine
soffrì la fame, vi furono i
"soliti" casi di
cannibalismo e di morte per
gli stenti. Scipione che
conosceva benissimo le
condizioni degli assediati non
forzò l'attacco e solo nel
146 a.C. l'esercito venne
lanciato a superare le mura.
Lelio e le sue truppe scelte
conquistarono il porto
militare e il foro.
I
sopravissuti impegnarono i
romani in una disperata
battaglia per le strade della
città, di casa in casa, che
si protrasse per circa
quindici giorni. Furono usati
tutti i mezzi per rallentare
l'inesorabile avanzata dei
legionari. Ma l'esito era
scontato. Gli ultimi soldati
assieme a un migliaio di
disertori romani, si
rinchiusero nel tempio di
Eshmun (collegato al greco dio
della salute Asclepio o al
romano Esculapio)
sull'acropoli resistendo per
altri otto giorni. Il tempio
fu dato alle fiamme.
Per
risparmiare le sue truppe
Scipione emanò un bando che
prometteva salva la vita a chi
si arrendeva e usciva
disarmato dalla cittadella.
50.000 uscirono fra cui,
vigliaccamente, Asdrubale.
Dalle mura della cittadella la
moglie di Asdrubale fra
sanguinose ingiurie e
maledizioni al marito gridò
una preghiera a Scipione di
punire il codardo indegno di
Cartagine, salì al tempio
incendiato, sgozzò i figli e
come Didone si lanciò fra le
fiamme.
Dopo
aver recuperato alcune opere
d'arte che i cartaginesi
avevano preso in Sicilia fra
cui il Toro di Agrigento e la
Diana di Segesta, Scipione
abbandonò la città al
saccheggio dei suoi soldati.
Cartagine, la possente regina
del Mediterraneo che aveva
fatto tremare Roma, fu rasa al
suolo, la città fu
sistematicamente bruciata, le
mura abbattute, il porto
distrutto. La citta' fu sparsa
di sale in modo tale che nulla
potesse piu' crescere sul suo
suolo. Polibio lo storico
greco narra che Scipione
pianse vedendo in quella
rovina la possibile futura
sorte di Roma stessa.
La
Terza guerra punica era
terminata.
I
circa 50.000 superstiti, in
massima parte donne e bambini,
furono venduti - come d'uso -
nei mercati degli schiavi;
sulla città furono
pronunciati i voti agli dei
inferi e gettato il sale per
significare che nulla di
Cartagine doveva rinascere. I
territori divennero ager
publicus e dati in affitto
a coloni romani, italici e
anche libici.
Massinissa
non poté godere delle sue
iniziative. Fra il suo stato e
gli ex possedimenti di
Cartagine fu scavata un
fossato (poi Fossa Regia) che
segnò definitivamente il
confine fra la Numidia (per il
momento ancora indipendente) e
la neonata Provincia romana
d'Africa.
La
situazione economica e sociale
di Roma, al termine delle tre
guerre puniche era talmente
cambiata che Scipione
Emiliano, nel 142, pregò per
la conservazione della
Repubblica e non per il suo
ampliamento.
Il
sito di Cartagine era però
troppo ben scelto perché
rimanesse disabitato e una
nuova città nacque e crebbe
diventando la seconda città
nella parte occidentale
dell'Impero Romano è la città
principale della Provincia
romana di "Africa".
Pag.
6
Pag.
8
|