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Città del Vaticano - Italia
   
 
  
PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1980-1990
 

  

 

Età repubblicana
La Repubblica mediterranea (264 a.C. - 146 a.C.)

Terminate le guerre contro Pirro e le colonie greche dell'Italia meridionale, Roma aveva ormai ottenuto il controllo della penisola italiana, dagli Appennini settentrionali fino alla Puglia e alla Calabria. La Sardegna e la Corsica erano sotto il controllo dei cartaginesi, che controllavano anche la parte orientale della Sicilia, mentre quella occidentale era sotto il controllo di Siracusa.

Fino a questo momento Roma e Cartagine non erano mai venute a scontrarsi, sopratutto perché differenti erano gli interessi che muovevano le rispettive politiche espansive; ciò nonostante avevano già da tempo sentito l ' esigenza di regolare i reciproci rapporti con dei trattati, che definivano le rispettive zone di influenza.

Questo stato di cose cambiò quando Roma, padrona della penisola italiana, iniziò a pensare di estendere la sua influenza anche sulla Sicilia, che rappresentava il principale e più vicino "granaio" da cui Roma si poteva approvvigionare per le sue crescenti esigenze.

L'occasione di intervenire negli affari siciliani fu data ai romani dalla richiesta di aiuto fatta dai Marmettini, che governavano su Messina e che erano posti sotto assedio dai siracusani. I Cartaginesi interpretarono questo intervento come una violazione dei trattati esistenti e dichiararono guerra a Roma, dando inizio alla prima della guerre puniche

GUERRE PUNICHE - Le Guerre puniche furono una serie di tre guerre combattute fra Roma e Cartagine e che si risolsero con la totale supremazia di Roma sul Mar Mediterraneo; supremazia diretta nella parte occidentale e controllo per mezzo di regni a sovranità limitata nell'Egeo e nel Mar Nero. Sono conosciute come puniche in quanto i romani chiamavano punici i cartaginesi. A sua volta il termine punico è una corruzione di fenicio, come Cartagine è una corruzione del fenicio Karth Hadash (città nuova). 

Le due città, quasi "coetanee" (814 a.C. Cartagine), (753 a.C. Roma), per lunghi secoli tennero un atteggiamento di reciproco rispetto anche se dai trattati stipulati nel corso del tempo, traspare una certa tendenza - probabilmente motivata - di Cartagine a sentirsi "superiore". Polibio ci informa di quattro trattati fra Roma e Cartagine: 509 a.C., 348 a.C., 306 a.C., 279 a.C.. L'ultimo è addirittura un'alleanza (anche se non stretta) in funzione anti Pirro, re dell'Epiro, che imperversava prima nel sud Italia chiamato da Taranto contro i romani e poi in Sicilia chiamato da Siracusa contro i cartaginesi. Proprio la sconfitta di Pirro a Maleventum sancì il definitivo ingresso di Roma nel novero delle grandi potenze del Mediterraneo.

Proprio la precedente sconfitta di Pirro in Sicilia per opera dei cartaginesi segnò la divisione dell'isola in due settori: a ovest i punici, a est Siracusa. Quest'ultima città, per poter estendere il suo potere dovette rivolgersi contro i Mamertini di Messina che inviarono ambasciatori per chiedere aiuto a entrambe le città. Un'antica comunità di intenti, basata sulla simmetria degli interessi  cessò all'improvviso. Per 110 anni la guerra imperversò, gradualmente estendendosi a tutto il Mediterraneo. Fino alla totale distruzione di uno dei contendenti: Cartagine.

PRIMA GUERRA PUNICA - La Prima guerra punica fu combattuta fra Cartagine e Roma dal 264 a.C. al 241 a.C. e fu la prima delle tre grandi guerre che queste due superpotenze del mondo antico ingaggiarono per il controllo della Sicilia e per la supremazia nel Mar Mediterraneo. Dopo 23 anni di combattimenti Roma vinse ed impose a Cartagine pesanti condizioni di pace.

Nel 280 a.C. la Repubblica di Roma era in una condizione di vittoriosa espansione. Dopo secoli di conflitti e ribellioni l'intera penisola italiana a sud dell'Appennino Tosco-emiliano era strettamente controllata dalle forze romane; tutti i nemici prossimi come gli Etruschi, i Sabini, i Volsci erano stati sconfitti. I Marsi, gli Apuli, i Vestini erano federati o alleati. 

I Galli Senoni erano stati fermati al Piceno (attuali Marche). Roma aveva stretto accordi di alleanza o di non-interferenza con varie popolazioni italiche e colonie greche dell'Adriatico come Ancona (aiutata contro i Galli). 

Operazioni di consolidamento si stavano effettuando soprattutto nei territori del sud appena entrati nell'orbita della Repubblica. Roma era abituata al successo e riponeva un'enorme fiducia nel suo sistema politico e nel suo esercito. Per contro non possedeva, in pratica, una vera Marina e per i commerci si affidava soprattutto agli Etruschi e ai Greci. Le guerre sannitiche avevano portato Roma a cercare di accerchiare il Sannio con l'alleanza degli Apuli (in Puglia) e una politica di controllo dei Lucani. La Repubblica si venne allora a trovare a stretto contatto con le colonie greche del Mar Ionio fra cui Tarentum. I tarantini, in lotta con Thurii che aveva chiesto aiuto a Roma, dal momento che la loro fragile coalizione con Sanniti, Bruzi e Lucani non riusciva ad aver ragione delle forze romane, si risolsero a chiedere aiuto a Pirro, re dell'Epiro.

Pirro aveva perso il trono nel 302 a.C. ed era stato mandato quale ostaggio alla corte egiziana di Tolomeo Soter. Questi nel 297 a.C. lo aiutò a rientrare nel suo regno. Nel 295 a.C. sposò la figlia di Agatocle di Siracusa. Chiamato dalle città greche contro Roma, giunse in Italia nel 280 a.C. con un esercito di 25.000 uomini e 20 elefanti da guerra. Dopo aver vinto la Battaglia di Heraclea e Battaglia di Ascoli Satriano, tentò un accordo con Roma. Le trattative fallirono per intervento di Cartagine.

Cartagine era da secoli un'affermata potenza commerciale e navale, controllava tutte le coste del Mediteraneo Occidentale: Nord Africa dall'Egitto fino all'Algeria, le coste di Spagna, Isole Baleari, Sardegna e Corsica. Resistevano solo Massalia colonia greca, alcune città della costa spagnola fra cui la (più tardi) tristemente famosa Sagunto, e le coste del Mar Tirreno, monopolio greco-etrusco.

Le colonie e le tribù libiche portavano a Cartagine tributi per circa 12.000 talenti d'argento (1 talento= 26 Kg). Inoltre Cartagine possedeva un'agricoltura sviluppatissima e le vaste proprietà della nobiltà punica erano giustamente famose per la loro ricchezza. I cartaginesi dediti al commercio e all'agricoltura avevano affidato l'esercito a buoni generali che però si servivano quasi esclusivamente di truppe mercenarie, per lo più libiche. Un fattore che ebbe grande importanza in tutto il percorso bellico fra Roma e la rivale. In questo scorcio di secolo Cartagine era, come già da decenni, in guerra con Siracusa, praticamente la sola città-stato concorrente nel controllo della Sicilia.

Siracusa era all'epoca governata da Gerone II che, eletto stratego nel 275 a.C. per i suoi successi contro i cartaginesi, nel 265 a.C. venne proclamato re dopo vittoriose azioni contro i Mamertini di Messina. La guerra contro questi mercenari alleati a Roma lo spinse a un'innaturale e temporanea alleanza con Cartagine.  

La potenza navale di Cartagine si vide nel 278 a.C.. Attenta a non far dimenticare i suoi interessi sulle coste italiche e preoccupata di un possibile allargamento del regno di Pirro, greco e "imparentato" con Siracusa, Cartagine inviò una flotta di 120 navi, comandata da Magone che si ancorò nel porto di Ostia per forzare i romani, impegnati nella guerra con Pirro e che pensavano alla pace, a continuare le ostilità. Cartagine così ottenne di avere mani più libere contro Siracusa e la stipulazione di un trattato (il quarto con Roma) nel quale le due potenze implicitamente spartivano le zone di influenza. Il patto, oltre a promesse di aiuto economico e militare di Cartagine contro i greci, garantiva a Roma che i punici non si accordassero con Pirro (c'erano voci di accordi in proposito) mentre Roma era impegnata in combattimenti con Sanniti, Lucani e Bruzi. La zona di influenza di Roma veniva fissata nell'Italia peninsulare.  

Pirro, però, proprio nel 278 a.C. sbarcò con 8.000 uomini a Catania e Taormina, allontanò i cartaginesi da Siracusa e conquistò praticamente tutta la Sicilia riducendo i punici al possesso del solo Capo Lilibeo. Due anni dopo dovette però rientrare in Italia e Cartagine ritornò sulle posizioni precedenti.

Agatocle, tiranno di Siracusa, era morto nel 289 a.C.. Un gruppo di mercenari italici, rimasti senza lavoro, l'anno successivo conquistò Messina. Crearono una loro struttura statale con a capo due meddices (termine osco) e si autonominarono Mamertini (probabilmente dal nome di Marte - dio della guerra). Dalla base di Messina saccheggiavano il territorio circostante diventando ben presto un serio problema per Siracusa. I siracusani si affidarono a Gerone che, riorganizzato l'esercito mercenario, dopo alterne vicende riuscì a sconfiggere i Mamertini a Milazzo e pose Messina sotto assedio. I Mamertini, scoprendo di avere bisogno di aiuto militare, inviarono due delegazioni, contemporaneamente, a Roma e a Cartagine, le due potenze che erano in grado di sostenere un simile attacco.

Cartagine poteva essere interessata a chiudere la partita con Siracusa e conquistare finalmente l'intera Sicilia. Roma era ormai la "padrona" dell'Italia e i Mamertini erano Italici.

All'inizio Roma non gradiva l'idea di aiutare un gruppo di militari che perseguivano una guerra "ingiusta" avendo rubato la città ai veri proprietari. In più Roma aveva da pochi anni domato una rivolta di mercenari della legio Campana (Reghium, 271 a.C.) ed era riluttante ad aiutare quella fazione. Cartagine fu quindi la prima a rispondere. Inviò truppe che conquistarono Messina e navi furono dislocate nel porto. A meno di tre miglia dalla costa italiana.

Probabilmente questo fu il fattore determinante. Forze cartaginesi troppo vicine al territorio romano e orientate al controllo totale della Sicilia che, a sua volta, controllava il passaggio fra le due parti, orientale e occidentale, del Mediterraneo. Roma formò un'alleanza con i Mamertini e nel successivo 264 a.C. inviò truppe in Sicilia. Era la prima volta che forze romane uscivano dalla penisola italiana.

Gerone II, innaturalmente alleato a Cartagine, dovette fronteggiare le legioni di Valerio Messala. Perse, ottenne la pace versando 100 talenti, e divenne un fedele alleato di Roma fornendole aiuti, soprattutto grano e macchine da guerra. In breve tempo, così, rimasero in campo solo i due eserciti romano e cartaginese. La posta era il possesso della Sicilia, grande produttrice di grano e testa di ponte di entrambe le potenze per il controllo commerciale e militare del Mediterraneo centrale.

I trattati vennero infranti, una plurisecolare amicizia fra le due città era terminata. Iniziava la Prima guerra punica.

La Sicilia è una regione con un territorio aspro e collinoso, con ostacoli geografici e dove le linee di comunicazione sono difficili da mantenere. La guerra terrestre, quindi, un tipo di guerra che Roma conosceva bene, giocò un ruolo secondario nella Prima guerra punica. Le operazioni rimasero confinate ad alcune scaramucce fra le forze in campo, con solo qualche vera battaglia. In genere si assistette ad assedi e blocchi di comunicazioni che furono le sole operazioni degli eserciti. Lo sforzo maggiore fu posto nei tentativi di chiudere i porti principali in quanto i due contendenti erano entrambi nella condizione di dover rifornire le truppe di viveri, materiali ed effettivi, non avendo nessuna delle due città vere e proprie basi militari in Sicilia.

Ciononostante almeno due battaglie di larga scala furono combattute durante questa guerra. Nel 262 a.C. Roma assediò Agrigento in un'operazione che coinvolse entrambi gli eserciti consolari per un totale di quattro legioni (circa 20.000 legionari e 2.000 cavalieri) e che tenne campo per molti mesi. La guarnigione cartaginese di Agrigento riuscì a chiedere rinforzi che giunsero, guidati da Annone. I romani passarono quindi da assedianti ad assediati e, perso il supporto di Siracusa, dovettero costruire un vallo per propria difesa dalle sopraggiungenti forze cartaginesi. Dopo alcune schermaglie si venne a una vera battaglia che fu vinta dai romani. Agrigento cadde e questo diede coraggio a Roma per ulteriori operazioni.

La seconda operazione terrestre su grande scala fu quella di Marco Atilio Regolo. Fra il 256 a.C. e il 255 a.C. Roma tentò di portare la guerra in Africa invadendo le colonie cartaginesi. Fu costruita una grande flotta sia per il trasporto delle truppe e dei rifornimenti sia per la protezione dei convogli. Cartagine cercò di fermare questa operazione ma venne sconfitta nella Battaglia di Capo Ecnomo. Le legioni di Atilio Regolo sbarcarono in Africa senza grosse difficoltà e iniziarono a saccheggiare il territorio per costringere l'esercito cartaginese ad entrare in azione. Questa campagna ebbe risultati contrastanti. All'inizio Regolo vinse l'esercito cartaginese nella battaglia di Adys forzando Cartagine a chiedere la pace. Furono però presentate condizioni tanto pesanti che i negoziati fallirono e Cartagine, assunto il mercenario spartano Santippo per riorganizzare le proprie forze, riuscì a fermare l'avanzate romana. Santippo sconfisse Regolo nella battaglia di Tunisi e lo catturò. L'invasione romana dell'Africa ebbe fine con la vittoria cartaginese.

Verso la fine della guerra, nel 249 a.C. Cartagine inviò in Sicilia il generale Amilcare (il padre di Annibale). Amilcare riuscì a porre sotto il suo controllo la maggior parte dell'interno dell'isola e Roma dovette risolversi ad affidarsi a un dittatore per risolvere il problema. Le forze terrestri di Amilcare non furono mai sconfitte. D'altra parte la guerra doveva chiaramente essere decisa sul mare. E sul mare avvenne lo scontro decisivo. La battaglia delle Isole Egadi del 241 a.C. vinta dalla flotta romana, segnò la fine della Prima guerra punica, dimostrando, per questo caso, la scarsa importanza delle battaglie terrestri.  

A causa delle difficoltà di operare in Sicilia, la maggior parte della Prima guerra punica, comprese le battaglie più decisive, fu combattuta in mare, uno spazio ben noto alle flotte cartaginesi che da secoli lo percorrevano vincenti. Di più, la guerra navale permetteva il blocco dei porti nemici con il conseguente possibile o mancato rinforzo per le truppe a terra. Entrambi i contendenti dovettero investire pesantemente nell'allestimento delle flotte e questo diede fondo alle finanze pubbliche sia di Roma che di Cartagine. Probabilmente segnò il corso della guerra.

All'inizio della Prima guerra Punica, Roma non aveva nessuna esperienza di guerra navale. Le sue legioni erano vittoriose da secoli nelle terre italiche ma non esisteva una Marina, tantomeno Marina Militare. Nondimeno il Senato comprese immediatamente l'importanza del controllo del Mediterraneo centrale nel prosieguo del conflitto. La prima grande flotta fu costruita dopo la battaglia di Agrigentum del 261 a.C. che fu vinta ma che mise in evidenza l'importanza del controllo delle linee di comunicazione nemiche.

Roma mancava della tecnologia navale e quindi dovette costruire una flotta basandosi sulle triremi e quinqeremi cartaginesi catturate. Per compensare la mancanza di esperienza in battaglie fra navi, Roma sviluppò una tecnica di combattimento che permetteva di sfruttare la conoscenza delle tattiche di combattimento terrestri in cui era maestra. Le navi romane furono equipaggiate con uno speciale congegno d'abbordaggio: il corvo. Questo congegno agganciava le navi nemiche e permetteva alla fanteria di combattere quasi come sulla terraferma. L'efficienza di quest'arma fu provata per la prima volta nella battaglia di Milazzo, la prima vittoria navale romana; e continuò ad essere provata negli anni successivi, specialmente nella dura battaglia di Capo Ecnomo.

L'aggiunta del corvo forzò Cartagine a rivedere le sue tattiche militari e, poiché ebbe serie difficoltà in questo senso, Roma pervenne ad un vantaggio anche in campo navale.

In seguito, con la crescita dell'esperienza romana nella guerra navale, il corvo fu abbandonato a causa del suo impatto sulla navigabilità dei vascelli da guerra.

Nonostante le vittorie romane sul mare, la Repubblica fu il belligerante che ebbe maggiori perdite, sia in vascelli che in equipaggi, in larga parte a causa di tempeste. In almeno tre occasioni 255 a.C., 253 a.C. e 249 a.C. intere flotte furono distrutte dal maltempo. Il peso dei corvi sulle prue delle navi fu il maggior responsabile dei disastri. Verso la fine della guerra Cartagine comandava sul mare in quanto Roma non pensava di poter finanziare la costruzione di un'altra costosissima flotta. Ma un'altra flotta fu varata, attingendo a donazioni di cittadini facoltosi.

La Prima guerra punica fu decisa nella battaglia delle Isole Egadi (10 marzo 241 a.C.) vinta dalla flotta romana sotto la guida del console Gaio Lutazio Catulo. Cartagine, persa la maggior parte delle navi, fu economicamente incapace di varare un'altra flotta o di trovare nuovi equipaggi. Senza navi che gli consentisse i collegamenti con la madrepatria, Amilcare, in Sicilia, fu costretto ad arrendersi.

Roma vinse la Prima guerra punica dopo 23 anni di combattimenti e alla fine sostituì Cartagine come maggiore potenza del Mediterraneo. Nel dopoguerra entrambi i contendenti erano finanziariamente e demograficamente esausti. La vittoria di Roma fu per lo più dovuta alla sua persistenza nel non ammettere la sconfitta e nel non accontentarsi di nulla di meno di una vittoria totale. Inoltre, la capacità della Repubblica di attrarre investimenti privati nello sforzo bellico, incanalando il patriottismo dei cittadini per trovare navi e uomini, fu uno dei fattori decisivi, specialmente se a paragone con l'apparente mancanza di volontà della nobiltà cartaginese di rischiare le proprie fortune per il bene comune.

È quasi impossibile determinare le perdite per i due contendenti. Le fonti storiche normalmente tendono ad aumentare il valore di Roma. Comunque, (escludendo la guerra terrestre), si consideri che: Roma perse 700 navi (massimamente per cattive condizioni atmosferiche) e almeno una parte degli equipaggi, Cartagine perse 500 navi e almeno parte degli equipaggi; ogni equipaggio era composto mediamente da 100 uomini.

Se ne trae la conclusione che le perdite di uomini furono pesanti per entrambe le parti. Lo storico Polibio commenta che la Prima guerra punica fu per l'epoca la più distruttiva in termini di vite umane nella storia bellica, comprese le campagne di Alessandro Magno, e questo può dare un'idea delle dimensioni. Guardando ai dati del censimento romano del terzo secolo, A. Galsworthy notava come durante il conflitto Roma avesse perso circa 50.000 cittadini. E questo escludendo le truppe ausiliarie e ogni altro partecipante al conflitto che non avesse avuto il rango di civis romanus; queste perdite non erano determinabili.  

Le condizioni poste da Roma furono particolarmente pesanti per Cartagine che dovette accettarle, non essendo in posizione da poter trattare:
- Cartagine doveva evacuare la Sicilia,
- Cartagine doveva restituire i prigionieri di guerra senza ottenere riscatto mentre doveva riscattare i propri prigionieri,
- Cartagine doveva impegnarsi a non attaccare Siracusa e i suoi alleati,
- Cartagine doveva consegnare a Roma il possesso di un gruppo di piccole isole a nord della Sicilia,
- Cartagine doveva pagare un'indennità di guerra di 1.000 talenti immediatamente e 2.200 talenti in 10 rate annuali.

Altre clausole determinavano che gli alleati di entrambe le parti non sarebbero stati attaccati dagli altri, nessun attacco poteva essere effettuato dalle due parti verso gli alleati degli altri e fu proibito a entrambi di raccogliere truppe nel territorio della parte avversa. Questo impediva ai cartaginesi, che facevano largo uso di mercenari, soprattutto libici, di accedere alle forze mercenarie inquadrate fra le legioni e quindi alla tecnologia e alla superiore tecnica militare romana.

Nel dopoguerra Cartagine non aveva virtualmente fondi e non fu in grado nemmeno di pagare le truppe mercenarie smobilitate. Questo portò ad un conflitto interno, la rivolta dei mercenari, vinta dopo durissimi combattimenti da Amilcare Barca. Forse il risultato politico più immediato della Prima guerra punica fu la caduta di Cartagine come principale forza navale. Le condizioni poste a Cartagine ne compromisero la situazione economica e impedirono la rinascita della città. Le indennità richieste da Roma causarono un aggravio ulteriore per le finanze dello Stato e forzarono i cartaginesi verso la ricerca di altre aree economiche per trovare i fondi da versare a Roma. Tutto ciò causò l'aggressione dell'interno dell'Iberia e lo sfruttamento intensivo delle sue miniere d'argento. E alla fine portò alla Seconda guerra punica.

Per Roma, la fine della Prima guerra punica segnò l'inizio dell'espansione fuori della penisola italiana. La Sicilia, tranne Siracusa, anziché un alleato, divenne la prima Provincia romana governata da un pretore. Qualche anno dopo nel 238 a.C. vennero aggiunte Sardegna e Corsica (sempre tolte agli ormai inermi cartaginesi approfittando della rivolta dei mercenari).

ILLIRI E CELTI DELLA PIANURA PADANA (230-219 a.C.) - Terminata con successo la prima guerra punica, il Senato romano dibatteva non sul "come" o sul "se" allargare la dominazione, ma sul "dove" indirizzare le capacità belliche e le incredibili risorse economiche che stavano arrivando all'Aerarium. Decise alla fine di indirizzarle in tutte le direzioni. Iniziò così la penetrazione nella Pianura Padana, per sbarrare la strada ai Liguri che cercavano la via del sud e per fermare definitivamente il pericolo dei Galli.

Qualche anno più tardi, dopo aver fermato un'altra invasione celtica che si era spinta fino a Chiusi in Etruria (quella dei Galli Boi e degli Insubri dell'attuale Lombardia) nella battaglia di Talamone (225 a.C.), le legioni passarono all'offensiva nella pianura padana, riportando una grande vittoria presso Clastidium (nel 222 a.C.), che fu seguita dalla deduzione delle colonie di Piacenza e Cremona (nel 218 a.C.) oltre alla costruzione di arterie stradali che collegassero i nuovi territori con Roma, come la via Flaminia (nel 220 a.C.).

Contestualmente cercava di dare sfogo alle necessità di fornire la terra ai reduci con la creazione di varie colonie, iniziando a dar vita ad una politica che fosse attenta all'attività della regina Teuta che, alla testa dei pirati dell'Illiria, disturbava la navigazione nell'Adriatico (nel 230-229 a.C.). Roma riuscì a sconfiggere i pirati illirici, sottoponendo poi buona parte dell'Illiria a tributo e cominciando la penetrazione in quel territorio. L'intervento romano fu risolutivo, poiché nell'arco di dieci anni la pirateria illirica fu debellata. Questo nuovo scenario diede la possibilità a Roma di affacciarsi nella parte orientale del Mediterraneo, entrando in contatto diretto con le città-stato della Grecia, della Macedonia, della Lega etolica sottoposte in varia misura agli attacchi dei pirati e in lotta fra di loro.  

SECONDA GUERRA PUNICA (219-202 a.C.) - La Seconda guerra punica fu combattuta tra Roma e Cartagine nel III secolo a.C., dal 219 a.C. al 202 a.C., prima in Europa e successivamente in Africa.

La guerra cominciò per iniziativa dei Cartaginesi, che volevano riscattarsi dalla sconfitta subita nella Prima guerra punica e se non fu certamente la più importante per durata, lo fu per l'ampiezza delle popolazioni coinvolte, per i suoi costi economici e umani, per le decisive conseguenze sul piano storico, politico e quindi sociale dell'intero mondo mediterraneo, conseguenze che, per certi versi, si risentono anche ai nostri giorni.

Contrariamente alla prima guerra punica, che fu combattuta e vinta essenzialmente sul mare, la seconda fu un continuo succedersi di battaglie terrestri con movimenti di masse enormi di fanterie, elefanti e cavalieri. Le marine si scontrarono ma furono quasi solamente utilizzate per aiutare gli eserciti nei loro spostamenti, o per far viaggiare i diplomatici da un regno all'altro del Mediterraneo.  

Anche se la condotta della guerra venne generalmente percepita per lo più seguendo il cammino di Annibale dalla Spagna al sud Italia, in realtà tutto il Mediterraneo fu direttamente e indirettamente coinvolto nella disputa fra Roma e Cartagine. Teatro di scontri terrestri furono Iberia, Gallia, Gallia cisalpina, Italia, Africa, mentre le diplomazie dei due contendenti si attivarono verso la Numidia, la Grecia, la Macedonia, la Siria, i regni dell'Anatolia, l'Egitto.

Alla fine della Prima guerra punica Cartagine si trovava in una situazione finanziaria disastrosa. Enormi somme dovevano essere versate ai vincitori quale risarcimento. La ricca Sicilia era persa e passata sotto il controllo di Roma e, nell’impossibilità di pagare i mercenari libici e numidi che utilizzava, dovette subire una sanguinosa rivolta che richiese 3 anni di sforzi ed efferatezze per essere domata. Una buona parte del commercio, dal quale traeva la maggiore quantità dei suoi introiti era stata dirottata verso lidi più tranquilli e controllata dai nuovi padroni. Le fazioni, sempre presenti in città e causa quasi unica del suo tragico destino, si dividevano fra un'aristocrazia ormai volta alla gestione di vaste proprietà fondiarie basate su un'agricoltura specializzata, e una "borghesia" commerciale e artigianale che vedeva di giorno in giorno scendere il proprio potere e la propria capacità economica e imprenditoriale.

Roma stava raccogliendo i frutti più succosi di una secolare serie di guerre espansionistiche. Polibio si riprometteva di studiare come avesse potuto Roma, in soli 53 anni, diventare padrona del mondo; in realtà con la vittoria sui Cartaginesi era stato fatto il salto di qualità ma secoli di preparazione erano stati necessari.

Al tempo della Prima guerra punica, i romani non avevano ancora terminato di unificare l'Italia sotto la loro dominazione. Colonie greche erano ancora libere e ben decise a rimanerlo, popolazioni della costa adriatica erano "solo" alleate e i Sanniti resistevano, vinti ma non domi.

Dopo la guerra Roma ebbe mano libera nella penisola al di sotto dell'Appennino Tosco-Emiliano e si era procurata una provincia, la Sicilia, ricca, produttiva, culturalmente evolutissima. Il Senato dibatteva su dove indirizzare le capacità belliche e le incredibili risorse economiche che stavano arrivando all'Erario. Decise alla fine di indirizzarle in tutte le direzioni. Iniziò la penetrazione nella Pianura Padana, per sbarrare la strada ai Liguri che cercavano la via del sud e per fermare definitivamente il pericolo dei Galli. Contestualmente cercava di dare sfogo alle necessità di fornire la terra ai reduci con la creazione di varie colonie; iniziò una politica di attenzione all'attività della regina Teuta che, alla testa dei pirati dell'Illiria, disturbava la navigazione nell'Adriatico. Questo diede la possibilità a Roma di inserirsi nella politica delle città-stato della Grecia, della Macedonia, della Lega Etolica sottoposte in varia misura agli attacchi dei pirati e in lotta fra di loro. Roma, inoltre, approfittando della debolezza di Cartagine che era logorata e impegnata dalla rivolta dei mercenari, occupò Sardegna e Corsica, che erano ancora sottoposte al dominio punico.

Risolto in qualche modo il problema generato dai mercenari, Cartagine cercò una via per riprendere il suo cammino storico. Il governo della città era diviso principalmente fra il partito dell'aristocrazia terriera, capeggiato dalla famiglia degli Annone da una parte, e il ceto imprenditoriale e commerciale che faceva riferimento ad Amilcare e in genere ai Barcidi. Annone propugnava l'accordo con Roma e l'allargamento del potere cartaginese verso l'interno dell'Africa, in direzione opposta alla città rivale. Amilcare vedeva nella Spagna, dove Cartagine già da secoli manteneva larghi interessi commerciali, il fulcro economico per la ripresa delle finanze puniche.

Politicamente sconfitto Amilcare, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella repressione della rivolta dei mercenari, non ottenendo dal Senato cartaginese le navi per andare in Spagna, prese il comando dei reparti mercenari rimasti e con una marcia incredibile attraversò tutto il nordafrica fiancheggiando la costa fino allo stretto di Gibilterra. Amilcare, che era accompagnato dal figlio Annibale e dal genero Asdrubale attraversò lo stretto di Gibilterra e, seguendo la costa spagnola, la percorse verso oriente alla ricerca di nuove ricchezze per la sua città.

La spedizione cartaginese prese l'aspetto di una conquista. Dal 237 a.C., anno della partenza dall'Africa al 229 a.C., anno della sua morte in combattimento, Amilcare riuscì a rendere la spedizione autosufficiente dal punto di vista economico e militare e perfino a inviare a Cartagine grandi quantità di merci e metalli requisiti alle tribù ispaniche come tributo. Morto Amilcare il genero ne prese il posto e iniziò una politica di consolidamento delle conquiste. Con patti e trattati si accordò con i vari popoli locali e fondò una nuova città. La chiamò Karth Hadash, cioè Città Nuova, cioè Cartagine, oggi Cartagena.

Impegnati con i Galli, i romani preferirono accordarsi con Asdrubale e nel 226 a.C., spinti anche dall'alleata Marsiglia che vedeva avvicinarsi il pericolo, stipularono un trattato che poneva l'Ebro come limite dell'espansione di Cartagine. 

Si riconosceva così, in modo implicito, anche il nuovo territorio soggetto al controllo cartaginese. D'altra parte un esercito di circa 50.000 fanti, 6.000 cavalieri per lo più numidi e oltre 200 elefanti da guerra costituiva una notevole potenza militare ma soprattutto un problema economico per il suo mantenimento che dava sicuramente da pensare ai possibili bersagli. La svolta si ebbe nel 221 a.C.: Asdrubale, pare a causa di una donna, fu ucciso da un mercenario gallo e l'esercito cartaginese scelse Annibale, che aveva solo 26 anni, come suo comandante. Cartagine non disse di no.

Annibale prima di partire era stato condotto al cospetto degli dei della città dal padre che gli aveva fatto giurare odio eterno a Roma. Era poco più di un bambino ma aveva compreso il significato intimo del giuramento. A 26 anni, capo dell'esercito, idolatrato dai suoi uomini con cui aveva vissuto per anni condividendo pericoli e disagi, impresse una svolta decisiva alla politica cartaginese in Spagna.

Il trattato del 226 a.C. fissava nell'Ebro il limite dell'espansione punica ma alcune città, anche se comprese nel territorio controllato dai cartaginesi erano alleate di Roma: Ampurias, Rosas e la più famosa di tutte: Sagunto. Posta in posizione munitissima in cima a un'altura, Sagunto sarebbe servita per rifinire la preparazione dell'esercito di Annibale, ottimizzandone la qualità. E Sagunto fu scelta come casus belli.

Con un pretesto Annibale dichiarò guerra alla città. Sagunto chiese aiuto a Roma che però si limitò a inviare degli ambasciatori che Annibale non ricevette. Sagunto venne attaccata nel marzo del 219 a.C. e sottoposta a un drammatico assedio che si protrasse per otto mesi senza che Roma decidesse di attivarsi.

Alla fine, la sfortunata città, martirizzata da mesi di fame, battaglie, lutti e disperazione si arrese e venne rasa al suolo.

Roma, a questo punto, intervenne e inviò una delegazione a Cartagine chiedendo la consegna di Annibale, ma con le ricchezze che per anni erano arrivate dalla Spagna il partito della guerra aveva ripreso vigore a Cartagine, e Cartagine rifiutò. La conseguenza ineluttabile fu che Roma dichiarò guerra a Cartagine. Era alla fine del 219 a.C. e iniziava la Seconda guerra punica.

Nella primavera del 218 a.C., pochi mesi dopo l'espugnazione di Sagunto, Annibale completò la seconda selezione del suo esercito: fece arrivare da Cartagine 15.000 uomini di cui 2.000 cavalieri numidi. Secondo quanto racconta Polibio, attuò una politica saggia e accorta, facendo passare i soldati della Libia in Iberia e viceversa, cementando così i vincoli di reciproca fedeltà tra le due province. Lasciò, quindi, in Spagna, sotto il comando del fratello Asdrubale, per tenere a bada le popolazioni locali, una forza navale formata da cinquanta quinqueremi, due quadriremi e cinque triremi; 450 cavalieri tra Libi-Fenici e Libici, 300 Ilergeti e 1.800 tra NumidiMassiliMesesuliMaccei e Marusi; 11.850 fanti libici, 300 Liguri, 500 Balearici e 21 elefanti.

A Cartagine vennero mandati di rinforzo 13.800 fanti e 1.200 cavalieri iberici, oltre a 870 balearici, assieme a 4.000 nobili spagnoli che, apparentemente inviati come "forze scelte", erano in realtà ostaggi presi per assicurarsi la lealtà della Spagna. Contemporaneamente rimase ad aspettare l'arrivo dei messaggeri inviati ai Celti della Gallia Cisalpina, contando sul loro odio nei confronti dei Romani e avendo promesso di tutto ai loro capi.

Annibale ottenne così di bilanciare il controllo delle varie posizioni militarmente o politicamente pericolose con truppe non legate al territorio, che controllavano ostaggi legati a un territorio differente. Alle forze lasciate in Iberia e inviate a Cartagine, andavano, infine, sommate quelle della spedizione vera e propria in Italia, vale a dire 80.000-90.000 fanti e 10.000-12.000 cavalieri, oltre a 37 elefanti.

Memore delle battaglie navali della Prima guerra punica, Roma allestì una flotta di oltre 200 quinquiremi, la città stessa fornì 24.000 legionari e 2.000 cavalieri, gli alleati italici aggiunsero 45.000 fanti e 4.000 cavalieri. I due consoli si spartirono, come d'uso, i compiti; Tito Sempronio Longo venne mandato in Sicilia con due legioni più forze degli alleati, in tutto 24.000 fanti e 2.000 cavalieri con l'incarico di passare in Africa per attaccare direttamente Cartagine. Una flotta di 160 quinquiremi più naviglio leggero doveva trasportarli.

La prima azione militare consistette nell'espugnare la piazzaforte punica di Melita (Malta), che s'arrese subito senza combattere. A Publio Cornelio Scipione padre dell'Africano ed al fratello Gneo Cornelio Scipione venne assegnata la Spagna con il resto delle forze: due legioni e le forze degli alleati: 22.000 fanti, 2.000 cavalieri e una sessantina di navi. Il piano prevedeva di colpire Cartagine, ritenuta non del tutto pronta, con un esercito e attaccare Annibale in Spagna cercando l'aiuto delle popolazioni locali.

Vennero inviati ambasciatori in Spagna per cercare l'alleanza delle tribù Celtibere, da anni in lotta contro i cartaginesi. Ma mentre qualche tribù accettò, altre, ricordando il mancato aiuto a Sagunto, rifiutarono di aiutare Roma innestando una reazione negativa che investì anche la Gallia in entrambi i versanti delle Alpi. Roma poté contare solo sulle proprie forze e quelle dell'Italia appena conquistata ma ancora percorsa da fremiti di libertà.

Nel maggio del 218 a.C. Annibale lasciò la penisola iberica, con circa 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e 37 elefanti. Doveva muoversi in fretta se voleva dividere le forze di Roma per evitare l'attacco diretto a Cartagine e doveva terminare la guerra in breve tempo per nuocere il meno possibile ai commerci, linfa vitale per Cartagine.

Passato l'Ebro, in circa due mesi sconfisse, perdendo però ben 22.000 uomini fra decessi e defezioni, le popolazioni che si frapponevano fra il territorio cartaginese e i Pirenei dove poi lasciò per protezione un contingente di oltre 10.000 uomini.

Cercò l'alleanza delle popolazioni galliche sulle cui terre doveva forzatamente passare rassicurandole di non volere la loro conquista e cercando invece di fomentarle contro Roma. Il passaggio, però, non fu facile e dovette farsi strada con le armi perdendo ancora 13.000 uomini di cui 1.000 cavalieri. Dopo la diserzione di 3.000 Carpetani permise ad altri 7.000 uomini, poco desiderosi di seguirlo, di ritornare a casa. Verso la metà di agosto arrivarono al Rodano 38.000 fanti e 8.000 cavalieri, truppe sicuramente fedeli e già rodate da dure battaglie.

Nel frattempo la diplomazia di Annibale nella Gallia Cisalpina spinse i Galli Boi e Insubri alla rivolta. Questi scacciarono i coloni da Piacenza e li spinsero fino a Modena che venne assediata, obbligando così Scipione a dirottare verso al Pianura Padana le sue forze che si trovavano a Pisa in attesa dell'imbarco verso la Gallia. Scipione fu forzato a tornare a Roma per arruolare una sesta legione. A causa della malaccorta condotta della guerra ai Galli, Scipione si vide costretto a mandare contro di loro anche questa legione. Tornato ancora a Roma, levò altre forze e finalmente riuscì ad arrivare a Marsiglia per fronteggiare Annibale, ma era passato troppo tempo prezioso.

Annibale doveva far passare il suo esercito sulla riva sinistra del Rodano. Lo aspettavano la forte tribù dei Volcari e Scipione con le sue legioni, che erano partiti per la Spagna e che, per gli anzidetti ritardi e per la veloce marcia di Annibale, avevano deviato su Marsiglia. Una volta sconfitti i Volcari con un trucco, a seguito di uno scontro fra le cavallerie, il cartaginese si rese conto di non poter passare in Italia per la strada costiera e si inoltrò fra le montagne seguendo le vallate del Rodano e dell'Isère.

Se pensiamo che eravamo verso la fine di settembre, l'epica della traversata, raccontata da tanti autori come di una spedizione trascinata alla meta solo dalla sovrumana volontà del condottiero, assume un aspetto meno eroico. Il freddo e la fatica si fecero certo sentire per uomini e animali acclimatati al sole della costa spagnola e probabilmente non sufficientemente attrezzati per una traversata a tali altezze, però l'esercito punico raggiunse la Pianura Padana prima che le nevi avessero bloccato i passi.

Annibale riuscì ad arrivare in Italia dopo una ventina di giorni di aspri combattimenti con le popolazioni montanare che, anche se terrorizzate dall'avanzata di un esercito di dimensioni, per loro, incredibili, dettero filo da torcere alle pur agguerrite truppe cartaginesi. Ai piedi dei monti rimasero al condottiero 30.000 fanti, 6.000 cavalieri temprati da tante scaramucce e 21 elefanti da guerra superstiti. In Gallia Cisalpina la prima battaglia si rese necessaria per raggiungere gli alleati Galli Insubri e i Boi. Annibale dovette passare per il territorio dei loro nemici, i Galli Taurini che resistettero ma vennero sopraffatti. Nel frattempo Publio Scipione, inviato il fratello Gneo in Spagna per proseguire quella parte del piano bellico, era ritornato in Italia con pochi rinforzi attestandosi a Piacenza. Tiberio Sempronio Longo, abbandonata l'idea di attaccare Cartagine, risaliva l'Italia con l'altro esercito. Questa parte del piano di Annibale aveva funzionato: Cartagine non sarebbe stata toccata, non subito.

Arrivato a Piacenza, Scipione aggiunse i suoi limitati rinforzi alle truppe di stanza in Gallia Cisalpina, provate dalle battaglie contro i Galli e andò incontro ad Annibale oltrepassando il Ticino. La battaglia del Ticino fu solo un primo scontro ma diede la misura delle capacità belliche di Annibale. Questi, utilizzando la cavalleria numidica in modo non omogeneo alle consuetudini militari romane, sconfisse pesantemente Scipione che restò ferito, rischiò la morte in battaglia e venne fortunosamente salvato, a quanto riportano gli storici, dal figlio diciassettenne Publio Cornelio Scipione che poi diventerà "Africano".

Scipione ripiegò su Piacenza. Qui avvenne il tradimento di oltre 2.000 alleati Galli che, dopo aver massacrato molti commilitoni italici, disertarono passando dalla parte di Annibale che li inviò alle rispettive tribù per diffondere la defezione. Scipione all'avvicinarsi di Annibale e per non dare spazio alla sua cavalleria, avvantaggiata sul terreno pianeggiante, si spostò verso Stradella sulla riva destra della Trebbia, ai piedi dell'Appennino. L'esercito cartaginese, per un altro tradimento, questa volta del capo della guarnigione, conquistò Clastidium (Casteggio) dove erano ammassate grandi riserve alimentari romane e si assicurò buona parte dei rifornimenti per l'inverno.

L'esercito romano che era stato inviato a sud per attaccare Cartagine aveva nel frattempo felicemente contrastato le navi puniche e conquistato Malta catturando i 2.000 uomini della guarnigione. Quando il Senato ordinò a Sempronio Longo di portare aiuto al collega, questi aveva risalito l'Adriatico ed era sbarcato a Rimini. La notizia dell'avvicinarsi di questo esercito spinse Annibale ad accelerare alcune operazioni per convincere le tribù celtiche ad unirsi a lui e a mandare la cavalleria a compiere rastrellamenti nel territorio controllato. Le tribù attaccate, però, cercarono la protezione di Roma e Annibale fu costretto a scontrarsi con i romani per non perdere i vantaggi acquisiti. Ai primi di dicembre Sempronio Longo raggiunse Scipione con circa 16.000 legionari e 20.000 alleati, per lo più Galli Cenomani a Stradella mentre Annibale vide aumentare le sue forze a circa 40.000 uomini con l'arrivo di Galli Boi e Insubri. In uno scontro la cavalleria numidica venne battuta dalle forze di Sempronio e questo rese il console poco prudente.

Un freddo mattino di dicembre, iniziò la battaglia della Trebbia. Annibale inviò la cavalleria a provocare i romani fingendo un attacco seguito da una fuga. Contro il parere di Scipione, ancora ferito, Sempronio prima mandò all'attacco la cavalleria, poi fece uscire i veliti e infine tutto l'esercito ed ordinò alle forze, ancora digiune, di attraversare il fiume. Annibale che aveva preparato i suoi, asciutti e ben nutriti, non ebbe difficoltà a scardinare i manipoli di Roma che, bagnati e affamati, dovettero combattere con il fiume gelato alle spalle. L'esercito romano scompaginato prima dagli elefanti e dalla cavalleria e attaccato dalla fanteria e infine aggirato e attaccato anche sui fianchi dovette faticosamente ripiegare: si salvarono solo parte dei cavalieri e circa 10.000 fanti che raggiunsero Piacenza e Cremona.  

Scipione e Longo tornarono a Roma. Le loro cariche scadevano alla fine dell'anno, nuovi consoli dovevano essere eletti e nuove legioni dovevano essere arruolate. La minaccia punica si annunciava davvero preoccupante e Roma allestì nove ulteriori legioni: una venne inviata in Sardegna, due in Sicilia, due vennero poste a difesa di Roma, due vennero mandate in Spagna. Rinforzi arrivarono alle legioni rimaste nella Gallia Cisalpina e alle guarnigioni della penisola.

In Spagna, nel frattempo, Gneo Cornelio Scipione aveva riconquistato Ampurias, colonia greca di Marsiglia, e si era diretto con i suoi 24.000 uomini verso l'Ebro, battendosi vittoriosamente contro alcune tribù locali e contro Annone che era rimasto a presidiare i Pirenei con 11.000 uomini. Annone venne pesantemente sconfitto, subì gravissime perdite e fu catturato. Asdrubale, che con 8.000 uomini stava marciando per ricongiungersi a lui, dopo alcune scaramucce ritornò a Cartagena per svernare mentre Gneo Scipione pose la base presso Ampurias.

Nell'anno 217 a.C. i nuovi consoli, Gneo Servilio Gemino e Gaio Flaminio con le quattro legioni consolari e gli alleati, in tutto circa 50.000 uomini, si spostarono nella via ritenuta più logica per marciare verso Roma. I resti delle due legioni di Sempronio Longo, rafforzate da nuovi elementi e da alleati di Siracusa, si fermarono a presidiare l'Etruria sotto la guida di Flaminio e altre due legioni al comando di Servilio Gemino si attestarono a Rimini, confine nord della penisola. Roma abbandonava la Gallia Cisalpina dove aveva appena iniziato a inserirsi. Restavano fedeli i Galli Cenomani e i Veneti; questi alleati si riveleranno preziosi per rifornire di cibo le guarnigioni delle due colonie di Cremona e Piacenza che Roma era stata costretta ad abbandonare in un mare di nemici. Annibale svernò fra i Galli Boi che, secondo Polibio, non furono poi così contenti di dover nutrire e mantenere l'esercito punico.

Nella primavera del 217 a.C. Annibale decise di scendere verso Roma. L'esercito era riposato e contava circa 50.000 uomini, in massima parte Galli che si erano aggiunti ai superstiti della marcia dell'anno precedente. Per il freddo era rimasto vivo, ma per poco, un solo elefante da guerra. Sapendo che le legioni romane si erano attestate a Rimini e ad Arezzo, il generale cartaginese decise di attraversare l'Appennino, probabilmente al Passo di Collina, e scendere verso Pistoia. Il territorio, all'epoca, era paludoso e intransitabile, la marcia dell'esercito cartaginese fu lenta ed estremamente difficoltosa; molti uomini, per riposare, dovettero dormire sulle carcasse degli animali morti. Molti morirono e lo stesso Annibale perse un occhio a causa di un'infezione.

Le devastazioni dell'esercito cartaginese costrinsero Flaminio a spostarsi dalle basi di Arezzo e dirigersi verso sud per cercare di intercettare Annibale. Servilio, nel frattempo, essendo partito da posizioni ancora più lontane, stava marciando lungo la nuovissima Via Flaminia per ricongiungersi al collega, proprio quello che l'aveva costruita. Annibale non attese il ricongiungimento e alla sera accampò le sue truppe appiedate sulle colline sopra il lago nascondendo in una gola la micidiale cavalleria; sulle rive del lago si accamparono gli ignari romani. Il giorno dopo iniziò la battaglia del Lago Trasimeno.

In una mattinata nebbiosa i 25.000 uomini di Flaminio, non essendo a conoscenza della posizione del nemico, procedevano senza particolari accorgimenti difensivi. Annibale non schierò le sue truppe, le scatenò proditoriamente sulla colonna in marcia che venne stretta fra le colline e le rive del lago e accerchiata. Fu un massacro in cui persero la vita lo stesso console e 15.000 romani; 6.000 furono i prigionieri. Il giorno dopo vennero sconfitti anche alcuni reparti di cavalleria di Servilio, appena arrivati, che si scontrarono con la cavalleria numida di Maarbale. Qualche migliaio di superstiti delle legioni si disperse in Etruria o riuscì a raggiungere Roma.  

Questa volta il disastro non venne tenuto nascosto; il Trasimeno era troppo vicino. Servilio assunse il comando delle forze navali, Regolo sostituì il defunto Flaminio al consolato ma, come sempre nelle più dure avversità, Roma nominò un dittatore: Quinto Fabio Massimo che passerà alla storia come Cunctator (Temporeggiatore).

Annibale fece trucidare i prigionieri romani, mandò liberi e senza riscatto i prigionieri italici. Con questa mossa cercava di staccare gli alleati da Roma, ma le città dell'Etruria non tradirono e perfino i Sanniti, solo da poco sottomessi, per il momento non cambiarono alleanza.

Il mancato funzionamento della mossa propagandistica, probabilmente, cambiò il corso della guerra. Non potendo resistere a lungo in un territorio totalmente ostile e non potendo quindi porre l'assedio a Roma stessa, Annibale si diresse verso l'Adriatico e poi lungo la costa verso il sud dell'Italia dove sapeva di trovare popolazioni meno legate all'Urbe: prima destinazione l'Apulia.

Un altro motivo del mancato attacco cartaginese a Roma fu probabilmente il blocco navale posto dalla flotta romana alle coste del Tirreno. Al comando di Annone, una flotta cartaginese di circa 70 navi si riunì vicino alla Sardegna e cercò di portare rinforzi in Italia tentando di sbarcare sulle coste dell'Etruria. Fu ricacciata verso sud dalla flotta romana, 120 quinquiremi, che pattugliava il Tirreno, comandata da Servilio. Nel viaggio di ritorno verso l'Africa i cartaginesi si scontrarono e distrussero una flotta da carico che Roma stava mandando in Spagna come aiuto a Gneo e Publio Scipione. Ma la flotta da guerra di Servilio li incalzò e, pur senza raggiungere i nemici, arrivò fino al Golfo della Sirte da dove però venne respinta. Tornando verso l'Italia Servilio si accontentò di rioccupare Pantelleria che era caduta in mano cartaginese.

Anche le forze cartaginesi in Spagna non poterono mandare aiuti ad Annibale. Alla ripresa delle ostilità dopo l'inverno, con una campagna diplomatica e militare, con l'uso della forza e degli ambasciatori, Gneo Scipione riuscì a riconquistare il territorio fra l'Ebro e i Pirenei che l'anno precedente era stato preso da Annibale. Le popolazioni degli Illergeti e degli Ausertani che resistevano a Roma vennero sconfitte e Asdrubale fu fermato al vecchio confine dopo una serie di battaglie terresti e navali. La flotta cartaginese di stanza in Spagna fu catturata da Scipione e i romani arrivarono a saccheggiare il territorio vicino a Cartagena riuscendo anche a sottomettere le isole Baleari: Roma deteneva ora il controllo totale del Mediterraneo Occidentale.

Verso la fine dell'anno in Spagna arrivò anche il fratello di Gneo Scipione, Publio, guarito dalle ferite del Ticino. Con una dote di 30 navi e una legione. In Spagna Roma schierava adesso due legioni, 10.000 alleati, 80 quinquiremi, 25.000 marinai. Le forze cartaginesi erano bloccate in Spagna, non potevano passare per via di terra senza cercare di riaprirsi la strada con la forza e non potevano usare le navi perché Cartagine aveva perso l'antico predominio navale. Con la venuta dell'inverno le operazioni si fermarono nuovamente.  

L'unico alleato che avrebbe potuto fare qualcosa per Annibale era Filippo V di Macedonia. La Macedonia era il più forte stato ellenistico e vedeva con preoccupazione l'ingerenza romana sulla Lega Etolica e sulla Grecia in genere. Filippo temeva soprattutto l'espansione di Roma nelle coste illiriche cominciata con l'attacco alla regina Teuta e proseguita con la parziale conquista dell'Illiria. Filippo V intervenne contro queste forze. 

Scoppiò così la Prima guerra Macedonica: da una parte Filippo V con l’alleata lega Achea, dall'altra la Lega Etolica con il supporto romano. Vennero coinvolte anche le diplomazie di Atene da una parte e di Rodi dall'altra. La prima guerra macedonica terminò nel 205 a.C. con la pace di Fenice che segnò il definitivo ingresso di Roma nel mare Egeo e nella politica del Mediterraneo Orientale. Filippo V non fu un vero aiuto per Annibale, Annibale era solo.

Quinto Fabio Massimo diede una svolta alla strategia di Roma. Prudente e deciso evitò accuratamente tutti gli scontri diretti che non fossero strettamente necessari cercando di fare "terra bruciata" attorno all'esercito di Annibale e infliggendo continue perdite al cartaginese che non poteva rimpiazzarle con facilità. Dall'Apulia, Annibale cambiò ancora direzione e si diresse sul Sannio e sulla Campania, probabilmente nel tentativo di raggiungere Roma da sud. Ma, diretto verso Cassino e invece guidato a Casilino, rischiò di essere annientato da Fabio Massimo che aspettava solo un'occasione veramente favorevole. Le forze di Annibale chiuse in una strettoia riuscirono a sfuggire nella notte grazie ad un ennesimo trucco del generale. Alle corna di duemila buoi furono appese torce e Fabio Massimo, vedendole in movimento e credendo che fosse l'esercito punico che si muoveva, seguì le luci lasciando aperta la strada della fuga ai cartaginesi che si attestarono, alla fine, nel territorio di Geronio. 

La tattica di Fabio Massimo non piaceva a molti fra i romani e non piaceva a Marco Minucio Rufo, magister equitum, che continuamente la contestava. In assenza di Fabio Massimo, Rufo attaccò un reparto di Annibale e vinse. A Roma fu portata la notizia di una grande vittoria e Rufo, su proposta del tribuno della plebe Marco Metello, fu innalzato allo stesso grado di Massimo. Si ebbero così due dittatori. Anziché comandare l'esercito a giorni alterni, com'era d'uso con i consoli, Fabio Massimo preferì dividere le forze. Annibale cercò di approfittare di questa debolezza avversaria e attirò Rufo in una trappola. Le forze di Rufo stavano per essere distrutte quando il Temporeggiatore, lanciò la sua metà dell'esercito, sbaragliò i cartaginesi e salvò Rufo che, pentito e grato, rinunciò alla carica di dittatore.

La carica di dittatore, a Roma, durava al massimo sei mesi. Quinto Fabio Massimo, alla scadenza, restituì le insegne e il comando ritornò ai consoli Gneo Servilio Gemino e Marco Attilio Regolo nel frattempo eletto al posto di Flaminio. Per tutto il resto dell'anno i consoli continuarono nella tattica di Massimo e, dice Tito Livio, Annibale fu ridotto a un tale malpartito da pensare seriamente di ritornare in Gallia. Non lo fece, pare, solo perché sarebbe sembrata una fuga. Roma sembrò aver assorbito il trauma e, visto che gli alleati italici non defezionavano, ricominciò a tenere sotto controllo la politica estera verso l'Illiria, la Macedonia, Siracusa, la Gallia, come se Annibale non fosse nemmeno presente.

L'anno 216 a.C., scaduti dalla carica i consoli Servilio e Regolo, dopo un breve interregno di Veturio Filone e Pomponio Matone, vennero eletti consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. Paolo, sostenuto dall'aristocrazia, era il vincitore della guerra in Illiria e propendeva per il mantenimento della tattica di Quinto Fabio Massimo. Varrone, di parte plebea, figlio di un macellaio arricchito, era un demagogo impetuoso che aveva però percorso la carriera pubblica dall'edilità alla pretura. Ma non sapeva come si comandava un esercito. Le forze armate di Roma erano state aumentate e, contando gli alleati, ben 90.000 uomini erano schierati contro Annibale. I consoli, a luglio, si misero alla testa dell'esercito contrastando Annibale ancora attestato a Geronio. Annibale si spostò in Apulia in cerca di viveri e qui lo seguì l'esercito romano comandato a giorni alterni da Paolo e da Varrone. I due eserciti si avvicinarono l'uno all'altro e a Canne, dove Annibale aveva trovato e requisito grandi ammassi di grano raccolti dai romani, e si ebbe lo scontro che, nelle intenzioni di Varrone, doveva essere decisivo.

Il 2 agosto 216 a.C. il comando toccava a Varrone che forzò la mano al collega e dispose l'esercito per la battaglia. Le truppe romane erano circa il doppio delle forze di Annibale: sembrava impossibile perdere. Le legioni vennero disposte in uno schieramento chiuso, insolitamente profondo, in modo, secondo le intenzioni di Varrone, da schiacciare le linee cartaginesi col loro stesso peso. Annibale dispose al centro i Galli, secondo Tito Livio in una curiosa formazione a mezzaluna, con la convessità rivolta verso l'avversario, nella quasi certezza che non avrebbero retto alla pressione dello schieramento romano. Vide giusto. I Galli lentamente cedettero terreno e le forze romane avanzarono, attirate sempre più verso il centro dello schieramento dalla retrocessione nemica. Annibale rispose facendo avanzare le ali e scatenando la terribile cavalleria pesante di Asdrubale, che già aveva dato prova di essere la sua arma migliore, contro le analoghe formazioni romane che la fronteggiavano. La cavalleria romana cedette e si ritirò lasciando aperta la strada ad Asdrubale il quale poté attaccare da dietro i reparti di cavalleria alleata che, sul fianco opposto, resistevano ad Annone e ai suoi cavalieri numidi. Sotto il doppio attacco anche questi reparti cedettero e i cavalieri punici poterono rinforzare le ali di fanteria che nel frattempo si erano ripiegate a stringere i fianchi delle legioni. L'intero esercito romano fu chiuso in un cerchio di ferro.

Roma perse un console, Paolo Emilio, che non voleva questa battaglia, i due consolari Servilio e Minucio che combattevano al centro dello schieramento, decine di ufficiali appartenenti alle grandi famiglie di Roma e delle città alleate, ma soprattutto caddero 30.000 uomini e 10.000 furono presi prigionieri; altre fonti parlano di 48.000 caduti e 19.000 prigionieri. Il console superstite, Varrone, primo responsabile della sconfitta, con 10.000 sbandati si rifugiò a Venusia. Si salvò anche un certo Publio Cornelio Scipione, che Annibale si troverà davanti qualche anno dopo in Africa, a Zama. Annibale perse circa 6.000 uomini, ma cominciò a vedere qualche risultato politico. Alcuni centri cominciarono a abbandonare i Romani: Arpi ed altri centri del sud Italia, qualche popolazione sannita, ma soprattutto Capua che era ancora, per importanza, la seconda città dopo Roma.

Per il resto dell'anno Annibale si aggirò nelle regioni meridionali conquistando colonie latine e romane e cercando di attirare dalla sua parte le popolazioni italiche. I risultati furono alterni. Alcune città come Napoli, Cuma, Nola e Pozzuoli resistettero e il condottiero scese nel Bruttium, dove cercò l'alleanza con le città greche della Magna Grecia. Anche in questo caso i risultati furono alterni, ma riuscì a conquistare Locri che divenne il porto per far affluire rinforzi dall'Africa, e Crotone. I greci, però, vedendo in lui non tanto un liberatore dai romani ma un avversario cartaginese, si guardarono bene dal cambiare bandiera; soprattutto le classi sociali elevate erano restie a inimicarsi Roma, fonte per loro di potere e ricchezze, prima che la situazione bellica e politica non fosse stata chiara, e non lo era. Annibale, per quanto abbastanza autosufficiente rispetto al problema degli approvvigionamenti, lo era molto meno come ricambio di forze addestrate. Roma possedeva un immenso serbatoio umano al quale, nel momento del pericolo, attinse a piene mani.

Cartagine aveva fatto sbarcare a Locri 4.000 cavalieri e una quarantina di elefanti. Non erano una grosso contingente ma Annibale trovava grandi difficoltà per il vettovagliamento delle sue truppe. Le requisizioni che era costretto a compiere gli alienavano la poca simpatia che aveva raccolto fra le popolazioni, ben felici di togliersi di torno i gabellieri romani ma nient'affatto disposte a pagare per la protezione cartaginese.

In Gallia Cisalpina due legioni romane, che, al comando del console designato Aulo Postumio Albino eletto al posto del defunto Emilio Paolo, dovevano portare la guerra ai Galli Boi e Insubri, vennero pressoché distrutte. Questo attacco avrebbe dovuto far ritornare a nord le forze locali che avevano seguito Annibale, ma il risultato fu una sconfitta per Roma. Le due legioni caddero in un'imboscata nella Selva Litana fra Bologna e Ravenna. I Galli avevano segato gli alberi ma in modo che restassero in apparenza ritti e quando passarono le legioni di Postumo li fecero cadere sui Romani che morirono sotto i tronchi o trafitti dai nemici, divisi dai compagni e bloccati dagli alberi. Circa 16.000 uomini dei 25.000 caddero con Postumio Albino nel tentativo di resistere.

Un evento di grande importanza avvenuto nell'estate del 215 a.C. fu l'alleanza conclusa da Cartagine con Filippo V di Macedonia, da cui Annibale forse sperava di ottenere rinforzi dai Balcani per la sua campagna in Italia. L'ambizioso e giovane monarca ellenistico considerava con viva preoccupazione l'espansione romana sulle coste dell'Illiria e dell'Epiro dopo le vittorie di Emilio Paolo del 219 a.C. contro Demetrio di Faro che dopo la sconfitta aveva trovato ricovero presso il re macedone, divenendone un fidato consigliere. Alla notizia dell'esito inatteso della battaglia del Trasimeno, Filippo V decise, dopo colloqui con Demetrio, di chiudere rapidamente la guerra contro la Lega etolica con la pace di Naupatto e verosimilmente credette possibile intervenire con successo contro Roma per conquistare le coste dell'Adriatico orientale o forse riprendere addirittura i piani di Pirro. Dopo la catastrofe romana a Canne, una delegazione guidata da Senofane venne inviata in Italia per concludere precisi accordi con Annibale; gli inviati di Filippo sbarcarono nel Bruzio nell'estate 215 a.C. e incontrarono il condottiero cartaginese. I dettagli dell'accordo tramandato da Polibio evidenziano la vasta portata delle clausole previste; inoltre la presenza alla conclusione formale dell'alleanza di alcuni inviati del senato cartaginese e di tre alti funzionari della città punica testimonia come Annibale agisse sotto il controllo e con la piena approvazione della madrepatria. L'alleanza stabiliva con chiarezza i vantaggi che sarebbero spettati dopo la vittoria a Filippo V che avrebbe assunto il controllo dei territori romani in Illiria e su Corcyra; gli obiettivi di guerra di Annibale non venivano invece indicati con precisione; in ogni caso si prevedeva di arrivare al punto di costringere alla pace Roma di cui tuttavia non si ipotizzava la distruzione come stato sovrano.

I Romani appresero notizie dirette dell'alleanza tra Cartagine e la Macedonia grazie alla cattura in alto mare degli inviati di Filippo V in viaggio di ritorno con i documenti dell'accordo; ebbe quindi inizio l'estensione della guerra nell'Adriatico e nel Mediterraneo orientale, la cosiddetta Prima guerra macedonica. Roma, nonostante le enormi difficoltà in Italia, prese subito energiche misure per fronteggiare la nuova minaccia; il pretore stanziato a Taranto, Marco Valerio Levino, ricevette l'ordine di appoggiare la flotta di 55 navi posta sotto il comando del praefectus classisPublio Valerio Flacco, inviando il suo legatus Lucio Apustio Fullone con alcuni armati. Scopo della missione era controllare la situazione e difendere i possedimenti illirici. Nello stesso tempo vennero reperiti i fondi necessari alla missione.

Nel 214 a.C. Filippo V attaccò le basi romane in Illiria e pose l'assedio ad Apollonia, ma non ottenne grandi successi. Valerio Levino accorse sul posto, riconquistò Orico e liberò Apollonia costringendo Filippo a una disastrosa ritirata in Macedonia dopo averne incendiato le navi.

Nell'inverno del 216/215 a.C. morì a Siracusa l'anziano Basileus di Sicilia Gerone II che fino a quel momento aveva assunto un atteggiamento di prudente appoggio a Roma; questo evento provocò in breve una svolta nella politica siracusana e un'estensione della guerra anche alla Sicilia. Il nipote appena quindicenne, Geronimo, influenzabile e ambizioso, al fine di mantenere indipendente la Sicilia e scongiurarne la sottomissione al giogo romano, decise di prendere contatti con Annibale; una delegazione si incontrò con il condottiero cartaginese e quindi alcuni emissari di Siracusa si recarono a Cartagine dove venne discusso un concreto patto di alleanza. Gli inviati di Geronimo pretesero addirittura che i cartaginesi acconsentissero al dominio assoluto di Siracusa su tutta la Sicilia in cambio della partecipazione diretta alla guerra contro Roma. La flotta siceliota di Siracusa si unì quindi alle navi cartaginesi in azione nelle acque siciliane contro la flotta romana con base a Lilibeo.

In Spagna dopo i successi del 217 a.C. gli Scipioni ritornarono a nord dell'Ebro per riorganizzare le loro forze e consolidare le posizioni raggiunte, ma Asdrubale non poté sfruttare la situazione e dopo avere ricevuto rinforzi, dovette impegnarsi nel 216 a.C. a sedare un'estesa rivolta della popolazione iberica dei Turdetani. Il senato cartaginese era però deciso a fare muovere Asdrubale verso l'Italia e il condottiero ricevette gli ordini di partire al più presto con il suo esercito, mentre altre forze e una flotta al comando di Imilcone vennero inviate in Spagna per difendere il dominio punico che era minacciato anche da continue rivolte di popolazioni locali. La posizione dei Romani in questi territori sarebbe rimasta pericolosa, se non fosse venuta in loro soccorso la rivolta di Siface, re dei Numidi Massesili (215 a.C.), che costrinse Cartagine a richiamare Asdrubale in Africa, indebolendo così l'esercito cartaginese in Iberia. Gneo e Publio poterono così concludere un'alleanza con i Celtiberi, arruolando anche per la prima volta dei soldati mercenari, reclutati tra queste popolazioni.

Nella primavera del 215 a.C. sembrò possibile per Cartagine l'apertura di un nuovo teatro di guerra e la riconquista della Sardegna divenuta provincia di Roma dopo la rivolta dei mercenari seguita alla prima guerra punica. Alcuni inviati delle popolazioni locali avvertirono in segreto il senato di Cartagine che Ampsicora, l'abile e popolare capo indipendentista della Sardegna di origine punica, stava organizzando una vasta sollevazione contro l'oppressione romana, grazie anche alla collaborazione di un senatore cartaginese presente sul posto, Annone. La rivolta avrebbe avuto inizio all'arrivo del nuovo pretore di Roma, il malato e inesperto Quinto Muzio Scevola. I dirigenti cartaginesi accolsero con favore queste notizie e decisero di inviare un ingente corpo di spedizione sull'isola per appoggiare i rivoltosi di Ampsicora.

GUERRA DI LOGORAMENTO (215 - 210 a.C.) - Nel 215 a.C. Quinto Fabio Massimo venne eletto console insieme a Tiberio Sempronio Gracco; egli poté quindi ritornare alle «tattiche di logoramento» che, di fronte all'impressionante abilità militare di Annibale, erano ormai concordemente ritenute le sole applicabili per evitare la sconfitta di Roma, e che avevano procurato al suo sostenitore il titolo spregiativo di Cunctator, "il Temporeggiatore". 

Si fece un grande sforzo finanziario per mobilitare nuove forze; vennero mantenute in mare circa 200 navi da guerra (con 50.000 uomini di equipaggio), mentre numerosi eserciti legionari furono messi in campo al comando dei due consoli, Fabio Massimo e Sempronio Gracco, e del pretore Claudio Marcello, schierati in posizioni di copertura a CalesNola e Cuma, rimaste fedeli a Roma; i nuovi piani di Roma prevedevano di evitare battaglie in campo aperto, di sorvegliare i movimenti di Annibale, di rimanere sulla difensiva di fronte al condottiero cartaginese ma prendere l'iniziativa contro i suoi luogotenenti per riconquistare progressivamente le posizioni perdute nell'Italia meridionale.

Annibale, giunto a Capua dopo la battaglia di Canne, aveva inviato nel Bruzio il suo luogotenente Annone per occupare quel territorio strategico; i Bruzi si sollevarono a favore dei cartaginesi ma le città greche della Magna Grecia, tradizionali rivali di Cartagine, fecero opposizione; in particolare le fazioni aristocratiche rimasero legate all'alleanza con Roma. Annone nel 215 a.C. riuscì a conquistare Locri e Crotone dove furono concentrati i Bruzi, mentre Locri divenne il porto dove avrebbero dovuto affluire i rinforzi che Annibale si attendeva dalla madrepatria. Il condottiero cartaginese non disponeva di forze inesauribili; egli infatti non poteva, secondo le clausole dell'accordo con Capua, effettuare arruolamenti in Campania, mentre anche la pratica di procurarsi rifornimenti e vettovagliamento attraverso saccheggi e depredazioni rischiava di inimicargli le popolazioni italiche inizialmente favorevoli alla sua causa.

Il condottiero cartaginese doveva anche preoccuparsi di prestare aiuto alle città italiche che avevano defezionato e proteggerle dalla reazione delle legioni romane; Tiberio Sempronio Gracco inflisse subito una netta sconfitta alle milizie di Capua ad Ame e Annibale, subito intervenuto, venne respinto alle porte di Cuma che era rimasta fedele a Roma. 

Ritornato a Capua, il condottiero ripartì ben presto verso Nola per contrastare l'azione del nemico contro le popolazioni alleate campane, sannitiche e irpine; un nuovo tentativo di prendere la città di Nola venne respinto da Claudio Marcello. Annibale quindi si sganciò e, seguito dall'esercito di Sempronio Gracco, andò a svernare ad Arpi; Sempronio pose il campo a Lucera mentre Fabio Massimo saccheggiava il territorio di Capua.

Nel 214 a.C. i nuovi consoli furono i due comandanti romani più esperti, Quinto Fabio Massimo e Claudio Marcello, che con quattro legioni, iniziarono le prime operazioni per riconquistare il terreno perduto in Campania; Roma aveva ulteriormente potenziato le sue forze e teneva in tutti i teatri di guerra, nonostante le grandi difficoltà finanziarie, circa 200/250.000 soldati. 

Annibale dopo avere passato l'inverno ad Arpi ritornò sul monte Tifata nel territorio di Capua, mentre Annone era schierato nel Bruzio; il condottiero cartaginese ordinò ad Annone di risalire a nord e sferrò senza successo un terzo attacco a Nola; anche il tentativo di prendere Puteoli venne respinto. 

Annibale aveva compreso come, di fronte alla prudenza dei comandanti avversari e al numero dei suoi nemici, fosse ormai impossibile raggiungere altre grandi vittorie campali, egli verosimilmente contava sull'aiuto dalla madrepatria e di Filippo V. Annibale continuò peraltro a combattere accanitamente mostrando grande abilità anche in questa nuova fase di guerra prevalentemente difensiva. 

I Romani raggiunsero tuttavia alcuni successi, riconquistarono CompulteriaTelesiaCompsa nel Sannio, Aecae in Apulia, Claudio Marcello strinse d'assedio Casilinum che cadde con un colpo di mano; Annone, portatosi in Lucania, subì prima una grave sconfitta nei pressi di Grumento (215 a.C.) a opera di Tiberio Sempronio Longo, e poi a Benevento a opera delle legioni di schiavi volontari di Sempronio Gracco (214 a.C.). Annibale rinunciò a ulteriori attacchi in Campania e fece un tentativo di conquistare Taranto ed Eraclea che però venne sventato dall'intervento della flotta romana di Brindisi.

Intanto a Roma (214 a.C.) i due Censori, a causa della grave penuria di denaro pubblico, ottennero che molti di quelli che erano soliti partecipare alle aste per la manutenzione dei templi e la fornitura dei cavalli curuli, chiedessero all'aerarium il pagamento di quanto a loro dovuto solo a guerra terminata. Identica condizione di pagamento venne accordata anche a tutti coloro che erano stati padroni di quegli schiavi liberati dal proconsole Tiberio Gracco dopo la vittoria di Benevento. Questo desiderio poi di porre un rimedio alle difficoltà dell'erario pubblico, fece sì che molti prestarono denaro alla Res publica, finanziando le sostanze per gli orfani minorenni e per le vedove. Tale generosità da parte dei privati si diffuse anche all'interno degli accampamenti militari, tanto che nessun eques o centurione accettò di riscuotere lo stipendium, rimproverando tutti coloro che lo facevano e chiamandoli "mercenari".

Negli altri teatri di operazioni la guerra proseguiva con alterne vicende. In Sicilia la situazione nel 215 a.C. divenne molto confusa: il pretore del 216 a.C. Publio Furio Filo, posto a capo della flotta, si era imbarcato per l'Africa ma, gravemente ferito in un'operazione bellica, fu costretto a tornare a Lilibeo (l'attuale Marsala); il propretore Tito Otacilio Crasso segnalava, inoltre, che ai soldati e alla flotta non erano stati ancora pagati gli stipendia (poco dopo fu aiutato finanziariamente da Gerone II); i Romani avevano inviato sull'isola due legioni formate con i superstiti dell'esercito distrutto a Canne che furono in grado di mantenere le posizioni nella parte settentrionale e orientale contro l'esercito siracusano appoggiato da contingenti cartaginesi mentre la flotta di cento quinqueremi, posta sotto il comando di Appio Claudio Pulcro controllava i mari. Inoltre una congiura a Siracusa portò all'assassinio dell'inviso e crudele re Geronimo mentre si trovava a Leontini; seguirono violenti contrasti tra fazioni filo-romana e filo-cartaginse all'interno della città e la guerra contro Roma venne temporaneamente sospesa.

In Sardegna giunse un esercito punico di 15.000 uomini appena arruolati, ma arrivò dopo che Tito Manlio Torquato, forte di oltre 20.000 uomini, aveva sconfitto Ampsicora e il figlio Josto. Quando si giunse alla battaglia fra le forze sarde alleate dei Punici e quelle Romane, i Nuragici furono sbaragliati: persero 4.000 uomini fra caduti e prigionieri. I Cartaginesi resistettero più a lungo ma perduti 3.500 uomini, si reimbarcarono precipitosamente verso l'Africa. La flotta, però, venne intercettata da una flotta romana, posta sotto il comando di Tito Otacilio Crasso, che aveva devastato in precedenza il territorio africano di Cartagine, e sbaragliata. Sconfitti Punici e Nuragici, seguì un periodo di dura repressione che richiese la presenza di due legioni distolte dalla penisola.

Anche in Spagna i Cartaginesi subirono una serie di insuccessi; dopo avere avuto la notizia della vittoria di Canne, Asdrubale aveva ricevuto l'ordine di lasciare di presidio una parte delle truppe al comando di Imilcone, e partire con un corpo di spedizione per rinforzare il fratello in Italia. Nell'autunno 216 a.C. si mosse in direzione dell'Ebro con 25.000 uomini ma i fratelli Scipioni che erano impegnati nell'assedio della città di Ibera, concentrarono le loro truppe e sbarrarono il passo. La successiva battaglia di Dertosa si concluse con una netta vittoria dei Romani e Asdrubale dovette ripiegare rinunciando a marciare in aiuto di Annibale in Italia (215 a.C.). Questa sconfitta cartaginese influì anche sulla campagna in Italia, rendendo impossibile l'ulteriore invio di rinforzi nella penisola. Era previsto infatti l'invio ad Annibale attraverso il porto di Locri di un esercito al comando del fratello Magone di 12.000 fanti, 1.500 cavalieri, venti elefanti e sessanta navi, ma la grave sconfitta di Asdrubale che faceva temere un crollo delle posizioni puniche in Spagna, costrinse il senato cartaginese a dirottare queste forze; Magone quindi venne inviato nella penisola iberica per aiutare il fratello Asdrubale e fermare l'avanzata di Gneo e Publio Scipione.

Nell'estate 215 a.C. i fratelli Scipioni ripresero l'iniziativa e accorsero in aiuto della città alleata di Iliturgi, assediata dagli eserciti riuniti cartaginesi di Asdrubale e Magone. Secondo Tito Livio i Romani, pur in netta inferiorità numerica, raggiunsero una brillante vittoria, i cartaginesi subirono pesanti perdite e dovettero ritirarsi; poco dopo vennero nuovamente sconfitti a Intibili. Le vicende successive della guerra in Spagna rimangono, sulla base delle fonti antiche, abbastanza confuse; secondo Tito Livio i fratelli Scipioni ottennero nuove vittorie, raggiunsero le regioni meridionali, conquistarono Castulo e fin dal 214 a.C. rientrarono a Sagunto, vendicando la caduta della città alleata che aveva dato inizio alla guerra. Gli storici moderni hanno manifestato molti dubbi sulla cronologia di Livio; alcune operazioni descritte potrebbero essere duplicazioni annalistiche di battaglie precedenti e si è ritenuto improbabile che i Romani siano riusciti ad avanzare fino alla Spagna meridionale. Le ricostruzioni moderne ritengono che la guerra in Spagna in pratica si arrestò dal 215 al 213 a.C. e che gli Scipioni ripresero l'offensiva nel 212 a.C. riuscendo a riconquistare Sagunto nonostante la presenza di tre eserciti cartaginesi in Spagna comandati da Asdrubale, Magone e Asdrubale Giscone.

Nel 213 a.C. inattesi e drammatici sviluppi a Siracusa, a Taranto e in altre città della Magna Grecia (come Eraclea, Metaponto e Turii) sembrarono favorire in modo decisivo i Cartaginesi e provocarono nuove e pesanti difficoltà ai Romani. A Siracusa dopo l'assassinio del re Geronimo, la nuova repubblica fu subito dilaniata da violenti contrasti tra le fazioni che si risolsero a vantaggio dei cartaginesi; i due inviati di Annibale Ippocrate e Epicide assunsero il potere e ben presto la guerra esplose in tutta la Sicilia soprattutto dopo il brutale comportamento di Claudio Marcello che giunto sull'isola con una legione per rinforzare i presidi romani, reagì ad atti di resistenza distruggendo e saccheggiando Leontini. Siracusa venne ben presto assediata per terra e per mare dalle forze combinate di Claudio Marcello e di Appio Claudio Pulcro ma i primi attacchi furono respinti grazie soprattutto alle straordinarie macchine da guerra progettate da Archimede; l'assedio si prolungò mentre la guerra nell'isola si intensificava con l'arrivo del corpo di spedizione cartaginese di Imilcone che riuscì a conquistare Agrigento. Un attacco navale della flotta cartaginese di Bomilcare non ebbe successo, ma i Romani persero il controllo di gran parte della Sicilia centrale dopo avere schiacciato con estrema brutalità la rivolta di Enna.

La situazione strategica nel 212 a.C. divenne più difficile per Annibale in Italia; mentre egli era accampato a Salapia, sei legioni romane furono concentrate, al comando dei nuovi consoli Appio Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco, intorno a Capua che si trovò praticamente assediata e con gravi carenze di approvvigionamento. In tutto le forze messe in campo dai Romani furono aumentate a ben venticinque legioni, che unite a quelle alleate, costituivano un esercito complessivo di 250.000 soldati circa. Si trattava di uno sforzo colossale per la repubblica romana, come mai accaduto prima d'allora.

Dopo la sconfitta del suo luogotenente Annone, Annibale decise di prendere l'iniziativa e marciare in soccorso di Capua. Le truppe di Sempronio Gracco schierate a Benevento per bloccare il passo al cartaginese furono messe in rotta e lo stesso Gracco venne ucciso durante un'imboscata della cavalleria; Annibale quindi poté aprirsi la strada ed entrare a Capua nel maggio 212 a.C. mentre le legioni romane di Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco si affrettarono a interrompere l'assedio e ripiegarono a Cuma. 

Annibale ottenne nel 212 a.C. altri due importanti successi locali disperdendo facilmente sul Silaro le deboli milizie dell'ex-centurione Marco Centenio Penula che fu vinto e ucciso, e infliggendo una pesante sconfitta a Erdonia all'inetto pretore Gneo Fulvio Flacco.

La tregua in Campania tuttavia fu di breve durata; mentre Annibale, preoccupato per la situazione a Taranto, ritornava in Apulia; nella primavera del 211 a.C. Claudio Pulcro e Quinto Fulvio Flacco, confermati al comando come proconsoli, ripresero con la massima energia l'assedio di Capua, cingendola con una doppia circonvallazione e la cui situazione divenne drammatica.

Annibale quindi ritornò alla fine di marzo 211 a.C. sul monte Tifata; ritenendo impossibile un attacco frontale alle posizioni trincerate delle legioni, egli ideò un'audace diversione per allentare l'assedio romano a Capua. Il condottiero cartaginese decise di marciare con il suo esercito contro Roma e arrivò a poca distanza dalla città, si accampò in vista della città (nella località ancora oggi detta Campi d'Annibale), ma non prese d'assalto le mura. Fu un momento terribile. Nessun nemico si era spinto fin sotto le porte di Roma dal tempo dell'invasione gallica, quasi duecento anni prima.

Il racconto di Tito Livio di questa famosa incursione di Annibale fino alle porte di Roma (Hannibal ad portas) inserisce elementi scarsamente attendibili su eventi climatici soprannaturali che avrebbero scosso la risolutezza del condottiero e riferisce del comportamento impavido del Senato di Roma che, come gesto di sfida, avrebbe messo in vendita i terreni intorno alla città su cui si era accampato l'esercito cartaginese. In realtà Annibale, avendo ritenuto che il suo piano per distrarre le legioni dall'assedio di Capua fosse fallito, decise, dopo avere raccolto un notevole bottino nel territorio intorno a Roma, di ritornare in Campania. Annibale inflisse una sconfitta alle truppe romane che, al comando del console Publio Sulpicio Galba Massimo, lo avevano seguito, ma non poté più impedire la caduta di Capua.

Nella città campana le autorità locali considerarono impossibile prolungare ulteriormente la resistenza; ritenendo che Annibale non potesse più portare aiuto e sperando nella clemenza di Roma, decisero di arrendersi al proconsole Appio Claudio Pulcro che aveva mantenuto l'assedio della città. La repressione di Roma fu inesorabile: i nobili campani vennero in buona parte giustiziati e tutti gli abitanti furono venduti come schiavi; Capua, ridotta in rovina, venne trasformata in borgo agricolo sotto il controllo di un prefetto romano. Annibale nel frattempo era ridisceso nel Bruzio, raggiungendo Regium, per congiungersi con le forze di Magone il Sannita.

Roma, impegnata su più fronti, vide che Annibale non riusciva a sferrare grandi offensive, e, attenendosi ai principi tattici di Fabio Massimo, continuò a contendere territorio e risorse al cartaginese senza farsi coinvolgere in grandi battaglie campali. 

Un continuo stillicidio di perdite, non rimpiazzabili, costrinse così Annibale a una serie di piccoli scontri non decisivi fra le colline e le montagne della Calabria e della Lucania), anche se il cartaginese nel 210 a.C. riuscì ancora, nella seconda battaglia di Erdonia, a sconfiggere e infliggere pesanti perdite all'esercito del proconsole Gneo Fulvio Centumalo Massimo, forte di ventimila uomini.

Anche Roma, persi buona parte degli alleati nel sud, aveva grandi difficoltà a reperire forze armate e poteva contare quasi solo sull'Etruria, sulle sue colonie e su varie città greche. Nonostante queste difficoltà le legioni romane progressivamente riconquistavano i territori perduti; dopo la caduta di Capua nel 211 a.C., nel 210 a.C. venne rioccupata la Daunia.

La guerra continuava anche sul mare con battaglie navali; in Africa con scorrerie romane come quella del praefectus classis di Sicilia, Valerio Messalla (nel 210 a.C.), e attacchi del re numida Siface, il quale aveva richiesto l'alleanza con Roma (nel 210 a.C.); con battaglie e reclutamenti in Spagna; creando in Grecia e nei territori limitrofi un'alleanza contro Filippo V di Macedonia, che fu ridotto sulla difensiva, composta da EleiSpartani, nonché Attalo re d'AsiaPleurato di Tracia e Scerdiledo d'Illiria.

La conclusione della guerra in Sicilia avvenne dopo che i Romani ebbero espugnato ventisei città, tra cui la città di Siracusa da parte delle forze di Marcello; Archimede venne ucciso durante i combattimenti. Siracusa poi - non più regno alleato - venne inglobata nella provincia di Sicilia, divenendone sede del governatore provinciale. Pochi giorni prima della presa della città di SyrakousaiTito Otacilio Crasso passò da Lilibeo a Utica con ottanta quinqueremi e, entrato nel porto all'alba, si impadronì di numerose navi da carico piene di grano. Quindi sbarcò e saccheggiò gran parte del territorio circostante la città cartaginese, per poi fare ritorno a Lilibeo due giorni più tardi, con 130 navi da carico piene di grano e di ogni sorta di bottino. 

Quel grano fu subito inviato a Syracusæ per evitare che la fame potesse minacciare vincitori e vinti. Poco dopo Marcello ottenne una nuova vittoria nei pressi del fiume Imera contro le forze congiunte greco-puniche di Epicide, Annone e Muttine. Questa fu l'ultima battaglia di Marcello in Sicilia. Gli successe Valerio Levino, il quale riuscì a occupare Agrigento (210 a.C.), ponendo pressoché fine alle ostilità in Sicilia.

Mentre continuava la logorante guerra in Italia la campagna in Spagna aveva assunto un ruolo sempre più importante; i territori iberici rappresentavano per Cartagine la base economica e militare di tutta la guerra. Era dalla Spagna che venivano truppe mercenarie, truppe alleate e, soprattutto, argento e rame, indispensabili supporti finanziari per sopportare i costi sempre crescenti dello sforzo bellico, esteso ormai a tutto il Mediterraneo, ed era sulla Spagna che Cartagine doveva appoggiarsi per mandare aiuti ad Annibale. Intanto i due Scipioni, Publio e Gneo, erano riusciti ad assicurarsi l'amicizia del re di NumidiaSiface, che fu però sconfitto in Africa da Massinissa, re dei Massili.

Dopo la serie di vittorie di Gneo e Publio Scipione negli anni 217-213 a.C., la situazione militare in Spagna ebbe un'inattesa svolta strategica, quando Siface, alleato dei Romani, fu vinto da Gaia, re dei Numidi Massesili, e dovette trattare (213 a.C.). Allora Cartagine poté rimandare in Spagna Asdrubale. I due eserciti degli Scipioni furono abbandonati dai mercenari celtiberi e separatamente distrutti in Andalusia (fine del 212 a.C./inizi del 211 a.C.). 

Asdrubale era, infatti, tornato in Spagna con notevoli rinforzi e anche Massinissa era giunto sul campo con i suoi reparti di cavalleria; gli eserciti cartaginesi al comando di Asdrubale, Magone e Asdrubale Giscone erano ora in netta superiorità numerica ma gli Scipioni decisero di affrontare ugualmente la battaglia, essi inoltre divisero il loro esercito trovandosi quindi in grande difficoltà. 

Molte truppe spagnole aggregate alle legioni romane defezionarono costringendo Gneo Scipione alle ritirata; nel frattempo Publio Scipione venne attaccato dagli eserciti di Magone e Asdrubale Giscone, rafforzati dalla cavalleria di Massinissa; dopo una coraggiosa resistenza i Romani vennero sconfitti e Publio Scipione cadde sul campo. Poco dopo anche Gneo Scipione venne intercettato durante la ritirata dai tre eserciti cartaginesi riuniti e accerchiato su un'altura arida e scoperta dove le legioni romane vennero distrutte; anche Gneo rimase ucciso. Solo piccoli reparti romani riuscirono a scampare a nord dell'Ebro al comando del coraggioso legato Lucio Marcio. Anche Sagunto era ormai perduta.

Morti il padre e lo zio del futuro "Africano", il possesso della Spagna sarebbe verosimilmente andato perduto senza l'iniziativa di Lucio Marcio, che riuscì a riorganizzare i reparti sopravvissuti alla disfatta e fermare l'avanzata cartaginese, ottenendo un'insperata vittoria poco a nord del fiume Ebro. Dopo la resa di Capua (211 a.C.), Gaio Claudio Nerone venne inviato a difendere in Spagna la linea dell'Ebro con nuovi rinforzi, dove rimase fino al autunno del 210 a.C.. quando il giovane venticinquenne, Publio Scipione, dotato di un imperium proconsolare straordinario, lo sostituì con l'aggiunta di altri 11.000 uomini, e con una serie di brillanti operazioni belliche e diplomatiche restrinse sempre più il controllo cartaginese nella penisola iberica. Il senato romano aveva compreso che una politica puramente difensiva in Spagna non avrebbe giovato alla guerra che si combatteva in Italia. Si ritenne, pertanto, necessario un ritorno alla strategia offensiva degli Scipioni.

SUCCESSI DI ROMA (209 - 204 a.C.) - Evento decisivo per la guerra in Italia fu la conquista di Taranto (213-212 a.C.). Annibale, con l'aiuto di un traditore, prese la città ma non la rocca che bloccava il porto, che, rimasta in mani romane, poteva essere rifornita dal mare. Così Annibale non poteva usare lo scalo, più capiente di quello di Locri (già in suo possesso) per ricevere i necessari aiuti da Cartagine. Nel 209 a.C. Quinto Fabio Massimo in persona marciò su Taranto e la riconquistò, grazie anche all'aiuto dell'esercito proveniente dalla Sicilia, che era sbarcato a Brundisium, e a un tradimento, prima che il Cartaginese potesse arrivare in suo soccorso; i Romani si comportarono brutalmente e 30.000 abitanti furono venduti come schiavi.

La perdita di Taranto fu un grave colpo per Annibale che fu privato definitivamente della possibilità di usare quell'importante porto; il cartaginese si trovò quindi a dovere dipendere da alleati sempre più sfiduciati e da aiuti della madrepatria sempre più scarsi. Egli veniva, pertanto, confinato nell'estremo meridione della penisola. Intanto a Roma si decise di inviare degli ambasciatori a Tolomeo IV d'Egitto per ottenere rifornimenti di grano, di cui l'Italia aveva grande scarsità a causa della guerra che ormai durava da quasi un decennio. In effetti secondo quanto ci tramanda Polibio, a Roma la scarsità di grano era talmente elevata che un medimno siciliano costava quindici dracme. Sempre nel 209 a.C. dodici delle trenta colonie latine allora esistenti (tutte collocate in Italia), si rifiutarono di fornire i propri soldati agli eserciti di Roma, lamentando mancanza di uomini. Le altre diciotto colonie fornirono invece i contingenti richiesti.

Nel 208 a.C. la guerra in Italia sembrò nuovamente volgere a favore di Annibale: in un agguato di cavalleria nei pressi di Venosa venne sorpreso e ucciso Claudio Marcello, spintosi imprudentemente in esplorazione con le sue avanguardie, e poco dopo cadde anche l'altro console Tito Quinzio Crispino per le ferite riportate durante lo scontro. Il condottiero cartaginese, dopo un fallito tentativo di conquistare Salapia con l'inganno, si diresse quindi verso Locri Epizefiri, dove inflisse una pesante sconfitta alle truppe romane che stavano assediando la città. Annibale tuttavia non poté sfruttare questi successi e rimase confinato nel Bruzio in attesa dei rinforzi che il fratello Asdrubale aveva promesso di condurre personalmente in Italia.

Asdrubale condusse con abilità la marcia del suo esercito verso l'Italia; dopo avere attraversato senza grandi difficoltà i Pirenei e le Alpi giunse in Gallia cisalpina agli inizi del 207 a.C. con 20.000 armati, dove poté rafforzare il suo esercito con mercenari galli (per un totale ora di 30.000 armati), ma perse tempo prezioso assediando inutilmente Placentia; la situazione di Roma appariva molto grave, il console Marco Livio Salinatore si diresse a nord per fermare la marcia di Asdrubale, mentre l'altro console Gaio Claudio Nerone cercava di bloccare Annibale nel Bruzio, ma il condottiero cartaginese riuscì a muovere verso l'Apulia, respingendo i Romani nella battaglia di Grumento, e con una marcia laterale raggiunse prima Venosa e poi Canosa, dove si fermò attendendo notizie sui piani del fratello Asdrubale. Scullard aggiunge che con quattro legioni di fronte (Claudio Nerone) e due alle sue spalle a Taranto, Annibale non poteva avanzare oltre Canosa senza correre seri pericoli.

I Romani tuttavia riuscirono a intercettare i messaggeri di Asdrubale inviati per informare il fratello, e quindi appresero che il secondo esercito nemico era in marcia verso Fano; Annibale, all'oscuro di questi progetti, rimase a Canosa, mentre il console Nerone con un'audace marcia forzata raggiunse, insieme solo a una piccola parte delle sue forze (6.000 fanti e 1.000 cavalieri), Livio Salinatore a Sena Gallica (Senigallia). Qui poterono affrontare riuniti Asdrubale. La battaglia del Metauro si concluse con la completa vittoria di Roma; l'esercito cartaginese fu distrutto e Asdrubale cadde combattendo sul campo.

Annibale apprese del tragico destino del fratello solo quando la testa di Asdrubale venne gettata dai Romani nel suo accampamento; egli decise di abbandonare nuovamente l'Apulia e la Lucania e ritornare nel Bruzio. Aveva rinunciato così a ogni residua speranza di vittoria finale, ora che era rimasto in possesso del solo Bruzio.

Lo scontro del Metauro vide Roma, per la prima volta, vincere una battaglia campale in Italia dall'inizio della guerra. Il tentativo di inviare rinforzi ad Annibale era fallito e Roma ne poteva solo beneficiare anche di fronte agli alleati italici. Il Metauro «fu un evento decisivo nella storia mondiale e una vera benedizione per Roma», come sostiene lo Scullard.

Dopo la disfatta e la morte di Asdrubale, Annibale era ritornato con il suo esercito nel Bruzio, che era rimasta la sua ultima roccaforte in Italia; egli ritenne ormai impossibile riprendere operazioni offensive e si limitò durante il 206 a.C. a mantenere le posizioni. Peraltro, nonostante la sua crescente debolezza, i Romani a loro volta non presero iniziative aggressive e si limitarono a controllare il nemico senza osare attaccarlo. Il prestigio del condottiero cartaginese era ancora altissimo. Annibale quindi schierò il suo esercito nel territorio compreso tra Catanzaro, Cosenza e Crotone; egli considerava importante mantenere il possesso dei porti di Locri e Crotone per disporre di una via d'uscita via mare, inoltre verosimilmente sperava ancora nell'arrivo di rinforzi e nell'aiuto da parte di Filippo V di Macedonia.

Scipione era concentrato sui preparativi per portare le legioni in Africa e il Senato voleva continuare con la guerra di logoramento. Con tutto ciò Annibale non era in grado di compiere azioni di rilevanza e doveva continuare una guerriglia disperata. Persa anche la base di Locri per opera di Scipione, quando questi ritornò in Sicilia cercò di contrattaccare. Scipione, alla notizia, ritornò a Locri via mare e Annibale dovette rinunciare anche a quel porto. L'ultima possibilità di ricevere velocemente rinforzi consistenti gli fu preclusa quando fallì il tentativo di Magone di invadere l'Italia dalla Liguria, d'altro canto il generale cartaginese sentiva che la sua avventura stava per concludersi.

Dopo avere trascorso l'intero inverno del 210/209 a.C. a preparare la sua prima azione offensiva in Iberia Scipione mirò da subito a colpire il cuore delle forze nemiche, con una delle più audaci azioni della storia militare romana: la presa di Cartagena.

Contemporaneamente si dedicò a rovesciare molte delle alleanze fra Iberici e Cartaginesi, rendendo difficile il reclutamento di forze mercenarie contro Roma, e contestualmente sferrando continui attacchi contro colonie cartaginesi e città loro alleate, spesso coronati da successo, come la riconquista di Sagunto. Dopo questa prima brillante azione, a Scipione venne prorogato il comando in Spagna fino a quando non fosse stato richiamato dal senato, come in effetti avvenne nel 206 a.C.

I territori iberici sotto controllo cartaginese si ridussero progressivamente e Scipione ottenne una nuova vittoria nella battaglia di Baecula (208 a.C.), ma strategicamente l'azione del generale romana fu un parziale fallimento e venne aspramente criticata in senato soprattutto dalla fazione di Fabio Massimo. In effetti nonostante le vittorie, Scipione non riuscì a impedire che Asdrubale Barca organizzasse un nuovo grande corpo di spedizione con il quale sfuggì al controllo dei Romani e intraprese, verso la fine del 208 a.C., una seconda invasione dell'Italia attraverso i Pirenei e le Alpi per accorrere in aiuto di Annibale. 

Scipione riuscì nel 206 a.C. a imporre definitivamente il predominio romano in Spagna. Egli infatti ottenne un nuovo successo a Ilipa, a cui seguì l'occupazione di Carmo (Carmona) e il dominio dell'intera Andalusia. La sconfitta delle forze cartaginesi comandante da Asdrubale Giscone e Magone Barca, costrinse i Cartaginesi a evacuare tutti i territori iberici e rifugiarsi con le truppe superstiti a Cadice. Poco dopo anche Cadice chiese la pace e Roma le concesse un'alleanza con condizioni particolarmente favorevoli. Intanto la flotta romana si spingeva sotto il comando di Gaio Lelio fino a Carteias (Algeciras). Roma aveva così chiuso il fronte occidentale del conflitto.

La flotta cartaginese, che anni prima era la dominatrice del Mediterraneo, era ridotta all'ombra di sé stessa. Ormai Roma, che solo da pochi anni aveva imparato l'importanza di mantenere una flotta, era regina incontrastata di tutti i mari a ovest di Malta. Sconfitti i pirati Illirici, controllava l'Adriatico; sconfitti i cartaginesi nella prima guerra punica controllava il Tirreno a est e ovest della Sardegna; dalla Provincia di Sicilia controllava l'omonimo Canale e lo Ionio. L'Egeo era greco ma Rodi e Pergamo erano buoni alleati di Roma mentre a Cartagine restava solo il Mediterraneo della costa africana e della costa spagnola. Con l'arrivo dei romani in Spagna, in pochi anni Cartagine perse anche quella costa, tanto che Nerone, quando portò gli aiuti a Scipione, poté tirare in secca le navi e arruolare i marinai come truppe di terra.

Nondimeno le flotte romana e punica si scontrarono. Nel 208 a.C. Marco Valerio Levino, dopo una razzia ad Aspide, si dovette difendere da una flotta cartaginese di ottantasette navi che nello scontro ne perse ventuno (diciotto delle quali furono catturate) e si dovette ritirare. Questa fu la più grande battaglia navale della guerra e può dare la misura delle dimensioni degli scontri navali al paragone di quelli della prima guerra punica.

Le coste africane e siciliane furono, però, sempre sotto attacco da parte delle marinerie avversarie; in modo particolare Cartagine compiva scorrerie in Sicilia e mandava truppe, poche per la verità, in Calabria e Puglia, mentre Roma, per contro, bersagliava la costa della Libia (Leptis in particolare) e della Tunisia.

Magone intanto, non essendo riuscito a impedire l'avanzata romana in Spagna, si era ritirato nelle Isole Baleari durante l'inverno tra il 206 a.C. e il 205 a.C. Fu poi inviato da Cartagine, che non poteva non sapere ciò che si stava preparando per la Sicilia, in Liguria (205 a.C.). Egli sbarcò a Savona con 12.000 fanti, 800 cavalieri e sette elefanti. Prima distrusse Genua (Genova), alleata di Roma, poi arruolò Liguri e Galli, con l'ordine di tentare di raggiungere Annibale, sempre asserragliato fra Crotone e Locri. Purtroppo per Magone, per Annibale e per Cartagine, Roma adesso aveva meno problemi di reperimento di forze armate. A Rimini stazionavano la legione di Marco Livio e in Etruria due legioni con Lucrezio mentre i Galli non risposero al richiamo cartaginese, almeno non quanto sarebbe stato necessario.

Nel 203 a.C. Magone, forte di un esercito di 30.000 armati, dovette combattere nei pressi di Mediolanum (Milano) contro i Romani che, guidati dal proconsole Marco Cornelio Cetego e dal pretore Publio Quintilio Varo, marciarono contro di lui da Ariminum. Ferito e sconfitto si dovette ritirare a Savona, dove aveva posto la propria base. Magone venne richiamato in Africa per rinforzare le difese. Buona parte delle forze arrivò a Cartagine con le navi, ma Magone morì per le ferite durante la traversata. Ancora una volta Cartagine non era riuscita ad aiutare Annibale.

Filippo V di Macedonia non fu mai in grado di portare alcun aiuto ad Annibale per tutta la durata della guerra. La diplomazia e le legioni di Roma chiudevano il re e i suoi alleati in un cerchio composto da forze romane a ovest, dalla Lega Etolica (e da forze romane, pari a circa 4.000 uomini) a sud e da Attalo I di Pergamo a est. A partire dal 212/211 a.C. Filippo fu così costretto a difendersi dall'alleanza che Marco Valerio Levino aveva scatenato contro di lui.

Le convulsioni della situazione politica e bellica in Grecia, descritte da Polibio, si intuisce fossero estremamente complicate in questo particolare momento storico sia in Grecia, sia in Asia Minore, e il comandante romano ne approfittò, grazie anche all'alleanza con Attalo I di Pergamo e gli Etoli, per evitare un dispendioso intervento diretto in Grecia da parte delle armate romane. Tra le clausole inserite nel trattato con essi, vi era che tutte le città conquistate in Grecia sarebbero state cedute agli Etoli. Alla fine Filippo fu costretto a firmare la pace di Fenice (205 a.C.), dove Roma si assicurava la tranquillità sul fronte orientale, ma soprattutto proiettando Roma per la prima volta entro il mondo politico ellenico, come garante nei confronti di coloro che ne avevano chiesto l'intervento negli anni passati.

Nello stesso anno 204 a.C. si verificò un importante avvenimento che simboleggiò il crescente interesse di Roma per l'Oriente ellenistico con le sue vestigia della mitologia troiana e la grande importanza assunta dalla famiglia degli Scipioni. Nel quadro delle alleanze organizzate da Roma per contrastare Filippo V di Macedonia, il re di Pergamo, Attalo I, consegnò agli inviati della repubblica la Magna Mater, la pietra scura di forma conica venerata a Pessinunte. Secondo gli oracoli dei Libri Sibillini, l'introduzione del culto della Magna Mater era una condizione indispensabile per raggiungere finalmente la cacciata del nemico cartaginese dall'Italia. Nell'aprile 204 a.C. la pietra nera di Pessinunte giunse a Ostia e venne consegnata a Publio Cornelio Scipione Nasica, cugino di Publio Scipione e figlio di Gneo Scipione morto in Spagna nel 211 a.C.; Scipione Nasica era stato scelto dal Senato per il prestigioso incarico in quanto considerato il "miglior cittadino" di Roma.

Una volta tornato dalla Spagna (autunno del 206 a.C.), Scipione venne eletto console nel 205 a.C. e gli fu affidata la Sicilia, dove dovette accontentarsi delle "legioni Cannensi", sebbene gli fosse stato accordato il diritto di reclutare dei volontari. Annunciò quindi il suo ambizioso programma di chiudere la partita con Cartagine, portando la guerra in Africa. Invano a questo suo disegno politico e strategico si oppose il Senato romano, capitanato dalla fazione attendista di Quinto Fabio Massimo e del figlio. Si può comprendere come l'ex dittatore, ora princeps senatus, ormai settantenne fosse affezionato alla sua concezione della guerra che fino ad allora aveva permesso a Roma di resistere.

Il Senato di Roma, sotto la pressione dei Fabii, voleva prima sconfiggere Annibale in Italia e rifiutava di sostenere Scipione, che in Sicilia aveva a sua disposizione solo le legioni "cannensi" e poche navi. Le legioni "cannensi" erano i resti delle forze sbaragliate a Canne da Annibale. Però mentre Varrone, il maggiore responsabile della disfatta, tornato a Roma era stato perdonato, la bassa forza, come punizione era stata mandata in Sicilia con il divieto di tornare a Roma fino a quando Annibale fosse rimasto in Italia.

Le devastazioni del territorio erano impressionanti: oltre dieci anni di guerra continua avevano distrutto in pratica l'economia agricola della regione. La terra non poteva essere lavorata senza che fossero attivate razzie degli eserciti di entrambe le parti. I commerci erano bloccati per carenza di denaro, per il pericolo di rapine, per mancanza di acquirenti. Gli uomini validi venivano arruolati, per volontà o per forza, tanto che alcune colonie romane furono esentate dal fornire uomini; nel 209 a.C. dodici colonie latine si erano rifiutate di svolgere il servizio militare, stanche della guerra.

Del resto Fabio, privo di quel talento militare proprio del suo avversario politico a Roma, era stato costretto per anni a rifugiarsi in una strategia difensiva di logoramento, che non a caso gli aveva procurato l'appellativo di Cunctator. E pertanto, non sarebbe mai stato capace di condurre una campagna offensiva in Africa e conquistare Cartagine.

Al contrario Scipione, con le sue riforme tattiche, non temeva di scontrarsi con Annibale in una battaglia campale. Alla fine prevalse la posizione di Scipione su quella di Fabio.

Preso atto dell'atteggiamento del Senato Scipione si rivolse agli alleati italici per avere uomini, armi, navi e vettovaglie. La risposta, leggiamo in Tito Livio, fu entusiastica. Le città dell'Etruria e del Lazio fornirono ciurme per le trenta navi, tela per le vele, grano e farro e vivande di tutti i tipi, punte di frecce, scudi, spade, lance e uomini. In meno di due mesi Scipione aggiunse alle sue legioni "cannensi" circa 7.000 volontari italici e cominciò a preparare seriamente lo sbarco in Africa.

Convinto da alcuni locresi a riconquistare la città, Scipione accettò e dopo la sua caduta lasciò un luogotenente, Quinto Pleminio, a governare Locri. Le malversazioni di Pleminio vennero portate davanti a Scipione che però non credette ai locresi. Costoro allora si appellarono al Senato che inviò una commissione. Per fortuna di Scipione la commissione di inchiesta prima, a Locri, appurò che il console non aveva avuto parte nel comportamento di Pleminio e poi, a Siracusa vide che l'esercito approntato da Scipione era perfettamente addestrato e rifornito. La commissione tornò a Roma lodando Scipione e le sue capacità di organizzazione e di comando. Con tutte queste difficoltà Scipione perse un anno nella sua guerra contro Annibale. Con l'anno 204 a.C., Scipione ottenne la carica di proconsole in Africa, potendo finalmente portare avanti il progetto che aveva in mente già dagli anni delle campagne in Spagna: portare la guerra in Africa, tant'è vero che nel 205 a.C. aveva inviato il fedele Gaio Lelio con la flotta sulle coste africane, nei pressi di Hippo Regius, per ottenere un incontro con il giovane Massinissa, figlio dell'ormai defunto Gaia (re della Numidia orientale).

Scipione da tempo osservava con attenzione gli sviluppi e le rivalità tra i re dei Numidi. Cartagine, fino a quel momento, aveva trovato nel re dei Massili (Numidi orientali), Gaia, il suo alleato contro il re dei Massesili (Numidi occidentali), Siface. Massinissa, figlio di Gaia, aveva combattuto contro Roma in Spagna (dal 212 al 206 a.C.). All'inizio Siface fu sconfitto da Massinissa in Africa ma, con le successive sconfitte iberiche dei Cartaginesi (209 - 206 a.C.) la situazione si invertì. Siface, se in un primo momento rimase alleato di Scipione che era giunto dalla Spagna per incontrarlo, poco dopo cementò la propria alleanza con Cartagine, prendendo in moglie la figlia del comandante cartaginese Asdrubale Giscone, Sofonisba (206 a.C.), e mettendo a disposizione del cartaginese altri 50.000 uomini e 10.000 cavalieri.

Una volta morto Gaia, scoppiò una guerra civile tra i suoi eredi, tra i quali vi era anche Massinissa. Siface, cercando di approfittare di questi scontri, provò ad annettere al proprio regno il territorio dei Massili, accordandosi con Cartagine. Intanto Massinissa che aveva conosciuto e apprezzato Scipione in Spagna, si alleò con Roma. L'alleanza con Siface sembrava favorire Cartagine, ma Massinissa privò Annibale dell'arma strategica che aveva avuto in esclusiva: la cavalleria numidica, che Roma aveva sofferto dalla Trebbia a Canne e che Scipione aveva imparato a conoscere in Spagna.

Cartagine che non era del tutto preparata, cercò di predisporre la difesa del proprio territorio, operando reclutamenti di mercenari, acquisti di armi, grano e ricercando alleati.

Scipione, una volta sbarcato a terra dalle navi, poteva contare su 25.000-30.000 uomini. Nella primavera del 204 a.C., Scipione lasciò la Sicilia per traghettare le proprie forze in Africa. Si trattava di una forza composta da 400 navi da carico, una scorta di 40 navi da guerra, comandate da Gaio Lelio e da Marco Porcio Catone Forse su consiglio di Massinissa, intendeva sbarcare nella parte occidentale del golfo delle Sirti (Emporia, grosso centro commerciale punico e fonte di enormi entrate per Cartagine), ma il mare agitato e la nebbia obbligarono la sua flotta ad approdare nei pressi di Utica (a Porto Farina).

Le forze cartaginesi erano appostate quasi tutte a Emporia, mentre uno squadrone di 4.000 cavalieri, posso sotto il comando di Annone (figlio di Asdrubale Giscone) venne mandato per rendere difficili le operazioni di sbarco ai Romani. Annone si scontrò con la cavalleria romana, ma venne battuto e ucciso. Caddero 1.000 uomini e 2.000 vennero presi prigionieri. Scipione conquistò Selica e si dedicò al saccheggio del territorio, inviando il bottino di guerra, tra cui 8.000 schiavi, a Roma, che esultava.

Scipione cercò di conquistare Utica, ma l'impresa non gli riuscì. Decise allora di svernare nel suo territorio, mentre poneva l'assedio alla città e il proprio accampamento (i Castra Cornelia). Nel frattempo portò dalla sua parte Massinissa che, acerrimo nemico di Siface da cui era stato disastrosamente sconfitto, stava attraversando un periodo di sfortuna, ma conservava un grande ascendente sulle popolazioni della Numidia.

Durante l'inverno del 204-203 a.C. Siface tentò di mediare una pace proponendo il ritiro dei Romani dall'Africa e dei Cartaginesi dall'Italia. Scipione non aveva però alcuna intenzione di accettare condizioni che non offrissero a Roma un pagamento per tutti i danni subiti in quasi vent'anni di guerra. Il comandante romano vide la necessità di prolungare i negoziati in modo da potere visitare più e più volte gli accampamenti del nemico, raccogliendone informazioni topografiche preziose per la campagna dell'anno successivo. I due accampamenti nei quali erano alloggiate, in modo disordinato, le truppe di Siface e Asdrubale erano poste su due alture adiacenti, a circa 10 km dai Castra Cornelia di Scipione.

La campagna riprese l'anno successivo, con la cessazione delle trattative di pace (primavera del 203 a.C.). Siface e Asdrubale Giscone si trovavano ora a capo di una forza pari a circa 100.000 uomini (probabilmente il dato è eccessivo). Scipione, che aveva ricevuto pochi rinforzi di cavalleria da Massinissa, poteva disporre di forze assai inferiori in numero, forse meno della metà, ma con un attacco notturno improvviso, dividendo in due parti il suo esercito, il comandante romano mandò Gaio Lelio e Massinissa ad attaccare il campo di Siface, mentre egli si occupò di quello di Asdrubale. La strage che ne seguì, vide le forze romane incendiare i due accampamenti nemici, approfittando dello spavento e della disorganizzazione cartaginese. Al termine della battaglia solo poco più di 20.000 uomini erano i superstiti cartaginesi. Asdrubale si ritirò a Cartagine, mentre Siface tornò in Numidia dove ebbe la fortuna di trovare 4.000 mercenari celtiberi appena giunti.

Galvanizzato dalla vittoria Scipione partì con 12.000 soldati, lasciando le restanti truppe ad assediare Utica. I Romani raggiunsero i resti dell'esercito numidico-cartaginese (composto da 20.000 armati) e presso i Campi Magni (Souk el Kremis, lungo il corso superiore del fiume Bagradas, a 120 km da Utica) lo distrussero completamente. Le truppe cartaginesi e numidiche poste alle ali cedettero completamente e solo l'eroica resistenza dei celtiberi, posti al centro, permise ad Asdrubale e a Siface di salvarsi con pochi uomini al seguito. Asdrubale fu condannato a morte, ma riuscì a fuggire e a reclutare altri 10.000 uomini. Siface cercò rifugio nella sua terra, inseguito da Massinissa che cercava la rivincita totale, e fu catturato a Cirta. Intanto Scipione rinunciò a conquistare Utica e, dopo avere dato alle fiamme le sue macchine d'assedio, riuscì a espugnare Tunisi, che si trovava a soli 24 km dalla capitale punica. Ora Cartagine era alle corde.

A Cartagine prevalse il partito della pace, e venne tentata nuovamente la strada della trattativa. Intanto si approfittò del tempo concesso per inviare messaggeri in Italia. Uno raggiunse Magone in Liguria, a cui fu ordinato di tornare immediatamente in patria, un altro raggiunse Annibale nel Bruzio con lo stesso ordine.

Scipione, che non aveva come obbiettivo quello di distruggere la capitale punica, fissò le condizioni:

- Cartagine doveva rinunciare all'Italia e alla Spagna;

- consegnare la sua intera flotta, a eccezione di venti navi;

- pagare un'indennità di 5.000 talenti;

- riconoscere il regno di Massinissa (a ovest) e l'autonomia delle tribù di Libia e Cirenaica (a est).

Queste condizioni miravano a ridurre la potenza di Cartagine sia territorialmente, sia nei suoi commerci, ma soprattutto a stato cliente di Roma. Alla fine Cartagine accettò e fu conclusa una tregua, in attesa che il senato romano ratificasse questo trattato (inverno 203-202). Il fatto che molte delle famiglie romane rivali di Scipione ne invidiassero i successi rallentò la trattativa al punto che, quando la guerra sembrava ormai giunta al capolinea, Annibale sbarcò in Africa, riaccendendo le speranze dei Cartaginesi.

Nell'estate del 204 a.C. il nuovo console, Publio Sempronio Tuditano attaccò Annibale a Crotone e ottenne qualche modesto successo; le perdite romane ammontarono peraltro a oltre 1.000 uomini. Venne inviato anche l'altro esercito consolare sotto la guida del proconsole Crasso che nel frattempo aveva occupato la zona di Cosenza. In realtà Annibale manteneva il controllo della situazione e appariva sempre pericoloso e invitto; l'andamento delle operazioni nel Bruzio rinforzò nel Senato la convinzione che la tattica di Fabio Massimo non doveva essere abbandonata.

In realtà la situazione strategica e logistica di Annibale era ormai compromessa; privo di aiuti, informato della disfatta del fratello Magone, era ormai consapevole che la sua lunga campagna nella penisola era fallita; fin dal 205 a.C., seguendo la tradizione dei condottieri ellenistici, egli aveva fatto incidere un'iscrizione bilingue (greca e punica) in bronzo al tempio di Era Lacinia presso Crotone, dove venivano descritte le sue imprese in Italia.

Nell'autunno del 203 a.C. il senato cartaginese sotto la pressione dell'invasione di Scipione, diede ordine ad Annibale di imbarcarsi e tornare in Africa; il condottiero cartaginese apprese con amarezza queste decisioni, ma egli aveva indubbiamente previsto questa possibilità. Per la prima volta dopo ben trentaquattro anni, Annibale tornava nella patria che aveva lasciato da ragazzo per seguire il padre. Egli, dopo avere perduto Locri (occupata da Pleminio), abbandonata Thurii ai suoi soldati e ridottosi ormai al solo territorio di Crotone, fece costruire una flotta con il legname della Sila. Prima di abbandonare per sempre l'Italia, procedette a effettuare vaste distruzioni e saccheggi sul territorio per non lasciare bottino nelle mani dei Romani; inoltre, massacrò i soldati italici che si rifiutavano di seguirlo in Africa. Salpò dall'Italia insieme a circa 15.000-20.000 veterani delle campagne in Italia, senza alcuna opposizione da parte delle forze romane del console Gneo Servilio Cepione; giunse indisturbato in Africa e sbarcò a Leptis Minor da dove si diresse ad Adrumeto (oggi Susa).

Cartagine, galvanizzata dall'arrivo del suo eroe, interruppe le trattative e cominciò a riorganizzarsi. La pace, già ratificata dai comizi romani, venne rifiutata, e per poco gli ambasciatori romani giunti in Africa non furono uccisi. Scipione dovette annullare la tregua, mentre Annibale si apprestava a raccogliere tutte le forze cartaginesi disperse: gli uomini del fratello Magone e gli uomini di Asdrubale, per lo più mercenari. Con queste truppe si diresse verso la Numidia per arruolare reparti di cavalleria, anche se alla fine dovette accontentarsi di 3.000 cavalieri forniti dal figlio del deposto Siface, Vermina.

Scipione non perse altro tempo: iniziò a devastare la vallata del fiume Bagradas e chiese aiuto all'alleato Massinissa, che stava combattendo nella Numidia occidentale. I due poi si riunirono nell'interno, poiché per il comandante romano era di fondamentale importanza disporre di un adeguato numero di cavalieri numidi prima di affrontare il Cartaginese. Intanto Annibale marciò da Adrumeto a Zama (quella più a ovest fra le due città che hanno lo stesso nome), sperando di intercettare l'armata di Scipione prima che si congiungesse con la cavalleria numida. A Naraggara (Sidi Youssef) il comandante romano fu raggiunto da Massinissa e insieme marciarono fino a Seba Biar. Annibale cercò di evitare lo scontro per mostrare, pare, alla fazione pacifista cartaginese di avere cercato una possibile soluzione incruenta, rendendosi inoltre conto di trovarsi in uno stato di inferiorità. I due più grandi condottieri del periodo si incontrarono di persona, ma la trattativa fallì, poiché Scipione pose delle condizioni tali da non lasciare alternative al suo avversario, tanto che la parola passò alle armi. Il Cartaginese avrebbe accettato l'evacuazione della Spagna, ma domandava a Roma di rinunciare all'indennità di guerra; il Romano rifiutò. Annibale sapeva che un'ultima vittoria gli avrebbe permesso di congelare la guerra, dando voce a Roma a quel partito che auspicava alla cessazione definitiva delle ostilità.

I due eserciti avevano più o meno la stessa consistenza numerica. Circa 350.000 Romani fronteggiavano 40/50.000 cartaginesi, quest'ultimi però con una cavalleria inferiore. Ma la differenza qualitativa era importante.

- Annibale guidava forze di fanteria più numerose ma composite: 12.000 fanti celti e liguri, 15.000 reduci dalle campagne italiche, 18.000 mercenari di varia provenienza, numidi, macedoni, iberici e qualche cartaginese. La cavalleria punica era composta da 4.000 uomini. Aveva a disposizione, inoltre, ottanta elefanti da guerra su cui contava molto.

- Scipione aveva a sua disposizione due legioni addestrate, compatte e disciplinate (circa 23.000 fanti e 2.000 cavalieri). 7.000 fanti e 4.500 cavalieri erano forniti da Massinissa e dal suo alleato Damakas.

Entrambi gli schieramenti vennero disposti su tre file.

- Annibale compì secondo molti storici moderni un capolavoro di tattica, ponendo gli elefanti davanti alla fanteria per lanciarli in una carica di sfondamento che avrebbe permesso alle altre forze di attaccare le linee romane scompaginate. Dietro agli elefanti, le linee cartaginesi vedevano in prima fila i mercenari galli, mauritani, liguri e iberici (di cui si fidava poco), in seconda linea le forze terrestri libiche e cartaginesi, poi a circa 200 metri dietro, i veterani delle campagne d'Italia che dovevano attaccare le truppe nemiche quando fossero state stanche. Le ali di cavalleria cartaginese erano poste a destra e quella numidica a sinistra.

- Scipione dispose i suoi uomini sulle classiche tre file (triplex acies). Prima gli hastati, poi i princeps e dietro i triarii, ma con un'innovazione rispetto alla classica disposizione delle legioni. Egli evitò di offrire un fronte compatto lasciando spazio di manovra fra un manipolo e l'altro. Le ali di cavalleria vedevano, a destra Massinissa e a sinistra la cavalleria italica comandata da Gaio Lelio. Lo Scullard ritiene che l'obbiettivo tattico di Scipione fosse quello di «applicare la manovra di aggiramento che aveva eseguito con crescente abilità, nei successi a Baecula, a Ilipa e ai Campi Magni», grazie alla superiorità della sua cavalleria.

Anche questa volta Annibale compì un vero e proprio capolavoro, infliggendo al rivale una vera e propria lezione di tattica, fino a sfiorare la vittoria. Giovanni Brizzi scrive «forse solo un'altra battaglia, quella di Waterloo, ha evidenziato quanto Zama la superiore abilità del vinto». E tuttavia anche Annibale, come duemila anni più tardi Napoleone, non poté evitare di essere sconfitto e perdere la guerra in modo definitivo.

Il Cartaginese lanciò, infatti, la carica degli elefanti, che in parte venne respinta dai Romani e in parte finì nei corridoi che il comandante romano aveva predisposto dietro la linea dei suoi velites. Fu quindi la volta delle cavallerie di Massinissa e Lelio a sospingere fuori dallo schieramento quelle nemiche, che fuggirono e si allontanarono dal teatro dello scontro principale tra le fanterie.

Subito dopo fu la volta delle due fanterie a scontrarsi. Scipione, che aveva notato che la terza linea di Annibale rimaneva ferma, intuì di non potere praticare la manovra di aggiramento che aveva applicato in altre precedenti battaglie. Gli hastati riuscirono a caricare la prima linea dei mercenari di Cartagine, che ripiegarono verso le ali della seconda linea, che non si era aperta per accoglierli. Appoggiati dalla seconda fila romana dei principes, riuscirono a rompere anche il secondo schieramento cartaginese. A questo punto, vista la distanza con il terzo schieramento di Annibale, il comandante romani preferì interrompere la battaglia, sia per riordinare il suo schieramento (prolungandone il fronte, disponendo principes e triarii ai lati degli hastati), sia per attendere il ritorno della cavalleria romana.

Lo scontro riprese ancor più cruento. La situazione stava diventando critica per Scipione, ma Annibale aveva davanti a sé le legioni di Canne. Quegli uomini sconfitti dai nemici ed esecrati dai loro stessi concittadini ebbero, alla fine, una seconda possibilità e da quella speranza, da quella rabbia, trassero la forza di resistere alle forze puniche che li sovrastavano. Definitivamente dispersa la cavalleria avversaria o disperatamente chiamati indietro da Scipione, alla fine Lelio e Massinissa tornarono con i loro cavalieri, che si avventarono alle spalle delle forze cartaginesi e le annientarono.

Dalla distruzione dell'esercito cartaginese Annibale riuscì a scampare tornando ad Adrumeto. Scipione, intanto, dopo avere compiuto un'azione dimostrativa contro Cartagine, accolse una delegazione di pace a Tunisi. La seconda guerra punica era terminata con un ennesimo massacro sulle rive di un fiume africano. Era il 29 ottobre 202.

Resistere ancora a Roma poteva significare solo la distruzione della città di Cartagine. Anche Scipione voleva la pace e l'Italia aveva la necessità di ricostruire dopo quindici anni di distruzione. Venne pertanto conclusa una tregua di tre mesi, a condizione che Cartagine consegnasse degli ostaggi e fornisse frumento e salario alle truppe romane per tutta la durata della tregua.

Le condizioni della pace furono le seguenti e comportarono la fine di Cartagine come potenza mediterranea:

- Cartagine manteneva una parvenza di autonomia, diventando di fatto un protettorato di Roma, che le vietava di prendere le armi senza il suo permesso;

- conservava il territorio a oriente delle cosiddette «fosse puniche» (all'incirca l'attuale Tunisia, fino al golfo di Gabès);

- doveva evacuare i territori a ovest delle «fosse puniche» (che separavano il territorio cartaginese da quello numida), favorendo Massinissa che ne approfittò per annettersi larghe parti del territorio soggetto a Cartagine;

- Cartagine perdeva per sempre la Spagna;

- doveva versare un'indennità di guerra di 10.000 talenti, da pagare in cinquant'anni;

- doveva consegnare tutti gli elefanti e tutti i prigionieri di guerra;

- la flotta era ridotta a sole dieci triremi, appena sufficienti per frenare i pirati;

- non poteva più arruolare truppe mercenarie in Gallia e Liguria.

In cambio le truppe romane avrebbero evacuato l'Africa entro cinque mesi. La guerra ebbe così termine e le condizioni di Scipione furono ratificate dal Senato. Al comandante che aveva sconfitto Annibale fu conferito il cognomen ex virtute di Africanus.

Mezzo secolo dopo, quando Cartagine infine si ribellò ai continui attacchi di Massinissa, fu questa sua reazione - non autorizzata - a fornire ai romani il casus belli per scatenare la terza guerra punica. Qualche anno dopo fu anche imposto ai Cartaginesi di aiutare Roma nella sua avventura in Grecia e Asia Minore contro gli Etoli e il re seleucide, e navi puniche servirono nella campagna di Lucio Cornelio Scipione Asiatico contro Antioco III di Siria.

A Roma la fine della guerra non fu accolta bene da tutti per ragioni sia politiche che morali. Quando il Senato decretò sul trattato di pace con Cartagine Quinto Cecilio Metello - già console nel 206 a.C. - affermò che non riteneva la fine della guerra essere un bene per Roma; temeva che il popolo romano non sarebbe ritornato allo stato di quiete dal quale era stato tratto con l'arrivo di Annibale. 

Altri, come Catone il Censore temevano che se Cartagine non fosse stata del tutto distrutta avrebbe presto riacquistato la propria potenza e ripreso le lotte con Roma. E probabilmente Catone non aveva torto; l'archeologia ha scoperto che il famoso porto militare "Coton" fu costruito dopo la guerra, poteva contenere 200 triremi mentre a Cartagine erano concesse solo 10 navi ed era protetto dall'osservazione esterna. Annibale per molti anni curò i propri affari e riprese un ruolo importante a Cartagine. Per questo la nobiltà locale, spaventata dalla sua deriva democratica e dalla sua battaglia contro la corruzione, convinse i Romani a forzarne l'esilio che lo spinse verso le coste dell'Asia sempre cercando di rinnovare la lotta a Roma. A Libyssa sulle spiagge orientali del Mar di Marmara prese quel veleno che, come diceva, aveva a lungo conservato in un anello.

Roma ebbe le mani libere per intraprendere con decisione la conquista della Gallia Cisalpina, della Gallia Transalpina, dell'Illiria, della Grecia, e di tutti i regni della costa della Asia che si affacciavano sul Mediterraneo e sul Mar Nero. Dei 53 anni calcolati da Polibio, e per Pidna, ne mancavano solo 34.

TERZA GUERRA PUNICA - La Terza guerra punica fu combattuta fra Cartagine e la Repubblica di Roma fra il 149 a.C. e il 146 a.C.. Fu l'ultima delle tre guerre fra le antiche superpotenze del Mar Mediterraneo.

Con la sconfitta nella Prima guerra punica Cartagine aveva perso la parte della Sicilia che aveva faticosamente conquistato. La rivolta dei mercenari permise ai romani di appropriarsi di Sardegna e Corsica. Dopo l'avventura di Annibale, le cui imprese erano alla base della Seconda guerra punica, la città aveva dovuto cedere anche le redditizie conquiste in Spagna che l'avevano sostenuta finanziariamente - sia per il pagamento delle indennità conseguenti al primo conflitto, sia il quindicennio bellico di Annibale nella penisola italica. Inoltre, Cartagine stava pagando le nuove indennità richieste dopo la sconfitta di Annibale (200 talenti d'argento annui per 50 anni) e fu costretta a prestare un contingente alle forze di Roma nelle guerre contro Antioco III, Filippo V e Perseo. La relativa decadenza dello stato era mitigata da un riprendersi del commercio in cui i cartaginesi erano maestri e un nuovo impulso dato all'agricoltura e in particolare alle coltivazioni di ulivo e vite con tecniche moderne e ad alta resa suggerite dal manuale agronomico di Magone che era tradotto anche a Roma.

Per contro, subito dopo e in certi casi anche durante la Seconda guerra punica aveva iniziato una fase di espansione prodigiosa. Dal contrastato controllo dell'Italia a sud dell'Appennino tosco emiliano aveva esteso la sua influenza alla Pianura Padana alleandosi ai Veneti e chiudendo la partita con i Galli delle varie tribù padane.

Per completare il controllo della Spagna, strappata ai cartaginesi, si inserì nelle lotte fra la colonia greca di Marsiglia e i Galli transalpini conquistandosi quella che divenne la Provincia Narbonese, costruì la Via Domizia e intraprese una dura lotta per sottomettere le tribù dei Celtiberi, dei Carpetani e dei Lusitani. Intervenne pesantemente anche nelle isole maggiori, specialmente la Sardegna per sottomettere le tribù dell'interno.

Sul fronte orientale le legioni di Roma conquistarono l'Illiria bloccando i pirati della regina Teuta che operavano nell'Adriatico e anche se non ancora formalmente, la Grecia delle città stato, sottomisero la Macedonia facendone una Provincia, e intervennero sulla costa mediorientale ponendo fine al regno dei Seleucidi in Siria e dirigendo la politica dei vari regni in cui era divisa l'Anatolia (La parte anatolica del regno seleucida di Antioco Ierace, Pergamo, Cappadocia, Bitinia, Galazia, Paflagonia e il Ponto).  

In sintesi di tutti i paesi costieri del Mediterraneo restavano indipendenti (ma politicamente condizionati): la Mauretania di Bocco, l'Egitto dei Tolomei, alcune città-stato come Marsiglia e la Numidia, il regno che Massinissa, alleato di Roma contro Annibale, aveva strappato a Siface alleato dei punici. E la Numidia confinava a est con quello che restava dei possedimenti di Cartagine.

Come si è detto, Cartagine subiva le pesanti condizioni di sconfitta e si atteneva ai patti in modo scrupoloso per evitare di dare ai romani l'occasione di gravare ulteriormente sulla città.

Roma, però, non poteva dimenticare il pesante carico di costi economici, umani e psicologici causati da Annibale nel corso della precedente guerra. "Annibale è alle porte!" era diventata la frase spauracchio per i bambini (e non solo per i bambini). I territori a sud di Roma che avevano sopportato le scorribande, dei cartaginesi prima e delle legioni poi, erano in condizioni disastrose (nel solo 214 a.C. nove villaggi distrutti e 32.000 civili resi schiavi). Lo sforzo bellico fu grandioso in termini di risorse umane.  

Dalle sei legioni che Roma manteneva prima di Annibale, si era passati alle 25 nel 212 a.C.. Si può calcolare che con le forze degli alleati, Roma dovesse mantenere oltre 200.000 uomini a combattere. A questi bisogna aggiungere le forze navali con i loro costi e i loro uomini. Ogni combattente era sottratto alla produzione e soprattutto alle campagne e all'agricoltura. Si può quindi comprendere perché Roma fosse ben attenta a far sì che Cartagine non rialzasse la testa.

E a ricordare ai romani la loro nemica pensava Catone il Censore che terminava tutti i suoi discorsi con la famosissima frase "Ceterum censeo Carthago delenda est" (Cartagine deve essere distrutta). Non tutti erano dell'avviso, per esempio Scipione Nasica, cugino dell'Africano rispondeva:"per me deve vivere". Ma non aveva lo stesso potere mediatico. Nondimeno, la situazione poteva mantenersi in uno stato di precario equilibrio se non fosse intervenuto Massinissa.

Ripresosi il suo regno, che gli era stato tolto da Siface, Massinissa si era dedicato allo sviluppo dei suoi territori. Per prima cosa inglobò alcuni regni minori in modo più o meno pacifico fino a portare la Numidia a svilupparsi su quasi tutta la costa dalla Tunisia all'Atlantico. Con una serie di riforme sociali ed economiche iniziò la trasformazione del regno da pastorale con società nomade ad agricolo e stanziale. Fondò alcune città, ne ingrandì altre e in genere mostrò la sua aspirazione a fondare un grande stato moderno. Per raggiungere un reale sviluppo territoriale, umano e tecnico, per fornire ai suoi pastori e neo agricoltori una base culturale ed economica doveva, però incorporare anche Cartagine e le sue conoscenze agricole, navali, commerciali.

Massinissa, quindi approfittò degli accordi di pace del 201 a.C. fra Roma e Cartagine (che vietavano a questa persino l'autodifesa senza il consenso dei vincitori) per iniziare una serie di azioni di disturbo verso la città punica sottraendo territori di confine con la forza e contestandone per via diplomatica il possesso di altri.

Nel 193 a.C. Massinissa occupò Emporia nella Syrtis Minor, tanto ricca da rendere a Cartagine un talento al giorno. Alle lamentele di Cartagine, il re numida ribatté che i punici erano stranieri i quali, avuto il permesso di possedere tanta terra quanta ne comprendeva una pelle di bue, si erano impadroniti di molta parte dell'Africa. Ad ogni buon conto il Senato inviò a Cartagine una delegazione comprendente Publio Scipione Africano che però non decise alcuna mossa contro la Numidia.

Incoraggiato, nel 174 a.C. Massinissa occupò Tisca e il territorio circostante. Per salvare le apparenze Roma invio in Africa Catone alla guida di un'altra commissione. Tornato in Italia con ancora più radicata la convinzione che Cartagine stesse risorgendo economicamente e anche riarmandosi, Catone intensificò la sua martellante campagna per la distruzione della città. Famoso l'aneddoto del cestino di fichi che Catone, al suo ritorno, mostrò in Senato; erano ancora tanto freschi da rendere evidente "quanto" Cartagine fosse vicina e tanto buoni da far toccare con mano la concorrenziale qualità dei suoi prodotti.

Un altro tassello alla guerra fu portato dagli stessi cartaginesi, una fazione favorevole a Roma e addirittura a Massinissa perse il potere e 40 membri furono esiliati. Rifugiatisi in Numidia, senza grande fatica spinsero il re, ottantenne, a inviare a Cartagine i sui figli per chiedere il rientro degli esuli. Cartagine rifiutò e Massinissa occupò la città di Oroscopa. Sapendo ormai di non poter ottenere giustizia da Roma, nel 150 a.C. l'esasperata Cartagine, rompendo i patti, decise il riarmo e apprestò un esercito di 50.000 uomini (come sempre in massima parte mercenari) e cercò di riconquistare Oroscopa. Però il re Numida, disponendo di forze militari di maggiore professionalità, riuscì vincitore.

Il rischio per Roma, adesso, era che Cartagine, ancor più indebolita, cadesse preda della Numidia. Naturalmente a Roma non si sarebbe visto di buon occhio il formarsi in Africa di uno stato economicamente potente, esteso dall'Atlantico all'Egitto e con notevoli masse umane da impiegare nelle inevitabili guerre. La rottura dei patti, in ogni caso, era indiscutibile e fornì Roma di pretesto perfetto per poter intervenire. Contrariamente ai desideri di Catone che parteggiava per un'immediata dichiarazione di guerra, all'inizio mandò una missione diplomatica per far desistere i cartaginesi dal riarmo, poi, anche per evitare che Massinissa la conquistasse e diventasse così troppo potente e incontrollabile, dichiarò guerra all'eterna rivale.

Era il 149 a.C. e iniziava la Terza guerra punica.

Non appena si seppe che i consoli romani Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio Nepote erano partiti per l'Africa dalle basi siciliane con un esercito di 80.000 uomini e 4.000 cavalieri, Cartagine capitolò e cercò di minimizzare i danni, rimettendosi alle decisioni di Roma e inviando 300 ostaggi scelti fra gli adolescenti della nobiltà punica. I consoli romani avevano però precise istruzioni di eliminare per sempre la città.

L'esercito romano sbarcò vicino a Utica, che si arrese, e iniziò le operazioni. Partecipava anche, come tribuno, Scipione Emiliano, figlio del console Paolo Emilio morto a Canne e adottato nella gens Cornelia dal figlio di Scipione Africano.

I consoli ricevetero gli ambasciatori di Cartagine ai quali rinfacciarono la ripresa delle ostilità. I malcapitati non poterono ribattere che Roma non avesse protetto, come invece promesso, i territori della sconfitta rivale e dovettero accettare le condizioni che furono poste: Cartagine consegnò al campo romano di Utica 200.000 armature, 2.000 catapulte e altro materiale bellico. Resi inermi i cartaginesi, Censorino disse che quello che avevano fatto non era sufficiente e che, per la sicurezza di Roma, Cartagine doveva essere distrutta. "Escano dunque dalle mura gli abitanti e vadano ad abitare ad ottanta stadi dal mare". Ben 15 Km più all'interno, lontano dalla sua prosperità; lontana dal mare. Gli ambasciatori riusciro a replicare che Roma non teneva fede alle promesse ma fu loro obiettato che Roma aveva promesso la salvezza ai cittadini, non alla città.

Gli ambasciatori, al ritorno, furono quasi uccisi dalla folla. Il popolo si ribellò, finalmente ma tardivamente unito nell'odio agli invasori e nel desiderio di salvare la patria.

Per prima cosa furono uccisi tutti gli italici presenti in città, furono liberati gli schiavi per avere aiuto nella difesa, richiamati Asdrubale e altri esuli che erano stati allontanati per compiacere Roma. Fu chiesta una moratoria di 30 giorni con il pretesto di inviare una delegazione a Roma.

In questi giorni, sbarrate le porte della città e rinforzate le mura, iniziò una frenetica corsa al riarmo. I 300.000 cartaginesi fondendo ogni metallo recuperabile dagli edifici e dai templi, perfino oro e argento, riuscirono a produrre ogni giorno 300 spade, 500 lance, 150 scudi e 1.000 proiettili per le ricostruite catapulte. Le donne offrirono i loro capelli per fabbricare corde per gli archi.

Quando i romani, partiti da Utica per distruggerla, arrivarono alle mura di Cartagine le trovarono chiuse e irte di armati. Trovarono un intero popolo compatto e stretto alla difesa della sua città.

Cartagine era estremamente ben difesa. Le mura erano possenti, i difensori decisi, i rifornimenti sicuri e abbondanti tramite il porto.

I consoli trovarono una situazione difficile. La sosta aveva dato ad Asdrubale la possibilità di raccogliere circa 50.000 uomini ben armati. Manio Manilio Nepote portò i suoi uomini alle mura della cittadella mentre Censorino tentò di bloccare il porto con la flotta. Iniziò il lancio delle catapulte e i romani riuscirono a produrre una breccia nelle mura che però fu subito richiusa. I difensori contrattaccarono e distrussero parte delle macchine belliche. Quando i manipoli furono lanciati all'assalto della breccia furono sanguinosamente respinti. Censorino, da parte sua cercò di attaccare il borgo di Neferi ma fu anch'egli respinto da Asdrubale. Qui si distinse Scipione Emiliano che riuscì a portare nel campo dei romani Imilcone, uno dei capi della cavalleria cartaginese, con oltre 1.200 cavalieri.

Nel 148 a.C. i nuovi consoli Lucio Calpurnio Pisone e Lucio Ostilio Mancino furono inviati in Africa ma si rivelarono ancora più incapaci dei predecessori. In particolare Pisone si fece battere dai difensori di due città vicine Clupea e Ippona.

Questi insuccessi resero audaci i cartaginesi che mandarono delegazioni in vari stati compresa la Numidia. Ma l'eccesso di fiducia fu letale. Asdrubale prese il potere con un colpo di stato rompendo la concordia precedente e ordinò di esporre sulle mura i prigionieri romani, orrendamente mutilati, per intimorire le truppe nemiche. Ottenne l'effetto contrario. I romani, inaspriti, non avrebbero concesso mercé.

Nel 147 a.C. Scipione Emiliano venne nominato console pur senza aver raggiunto l'età prescritta di 47 anni avendo come collega Gaio Livio Druso. Appena giunto sotto le mura di Cartagine dovette correre a salvare Lucio Mancino che, isolato da un contrattacco dei difensori e non riuscendo a sganciarsi, correva addirittura il rischio di morire di fame. Si doveva concentrare l'attacco alla città, dopo il restante territorio avrebbe ceduto. Asdrubale che difendeva il porto con 7.000 uomini, fu attaccato di notte e costretto a riparare a Birsa. E ancora le vettovaglie giungevano a Cartagine.

Scipione, con una diga di tre metri, bloccò il porto attraverso il quale ai cartaginesi arrivavano i sempre più scarsi rifornimenti. I cartaginesi scavarono un tunnel-canale per poter rifornire la città e riuscirono addirittura a costruire cinquanta navi. La rapidità di Scipione fu fatale. La flotta fu distrutta, il tunnel-canale chiuso e presidiato.

Nel frattempo Nefari che era presidiata da un grosso nucleo cartaginese e che si dimostrava una spina nel fianco, fu attaccata da truppe romane comandate dal legato Lelio e dal figlio di Massinissa, Golussa, che Scipione aveva convinto ad allearsi a Roma. Si parlò di 70.000 morti e 4.000 sfuggiti ma sono cifre riportate da storici attenti a cantare le lodi dei vincitori. La caduta di Nefari portò con se la resa delle altre città.

Per tutto l'inverno durò l'agonia della città. Senza più viveri e attaccata perfino da una pestilenza, Cartagine soffrì la fame, vi furono i "soliti" casi di cannibalismo e di morte per gli stenti. Scipione che conosceva benissimo le condizioni degli assediati non forzò l'attacco e solo nel 146 a.C. l'esercito venne lanciato a superare le mura. Lelio e le sue truppe scelte conquistarono il porto militare e il foro.

I sopravissuti impegnarono i romani in una disperata battaglia per le strade della città, di casa in casa, che si protrasse per circa quindici giorni. Furono usati tutti i mezzi per rallentare l'inesorabile avanzata dei legionari. Ma l'esito era scontato. Gli ultimi soldati assieme a un migliaio di disertori romani, si rinchiusero nel tempio di Eshmun (collegato al greco dio della salute Asclepio o al romano Esculapio) sull'acropoli resistendo per altri otto giorni. Il tempio fu dato alle fiamme.

Per risparmiare le sue truppe Scipione emanò un bando che prometteva salva la vita a chi si arrendeva e usciva disarmato dalla cittadella. 50.000 uscirono fra cui, vigliaccamente, Asdrubale. Dalle mura della cittadella la moglie di Asdrubale fra sanguinose ingiurie e maledizioni al marito gridò una preghiera a Scipione di punire il codardo indegno di Cartagine, salì al tempio incendiato, sgozzò i figli e come Didone si lanciò fra le fiamme.

Dopo aver recuperato alcune opere d'arte che i cartaginesi avevano preso in Sicilia fra cui il Toro di Agrigento e la Diana di Segesta, Scipione abbandonò la città al saccheggio dei suoi soldati. Cartagine, la possente regina del Mediterraneo che aveva fatto tremare Roma, fu rasa al suolo, la città fu sistematicamente bruciata, le mura abbattute, il porto distrutto. La citta' fu sparsa di sale in modo tale che nulla potesse piu' crescere sul suo suolo. Polibio lo storico greco narra che Scipione pianse vedendo in quella rovina la possibile futura sorte di Roma stessa.

La Terza guerra punica era terminata.

I circa 50.000 superstiti, in massima parte donne e bambini, furono venduti - come d'uso - nei mercati degli schiavi; sulla città furono pronunciati i voti agli dei inferi e gettato il sale per significare che nulla di Cartagine doveva rinascere. I territori divennero ager publicus e dati in affitto a coloni romani, italici e anche libici.

Massinissa non poté godere delle sue iniziative. Fra il suo stato e gli ex possedimenti di Cartagine fu scavata un fossato (poi Fossa Regia) che segnò definitivamente il confine fra la Numidia (per il momento ancora indipendente) e la neonata Provincia romana d'Africa.

La situazione economica e sociale di Roma, al termine delle tre guerre puniche era talmente cambiata che Scipione Emiliano, nel 142, pregò per la conservazione della Repubblica e non per il suo ampliamento.

Il sito di Cartagine era però troppo ben scelto perché rimanesse disabitato e una nuova città nacque e crebbe diventando la seconda città nella parte occidentale dell'Impero Romano è la città principale della Provincia romana di "Africa".  

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