Imera
(Palermo)

   

Fondata probabilmente nel 648 a. C. da coloni di Zancle, insieme con fuggiaschi di Siracusa, essa ebbe all'inizio mescolanza di elementi calcidici e dorici, con prevalenza dei primi. Non ci sono prove che la sede della città fosse già occupata da nuclei siculi, e quest'assenza d'una precedente vita preistorica, rara nelle città fondate dai Greci in Sicilia, ci testimonia che il motivo della scelta della sede d'Imera non fu economico; essa nacque palesemente con la funzione di sentinella avanzata della Sicilia ellenica, di cui era ultima sede prima della zona fenicia. Tale funzione, e il fatto d'essere collocata fuori del traffico diretto con la Grecia e con il bacino del Mediterraneo, impedirono alla nuova città vasta espansione e la resero piuttosto vassalla di maggiori città e stati, soprattutto di Agrigento, il cui tiranno Terone riuscì a spodestare Terillo, signore d'Imera, forse nel 482. 

Lo stesso motivo, e la sua funzione di città di frontiera, fecero Imera protagonista d'uno dei fatti più importanti e decisivi nella storia della Sicilia ellenica, e per la sua grandezza: cioè della battaglia combattuta sotto le sue mura nel 482 (o 480) a. C. fra i Cartaginesi e gli eserciti federati di Siracusa e Agrigento.

I Cartaginesi giunti da Panormo sotto Imera, al comando di Amilcare, tirarono a secco le navi da guerra, stendendo sulla loro fronte una fossa e una palizzata, e collocarono le forze di terra al ponente della città, lungo una linea che dall'altura scendeva a toccare l'opera di difesa delle navi. L'esercito cartaginese si faceva ascendere all'enorme e assurda cifra di 300 mila uomini. A difesa della città stava Terone, con forze non adeguate al bisogno: egli fu ridotto perciò a tenersi sulla difensiva. Le cose mutarono quando sopravvenne da Siracusa Gelone. Si combatté per tutta una giornata, che terminò con la completa disfatta dei Cartaginesi. Amilcare scomparve. Questa battaglia decise delle sorti della guerra, e il merito della vittoria fu principalmente di Gelone. I Cartaginesi furono costretti a chiedere pace.

Nel 475 a.C. gli Imeresi, oppressi dal governo di Trasideo, figlio di Terone tiranno di Agrigento, dubitando dell'imparzialità del padre, si recarono da Ierone, tiranno di Siracusa. Al siracusano promisero che gli avrebbero consegnato la città e che lo avrebbero sostenuto in un eventuale guerra contro Terone. Tuttavia Ierone, che voleva ristabilire buoni rapporti con Agrigento, tradì gli Imeresi e avvisò del complotto Terone. Costui, una volta verificate le informazioni, fece arrestare gli oppositori imeresi e li fece giustiziare. Per colmare i vuoti nella popolazione lasciati dagli uccisi Terone chiamò a ripopolare la città i Dori e chiunque vi volesse vivere. 

Nel 471 a.C., morto Terone, gli Imeresi scacciarono Trasideo, costringendolo all'esilio. Nel 415 a.C., lo spartano Gilippo, diretto a Siracusa per assediare gli Ateniesi, sbarcò a Imera con quattro trieremi e qui rafforzò il suo esercito con rinforzi imeresi, geloi e selinuntini.

La sconfitta dei Cartaginesi coincise con l'inizio del periodo forse più creativo e prospero della Sicilia. Nel 409 a.C. i Cartaginesi intrapresero un intervento armato in Sicilia che stravolse gli equilibri politici e comportò la distruzione di alcune delle più importanti città greche. A capo della spedizione fu posto Annibale Magone, nipote di Amilcare, il generale cartaginese ucciso nello scontro di settant'anni prima. Cartagine, che non aveva più messo piede in Sicilia dopo la disfatta di Himera, decise di intervenire a seguito di un conflitto scoppiato per questioni di confine, tra Selinunte e Segesta, storica alleata dei punici. Una volta assediata ed espugnata Selinunte, la cui popolazione fu o massacrata o ridotta in schiavitù, le attenzioni dei Cartaginesi si rivolsero ad Imera.

Memore della fine dei Selinuntini, parte della popolazione imerese venne evacuata a Messina, ma circa 3,000 dei suoi abitanti, una volta caduta la città, vennero sacrificati, per ordine di Annibale, ai Mani del suo antenato, ucciso qui nel 480. Dopo questi eventi la città venne rasa al suolo e disabitata. Due anni dopo, gli esuli di Imera, assieme a coloni libici, fondarono a 12 km ad ovest dello storico insediamento di Thermai Himeraìai, l'odierna Termini Imerese.

La città doveva sorgere sopra un altipiano a forma di triangolo isoscele con il vertice a sud, limitato a nord dal mare, ad est dalla valle del Fiume Grande, ad ovest dalle piccole valli confluenti nella maggiore del Fiume Torto, e che sul mare si presenta con un erto spalto, sotto il quale si stende la fascia costiera, certo nell'età antica assai più stretta che ora. 

L'altopiano superiore è diviso da una depressione in due parti, chiamate ora Piano di Tamburino e Piano d'Imera. Tutto questo spazio, ben segnato e contornato naturalmente, è tuttora disseminato di resti fittili e d' elementi di fabbriche certamente antiche, in buona parte almeno greche, ma di cui, in mancanza di scavi, è assai difficile riconoscere alcunché di preciso. Certamente esso doveva essere limitato da mura che cingevano l'orlo dell'altipiano, delle quali però anche le tracce esistenti ancora nel secolo scorso sono scomparse. 

L'Acropoli forse occupava la parte più alta, all'estremità meridionale. Sono scomparsi anche tutti i resti dei templi che secondo la tradizione letteraria sorgevano nell'interno della città, e d'ogni altro edificio di carattere pubblico e sacro.

Non certa è l'estensione della città verso sud; si è pensato da taluno a due fasi d'esistenza: una più modesta d'estensione e più limitata, databile tra il 648 e il 480, avrebbe avuto il limite e il vertice del triangolo con l'Acropoli presso l'attuale Casa Civelli; quella maggiore, dopo l'aumento arrecato dalla vittoria, avrebbe portato il vertice alla Rocca del Drago; ipotesi questa da considerarsi, pur sembrando più logico che l'Acropoli fosse collocata nell'attuale Poggio Scacciapidocchio.

Meglio che sulla topografia urbana siamo orientati sulle necropoli del periodo ellenico. Sono note da molto tempo almeno due zone o gruppi di tombe della seconda metà del sec. V, stendentisi sulle pendici occidentali dell'altipiano urbano, nei declivî verso il Fiume Torto. Vi si rinvennero tombe a inumazione con sarcofaghi di terracotta, e altre formate di tegoloni, del tipo detto "alla cappuccina"; insieme con esse, altre a incinerazione con vasi a figure rosse di stile tardo, di notevoli dimensioni, talvolta protetti da un vaso a campana capovolto di terracotta grezza. 

Di recente segnalazione è la necropoli certo più importante e più copiosa, esistente nella piana costiera ad est del Fiume Grande; essa ora è distaccata dal mare di alcune centinaia di metri, ma anticamente doveva sorgere proprio sulla riva; a quanto se ne sa finora, essa si stende verso est per più di 3 km. di lunghezza, e per una larghezza varia tra i 500 e i 750 metri. Essa è stata esplorata solo in piccolissima parte, e all'inizio tumultuosamente; vi si sono rinvenuti filari di tombe povere a incinerazione della seconda metà del sec. VI, con grandi píthoi grezzi, e corredo di vasetti corinzî a figure nere; ma risulta esistente anche una zona più ricca, con vasi a figure rosse del periodo arcaico e bello, di notevole interesse; vi sono stati trovati anche frammenti di sarcofagi scolpiti a rilievo, e, pare, tombe costruite di conci. Alcuni accenni potrebbero far pensare a una "via delle tombe" veniente dalla città.

Imera doveva essere fornita anche di un porto, un porto canale che s'identifica presso la foce del Fiume Grande. Presso il porto qualcuno ammette l'esistenza di un sobborgo.

L'edificio più notevole d'Imera è un tempio dorico, costruito subito a ovest del Fiume Grande, non lontano dal mare, sulla piana fuori della cinta delle mura; fu scoperto nel 1823, saggiato nel 1862 ed esplorato nel 1929-1930. 

È un tempio esastilo, perittero (colonne 6 × 14), misurante m. 55,91 × 22,45, fondato su un robusto basamento, munito di piloni tra pronao e cella con le scalette per l'accesso al tetto. 

Esso doveva essere riccamente ornato di sculture: oltre a una mirabile serie di teste leonine (scoperte in numero di 56), è probabile avesse sculture metopali e frontonali; trabeazione e sculture erano vivacemente policromate. 

Le maschere leonine erano applicate alle lastre della sima, in cui la policromia vivissima, già praticata a larghe zone di colore bianco e rosso nel sottostante geison e forse nel triglifo, si avvivava di minute ornamentazioni, meandri, ovoli, serie di palmette, sui tre toni fondamentali giallo, rosso e azzurro; ed erano esse stesse vivacemente dipinte negli stessi colori. 

La massa plastica è rigorosamente e profondamente segnata, e le immagini hanno eccezionale vigore ed energia. Si è accertato il fatto, raro nella scultura decorativa ellenica, della presenza di due prototipi fondamentali, ciascuno dei quali aveva servito di modello per tutte le maschere di uno dei lati maggiori del tempio; modello seguito con libertà secondo la capacità e il vigore artistico di ogni plasmatore. 

Fra le maschere recuperate alcune sono opere di grande altezza d'arte e di grande bellezza. Accanto alle maschere vennero rinvenuti resti di statue a tutto tondo, almeno una femminile e tre maschili, di modellato fermo e non eccessivamente sciolto, da avvicinare alla scultura selinuntina precedente la metà del sec. v; resti purtroppo insufficienti per una determinazione di contenuto e di personalità d'arte. 

Il tempio deve essere stato costruito alla fine del primo quarto del sec. V, avvicinandosi per i caratteri artistici agli edifici agrigentini. È stata avanzata l'ipotesi, assai plausibile, che in questo tempio si debba riconoscere uno dei due eretti dai Sicelioti dopo la battaglia di Imera (a spese dei Cartaginesi) per conservare le tavole del trattato di pace, come nel trattato stesso era stabilito. Il tempin non sorgeva isolato: moltissimi resti, rinvenuti ai suoi lati, hanno assicurata l'esistenza di parecchi piccoli edifici, sacelli, tesori, altari, tempietti ecc.