Molochio è
posto nel cuore dell'Aspromonte
e sorge in una zona ricca di bellezze naturalistiche. È noto per "avere
una delle più alte concentrazioni di centenari nel mondo".
Il
territorio Molochiese è abbastanza vario. Il centro abitato si trova a circa
310 m.s.l.m. per
scendere a circa 220 m.s.l.m. nei
pressi della frazione di Cerasia a circa 3 km dal centro abitato. Il punto più
alto è sulla cima del Monte Trepitò, nel cuore dell'Aspromonte,
a poco più di 1000 m.s.l.m.
Nella
zona collinare possono trovare ampie piantagioni di ulivi
secolari e agrumeti
tipici della macchia
mediterranea, seguiti da
rigorosi boschi collinari di castagno fino
agli 800 m s.l.m..
Salendo di quota si iniziano a vedere i primi boschi Elci che
nelle zone più remote si trasformano in foreste quasi inaccessibili. Salendo
ancora troviamo dei boschi di possenti Faggi.
Infine nei pressi delle sommità del Monte Trepitò, al di sopra degli 800 metri
sono presenti li pino
larìcio e l'abete
bianco.
Il
fiume più lungo è il torrente Barvi che trova inizio nel cuore dell'Aspromonte,
la cui erosione ha diviso i due monti Trepitò e Rumbica. Scendendo a valle
lungo il percorso del torrente si possono vedere delle gole a strapiombo,
profonde anche 200 metri scavate dall'acqua nelle rocce arcaiche
(principalmente gneiss e micascisti).
A valle, lungo le rive del fiume il paesaggio è desertico, causato dalle
ricorrenti piene fuori misura.
Le
cascate di Mundu e Galasia attirano ogni anno migliaia di visitatori, che vi si
recano seguendo il sentiero restaurato, ormai utilizzato esclusivamente per la
visita delle cascate (l'originale risale alla metà del XIX secolo e serviva in
particolare ai lavoratori del carbone per raggiungere i diversi paesi
circostanti).
Il
toponimo Molochio, secondo un'ipotesi molto accreditata, deriverebbe dal greco malakos,
con il significato di malva,
una pianta di cui la zona un tempo era ricchissima. Non da escludere una
possibile derivazione dall'erba moly, che Hermes offre a Odisseo per
superare gli inganni di Circe. L'italianizzazione del nome del paese è avvenuta
soltanto da circa un secolo; prima di allora il termine nella sua originale
pronuncia si scriveva e si leggeva mulóçi (o mulòxi).
Due
sono le ipotesi più attendibili sulla fondazione dell’abitato: la presenza di
un insediamento italico nell’età del ferro (I millennio a.C.) e la
colonizzazione da parte di profughi di Taureana, di Metauro e di Scunno che, per
proteggersi dalle incursioni saracene del X secolo d.C., si rifugiarono presso
le mura del Monastero Basiliano che allora sorgeva in quei luoghi.
Molochio
fu Casale del Ducato di Terranova, che nel ‘600 era il centro emergente di una
vasta signoria - comprendente l’ampia zona racchiusa tra il Marro-Petrace e il
Vacale ed estesa, sul lato Tirrenico, dalle vicinanze di Gioia al largo di
Rosarno. Entro quest’area erano sistemati i numerosi Casali del ducato:
S.Martino, Rizziconi, Iatrinoli, Radicena, Casalnuovo (poi Cittanova),
Scroforio, Galatoni, Molochio e Molochiello, accanto ad altri piccoli centri
rurali come S. Leo, Vatoni, Bracali, Cristò, Carbonaria. In questo territorio
boschivo, adibito un tempo a pascoli, si svilupparono in epoca signorile ampie
colture cerealicole e vennero incrementate le produzioni di lino, canapa e
gelso, oltre alla viticoltura.
Il
paese passò dopo in mano ai Sanseverino, ai Sant’Angelo, ai Caracciolo e ai
Correale, fino al 1558, anno in cui il ducato fu venduto ai de Marini di Genova,
per poi essere acquistato dai Grimaldi, che scelsero invece di elevare Gerace a
sede del principato. Subito dopo l’ordinamento amministrativo francese rese il
paese una frazione di Oppido. Nel 1811 gli venne assegnato il nome di
Molochiello: era questo l’appellativo che, prima del terremoto del febbraio
1783 e del Flagello (l’epidemia che ne seguì), stava a indicare Molochio
Inferiore, dove si trovavano le Chiese di S. Marco, S. Stefano e S. Sebastiano -
di cui nulla è rimasto - e la statua di S. Nicola di Moloi Minor,
oggi malamente deturpata.
Santuario
della Madonna di Lourdes e Convento
Inaugurato
nel 1901, è il primo Santuario in Italia dedicato alla Madonna di Lourdes. La
sua costruzione iniziò nel 1890 per volere di padre Francesco Maria Zagari], un
frate cappuccino che si recò in pellegrinaggio a Lourdes poco tempo dopo le
apparizioni della Madonna. Lui stesso, dopo l’inizio dei lavori, si recò a
Parigi alla ricerca di una statua della vergine da portare a Molochio e vi riuscì,
grazie alla generosità della Terziaria francescana suor Maria Probech
Schlestadt, che gli fece dono di una bellissima statua lignea da collocare nel
Santuario. Tale statua raffigurava l’Immacolata Concezione (dogma di fede
riconosciuto da Pio IX nel
1854, quattro anni prima che la Madonna apparisse a Santa
Bernadette Soubirous).
Il 14 settembre 1901, esaltazione della S. Croce, il Cardinale Gaetano
Portanova, Arcivescovo di Reggio Calabria, benedisse il nuovo Santuario
divenendone protettore.
La devozione popolare verso la prodigiosa Immagine, nonché i personaggi e
gli eventi che interessarono il Convento sono stati narrati da Padre Silvestro
Morabito di Taurianova (1929-2005) nel libro Alle falde del Trepitò.
Accanto al Santuario si trova un centro per pellegrini chiamato "La casa
del pellegrino".
Chiesa
di San Vito
Piccola
chiesa edificata nel XVII secolo a opera di don Giuseppe Palermo, non più
agibile da circa dieci anni per via di severi danni al soffitto. La “Chiesa
Vecchia” reca(va) dei meravigliosi lavori in stucco realizzati dagli artisti Francesco (?-1878)
e Vincenzo Morani
(1809-1870) da Polistena,
mai restaurati. Piene delle loro opere sono le chiese di tutta la
provincia.
Verosimilmente
i loro bozzetti per San Vito sarebbero serviti come base per la costruzione di
altre chiese. San Vito, pur vertendo in uno stato disastroso, è attualmente il
bene più antico che Molochio possiede. Recenti studi hanno però visto emergere
delle meraviglie dal suo interno, fra cui delle sculture. La paternità di
queste opere è sconosciuta. Don Vincenzo Tropeano afferma che a realizzare le
statue sia stato il tropeano o bagnaroto Vincenzo Basile.
Il
progetto architettonico del napoletano Francesco Saponieri, approvato nel 1844,
è in linea con il Neoclassicismo, con una pianta rettangolare ad una sola
navata con una grande abside centrale.
Nel
1908 parte della costruzione rovinò sotto le scosse del sisma
di Messina e fu scelto
di eliminarne la parte superiore. Questo secondo restauro, che non fu dei
migliori, terminò nel 1921.

Chiesa
di San Giuseppe
La
Chiesa, intitolata al Santo Patrono, sorse nel XVII secolo per volere di
Monsignor Palermo il quale, secondo un’opinione largamente diffusa, aveva
disposto di edificarla sulle rovine dell’antico Convento Basiliano. Possiamo
desumere una descrizione sommaria dell’antica Chiesa dalla visita pastorale
dell’arcivescovo di Reggio, Martino Ybanez de Villanova, documentata in uno
scritto del 1692:
Sull’altare
maggiore è posta la statua ignea deadurata S. Joseph sub foramine marmoreo et
porfido. Ai lati vi sono quattro altari; due in cornu evangelii dedicati
rispettivamente a S. Stefano protomartire e a S. Francesco d’Assisi, e due in
cornu epistulae uno a N.S. Gesù Cristo e l’altro a S. Teresa.
La
chiesa, edificata tra il 1663 e il 1667, venne dotata di tutto il necessario per
la celebrazione del culto. Monsignor Palermo volle che oltre al decoro vi fosse
anche lusso: vi collocò di tasca propria tre calici, di cui uno di argento
massiccio ornato di pietre preziose, una sfera dorata contenente le reliquie
della croce “con la sua autentica”, due campanelli, un aspersorio
d’argento, pianete “guarnite con trecce d’oro”, cingoli con fiocchi in
oro, quattordici vasi da fiori dorati, candelieri di legno, altari guarniti con
pizzilli d’oro, tovaglie di seta e altre suppellettili, e un campanile con tre
campane.
Questo
splendore fu distrutto dal terremoto del 5 febbraio 1783, che rese Molochio un
cumulo di macerie e rase al suolo ben altre tre chiese di cui non si è
conservata traccia: S. Marco, S. Stefano e S. Sebastiano.
Agli
inizi del ‘900 la Chiesa di San Giuseppe venne riedificata grazie alle offerte
dei fedeli, soprattutto emigrati molochiesi. Malauguratamente fu abbattuta una
seconda volta a causa del sisma del febbraio 1908. Il restauro venne effettuato
solo novant’anni dopo.

Chiesa
parrocchiale di Santa Maria di Merula (Chiesa Matrice)
La
Chiesa parrocchiale di Santa Maria di Merola, nota anche come Chiesa
Matrice, è situata sul lato occidentale della piazza centrale del borgo;
distrutta e nuovamente ricostruita successivamente ai sismi del 1783 e del 1908,
al suo interno custodisce la statua in legno di Santa Maria di Merola risalente
al XVI secolo.
Di
rilievo per tutti i fedeli, anche la statua di un Bambinello di legno
scolpito e colorato, con il braccio destro in alto benedicente e con i capelli
lunghi e ondulati. Opera di un anonima artista di scuola napoletana del XVII
secolo, la statuetta, viene esposta per il Natale e fatta baciare durante la S.
Messa dell'Epifania.

Camilli
In
un angolo delle due grandi piazze attigue del centro storico di Molochio,
dedicate a Vittorio Emanuele III ed a Mons. G. Quattrone, si
possono ammirare le Fontane Camillo e Bernardo.
Queste
ultime presentano due statue in pietra, costruite negli anni cinquanta. Si
tratta di due giovani eroi mitologici, a grandezza naturale, genuflessi,
che soffiano in un otre da cui sgorga l'acqua che confluisce in una vasca
circolare. Il popolo chiama i Camilli entrambe le fontane.
Itinerari
nella natura
Il circondario
di Molochio offre la possibilità di esplorare luoghi
naturalistici incontaminati. Tra di essi ricordiamo il villaggio
Trepitò e le cascate.
All’interno
del Parco Nazionale d’Aspromonte, superando la vallata del torrente Barvi si
raggiungono la cascata, Mundu,
alta ben 40 mt. il cui nome deriva dal grecanico e significa "nudo", e
Galasìa e significa “rovina, burrone”. Questa cascata, tra le più
suggestive d’Aspromonte, ha la forma di un velo di sposa.
Il paesaggio è
caratterizzato da una ricca vegetazione composta da querce, lecci, faggi, grosse
liane di vitalba e da rare varietà di felci tra le quali la felce gigante
bulbifera, meglio conosciuta come "Woodwardia
radicans", la cui fronda può raggiungere anche i tre metri di
altezza e le cui origini risalgono alla preistoria.

Tradizioni
e antichi mestieri
In
passato si tramandava un meccanismo di ereditarietà nelle occupazioni. Pare che
l’insegnamento di un’arte tramandata venisse accolto con profonda dedizione,
quale vera riserva di ricchezza. Basti pensare all’umilissima attività della
raccolta delle olive, mestiere che, fino a pochi decenni fa, rappresentava
l’archetipo della lavoratrice.
Il
consumismo ha contribuito alla scomparsa di tante occupazioni, con grave perdita
della collettività: sartu, barberi, cazunaru, scarparu, ferraru,
mattunaru, marmista, mulinaru, sellaru, bandiaturi, cofanaru, carbunaru…
In
Contrada Vitrèto, nelle vicinanze del torrente Barvi, versa in stato di
abbandono un antico mulino ad acqua “a caduta”: il Molino di Campanella
(forse ancor oggi soprannominato, in dialetto locale, ’A machina du’
Duca). Ha funzionato sino al Primo ‘900. Nei pressi vi sono resti di
frantoi oleari, o trappíti, spinti dalla forza dell’acqua.
L’acquedotto si dipartiva dal fianco della montagna soprastante (Trepitò).
Mentre il primo frantoio ha il nome patronimico, il secondo ha un appellativo
avicolo: du’ Cuccu, “del Cuculo”, e i suoi ultimi proprietari
furono i Longo. Stupefacente doveva essere il funzionamento dell’antica
segheria (Serra) di Palata, di cui purtroppo non è rimasto nulla: fu
l’arrivo dell’elettricità a provocarne il declino e poi la fine. Esiste
ancora, però, un telaio meccanico, forse ancora efficiente.
Infatti,
fino alla prima metà dell’800, l’allevamento del baco da seta godé un
grande sviluppo: le colture spontanee del gelso bianco e moro sono tuttora
presenti nei boschi. Si narra che le operaie cantassero dei versi poetici che si
rifacevano alle leggende riguardanti l’infanzia, la formazione e
l’investitura di Orlando, paladino d’Aspromonte e tutore della cristianità
in Occidente. Oggi custoditi negli archivi comunali, questi versi miniati
costituiscono un elemento di continuità con la Canzone d’Aspromonte,
importante poemetto epico-cavalleresco la cui forma attuale risale al XV secolo.
La
celebrazione dei Virgineji avveniva tradizionalmente durante la
novena a San Giuseppe. Questo rituale si configurava inizialmente come un pranzo
ospitale offerto ai bambini più bisognosi del villaggio da parte delle famiglie
abbienti, che adempivano così al voto fatto al Santo, o esprimevano la loro
gratitudine nei suoi confronti. In tempi più recenti, il pasto con un piatto di
pasta e ceci fu esteso anche al resto della comunità, riunita a banchetto il
giorno della Festa patronale (anticamente fissata al 1º giugno, oggi ricorre il
19 marzo).
Tipico
dell’area era anche il rito della Tocca, che si svolgeva la
domenica di Pasqua prima della Messa. Il parroco, accompagnato da un giovane del
paese, faceva il giro dell’abitato con uno strumento rumoroso (la
"tocca") per annunciare la Resurrezione di Cristo.

Fonte:
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