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Papasidero,
borgo di origine medievale interno al Parco nazionale del Pollino è uno scrigno
di tesori ambientali e culturali. Si colloca nel cuore della Valle del Lao
incastonato su uno sperone roccioso e lambito da due corsi d’acqua, il fiume
Lao ed il torrente Santo Nocajo. L’origine del borgo risale al X-XI secolo,
nell’epoca in cui era forte la presenza dei monaci bizantini nel Sud Italia.
Il
nome deriva dal greco Papàs Isidoros (Παπάς
Ισίδωρος), un monaco bizantino basiliano di un monastero
greco-ortodosso della zona. Alcuni storici calabresi ritengono che Papasidero
sia sorto nel territorio dell'antica città greca di Skidros, una delle colonie
di Sibari che faceva da collegamento tra Sibari e Laos e che il nome
derivi da essa.
Il
borgo ed i suoi monumenti sono ricchi di riferimenti al culto basiliano, che si
diffuse e fiorì in questo territorio meglio conosciuto come “Mercurion”.
Papasidero, il cui toponimo rimanda ad origini orientali, fu uno dei centri più
importanti del Mercurion e del culto greco-bizantino e di cui restano ampie
testimonianze. Il borgo, un piccolo centro abitato è ricco di bellezze
artistiche e culturali.
Il
paesaggio circostante è estremamente suggestivo caratterizzato da fitti boschi,
rupi e gole fluviali, attraversato da antichi sentieri con ponti e scalinate in
pietra da cui osservare una natura rigogliosa. Il centro storico regala gemme
dell’architettura come il meraviglioso Santuario della Madonna di
Costantinopoli incastonata nella falesia rocciosa a picco sul fiume Lao; i
ruderi dell’antico castello medievale, che si ergono sulla sommità di una
rupe a dominare il paese ed il fiume e le antiche mura che circondavano il
paese. Nel territorio del comune di Papasidero si trova l’antico borgo di
Avena, ormai disabitato, che regala una vista a 360 gradi sulla valle del Fiume
Lao ed i Monti dell’Orsomarso e Pollino.
Anch’
esso di origine medievale fu sede di un antico monastero basiliano fondato da
san Leone-Luca di Corleone nel X secolo. Ma la “Storia” a Papasidero si
spinge ancora più indietro nel tempo, si trova qui infatti una delle più
antiche testimonianze dell’homo sapiens di tutta l’Europa: la Grotta del
Romito, dove l’uomo primitivo, più di 10.000 anni fa visse e creò una
comunità. Il sito archeologico, di rilevanza mondiale, ha al suo interno un
tesoro dell’arte figurativa: l’incisione rupestre del “Bos primigenius”,
Uro, un antico bovide scolpito sulla roccia in maniera perfetta. Un’ incisione
rupestre proporzionata, realizzata con un tratto preciso e, incredibilmente,
raffigurato in prospettiva. La Grotta del Romito è un sito archeologico di
rilevanza mondiali recanti una delle tracce più importanti dell’epoca
paleolitica.
Di interesse
storico-architettonico si segnala: il Santuario di Santa Maria di
Costantinopoli; la Chiesa Matrice di San Costantino; la Cappella di Santa Sofia,
con i suoi affreschi del '500; i ruderi dell'antico Castello, l'Antiquarium
della Grotta del Romito e molto altro.
Grotta
del Romito

La
grotta fu scoperta nella proprietà del signor Agostino Cersosimo nel 1961, dal
direttore del Museo comunale di Castrovillari, su segnalazione di due
papasideresi, Gianni Grisolia e Rocco Oliva, durante un censimento agrario; si
trova a 14 km dal centro urbano di Papasidero in una vallata a sinistra del
fiume Lao. In effetti, già nel 1954, un appassionato di archeologia del paese
di Laino Borgo aveva segnalato il riparo evidenziando la presenza della figura
di un toro in quello che era l’ingresso della grotta. Gli studi furono quindi
affidati a Paolo Graziosi, che diresse i lavori fino al 1968.
A
partire dagli anni 2000 la cura del sito è stata affidata ad un suo discepolo,
il Prof. Fabio Martini, che gli è succeduto nella guida del Dipartimento di
Paletnologia dell’Università di Firenze. Le ricerche sono proseguite
attraverso un’ottica interdisciplinare coinvolgendo paletnologi, antropologi,
naturalisti, anche con l’intenzione di ottenere nuovi dati dalla vecchia serie
stratigrafica, e ampliando l’area delle ricerche anche in zone della grotta
non precedentemente analizzate. Infatti, a partire dal 2011, gli scavi
stratigrafici si sono estesi anche nell’area del riparo esterno, che ha
confermato una frequentazione mesolitica datata a un periodo compreso tra 10.500
e 9.000 anni dal presente e che documentano quindi una continuità nella
presenza di comunità umane nella zona.
La
Grotta del Romito si trova a 296 metri s.l.m. ai piedi del monte Ciavola in
località Nuppolara nel comune di Papasidero, nella Valle del fiume Lao, in
provincia di Cosenza, e fa parte quindi di un ambiente naturalistico di grande
fascino: sono caratteristiche geologiche tipiche di questo paesaggio le grotte
carsiche, i ripari e le gole. La denominazione dipende dalla frequentazione dei
monaci del monastero di Sant’Elia che già dall’anno Mille la utilizzarono
come eremo. Il sito è attualmente fruibile grazie alla collaborazione tra
l’Università di Firenze e il Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria con la
Soprintendenza Archeologica della Calabria ed il comune di Papasidero. Sul sito
sono stati infatti realizzati interventi che garantiscono l’accesso alla
grotta, come passerelle, impianti di illuminazione adeguati e la modalità di
fruizione integrata del sito archeologico, prevedendo anche visite guidate e
attività e supporti didattici per bambini. Inoltre nell’antiquarium ubicato
in loco è possibile vedere alcuni reperti esposti.

La
Grotta del Romito, presso Papasidero, rappresenta uno dei siti in grotta più
interessanti e importanti del Paleolitico italiano, grazie anche agli scavi
condotti da Paolo Graziosi negli anni ‘60 che hanno messo in luce alcune
figure incise a carattere naturalistico (figure di bovidi) e astratto (segni
lineari) nonché alcune sepolture plurime, proseguiti a partire dagli anni 2000
con nuove campagne di scavo e scoperte.
Il
sito del Romito è situato nel Parco Nazionale del Pollino, a 275 metri s.l.m.
ai piedi del monte Ciagola e nei pressi del fiume Lao – attivo già durante
l’epoca paleolitica e utilizzato come via di comunicazione, per risorse
alimentari e litiche – e costituisce uno dei più importanti giacimenti
dell’Italia meridionale. La sua rilevanza nell’ambito dei siti preistorici
è legata all’imponente stratigrafia che, come spiega il Prof. Fabio Martini,
copre un arco temporale che dal Paleolitico giunge fino al Neolitico, rivelando
reperti importanti per la ricostruzione storica delle attività delle comunità
umane che abitarono il sito, le loro condizioni di vita e interazioni con
l’ambiente e il paesaggio circostanti, oltre che indicazioni sulla fauna e sui
condizionamenti subiti dalle comunità dai cambiamenti climatici avvenuti tra la
fine del Paleolitico e il Neolitico. Infatti, sono state identificate tracce
della presenza nella grotta di un torrente, antecedente a 24.000 anni fa, che ha
avuto fasi alterne di ingrossamento durante i secoli e, in seguito ai
prosciugamenti e ad interventi di bonifica, ha consentito la frequentazione
umana del sito per moltissimo tempo.
Nei
livelli inferiori della grotta si pensa che l’occupazione umana sia stata
sporadica, a causa di una maggiore presenza delle acque del piccolo ruscello
interno alla grotta stessa: i dati derivati dalle analisi dei sedimenti e dalle
cronostratigrafie evidenziano per questa epoca l’inizio di un clima
freddo-umido. Successivamente, è avvenuto un raffreddamento del clima,
confermato dai resti faunistici rinvenuti appartenenti sia ad ambienti boscosi e
montagnosi (ungulati, come il cinghiale, stambecco, camoscio, cervo) sia di
pianura e spazi aperti (cavallo, uro).
I
gruppi umani avevano quindi la possibilità di frequentare habitat diversi,
anche lontani dal sito, per la loro attività di caccia, e in generale la zona
è rimasta favorevole alla vita delle comunità umane, con abbondanza di risorse
fino al Neolitico. Proprio relativo a questa epoca sono i reperti di ossidiana
che farebbero identificare quest’area geografica come zona di scambio e
transito, tra il versante tirrenico e quello jonico, del vetro vulcanico
proveniente dalle isole Eolie, confermando quindi l’importanza delle
popolazioni neolitiche della Calabria nel commercio e nel controllo di questa
risorsa. Dall’analisi dei resti di fauna e microfauna e vegetazione è emerso
che la zona era particolarmente favorevole agli insediamenti umani: presenza di
acque, boschi e prati e soprattutto un graduale passaggio a condizioni
climatiche via via sempre più favorevoli (umide e temperate).
Il
sito è composto da due parti: la grotta vera e propria di circa 20 metri di
lunghezza, e il riparo la cui estensione è di circa 34 metri, e comprende anche
parti non completamente esplorate. In epoca paleolitica la grotta e il riparo
formavano un unico spazio di abitazione, molto ampio, ma in tempi più recenti
fu costruita una chiusura artificiale con un muro per utilizzare la caverna come
romitorio (da cui la denominazione attuale); parte del muro è stato poi
ulteriormente inglobato nella roccia a causa di fenomeni carsici e formazioni
calcaree, quindi gli spazi interni sono ormai completamente separati dal riparo
esterno e rimane solo uno stretto passaggio che costituisce l’ingresso vero e
proprio alla grotta.
Durante
gli scavi, effettuati dal 1963 al 1967, condotti dalla Soprintendenza per i Beni
Archeologici della Calabria e dall’Istituto Italiano di preistoria e
protostoria con la direzione del Prof. Paolo Graziosi e la collaborazione della
Dott.ssa Mara Guerri e del Prof. Santo Tinè, vennero alla luce sepolture e
numerosi reperti litici ed ossei. Di forte interesse antropologico sono i due
massi rocciosi che si trovano alle estremità opposte del riparo:
il
primo, sul lato orientale del riparo, di dimensioni di circa 3,50 metri, è
ricoperto di numerose incisioni lineari, segmenti incisi più o meno
profondamente, con diverso andamento (rettilinei, curvilinei), disposti in più
direzioni senza alcuna organizzazione nella composizione e senza alcun
significato apparente, sia a gruppi sia sparsi, e rappresentano un motivo
ricorrente nell’arte rupestre europea, soprattutto del Paleolitico superiore
finale. Se ne hanno diverse testimonianze anche in altri siti italiani (Sicilia,
Puglia, Liguria) sia come incisioni a sé stanti sia come segni che ricoprono
incisioni zoomorfe.
Sul
secondo masso, detto “dei tori”, di quasi due metri e mezzo di larghezza,
situato al limite tra l’area interna di grotta e quella esterna del riparo, i
segni lineari citati prima sono stati usati per incidere un grande uro (Bos
primigenius), un bovino selvatico antenato dei bovini domestici, lungo ben
120 cm e dalle proporzioni perfette. Oltre alle corna, viste ambedue di lato,
proiettate in avanti e col profilo chiuso, sono stati infatti riprodotti
dettagliatamente le narici, la bocca, l’occhio, le pieghe del collo.

Il
Prof. Paolo Graziosi studiò il sito durante la prima campagna di scavi, ponendo
le incisioni rupestri nell’ambito stilistico mediterraneo, in cui è evidente
la riproduzione di temi geometrici ed astratti, e rinvenibili nell’arte
paleolitica franco-cantabrica e affermò che “si ha l’impressione che
almeno parte di questi segni preesistessero all’esecuzione del toro e che
qualcuno sia stato addirittura utilizzato per la realizzazione delle grandi
pieghe”. Analizzando in particolare la figura del bovide più grande, così
perfetta nel disegno e nella prospettiva, e anche nella scelta della superficie
rupestre che garantisce tridimensionalità, affermò di essere di fronte a “la
più maestosa e felice espressione del verismo paleolitico mediterraneo, dovuto
ad un Michelangelo dell’epoca”. Tra le zampe posteriori dell’uro vi è
incisa, molto più sottilmente, quasi abbozzata, un’altra immagine di bovino
di cui è eseguita soltanto la testa, il petto e una parte della schiena. Anche
questo è rappresentato con le corna proiettate in avanti, divise in due solo
nella seconda metà, invece nella prima parte è presente un solo corno,
ripetendo un modulo tipico dell’arte paleolitica mediterranea. Sulla parte
inferiore dello stesso masso è incisa infine una terza piccola testa di
toro.
A
fianco del masso col toro si ritrova una stalagmite a forma di equide senza
testa. Graziosi sostenne inoltre che “il rinvenimento delle sepolture
nell’area intorno e tra i due grandi massi incisi farebbe pensare a due stele
o una stele (quella col toro) delimitanti un’area funebre”; infatti la
ricorrenza di resti di uro insieme agli scheletri rimanda a funzioni di offerte
funerarie, elementi che forniscono informazioni sull’universo simbolico, le
pratiche rituali e funerarie paleolitiche. Il Prof. Fabio Martini, che
succedette a Graziosi nelle successive e più recenti campagne di scavi, assegna
a questa immagine una valenza totemica di grande suggestione e conferisce a
tutto l’ambiente un indiscutibile legame con il sacro. Infatti, considerando
la posizione del masso all’ingresso della grotta, sembra proprio che
l’immagine del toro sia stata posta come totem della collettività,
richiamandone l’importanza nei riti propiziatori per la caccia. Importante
notare poi che lo stile della Grotta del Romito richiama quello della grotta
Levanzo, dell’Addaura, di Niscemi e dei Puntali. Oltre che ai dati
propriamente ambientali che danno la possibilità di ricostruire la fauna, la
flora e il paesaggio del Paleolitico, il sito della Grotta del Romito è
importantissima anche per i reperti relativi ad oggetti di vita quotidiana, alla
produzione artistica e ai riti funerari e alle sepolture.

A
proposito degli oggetti (industria litica e ossea), si segnala il ritrovamento,
già dai primi scavi degli anni ’60, di numerosissime punte cosiddette a dorso
profondo, certamente funzionali all’attività di caccia, e di due zagaglie in
osso, manufatti con una punta acuminata, anche in questo caso destinate alla
caccia, con decorazioni geometriche. Queste sono state ritrovate da Graziosi già
nei primi scavi e rappresentano delle testimonianze importanti della cosiddetta
arte mobiliare del Paleolitico; sono state ottenute da diafisi di metatarso di
uro e dunque, vista la corrispondenza con le incisioni rupestri, si è portati a
pensare che il bovide abbia rappresentato un grande significato, probabilmente
totemico. Entrambe sono frammentarie alla base e hanno dimensioni leggermente
diverse, comunque intorno ai 13 cm, e hanno una forma ogivale.
Nella
prima il motivo geometrico è formato da una figura rettangolare che ne
incornicia un’altra, entrambe circondate da linee parallele, rette e zig-zag e
segni a dente di lupo ai bordi dell’oggetto. Nella seconda la decorazione è
formata da piccole tacche parallele orizzontali sui bordi e altre linee più
lunghe, sempre orizzontali e raggruppate, il cui schema compositivo di
decorazione trova analogie con altri esempi europei. A causa della
frammentazione degli oggetti non è possibile cogliere la decorazione completa,
anche se la parte della punta rimane non decorata. Le analisi col microscopio
elettronico a scansione hanno evidenziato che i tratti incisi, realizzati con
uno strumento in pietra, presentano una buona regolarità, la punta è stata
fabbricata tramite raschiatura sempre con uno strumento in pietra a cui è
seguito sfregamento con un materiale morbido, forse pelle. Il dato più
interessante è che sugli oggetti non sono presenti tracce di usura, a
dimostrazione che non furono mai utilizzati per la caccia, e dunque è
verosimile ipotizzare che fossero oggetti simbolici e/o di culto, connessi ai
riti funerari; ipotesi avvalorata dalla presenza di tracce di ocra rossa nelle
incisioni lineari della zagaglia n.2. Inoltre ricordiamo che le linee che
salgono e scendono, gli zig-zag, ricordano simbolicamente le increspature
dell’acqua in superficie e quindi possono essere un simbolo di movimento,
ricollegandosi all’energia di ascesa e discesa, di calma e di forza, forza
vitale, rinascita.

Antiquarium
della Grotta del Romito
L'antiquarium
della Grotta del Romito è il Museo Paleontologico di Papasidero e si trova in
località Nuppolara. Espone decine di reperti litici, tra i quali: raschiatori,
punte e lame di pregevole fattura, zagaglie in osso, reperti ossei della macro
fauna ritrovata nel giacimento, calchi delle tombe preistoriche e decine di
pannelli illustrativi.
Nel
museo sono presenti i calchi di due tombe e una galleria fotografica di altre
tombe. Il primo è il calco della tomba denominata Romito 8, in cui è presente
un individuo morto all'età di circa 20 anni, con numerosi difetti fisici; il
secondo, denominato Romito 7, propone un individuo morto all'età di 18 anni
circa, vissuto circa 12.000 anni fa.
Santuario
della Madonna di Costantinopoli

Il
Santuario della Madonna di Costantinopoli fu costruito, nel XVII secolo, al di
sotto di una grande rupe posta sul Fiume Lao. E' situato a breve distanza dal
centro storico, sulla sponda opposta del fiume; vi si accede mediante un
sentiero a gradoni lastricati e un ponte ad arco. L'attuale ponte fu costruito
nel 1904 su un preesistente ponte medievale, tutt'ora esistente, detto della
Rognosa.
L'attuale
chiesa-santuario fu edificata su un antico edificio di culto medievale,
utilizzato come lazzaretto durante la peste del '600: da questo deriva il
termine "della rognosa" del ponte.
Nello
stesso periodo Santa Maria di Costantinopoli fu elevata a patrona di Papasidero
e la chiesa divenne meta di pellegrini della Calabria e della vicina Basilicata.
L'edificio originale è visibile in un dipinto presente all'interno della
Cappella di Santa Sofia, ai piedi di Santa Maria di Costantinopoli.
All'interno
del santuario, sulla roccia retrostante l'altare, è presente un affresco del
XVII secolo; inoltre custodisce una statua di Santa Maria di Costantinopoli.
La
chiesa fu elevata a Santuario Diocesano il 15 marzo 2002 da Monsignor Domenico
Crusco.
Chiesa
di San Costantino

La
Chiesa di San Costantino, eretta tra il XV e il XVIII secolo, è la Matrice di
Papasidero.
E'
una struttura a croce latina a navata unica, con transetto e abside
pentagonale.
La
volta absidale è impreziosita con volute, fiori e cartelle, realizzati da
Michele Forte di Salerno nel 1883.
Di
interesse custodisce: due acquasantiere; un fonte battesimale del '300
realizzato in granito; una tela di scuola napoletana dei Santi Domenico e
Francesco
Cappella
di Santa Sofia
Nel
cuore dell'antico borgo di Papasidero, immersa nelle testimonianze di un passato
ricco di storia e spiritualità, sorge la Cappella di Santa Sofia, un tesoro
nascosto ancora tutto da scoprire. Questo luogo sacro racchiude secoli di
devozione, arte e cultura, intrecciando le vicende del monachesimo italo-greco
con le tradizioni locali.
Edificata
tra l'XI e il XIII secolo, la cappella conserva un eccezionale ciclo di
affreschi, realizzati in epoche diverse, che raccontano la fede e le speranze di
una comunità segnata da eventi epocali come epidemie e carestie. La presenza di
figure sacre insieme alla committenza di nobili locali svela il legame profondo
tra l'arte religiosa e il contesto sociale dell'epoca. Dall'analisi storica e
iconografica di questi affreschi emerge un quadro complesso e affascinante che
testimonia la continuità del culto bizantino e la resilienza di una comunità
che, nei secoli, ha saputo conservare e tramandare la propria identità.

Intorno
al IX-X secolo l'area della media e bassa valle del Lao costituì una zona
neutra oscillante tra i territori longobardi del Principato di Salerno e i
domini bizantini del resto della Calabria. Ciò incoraggiò notevolmente il
fenomeno dell'immigrazione monastica basiliana nel territorio dove sorsero
numerosi cenobi e chiesette. Il Mercurion, che in Calabria abbracciava il
territorio compreso fra Laino, Orsomarso e Scalea, divenne una sorta di zona
franca in cui si sviluppò un'intensa vita monastica. La presenza del
monachesimo basiliano fu determinante anche per Papasidero, come testimonia non
solo la fondazione originaria della cappella bizantina di Santa Sofia situata
nel cuore del centro storico, ma anche l'origine stessa del suo nome derivato da
"Pàpas Isidoros", igumeno di uno dei monasteri basiliani sorti nella
zona (forse Santo Stefano oppure San Michele Arcangelo la cui ubicazione è
ipotizzabile nella località corrispondente all'attuale Massa). Con molta
probabilità il centro storico di Papasidero si è sviluppato intorno allo
sperone di roccia sul quale in origine sorgeva la rocca longobarda, nata come
presidio contro le incursioni saracene. Ma più che i Longobardi, furono i
nuclei monastici a coniugare egregiamente il loro inserimento nel nuovo
territorio con lo sviluppo del tessuto economico, sociale e demografico.
A
partire dall'XI secolo, il borgo si sviluppò, specie sul fianco ovest,
ampliandosi così come lo vediamo ora. In epoca normanno-sveva, tra XI e XIII
secolo, la rocca fu trasformata in castello assumendo le forme che ancora oggi
conserva, sebbene il suo stato di conservazione sia stato seriamente compromesso
dal sisma del 1982. La signoria feudale di Papasidero ebbe origine proprio nel
periodo normanno, quando Roberto il Guiscardo concesse numerosi possedimenti in
questa zona della Calabria ad una famiglia di sua fiducia. Successivamente e in
circostanze non note, Papasidero venne compresa nella contea di Lauria
appartenente ai Sanseverino, e da questi nel 1354 venne concessa ad Andrea della
Castelluccia, appartenente alla famiglia Alitto. Il dominio della famiglia
Alitto durò fino al 1722, anno in cui l’ultimo barone della casata morì
senza eredi. Il feudo fu dedotto dal Sacro Regio Consiglio al quale rimase fino
al 1724, quando fu acquistato dalla famiglia Spinelli di Scalea che lo detenne
fino all'eversione della feudalità nel 1806.

La
Cappella di Santa Sofia, incastonata nelle case e nei vicoli del centro storico
di Papasidero, è una piccola struttura di origine basiliana dell’epoca in cui
il monachesimo si organizzò in comunità organizzate intorno ad una chiesa
(quando, dopo le incursioni arabe, si spopolarono le laure e le grotte della
zona). Essa è ad aula quadrata con pianta leggermente trapezoidale di circa 5
metri quadrati, caratterizzata da un oculo ellittico che ne orna la facciata. Il
piccolo locale è arredato da un altare settecentesco in tufo dove sono
raffigurati ai lati dei putti (spezzati dalla struttura e poggiati per terra) e
delle decorazioni floreali, mentre al centro è presente la Madonna di
Costantinopoli. Originariamente la volta era a capriate come rivelato dai lavori
di restauro effettuati nel 1983 durante i quali sono stati operati interventi
conservativi sull'edificio e sugli affreschi interni del XVI e XVII secolo che
riprendono il tema sacro dei santi venerati dai monaci presenti nella zona
cinque secoli primi, ma che sono rimasti nella memoria collettiva della gente di
Papasidero.
Dal
1504 fu sede del Monte di Pietà fondato dal papasiderese Franceschino
Forestiero, esponente di una famiglia patrizia locale, con la finalità di
distribuire gratuitamente grano ai poveri. In quella circostanza, egli
commissionò un primo ciclo di affreschi raffiguranti, sulla parete centrale,
“La Deposizione di Gesù dalla Croce” con le Sante Apollonia, Caterina e
Lucia, e sulla parete sinistra i Santi Pietro e Paolo. Il polittico incorniciato
con fasce decorate a motivo di quadrifoglio ha al centro la raffigurazione della
Pietà (cm. 165 x 308) dove Maria, dolente soprattutto per la posizione delle
labbra, e la Maddalena hanno sulle loro ginocchia il corpo del Cristo morto.
Alle loro spalle è posta la croce con tutti gli strumenti di tortura usati per
la crocifissione. Alla destra della scena a figura intera sono raffigurate le
Sante Caterina con la ruota e Lucia con il vassoio con gli occhi e a sinistra
Santa Apollonia che regge un calice e un giglio. Santa Caterina d'Alessandria a
destra è coperta su un avambraccio e alla vita da una macchia dovuta al
restauro, mentre Santa Lucia è ancora intatta. Il volto, il petto e il braccio
destro del Cristo sono abrasi. E' visibile la scritta "S. Lucia" ai
piedi della Santa e “INRI” sulla croce. Ai lati della scena principale sono
raffigurati in piccolo in posizione orante i committenti Franceschino Forestieri
e consorte. Gli altri protagonisti, a figura intera, del primo ciclo di
affreschi sono San Paolo, nella cui mano sinistra campeggia la spada tagliente e
San Pietro, che sorregge nella destra una grossa chiave. Entrambi sorreggono un
libro con la mano libera dai loro attributi. Ai piedi di San Pietro la copertura
di calcina, fusasi con l'umido della parete, ha compromesso il colore. Alla
morte di Franceschino Forestieri, l’opera caritativa fu proseguita da un
familiare omonimo, che nel 1569 fece aggiungere sulla parete destra della
cappella le immagini incorniciate a figura intera di San Rocco che indossa gli
indumenti da pellegrino con un bastone nella mano destra, avente i segni delle
piaghe sull’inguine che mostra spostando con la mano sinistra il suo abito, e
San Biagio vestito da vescovo con una mitra riccamente decorata sulla testa, un
lungo bastone pastorale nella mano sinistra e un pettine per la lana (cardatore)
in quella destra. Entrambi erano taumaturghi invocati contro la peste, malattia
che afflisse la comunità in più occasioni. San Biagio era anche il protettore
proprio dei cardatori della lana, mestiere che doveva essere particolarmente
diffuso a Papasidero. A quell'epoca, San Rocco, il cui culto si diffuse nel
mezzogiorno proprio dal XVI secolo, divenne il compatrono del paese
(solennemente festeggiato ogni anno il 16 agosto), in sostituzione di San
Sebastiano. Sono visibili le scritte di "S. Biagio" e “S.Rocco”
nei riquadri dei rispettivi santi e la descrizione della commissione.

Nel
1593 il vescovo di Cassano convalidò l’istituzione, in una sede contigua alla
cappella ma con altre finalità, del nuovo Monte di Pietà, chiamato Monte
Frumentario. Dopo la peste del 1656, si devono a Florena Mastrota, anch'ella
appartenente ad una nota casata papasiderese, gli affreschi della Vergine di
Costantinopoli in trono sulla parete destra della cappella e sulla sinistra di
Santa Sofia, a cui fu dedicata successivamente la struttura sacra. Si tratta di
un ciclo iconografico di particolare complessità, che tramanda i drammi vissuti
dalla comunità, connessi a crisi epidemiche, carestie e malattie che
dimezzarono la popolazione nel XVII secolo, e rinvia ai lasciti del monachesimo
italo-greco e alla sua fulgida stagione nel Mercurion tra l'VIII e il XIII
secolo. La nobildonna papasiderese commissionò questi due affreschi come
attesta l'iscrizione "Florena Mastrota fecit fieri" sotto Santa Sofia,
e il cartiglio srotolato dal Cristo, con l'iscrizione latina: “Descendi a
Patre et veni in Mariam Virginem Dominum et Intercessorem Florena Mastrota causa
voti solvit votum publicum” ("Discesi dal Padre e venni in Maria Vergine
Signora ed Interceditrice. Florena Mastrota a causa di un voto sciolse un voto
pubblico"). L'epigrafe si riferisce all'assemblea popolare del 25 maggio
1665, passata la peste, in cui la Madonna di Costantinopoli fu designata patrona
del paese, mentre San Rocco fu nominato compatrono. Alla base del dipinto della
Madonna in Trono, sulla destra, è raffigurata la nobildonna inginocchiata
mentre prega, giusto di fianco alla riproduzione di quella che doveva essere la
struttura originaria della Chiesa di Maria di Costantinopoli, a navata unica e
con un piccolo campanile.
Guardando
il dipinto murario si può notare come, probabilmente, la committente decise
solo in seguito di farsi immortalare, infatti, la porzione della sua immagine è
come incollata a posteriori. Alla peste e alla carestia si fa riferimento sia
nella raffigurazione della Santa titolare della cappella, rappresentata in abito
monacale con un crocifisso nella mano destra e in quella sinistra un paniere
contenente dei pani, simbolo dell'istituzione benefica del Monte frumentario,
invece della consueta presenza delle tre figlie attribuita dalla leggenda, Fede,
Speranza e Carità, sia dalla mano del Bambino seduto sulle ginocchia della
Madre che protegge il seno della Madonna, simbolo dell'allattamento e di vita
per il neonato. Nella realizzazione di questi due ultimi affreschi è stata
attuata un'importante operazione di recupero della presenza monastica bizantina.
Infatti, con l'immagine di Santa Sofia si è inteso ricordare l'originaria
intestataria della cappella alla “Divina Sapienza”, molto idolatrata nei
luoghi originari dei monaci che raggiunsero il Mercurion, cioè un'entità
emanata da Dio di cui si serve Lui stesso per dare ordine al cosmo, declinata al
femminile come una sorta di Madre Divina, che funge da mediatrice tra il mondo
terreno ed il Padre celeste, mentre con il dipinto della Vergine di
Costantinopoli, ricoperta da un manto arabeggiante, si è voluto riproporre
l'iconografia dell'Odigitria venerata dai padri basiliani, coniugando in unica
figura i moduli della Madonna “Basilissa”, regina in trono, di quella
“Allattante” svelata dal Bambino che ne protegge il seno e di quella
“Interceditrice” attestata dalla mano con cui in parte indica il Salvatore e
in parte lo sorregge. Alle spalle della Vergine di Costantinopoli due angeli
pregano. Purtroppo di tutti i dipinti non si conoscono gli autori, probabilmente
locali che però hanno utilizzato canoni assai vicini al gotico cortese e alla
pittura toscana del Trecento.
Castello
di Papasidero
Il
castello di Papasidero è un'antica struttura edificata sulle alture del Fiume
Lao.
Il
primo impianto fu eretto in epoca longobarda: successivamente fu dimora di
nobili Normanni e Svevi.
La
struttura originaria aveva una pianta quadrangolare con una sola torre
semicircolare.
Attualmente
si trova allo stato di rudere nella parte alta del centro storico.

Cappella
della Madonna del Carmine
La
Cappella della Madonna del Carmine è una struttura risalente al XVII-XVIII
secolo.
Si
trova a qualche chilometro di destanza dal centro storico, quasi nascosta dalla
fitta vegetazione, raggiungibile attraversando un ponte sul torrente San Nocaio.
Conserva
un affresco del 1724 della Madonna titolare a mezzo busto, con i santi Francesco
e Domenico posti ai lati.
Sentiero
del Monaco
Il
Sentiero del Monaco è un antico percorso mulattiero utilizzato dai monaci
basiliani durante l'alto medioevo per raggiungere gli abitanti di Mercuri e
Orsomarso, nel florido periodo monastico dell'Eparchia del Mercurion.
Il
sentiero, attualmente, ha inizio nei pressi del ponte della strada provinciale
che congiunge le due sponde del Fiume Lao, subito prima del centro storico di
Papasidero, per chi proviene da Santa Domenica Talao. E' un percorso molto
suggestivo immerso nella natura, in cui sono visibili i resti dell'antico
selciato.
Lungo
il percorso, ai piedi di una grande rupe, è presente una piccola edicola con un
dipinto basiliano del XI secolo raffigurante la Madonna con Bambino; continuando
lungo il sentiero si incontra un seconda edicola con un dipinto di Gesù.

Fonte:
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