Sipàn, splendore e mistero della dinastia Mochica

 

 

Quando, nel XVI secolo, gli Europei giunsero nel continente sudamericano, si trovarono faccia a faccia con popolazioni di diversa origine che erano state assorbite da uno dei più grandi imperi dell’antichità: quello incaico. I cronisti al seguito dei conquistatori patrocinati dalla Corona spagnola hanno lasciato nei resoconti ampia testimonianza dello stupore che li aveva colti dinanzi a quell’evoluta organizzazione socio-politica, dotata di un elevato livello tecnico nello sfruttamento del territorio e di un complesso sistema di pensiero religioso di carattere magico, che tentava di resistere all’imposizione del Cristianesimo.

Questi popoli, strettamente legati all’ambiente naturale in cui vivevano, adoravano il sole, i fiumi, le montagne, le lagune e il mare. Parlavano di mitiche divinità e osservavano una particolare venerazione per i loro defunti che, secondo le credenze, continuavano a esercitare un’influenza determinante sul destino dei vivi. Particolare attenzione era riservata alle spoglie mortali degli imperatori inca, che mantenevano terre e palazzi, ricevevano offerte e onori, oltre alle dimostrazioni di devozione da parte dei sudditi durante processioni che si svolgevano annualmente: era come se il potere venisse esercitato anche dopo la morte e al culto ancestrale erano quindi riservate molte risorse, anche umane.

Purtroppo, tutti i santuari e i sepolcri importanti vennero saccheggiati dai conquistadores e dai profanatori che nel corso del XX secolo hanno continuato ad alimentare il traffico illecito di reperti di scavo. Nel 1987, una squadra di archeologi ebbe la straordinaria opportunità di scavare la tomba, ancora intatta, di un governante della cultura preincaica moche.

Strutturata in un regno che fiorì a ridosso delle Ande fra il I e il VII secolo, ovvero ben dieci secoli prima che gli Inca si annettessero questa regione del Perù, la civiltà moche eresse grandi edifici piramidali in adobe (ossia in mattoni crudi) e sviluppò sofisticati metodi di lavorazione dei metalli per produrre armi, utensili e gioielli. La produzione fittile mochica, contraddistinta da un sorprendente realismo, si annovera fra le realizzazioni migliori di tutte le antiche civiltà americane.

La tomba dell’illustre defunto, che chiamarono “il Signore di Sipàn”, fu localizzata nel settore centrale di una piattaforma a gradoni in adobe, alta 12 metri, ubicata di fronte a due colossali piramidi di circa 40 metri d’altezza e più di 100 metri quadrati di base, che probabilmente costituivano il più importante luogo di culto della Valle del Lambayeque, nonché il maggior centro di potere dell’epoca. 

Quando si sgombrò la camera funeraria dai detriti terrosi che la ostruivano, ci si ritrovò al cospetto di una stupefacente inumazione reale, così maestosa da generare un fortissimo impatto sull’opinione pubblica e sul mondo accademico.

La gigantesca mole di dati storici relativi al livello di sviluppo delle genti moche e al carattere dei loro governanti risultò non meno impressionante. 

All’interno del perimetro murario del sepolcro, ampio 5 metri per 5, si trovava un sarcofago di legno che conteneva i resti ossei del personaggio principale sepolto, unitamente a uno straordinario insieme di ornamenti, acconciature, emblemi e attributi d’oro, pietre semipreziose, argento e rame dorato. Questo corredo funerario, composto dalle più squisite creazioni artistiche, realizzate mediante avanzatissime tecniche di oreficeria, costituiva la dotazione di simboli di potere del “Signore di Sipàn”, un uomo morto da 1600 anni e inumato con tutti i suoi effetti personali.

Attorno al sarcofago principale si trovavano otto scheletri, i membri più vicini dell’entourage reale, oltre ad alcuni resti di animali sacrificati e a molte offerte allestite con estrema cura per accompagnare il defunto nel viaggio verso l’eternità. Senza dubbio, questo scavo ha portato alla scoperta della tomba più ricca del Nuovo Mondo, di fondamentale importanza per lo studio delle culture americane precolombiane. Basandoci sulle testimonianze rinvenute, si doveva cercare di spiegare chi fossero stati l’egregio personaggio e i suoi accompagnatori e il significato dei suoi numerosi beni, e tentare una ricostruzione del rituale funerario che aveva consentito la conservazione dell’inumazione fino al momento della scoperta.

L’investigazione vera e propria della tomba reale fu preceduta dalla registrazione di un piccolo vano laterale colmo di offerte, che si apre nella parte superiore e all’interno del quale furono rinvenuti 1137 esemplari di vasellame fittile contenenti resti di cibo, alcune corone di rame, resti di lama sacrificati e lo scheletro di un uomo, anch’egli un’offerta nella cerimonia successiva alla chiusura della tomba principale.

Prima di penetrare nella camera funeraria, il cui tetto era originariamente costituito da grosse travi di legno ormai ridotte in polvere, si trovò lo scheletro di un soldato che cingeva un elmo di rame e portava uno scudo sull’avambraccio sinistro. All’uomo erano stati amputati i piedi, simbolo del vincolo a rimanere eternamente a guardia della tomba del suo monarca. In posizione leggermente elevata rispetto al Signore, in una nicchia della parete, si trovava lo scheletro di un altro uomo, seduto in attitudine vigile. Nello spazio centrale della camera, il sarcofago di legno di 2,20 metri per 1,25, fabbricato con assi tenute assieme da fasce metalliche, conteneva l’involto funebre con le spoglie del “Signore di Sipàn” e tutti i vari paramenti, vestiti, ornamenti ed emblemi che egli aveva utilizzato in vita in occasione delle diverse cerimonie presiedute.  

Essendo questo il più sontuoso corredo funerario conosciuto fino ad allora ed essendo dotato dei più importanti simboli di rango e comando identificati nelle rappresentazioni artistiche di questa cultura, veniva così avvalorata l’ipotesi che i Moche concepissero l’esistenza di un altro mondo nel quale i loro governanti continuavano a esercitare le stesse funzioni.

Gli attributi di potere non erano ereditari: ogni governante doveva farsi confezionare i suoi ornamenti ed emblemi. Prima della scoperta, gli studiosi avevano identificato nelle arti, quali la ceramica, la tessitura e la pittura parietale, varie scene in cui apparivano esseri mitologici o personaggi di rango. In esse il protagonista ricorrente, cioè colui che riceve offerte, viene onorato o presiede i rituali, indossa ornamenti o emblemi somiglianti a quelli che si erano trovati nella tomba: tali rappresentazioni cessarono quindi di essere considerate a tema mitologico. Non vi erano quindi più dubbi nel ritenere di trovarsi al cospetto dell’uomo più importante della sua epoca, che occupava il vertice del potere militare, religioso e civile.

Non finisce di sorprendere la relazione di ogni insieme di attributi o di paramenti con un determinato rituale, una sfilata o una cerimonia rappresentati nell’iconografia, così come la simbologia degli emblemi o degli ornamenti associati alle divinità, indice della condizione di rappresentante del potere divino sulla terra, propria del Signore moche.

Fra gli oggetti rinvenuti nel sarcofago se ne annoverano alcuni di uso prettamente funerario, come ad esempio l’impressionante rappresentazione aurea di due occhi, una sorta di copertura per i denti, un naso con simboli religiosi e un scoprimento che, formando una specie di maschera funeraria, sarebbero serviti a proteggere e sostituire gli organi di senso del defunto. In una trasfigurazione magica il Signore, al momento della morte, assumeva simbolicamente un volto nuovo, d’oro, incorruttibile, divino ed eterno.

Il cranio dello scheletro posava un grosso piatto aureo e il volto originariamente era stato completamente colorato con il cinabro, l’intenso pigmento rosso utilizzato nei cerimoniali più importanti. Ai lati della testa erano adagiate tre paia di orejeras in oro e turchese. Questo tipo di ornamento, indossato dagli uomini di rango in un foro praticato nei lobi auricolari, vanta esemplari che possono essere inclusi fra le più splendide creazioni dell’oreficeria sudamericana precolombiana.  

Il primo paio è contraddistinto da una scultura in miniatura che sembra rappresentare il sovrano stesso con le sue armi e i suoi attributi da combattimento, una corona semilunare, un collare di teste di gufo e dei sonagli pendenti dalla cintura. Su entrambi i lati dell’effigie è rappresentato un guerriero di profilo realizzato in mosaico di turchese. Anche gli ornamenti rinvenuti nella tomba corrispondono a quelli rappresentati in questa decorazione, analogamente agli scheletri dei guerrieri che giacevano ai lati del Signore. 

Un secondo paio di orejeras illustra il “papero a becco di cucchiaio” in una deliziosa combinazione di turchese e filigrana; l’animale era legato ai riti della purificazione, della fertilità e al culto dell’acqua. Il terzo paio, infine, mostra un ungulato da preda in movimento al centro di un anello. Questo animale veniva cacciato dai nobili una volta all’anno in pompose cerimonie che costituivano parte integrante di un rituale vincolato al culto dei morti e degli antenati.

Le tre paia di monili hanno i loro corrispondenti in tre ornamenti per il capo o paramenti principali e tre collari, fatto che indica il prodursi di tre eventi specifici o cerimonie che il Signore probabilmente presiedeva innanzi alla sua gente. I rimanenti abiti o paramenti rituali venivano indossati in altre occasioni.

L’acconciatura più impressionante è costituita da un diadema semilunare in oro di 62 centimetri di ampiezza, tipico attributo dei personaggi che nell’iconografia vengono onorati e ricevono offerte.

Un altro ornamento, questa volta in rame dorato, è in foggia di figura umana acefala che, braccia levate e mani aperte, reca nel centro l’immagine di un personaggio con i pugni serrati, un cappello e varie decorazioni. L’oggetto può anche far pensare a un simbolico sdoppiamento sciamanico o a una diade mitica. Il terzo ornamento è una corona semilunare di minori dimensioni rispetto alla prima, forse utilizzata per spostamenti rapidi. 

Il collare maggiormente degno di nota, invece, si compone di venti parti a forma di frutto di arachide, metà delle quali in oro disposte a destra e l’altra metà in argento, disposte sulla sinistra; questa dualità o bipartizione si riscontra anche in altri oggetti rituali rinvenuti. Tale frutto, per la prima volta rappresentato in un ornamento, deve aver avuto una relazione con i miti della rigenerazione relativi ai temi della vita e della morte, poiché i frutti dell’arachide fioriscono in superficie e maturano sottoterra.

Gli altri due collari sono composti rispettivamente da sedici dischi d’oro, il primo, e da settantun vaghi di metallo di misura in scala via via più ridotta dal centro alle estremità, il secondo. Sulla mano destra del Signore era posta una sorta di scettro-coltello in oro e argento, evidentemente il simbolo più importante del suo grado di comando. L’oggetto si compone di una lama in argento e un manico, sempre in argento, terminante con un’impugnatura in oro a forma di piramide. Quest’ultima parte è splendidamente decorata a rilievo con la raffigurazione di un capo guerriero dal ricco abbigliamento che infierisce su un prigioniero: non è altro che la riproduzione di scene di cattura, supplizio e sacrificio di prigionieri da parte dell’élite guerriera mochica. Anche il manico d’argento è decorato con rappresentazioni di armi e di emblemi militari. La lama, affilata all’estremità, rivela la sua funzione di coltello sacrificale.

Nella mano sinistra il Signore recava un altro scettro, meno elaborato e più piccolo, scolpito con una scena a identico soggetto. Questa disposizione simbolica della dualità è corroborata anche dalla presenza di due lingotti, uno d’oro e l’altro d’argento, posti rispettivamente sulla mano destra e sulla sinistra, così come da due coltelli rinvenuti sul costato del defunto, forgiati negli stessi materiali. Risulta chiaro, quindi, che gli uomini di questa cultura concepivano il mondo come costituito da due metà opposte e complementari allo stesso tempo: il giorno e la notte, la vita e la morte, il sole e la luna, il levante e il ponente, il positivo e il negativo. Nell’equilibrio di queste forze risiedeva l’incedere del mondo e gli ornamenti rituali del Signore indicano che, essendo egli il rappresentante del potere divino in terra, era sua responsabilità mantenere questo equilibrio, simboleggiato dalla copresenza dell’oro e dell’argento.

Un altro dei più spettacolari emblemi rinvenuti nella tomba del Signore è il cosiddetto “protettore per le cosce”, un pezzo in oro di 45 centimetri di altezza e di circa un chilogrammo di peso, a forma di ascia dal profilo semilunare, decorato nella parte superiore con la rappresentazione di Ai-Apaec, “il Decapitatore”.  

Questa divinità, la più importante dell’epoca, regge una testa umana mozza in una mano e un coltello nell’altra, a simboleggiare il potere sulla vita degli uomini. Tale ornamento, che veniva probabilmente portato appeso alla cintura, rappresentava forse la coda degli uccelli sacri dai quali si riteneva discendessero la maggior parte dei re nell’antico Perù.

Un secondo “cosciale”, in argento, reitera la duplicità simbolica. Due sonagli in oro, con la stessa divinità, concorrono a formare l’insieme degli emblemi.

In bocca al Signore era collocato un piccolo lingotto d’oro e attorno al fardo giacevano vari gusci di spondylus, un crostaceo proveniente dalle acque dell’Ecuador, molto apprezzato quale offerta votiva. All’interno del corredo funerario si distinguono ben dieci pettorali composti da vari fili di piccoli vaghi in conchiglia. Alcuni sono bianchi, altri rossi e altri ancora formati da perline di entrambi i colori, assemblate in modo da realizzare disegni complessi.

Fra i beni del Signore si trovano poi paramenti di carattere militare, come un copricapo di rame con la raffigurazione di una testa di volpe, così come insegne e armi, quali punte di lancia, dardi e una daga. L’indumento sacro principale ancora conservato è un’ampia tunica di cotone, ricoperta di placchette di rame dorato.

Nella tomba furono rinvenuti, per la prima volta, emblemi in metallo a forma di stendardo o icone metalliche con immagini religiose o forse araldiche, che rappresentano una divinità ricorrente a braccia alzate: atti al trasporto, dovevano essere utilizzati durante processioni e cerimonie.

Del corredo funerario facevano probabilmente parte altri ornamenti in materiale organico ormai scomparsi, come mantelli, tessuti o copricapi di piume, la cui esistenza è testimoniata dai supporti metallici rimasti.

L’insieme di ornamenti, emblemi, paramenti e abbigliamento del defunto testimonia senza dubbio l’elevato livello di sviluppo raggiunto dagli artigiani e dagli orafi dell’epoca, nonché la possibilità di accedere a prodotti esotici originari di luoghi distanti dal regno.

Sacerdote, guerriero e governante, il Signore di Sipàn occupava certo il vertice della piramide sociale e dovette essere inumato con i più grandi onori. Le spoglie degli accompagnatori che lo circondavano, giacevano in sarcofagi di canna: sul lato destro si vedevano le ossa di un capo militare coperte di armi, copricapi e pettorali di rame; a sinistra, orientato in senso opposto, un altro uomo adulto fungeva da portastendardo o cerimoniere. Accanto agli arti inferiori di quest’ultimo si trovavano i resti di un cane, il fedele segugio del Signore nelle cacce rituali che, secondo gli antichi miti, avrebbe guidato il suo padrone nel lungo viaggio verso il mondo dei morti.

Sui lati opposti, al capezzale e ai piedi del Signore, erano state sepolte tre giovani donne non ancora ventenni al momento di essere sacrificate con gli altri accompagnatori. Fra questi figura anche un bambino, collocato in un angolo, la cui presenza è forse vincolata a credenze della rigenerazione ciclica. Infine, vi erano anche i resti ossei di due lama, i primi a essere sacrificati durante la cerimonia funebre.

Lungo tre lati della camera sepolcrale, disposti in cinque nicchie, si trovavano 212 vasetti fittili antropomorfi riproducenti prigionieri, guerrieri o personaggi oranti: l’accurata disposizione di queste effigie dà origine a una scenografia funebre, che suggerisce una sorta di trasposizione simbolica di personaggi reali a quelli di argilla che contenevano anche offerte alimentari.

All’interno dell’area sepolcrale, in quanto abitazione per  l‘eternità, sono riprodotti tutto l’ordine e la simbologia del mondo, così come sono rappresentate le imprese e la maestà del signore.

Il proseguimento delle investigazioni archeologiche all’interno della piattaforma ha consentito di scoprire ben dodici tombe appartenenti a epoche e gerarchie differenti. Ci troviamo quindi dinnanzi a un mausoleo, all’interno del quale è sepolta la più alta nobiltà con la sua corte: le tombe riflettono fedelmente il ruolo e la collocazione sociale di ogni defunto. Due di esse sono reali, una è di un sacerdote, altre due di militari di alto grado, quattro di guerrieri, mentre le restanti tre tombe riguardano personaggi diversi.

La tomba del sacerdote è costituita da una camera simile a quella del Signore e gli accompagnatori in questo caso sono cinque: due donne, un uomo, un bambino con una cane e il guardiano della sepoltura. Il corredo funerario, di gran lunga meno sontuoso rispetto a quello del Signore, comprende ornamenti e paramenti in stretta relazione ad attività di carattere religioso, tra i quali il calice votivo dei sacrifici, posto nella mano destra, due collari di rame formati da teste antropomorfe rappresentanti la vita e la morte e una corona in foggia di gufo con le ali spiegate. Questo sacerdote, che gestiva il culto incarnando il mitico uomo-uccello, occupava il secondo posto nell’élite moche.

Per quanto concerne la terza tomba scavata, che si trova in fondo alla costruzione più vecchia della piattaforma, si tratta di una semplice fossa di 3 metri per 2, all’interno della quale fu rinvenuto un fardo funerario avvolto originariamente in coperte di cotone. Come nel caso del primo Signore scoperto, il corpo del defunto si trovava circondato da tutte le sue proprietà, i suoi ornamenti, emblemi e paramenti, la cui varietà e ricchezza e le cui caratteristiche indicavano l’appartenenza a un rango simile a quello di colui che era stato il suo successore nel volgere di tre o quattro generazioni.

Molti degli ornamenti ed emblemi di comando risultano analoghi e riflettono un ruolo affine dei due defunti, mentre altri segnalano importanti mutamenti culturali. Si ritrovano per esempio tre collari in oro e tre in argento. Il più stupefacente di questi (depositato sul petto nel primo strato di tessuto che avvolgeva il defunto) è un insieme di dieci parti d’oro, vere opere d’arte, fabbricate in foggia di ragno, ognuna delle quali è ottenuta mediante l’assemblaggio di vari pezzi. Il corpo dell’animale, costituito da un volto umano, è posto al centro di una ragnatela. Il verso dei monili, concavo, presenta un’enigmatica decorazione a rilievo raffigurante tre serpenti a testa di uccello alternati a tre fasce che ruotano in senso orario. Si tratta probabilmente della rappresentazione della divinità del vento e dell’acqua in movimento, il principio della vita.

Altri due collari, formati anch’essi da dieci unità ciascuno, erano stati deposti presso il corpo. Uno di essi rappresenta realistiche protomi di puma o giaguaro dall’aspetto feroce con zanne  in conchiglia. Il verso, decorato in modo analogo ai precedenti, mostra un motivo elicoidale, ma con due sole unità per elemento e non tre. Curiosamente, in entrambi i casi i disegni realistici sarebbero stati visibili per gli osservatori, mentre quelli simbolici sarebbero stati noti solo all’utilizzatore del monile.

Il terzo collare, infine, si compone di rappresentazioni naturalistiche di un volto avvizzito e magro di anziano.

La controparte è costituita da tre collari d’argento formati da teste antropomorfe: il primo raffigura un uomo giovane, il secondo un personaggio dalla dentatura pronunciata e il terzo una divinità antropomorfa con zanne e occhi felini.

Originalmente il vecchio Signore aveva il volto coperto con una maschera funeraria di rame dorato, di grandezza naturale, mancante di un occhio e con cinque placchette a forma di protome di gufo appese all’estremità inferiore. Sul petto un insieme di pezzi di rame dorato dava origine ad una serie di pettorali culminante in un complesso di otto lamine a forma di tentacolo di un mitico polipo, animale messo forse in relazione con il viaggio dell’anima in fondo al mare.  

Tra gli emblemi e le immagini di culto più affascinanti di questo corredo, fu rinvenuto la raffigurazione in rame dorato di un essere mitico con il corpo umano e il volto e le fauci da felino: si trattava probabilmente di una delle divinità più importanti.

Il volto feroce, dotato di denti in conchiglia, reca in fronte e in testa tre serpenti bicefali: il primo con teste di pesce, il secondo con teste di uccello e il terzo, il grande serpente felinico associato alla Via Lattea e al cielo, con protomi feline. Si tratta dell’incarnazione di mare, terra e cielo, le tre istanze dell’universo moche su cui regnava questo dio.

Un’altra divinità di misura e funzione analoga raffigura un uomo-granchio, il dio del mare che viene spesso rappresentato mentre ingaggia una lotta mitica con il dio felino.

Fra gli ulteriori emblemi rinvenuti si hanno stendardi con divinità a braccia aperte, somiglianti a quelli incontrati nella prima tomba. Nell’insieme dei beni appartenuti a questo Signore si annoverano ben dieci sonagli d’oro con l’immagine di Ai-Apaec, dieci simili, ma d’argento, altri ancora, più semplici, in rame argentato e un protettore per cosce aureo, oltre ad alcuni piccoli “cosciali” in argento e dieci narigueras realizzate combinando i due metalli nobili in un compendio di squisita oreficeria e disegni simbolici.

Fra di esse si trova senza dubbio il più bell’ornamento del dignitario. Una scultura in miniatura in oro e argento rappresentante un sovrano con le sue armi da combattimento, una tunica di minuscoli frammenti di turchese che ricoprono il corpo e un’impressionante corona a forma di gufo con le ali sovradimensionate e aperte, le cui finte piume, se mosse, vibrano. Questo meraviglioso ornamento copriva forse parte del volto del Signore in particolari occasioni e alla sua morte. Due paia di orejeras circolari, uno in oro e uno in argento, con piccolissimi dischetti pendenti applicati alla superficie del disco, completano il corredo.  

Durante il rito funebre, erano stati collocati sul petto e sulle braccia ben quattro pettorali composti da frammenti lavorati di conchiglia e lumaca, raffiguranti triangoli con sfere a guisa di immagini radianti, pesci o disegni geometrici.

Il più affascinante è un capolavoro di artigianato che mostra una serie di pesci-gatto, un animale legato alla fertilità che porta l’acqua dei fiumi andini al deserto. Uno scettro-coltello in oro e un altro in argento costituiscono due ulteriori emblemi di comando, così come indumenti di carattere militare e armi.

Sul lato destro del fardo vi erano dieci lance metalliche, mentre altre armi calpestate intenzionalmente erano collocate forse come simbolo di trofei di guerra.

Attorno all’involto funerario erano stati messi 26 vasetti con resti di cibo e bevande. Questo tipo di offerta votiva raffigura personaggi, cani o gufi, ovvero probabilmente i sudditi e gli animali relativi alla notte e al viaggio nel mondo dei morti.

Una giovane di 16 anni e un lama erano stati sacrificati e posti appena al disopra dell’altezza della testa del defunto: erano gli unici accompagnatori di questo vecchio dignitario che nella sua epoca, probabilmente, reggeva il potere militare e religioso, separati in seguito in ruoli e funzioni distinti.

Le tombe reali scoperte a Sipàn, concepite come eterne dimore degli uomini che reggevano una società complessa e gerarchizzata, comunicano al mondo di oggi tutto il senso di mistero e magnificenza, il concetto religioso e la sapienza delle antiche culture precolombiane.

  
Collegamenti:
Siti culturali UNESCO - Spagna - Francia
  
Fonte:
Dimore eterne - Alberto Siliotti