Complesso dell’Angkor Vat

 

La Cambogia ospita le vestigia del più grande e affascinante impero dell’Indocina, quello dei Khmer, fiorente fra il IX e il XIV secolo, che fu profondamente influenzato dalla cultura indiana, diffusa già nei primi secoli dell’era cristiana ad opera dei brahmani, appartenenti alla casta sacerdotale indù, giunti in Indocina al seguito dei commercianti e invitati presso le corti locali per le loro conoscenze esoteriche.

Fu secondo le regole dell’architettura tradizionale indù che i sovrani khmer fecero edificare i loro monumenti, espressione simbolica di profondi contenuti cosmici e metafisici. I numerosissimi templi rimasti sul suolo cambogiano, con particolare concentrazione nella zona di Siemrèap, testimoniano un fertile sincretismo di elementi autoctoni ed importati: il locale culto khmer degli antenati e della montagna sacra si fuse con l’ideale indù del monarca universale e con i miti del Meru, il massiccio cosmico, centro del mondo e suo asse ordinatore.

Un grandioso rito brahmanico celebrato su sacro monte di Phnom Kulen sancì nel IX secolo per la prima volta il culto del devaraja, il “dio-re”. Narra il mito secondo il quale Shiva, una delle divinità indù più importanti, apparve al re Jayavarman II, investendolo della funzione di protettore dell’universo e di rappresentante del dio sulla terra. Quale evidente emblema di tale potere Shiva gli conferì il linga, la pietra fallica suo simbolo, e da quel momento il sacro oggetto divenne il tabernacolo dell’essenza regale del devaraja. Pertanto, ogni sovrano edificava durante il regno un tempio personale che ospitava il linga, segno della sua regalità e della sua essenza divina, oppure l’immagine della divinità con la quale il re si identificava e, alla sua morte, lo stesso monumento ne diventava il mausoleo. I più potenti devaraja fecero erigere templi funebri anche per i loro parenti, in evidente aderenza al locale culto degli antenati, ove il luogo sacro fungeva da raccordo fra le generazioni.

La maggioranza dei sacrari khmer ha dunque anche funzione funeraria e, soprattutto, esplicita l’apoteosi del re, che in vita è vicario del dio e da morto si identifica con lui. Ad ispirare il simbolismo della costruzione sono imiti cosmogonici indù, in particolare quello del “frullamento dell’oceano”, in cui l’universo emerge dal liquido caos primordiale grazie all’azione congiunta di dèi e demoni che lo agitano, usando la montagna cosmica quale mestolo. Il tempio- montagna sorge così in un bacino che simboleggia le acque primigenie, nel cui grembo sta racchiusa la vita in attesa di essere manifestata. Ed è il devaraja colui che dona e garantisce l’esistenza agli esseri umani: con l’edificazione del baray, il bacino idrico cuore delle città khmer e delle loro strutture religiose, e di tutta la rete di canali a questo collegata, il re doma e sfrutta le acque, dissetando uomini e animali, alimentando risaie e coltivazioni, incrementando i commerci. Così il mito del “frullamento dell’oceano” e della nascita del mondo si ripropone in una dimensione pratica funzionale che giustifica il potere del devaraja.

Già il più antico prasat, la torre-santuario quadrata su base piramidale a gradini, riproduce il monte Meru e ben presto evolve nello scenografico complesso del tempio-montagna a quiconcia, cioè a cinque torri, tante quanti i picchi principale del Meru, quattro disposte agli angoli del perimetro quadrato e una al centro, collegate da gallerie colonnate.

Come gli dèi dimorano in celestiali palazzi sulle cime della montagna sacra, così il re fa edificare sontuosi padiglioni alla sommità del tempio, teatro di riti esoterici preclusi al popolo e futuro mausoleo. Il più famoso monumento con destinazione funeraria sorge nella piana di Angkor, la “capitale” dell’impero khmer, e fu edificato da Suryavarman II tra il 1113 e il 1150. Chiamato anticamente Brah o Vrah Vishnuloka, la “Sacra dimora di Vishnu”, divinità con cui si identificò Suryavarman assumendone il nome, è oggi noto come “Angkor Vat”, la “città reale monastero”, poiché in seguito alla rivoluzione religiosa attuata da Jayavarman VII nel XIII secolo, l’impero khmer abbracciò il buddismo e l’Angkor Vat da insediamento dedicato al dio Vishnu si trasformò in monastero buddista e non fu mai completamente abbandonato.  

Il complesso dell’Angkor Vat è collocato nel quadrante sud-est di quella che fu l’antica capitale di Yashodhrapura edificata nel IX secolo.

Il perimetro del tempio, 1500 x 1300 metri, è costituito da un fossato largo 200 metri con gradoni di discesa all’acqua e lo spazio delimitato è di circa 2 chilometri quadrati. Tuttavia, siccome gli edifici rimasti occupano solo 100.000 metri quadrati, si suppone che vi fosse tutta una serie di costruzioni in legno e altro materiale deperibile per i sacerdoti, il personale del tempio e molto probabilmente anche per i nobili e la corte, poiché sembra che il sovrano abitasse nell’Angkor Vat.

Il numero delle persone ospitate entro la cinta esterna poteva dunque raggiungere le 20.000 unità. L’orientamento a ovest del complesso ha sollevato perplessità e polemiche, dato che tradizionalmente nell’architettura indù e in quella khmer che ad essa si ispira il tempio deve aprirsi a oriente. La scelta di Suryavarman potrebbe essere giustificata dal fatto che i riti funebri e a quanto loro connesso si collocano a ovest e questo avvalorerebbe la destinazione funeraria dell’Angkor Vat già dall’inizio della sua edificazione. Inoltre, venendo a inserirsi nell’antica capitale di Yashodharapura, la nuova città e il suo tempio, se orientati a est, avrebbero voltato le spalle all’insediamento urbano già esistente, elemento questo di pessimo auspicio.

Capolavoro di proporzioni e armonia, l’Angkor Vat svetta per 65 metri sulla piana di Angkor. L’attraversamento del bacino che lo circonda è reso possibile da una diga su cui procede un ampio viale lastricato in arenaria lungo 250 metri e largo 12, affiancato da una splendida balaustra a naga, che conduce al recinto in laterite più esterno.  

I naga, serpenti policefali a cinque o sette teste, pur essendo un motivo indù inglobano la figura locale del drago delle acque, portatore della pioggia e simbolo dell’arcobaleno che raccorda cielo e terra: non a caso, dunque, ornano il viale di collegamento tra l’area profana e quella sacra.

Il lato frontale del recinto più esterno è costituito da una galleria a volte con doppia navata, a colonne nella parte esterna e con muro cieco in quella interna. L’accesso più esterno è attraverso un lungo porticato sopraelevato, con tre ingressi cruciformi sovrastati da altrettanti gopura, alte strutture turriformi mutuate dall’architettura dell’India meridionale, mentre alle estremità della galleria si aprono due ulteriori passaggi in piano per gli animali e i carri, Sugli altri tre lati della prima cinta vi sono altrettanti varchi a gopura, meno scenografici. Le porte che si protendono verso i quattro punti cardinali in speciali padiglioni gli uni dentro gli altri, a effetto telescopico, celebrano l’estensione del potere reale su tutto l’universo.

Entrati nel recinto della città sacra vera e propria, il tempio-montagna con le sue cinque vette si staglia maestoso davanti al visitatore. Un ulteriore viale sopraelevato e lastricato, fiancheggiato da naga e largo quasi 10 metri, conduce verso il tempio. Ad intervalli regolari sei scalinate per parte portano al livello del suolo, dove un tempo sorgevano le abitazioni e gli altri edifici urbani.

A metà strada circa si incontrano due edifici di incerta collocazione, chiamati convenzionalmente “biblioteche”, lunghi più di 40 metri, a pianta cruciforme con triplice navata e copertura a volta, portici ipostili sui quattro lati e accessibili da scalinate. Più oltre si stendono due bacini rettangolari e subito prima dell’ingresso del tempio vero e proprio il viale si apre in una piattaforma cruciforme a due livelli, il più basso dei quali è impostato su corte e tozze colonne che ricordano le palafitte, elemento ancora oggi fondamentale nell’edilizia cambogiana.

Dalla piattaforma si accede ad un avancorpo a portici inseriti l’uno nell’altro che costituisce l’ingresso principale della galleria che contorna la prima delle tre terrazze su cui svetta l’Angkor Vat. Edificata su un alto zoccolo a ricche modanature e costituita da portici a pilastri coperti che bordano corridoi a volta appoggiati ad un muro cieco, la galleria forma un rettangolo di 187 x 215 metri, offrendo il supporto ad una incredibile teoria di bassorilievi che si dipanano per 500 metri di lunghezza. Ai lati del padiglione d’accesso principale vi sono altri due ingressi collegati con il livello del suolo da scalinate e la stessa struttura si ripete simmetricamente sul fronte posteriore della prima terrazza mentre altre due entrate a padiglioni cruciformi e scalinate si aprono nei due muri laterali. 

L’espediente del padiglione a croce con scalinate assiali viene ingegnosamente utilizzato anche agli angoli della galleria perimetrale, interrompendone l’orizzontalismo con la verticale dei tetti sovrapposti. Tra il primo ed il secondo piano dell’Angkor Vat si colloca uno degli elementi più geniali dell’intera costruzione: il chiostro cruciforme. Dai tre ingressi della prima galleria si dipartono altrettanti corridoi paralleli che portano alle scalinate dei tre gopura del piano superiore e che sono attraversati da una quarta galleria a tre navate, ortogonale alle prime, che delimita così quattro piccole corti interne. L’alto zoccolo sui cui si impostano e i gradini che conducono a livello del suolo le identificano come bacini di acqua lustrale, indispensabile per le cerimonie del tempio.

Oltre al chiostro cruciforme la prima terrazza, molto vasta, alloggia anche due “biblioteche”. La seconda terrazza, 6 metri sopra la prima e 10 metri dal suolo, è accessibile oltre che dal chiostro frontale, da scalinate collocate sugli altri tre lati e nelle torri d’angolo. Interdetta al popolo, non presenta aperture nel muro esterno della galleria, che è però movimentato da false finestre a colonnette. Sbucando dalla scala centrale del portico cruciforme si incontrano altre due piccole “biblioteche” collegate fra loro e con l’ingresso da una piattaforma sopraelevata su corte palafitte.

In questa seconda cinta, che misura 100 x 115 metri, si innalza il basamento di 13 metri fortemente modanato della quiconcia. Dodici ripidissime scalinate portano alla terza terrazza quadrata di 60 metri per lato: circondata da una galleria a finestre colonnate aperta sia verso l’interno che verso l’esterno, con i padiglioni cruciformi agli angoli e i gopura sovrastanti gli ingressi volti verso i quattro punti cardinali. 

La terza terrazza ricalca la pianta cruciforme del chiostro, ottenuta collegando il prasat centrale ai gopura tramite quattro gallerie. Ma mentre il chiostro si estendeva orizzontalmente, qui la struttura realizza un fortissimo slancio verticale, con la torre centrale di 42 metri circondata dalle altre quattro che sembrano delle tiare. Palazzo degli dèi sul monte Meru, questo terzo piano era accessibile solo al grande sacerdote e al sovrano che si incontrava con il dio raffigurato dalla statua del prasat centrale.

La decorazione completa mirabilmente il monumento: le colonnine plurisfaccettate sono suddivise in dieci o dodici anelli che le rendono leggere e vibranti; il piatto intreccio vegetale inciso sulle pareti realizza un effetto a tappezzeria e più di 1500 fra apsara, bellissime ninfe celesti, e devata, divinità dalle complesse pettinature, si affacciano da ogni angolo; nei timpani e nei frontoni mostri marini e naga incorniciano le scene mitologiche che si trovano ripetute nei bassorilievi delle gallerie, che si snodano senza soluzione di continuità come manoscritti miniati nella pietra.

Proprio i bassorilievi ribadiscono la destinazione funeraria dell’Angkor Vat poiché sono da leggersi in senso contrario, non tenendoli come di consuetudine alla propria destra, ma avendoli a sinistra. I soggetti, tutti relativi alla mitologia di Vishnu con cui Suryavarman si identifica, sembrano riferirsi simbolicamente alla carriera del sovrano: si inizia con la raffigurazione del “frullamento dell’oceano”, per proseguire con episodi attinti alle due grandi epopee indiane Mahabharata e Ramayana in cui Vishnu, sotto le spoglie di Rama e Krishna, lotta contro le potenze demoniache e si finisce con le immagini del giudizio dei morti effettuato da Yama, signore dell’Aldilà, che ha i tratti del sovrano. La deificazione di Suryavarman trasforma così l’Angkor Vat da mausoleo in palazzo degli dèi di rarefatta e magica atmosfera.

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Fonte:
Dimore eterne - Alberto Siliotti