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L'insieme
delle credenze e dei riti degli Etruschi legati alla sorte futura degli
uomini fa parte del più ampio capitolo della civiltà di questo popolo
riguardante il complesso mondo della religiosità.
Secondo
una tradizione giunta fino a noi, gli Etruschi erano un popolo
estremamente religioso e particolarmente legato al culto dei propri
defunti. È
lo storico latino Tito Livio a fornirci questa notizia, confermata
dall'apologeta cristiano Arnobio che definisce l'Etruria
"generatrice e madre di ogni superstizione", in riferimento
alla scrupolosa osservanza con cui gli Etruschi erano soliti compiere le
loro pratiche culturali.
La
tradizione vuole che, sul finire della civiltà etrusca, l'immenso
patrimonio di dottrine e di norme religiose venisse raccolto in un
complesso di libri sacri, in cui, come in un'autentica summa,
venisse codificato un patrimonio di dati fino ad allora tramandato solo
oralmente.
Purtroppo,
l'irrimediabile perdita della letteratura religiosa originale ci ha
condannato ad una conoscenza incompleta e indiretta di questo
particolare settore del sapere, che dai Latini venne definito etrusca
disciplina. Alcuni
ricordi presenti nelle fonti classiche parlano dell'esistenza di Libri
Haruspicini, dedicati all'arte della divinazione attraverso la
"lettura" del fegato degli animali; di Libri Fulgurales,
dedicati alla pratica divinatoria legata ai fulmini; di Libri
Rituales, nei quali sarebbero state raccolte le norme da seguite
nelle operazioni e nelle pratiche del culto. Una particolare sezione di
questi ultimi libri, i Libri Acherontici, era dedicata, invece,
al mondo dell'oltretomba e ai riti necessari a far sì che
l'individualità del defunto potesse sopravvivere al doloroso travaglio
della morte. I
pochi reperti in nostro possesso sembrano confermare quanto tramandato
dalle fonti letterarie. Il modellino bronzeo di fegato ovino, rinvenuto
presso Piacenza, era uno strumento di base per l'attività divinatoria
di un aruspice etrusco; sulle bende della mummia di Zagabria è
riportato un testo liturgico, una sorta di estratto dei Libri
Rituales contenente particolari prescrizioni rituali disposte in
forma di calendario. Infine, la Tegola di Capua, lastra di terracotta
sulla quale è trascritto un rituale funerario menzionante offerte,
libagioni e sacrifici, costituisce una straordinaria conferma
dell'esistenza di operazioni culturali dedicate a divinità degli
Inferi.
Il
ritualismo della religiosità etrusca trova giustificazione nel concetto
stesso di divinità, intesa come entità oscura che riesce ad imporsi
sulla volontà dell'uomo privandolo di ogni spazio di autonomia. Agli
uomini non rimane che regolarsi di conseguenza, tentando di leggere e
interpretare ogni manifestazione divina e cercando di placare l'ira
degli dèi con cerimonie e sacrifici. Degli
aspetti esteriori della religione si occupavano i sacerdoti, ai quali
era affidata la gestione di un cerimoniale molto vasto. Tra le figure
più importanti vi era quella dell'aruspice, che aveva la capacità di
interpretare il volere degli dei leggendo il fegato degli animali: il
lituo, il bastone dall'estremità ricurva, era uno dei suoi attributi
distintivi accompagnato, in genere, da un mantello a frange e da un
berretto a punta. Per quanto riguarda gli dei, c'è da precisare come
nella sua fase primitiva la religione etrusca fosse caratterizzata da un
concetto di divinità piuttosto vago e impreciso, soprattutto per ciò
che concerne la determinazione del numero, delle caratteristiche
esteriori e del sesso. Solamente
sotto l'influenza greca la religione etrusca procederà ad una sorta di
individualizzazione e umanizzazione delle proprie divinità, giungendo
alla costruzione di un pantheon assai ricco, comprendente sia
entità conosciute alla tradizione greco-latina come, per citarne solo
alcune, Tinia (Giove), Uni (Giunone, Menerva), Aita
(Ade), Phersipnai (Persefone), sia divinità di tradizione
rigorosamente locale come Northia (probabilmente la dea della
fortuna) o Veltumna (il principale dio etrusco). Nella
ricostruzione del quadro della religiosità etrusca non si può fare a
meno di esaminare le usanze funerarie, dipendenti dalla concezione del
destino ultimo degli uomini. Nella
fase più antica sembra dominare la convinzione che l'individualità del
defunto possa sopravvivere proprio nel luogo della sepoltura. Da qui
l'esigenza di rifornire la persona cara di cibi, bevande, armi e oggetti
vari, secondo una ritualità già presente nel periodo villanoviano
(IX-VIII secolo a.C.). Ma
l'usanza diffusa in questa fase di cremare il corpo del defunto e di
collocarne le ceneri all'interno di un'urna (posta in un pozzetto
scavato nel terreno) sembrerebbe, almeno in apparenza, contraddire
questa credenza, denunciando la volontà decisamente opposta di liberare
lo "spirito" da vincoli del corpo. Al
contrario, la consuetudine di utilizzare urne a forma di casa o vasi
riproducenti all'esterno le fattezze del defunto manifesta la volontà
di suggellare il ripristino della normalità dopo il travaglio della
morte e di preparare il defunto alla nuova esperienza. Questo concetto
sembrerebbe rafforzato dalla progressiva affermazione del rito
dell'inumazione, che comincia a diffondersi nell'Etruria meridionale e
marittima già a partire dall'VIII secolo a.C. Secondo
il nuovo rito il defunto non viene bruciato, ma deposto all'interno di
una tomba che, per le nuove esigenze di spazio, acquista l'aspetto di un
vero e proprio ambiente ricavato sottoterra: da questo momento in
avanti, la tomba a camera rappresenterà il genere di sepolcro
caratteristico del territorio etrusco, diffuso anche nelle zone, come
quelle settentrionali, tradizionalmente legate al rito
dell'incinerazione. E
la tomba a camera diventerà anche il luogo per eccellenza in cui i
familiari del defunto riverseranno tutte le gioie e le preoccupazioni
della vita terrena, tutte le vittorie e le sconfitte, non solo come atto
dovuto nei confronti della persona scomparsa, ma anche come conferma
dell'identità e dell'elevato rango sociale della famiglia. 
È
a questa esigenza, oltre che alla già ricordata fede nella
sopravvivenza del defunto, che risponde l'uso di immaginare il sepolcro
sul modello della casa: di deporre al suo interno numerosi oggetti, non
quelli di tutti i giorni, ma i più belli, utilizzati solo nelle grandi
occasioni; di ornare le pareti del sepolcro con scene di banchetti,
danze e giochi. Ed è soprattutto attraverso la rappresentazione del
tema del banchetto, per la cui organizzazione è richiesto un ingente
sforzo organizzativo e finanziario, che la famiglia vuole riaffermare la
propria potenza politica ed economica. Le scene sono una chiara
allusione ai banchetti organizzati dal signore all'interno della sua
dimora, dove particolare importanza era assegnata all'esibizione di
ricchi oggetti di ornamento personale e di arredi destinati al simposio.
Lo stesso avviene all'interno della tomba in cui accanto a meravigliosi
oggetti d'oro, abbondano vasi per bere (kylikes), vasi per
versare (oinòchoai) ed altri grandi contenitori per liquidi come
olle e anfore, realizzati localmente o importi da paesi lontani: tutti
oggetti posti al servizio dell'ideologia aristocratica che sta dietro il
defunto e la sua famiglia. Un
oggetto, in particolare, finisce per diventare il simbolo del simposio:
il kantharos, attributo caratteristico di Dionisio, allusivo alla
presenza del simposiarca. Il suo valore prettamente simbolico è
confermato dalla ricca diffusione all'interno di contesti funerari,
mentre risulta assai raro tra gli oggetti di uso domestico. Oltre
agli oggetti relativi al banchetto, veri e propri status-symbols erano
gli ornamenti personali e il vasellame in metallo prezioso. Bracciali,
orecchini, affibbiagli, pettorali, realizzati in sottili lamine d'oro,
vengono decorati con tecniche raffinatissime come il pulviscolo e la
granulazione: fibule utilizzate sia da uomini che da donne vengono a
volte prodotte in dimensioni talmente ingigantite da tradire il loro
utilizzo più propagandistico che funzionale.
A
partire del V secolo a.C., l'influsso della cultura greca produsse
importanti cambiamenti anche nell'ambito dell'escatologia attenuando,
progressivamente, le credenze religiose più antiche. Sotto la spinta
della religione e della mitologia greca, si venne così affermando
l'idea della trasmigrazione delle anime verso un regno dell'aldilà,
configurato sulla base dell'averno omerico. La sorte futura degli uomini
è ora simboleggiata dal viaggio verso il regno dei morti, un regno
cupo, angoscioso, dominato dalla presenza di demoni terrificanti come la
dea Vanth (forse la greca Moira), simboleggiante il fato
implacabile, con le sue grandi ali e la sua fiaccola; Charum
(Caronte), dalle fattezze bestiali e armato di martello per contendere
ai familiari il defunto; Tuchulcha, con il volto d'avvoltoio, le
orecchie d'asino e armato di serpenti. Dall'esame
dei monumenti più tardi, sembra che un medesimo ed inevitaible destino
fosse comune a tutti i morti: a questo inesorabile fato non sono in
grado di sottrarsi neppure i personaggi più illustri, ai quali rimane
solo la consolazione di continuare a ribadire la propria superiorità
terrena attraverso l'esibizione di oggetti sfarzosi e la divulgazione
degli importanti risultati raggiunti nella loro attività di carattere
pubblico. Un
sottile raggio di luce, comunque, sembra illuminare questo oscuro
destino. Alcune fonti letterarie, infatti, sembrano fare esplicito
riferimento all'esistenza di dottrine di salvazione secondo le quali
allo spirito del defunto sarebbe concesso di raggiungere addirittura
stadi di beatitudine e di deificazione grazie alla celebrazione di
precise cerimonie di suffragio, nel rispetto della più genuina
spiritualità etrusca.
Fonte:
Dimore eterne -
Alberto Siliotti
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