Mahabalipuram, conosciuta anche col nome di Mamallapuram, è una città
costiera dello stato del Tamil Nadu, situata circa
60 chilometri
a sud di Chennai, in India. L’odierno
sito di Mahabalapuram era già noto ai Greci e frequentato dai Romani.
Fra il VII e l’VIII secolo d.C. divenne il porto principale della
dinastia dei Pallava, Mamallapuram ovvero la “Città di Malla”,
titolo di Narasimhavarman I, uno dei principali sovrani pallava che regnò
fra il 630 e il 670. La città più vicina è Madras, capitale dello
stato del Tamilnadu, a 54 chilometri.
La città più vicina è Madras, capitale dello stato del Tamilnadu, a
54 chilometri.
Fin
dalle prime ore del mattino, nel villaggio di Mahabalipuram risuona il
ticchettio prodotto da centinaia di scalpellini impegnati nella
realizzazione di statue a soggetto religioso. L'artigianato scultoreo è
la principale attività di questa zona costiera del Tamil Nadu, un
angolo di antica India ad appena
50 chilometri
da Chennai (vale a dire Madras). E quello dello scalpellino, qui, è un
mestiere tramandato di padre in figlio, da generazioni. Del resto, una
scuola di scultura venne istituita a Mahabalipuram nel VII secolo da re
Narasimha Varman I. La dinastia cui apparteneva, i Pallava, governò su
buona parte dell'India del Sud dal I all'VIII secolo.
La capitale dei Pallava era
Kanchipuram, mentre a Mahabalipuram era situato il porto, che Narasimha
Varman I volle abbellire in modo che coloro che prendevano il mare
potessero serbare un magnifico ricordo della patria. Al punto che oggi i
monumenti del villaggio sono considerati tra i più alti esempi di arte
scultorea dell'India.
I
complessi archeologici si articolano in tre gruppi: il monumentale
rilievo della “Discesa del Gange” (metà del VII secolo), con una
serie di mandapa scavati in un
enorme sperone di diorite; il
complesso dei cinque ratha, a
circa 500 metri a sud; il cosiddetto “Tempio della riva”. L'affresco
petroso che racconta la mitica discesa del fiume Gange sulla terra, è
volto a est e misura circa 26 metri per 7.
Benché
alcuni studiosi abbiano voluto vedervi invece la penitenza compiuta da
Arjuna – uno dei cinque protagonisti del grande poema epico Mahabharata
- per ottenere dal dio Shiva armi
invincibili, la maggior parte dei critici legge il grande bassorilievo
come celebrazione del fiume più sacro di tutta l’India. La rocca,
infatti, è fessurata al centro e una cisterna anticamente situata alla
sommità dello sperone permetteva a un fiotto d’acqua di colare lungo
il pannello e di raccogliersi nel piccolo bacino antistante:
l’espediente rimanda evidentemente a un contesto fluviale.
Racconta
il mito, riportato in numerosi testi classici, che la divina fiumana
Ganga fu indotta a discendere fra gli uomini dall’ascesi durissima di
un sant’uomo, Bhagiratha, che vi si era impegnato per liberare da una
maledizione i suoi antenati. Affollata di personaggi, la “Discesa del
Gange” presenta un idillico spaccato di vita silvestre: cacciatori,
eremiti, abitanti locali, animali selvaggi si distribuiscono su diversi
registri, a cui fa da corona il corteggio degli dèi con le apsaras, ninfe bellissime, i gandharva,
geni dell’aria, i kinnara,
musicanti celesti in parte animali e tanti altri esseri mitici colti in
volo mentre vengono ad assistere al sacro evento.
Bhagiratha,
l’asceta, vi è rappresentato nella posizione yoga dell’albero,
ritto su un piede con le braccia levate al cielo. Nella fessura da cui
scendeva il rivolo si muovono sinuosi i naga
con le loro spose, le nagini,
esseri in parte umani e in parte serpentini, connessi con le acque, la
fertilità e la conoscenza.
Fra
i tanti monumenti disseminati attorno alla “Discesa del Gange”
meritano menzione i mandapa,
santuari rupestri scavati in grotte o sotto spioventi di roccia che
albergano splendidi rilievi, preceduti da verande a colonne spesso rette
da leoni, simbolo della guerriera Dinastia dei Pallava. I templi-grotta hanno un
portico ipostilo e altorilievi con scene mitologiche all'interno. Tra i
più belli vi è quello dedicato a Krishna, una delle incarnazioni di
Visnu, che è rappresentato mentre solleva sulle spalle la montagna
Govardhan.
Il
più notevole dei rilievi scolpiti sulle rocce occupa la facciata
orientale di un'enorme rupe e rappresenta la discesa della Ganga, la dea
del Gange che, volendo liberare gli uomini da una terribile siccità, si
offre di scendere sulla terra e, per evitare gli effetti devastanti
della forza delle sue acque, chiede aiuto a Shiva, che le consente di
scivolare dolcemente lungo la sua chioma, andando così a formare il
letto del Gange.
L'asse
centrale della scena, cioè il fiume, in origine era un ruscello
naturale, oggi asciutto, che alimentava uno stagno per le abluzioni
situato sotto la roccia. Questo rilievo, ornato tutt'intorno da figure
umane e animali finemente lavorate, è considerato un capolavoro
dell'arte dravidica.
Il tempio-grotta di Adivaraha racchiude vari pannelli: in uno Vishnu è
incarnato nel verro Varaha, in quello accanto lo stesso dio riposa su un
letto di serpenti; più in là vi sono figure umane, attribuite al re
Pallava Simhavishnu (574-600) e a suo figlio Mahendra I (600-630).
Nel
Mahishamardhani mandapa si trova la scultura più raffinata di
Mahabalipuram, raffigurante la terribile dea Durga che sconfigge un
demone con la testa di toro. In un altro mandapa, cui venne aggiunto un
ingresso a colonne in epoca successiva, si narrano invece le gesta di
Krishna.
Più
a sud sorge il famoso gruppo dei ratha,
un insieme di cinque templi monolitici concepiti appunto come ratha,
“carri professionali” lignei che ancora oggi ospitano le immagini
degli dèi quando queste vengono portate fuori dai templi. Scolpiti
verso la metà del VII secolo nei blocchi di diorite che emergono dalla
spiaggia, i tempietti presentano tutte le caratteristiche di modelli e
qualcuno ipotizza che costituissero le prove di una scuola locale di
architettura, mentre altri lì interpretano come offerte votive.
Caso
unico nella storia dell’arte indiana, non completamente terminati, i
tempietti hanno ricevuto i nomi suggestivi degli eroi del Mahabharata,
la grande epopea che vede incarnate sulla terra e antagoniste le forze
positive dei deva, gli “dèi”,
a quelle negative degli asura,
i “demoni”.
Drapaudi
è la sposa comune dei cinque Pandava, i campioni del bene, e denomina
il ratha più piccolo,
probabilmente consacrato alla dea Durga, che riproduce nella pietra la
capanna degli asceti, semplice ambiente quadrato sormontato da un tetto
in paglia con decorazioni lignee agli spigoli. Una scala di accesso
conduce all’ingresso fiancheggiato da due guardiane e sormontato da un
architrave con motivi a makara,
mitici animali acquatici che sovrastano con grazia anche sulle altre
pareti le nicchie ospitanti statue della dea. Il toro Nandi, cavalcatura
del dio Shiva consorte di Durga, e il leone veicolo della dea sono
scolpiti lì accanto. Il ratha
seguente è quello di Arjuna, il cavaliere per eccellenza, ed è
probabilmente dedicato all’antico dio Indra che vi compare sul suo
elefante Airavata.
Collocato
su un basamento retto da leoni e da elefanti, presenta un portico
d’ingresso con due colonne leonine. Le altre tre pareti sono divise
ciascuna in cinque riquadri che includono splendide statue, tra cui
coppie di amanti. Su uno spiovente ornato da kudu, piccoli archi a ferro di cavallo che inquadrano volti ridenti,
si inserisce la parte superiore in forma piramidale: costituita da due
piani bordati di padiglioni in miniatura, è terminata da una cupola
ottagonale.
Da
Bhima, guerriero erculeo, prende il nome il terzo ratha,
base rettangolare, circondato da una veranda in parte a colonne sorrette
da leoni, con lo spiovente a kudu, una fila di padiglioni che
riproducono in miniatura l’intera struttura del ratha e una
costruzione terminale coperta da tetto a botte.
Il
Dharmaraja ratha, collegato a Yudhishthira, modello del re pio e giusto,
reca un’iscrizione che permette di datarlo con sicurezza al regno di
Narasimhavarman I (630 – 670), rappresentato fra due statue, che lo
consacrò a Shiva. È il più alto di tutti: sorge su un basamento di
particolare rilievo, ha pianta quadrata ed è preceduto da un portico a
colonne leonine. Articolato su tre piani, amplia il modello
dell’Arjuna ratha, presentando la medesima struttura piramidale con
spioventi a kudu che separano i vari livelli e fanno da base alle file
di padiglioni miniaturizzati. Una cupola ottagonale conclude
armoniosamente la costruzione. Numerose statue pregevoli ornano le
pareti.
L’ultimo
ratha è quello dei guerrieri gemelli Nahula e Sahadeva; di dimensioni
ridotte, l’ingresso ombreggiato da un portichetto con le solite
colonne rette da leoni, è absidato e riprende quella struttura a
“schiena di elefante” sottolineata da una realistica riproduzione
dell’animale lì accanto.
L’ultimo
grande capolavoro di Mamallapuram, il “Tempio della riva” fatto
erigere da Narasimhavarman II Rajasimha che regnò dal 690 al 728,
svetta solitario sulla spiaggia, dedicato a Shiva. Noto ai naviganti
come faro, il primo a segnalare la presenza fu l’italiano Gasparo
Balbi che nel 1582 definisce la zona “quella delle sette pagode”,
includendo oltre ai cinque ratha e al “Tempio della riva” anche il
Ganesha ratha, simile al Bhima e collocato nella zona della “Discesa
del Gange”.
Nel
XVII secolo Nicolò Mannucci ne arla di nuovo, ma è nel 1788 che
Chambers ne dà la prima dettagliata descrizione in “Asiatic
Researches”. Il tempio, preceduto da un piccolo gopuram, cioè un ingresso segnato da una sovrastruttura, è
articolato in due costruzioni a pianta quadrata, entrambe sovrastate dal
vimana, la torre piramidale di
protezione della cella che tanta fortuna avrà nell’architettura
gravida, cioè quella dell’India del sud. Il vimana
presenta un profilo
decisamente triangolare e ripropone le svettare della montagna cosmica,
il mitico monte Meru, l’axis
mundi, il perno centrale attorno al quale ruota ordinariamente
l’universo.
I
vimana del “Tempio della riva” sono l’uno a quattro e l’altro a
tre piani, molto aperti, di cui il primo e l’ultimo sono decorati con
animali araldici e privi dei parapetti costituiti dalla fila di
padiglioni in miniatura, che invece sono presenti nei piani intermedi.
Le celle sono tre, benché una sia attualmente senza copertura: il
gruppo di Shiva, la consorte Uma e il figlio Skada, occupa la prima,
mentre nella seconda è visibile Vishnu che riposa sull’oceano
primordiale. Uno stretto passaggio fra le pareti della cinta interna
permette la deambulazione. Il tempio è inserito in un recinto più
ampio, con un muretto sovrastato da Nandin a guisa di merli.

LA
CITTÁ SOTTOMARINA
Secondo un mito che dura da
circa undici secoli, Mahabalipuram aveva sette pagode presso il mare. Le
prime tracce nella letteratura occidentale di questa narrazione si hanno
grazie a John Goldingham, un viaggiatore britannico che raggiunse la
città nel 1798 e cui venne narrato questo fatto, anche se delle pagode
non restava all'epoca traccia tranne che per quanto riguarda il Tempio
della spiaggia, che dovrebbe essere una delle pagode.
In seguito al catastrofico
Maremoto dell'Oceano Indiano del 26 dicembre 2004 e al conseguente
tsunami è stata riportata alla luce un'antica città portuale con
alcune rovine risalenti al VII secolo. Man mano che le acque si
ritirarono, infatti, la loro forza si portò dietro una gran quantità
di sabbia che da secoli ricopriva strutture rocciose e sculture
rappresentanti animali, fra cui un'elaborata testa di elefante ed un
cavallo alato. Sopra la testa dell'elefante si trova una piccola nicchia
quadrata con una statua di una divinità. In un'altra struttura
adiacente si può vedere una scultura rappresentante un leone. L'uso e
lo stile di queste sculture di animali è consistente con altri templi e
decorazioni del periodo Pallava compreso fra il VII e l'VIII secolo.
Alla luce di queste scoperte,
il 17 febbraio 2005
la Soprintendenza
archeologica indiana ha dato inizio alle esplorazioni subacquee al largo
della costa per cercare di scoprire quanto queste rovine si estendano.
Sette pagode di
Mahabalipuram - Con sette pagode di Mahabalipuram ci si riferisce ad
un mito che circola in India ed in Europa da oltre 11 secoli. Sette
Pagode era anche il soprannome con cui era nota la città indiana di
Mahabalipuram (chiamata anche Mamallapuram) dopo che questa venne
raggiunta dai primi esploratori europei. Secondo la leggenda in questa
zona sorgevano un tempo sette templi dello stesso tipo del Tempio della
spiaggia, l'unico sopravvissuto fino ai giorni nostri ed eretto
nell'VIII secolo sull rive del golfo del Bengala.
Il
mito - Un antico mito del brahmanesimo spiega l'origine delle pagode in termini
soprannaturali. Il principe Hiranyakasipu si rifiutava di adorare
Vishnu. Al contrario suo figlio, Prahlada, venerava grandemente Vishnu e
criticava aspramente il padre per la sua mancanza di fede. Hiranyakasipu
bandì Prahlada dal regno, ma in seguito la sua collera si placò e
permise al figlio di tornare. I
due cominciarono ben presto a disputare sulla natura di Vishnu e, quando
Prahlada affermò che il dio era presente in ogni luogo, compresi i muri
della loro casa, il padre diede un calcio ad un pilastro. Subito dal
pilastro emerse Vishnu in forma di uomo con testa di leone, e uccise
Hiranyakasipu. Prahlada divenne re ed ebbe un figlio chiamato Bali, che
fondò Mahabalipuram su questo sito.
I
primi accenni scritti
- Le origini del tempio sono
state oscurate dal passare del tempo, dalla totale mancanza di fonti
documentali scritte e dal tramandarsi di generazione in generazione
della tradizione orale. L'inglese D. R. Fyson, dopo aver soggiornato per
numerosi anni a Madras (l'odierna Chennai), scrisse un conciso libello
sulla città di Mahabalipuram intitolato Mahabalipuram or Seven
Pagodas (Mahabalipuram o Sette Pagode), che nelle sue intenzioni
doveva essere un souvenir per i turisti occidentali. In esso egli
sosteneva che il sovrano Narasimharavarman I, della dinastia Pallava,
fondò oppure allargò di molto la città di Mahabalipuram, più o meno
nel 630. Ad oggi tuttavia non ci sono chiare testimonianze archeologiche
che attestino se la città sia stata o meno la prima ad essere stata
costruita in questa zona.
Circa 30 anni prima della fondazione della città di Narasimharavarman I, il
sovrano Mahendravarman I (sempre della dinastia Pallava) aveva dato
inizio alla costruzione di una serie di templi scavati nella roccia,
seguiti negli anni successivi dalla costruzione di strutture a sé
stanti, chiamate rathas in lingua tamil. Oggi nel sito esistono
ancora nove rathas. La costruzione di questi due tipi di strutture pare
si sia fermata a Mahabalipuram nel 640. Fyson sostiene che le rovine
provino che un tempo qui vi fosse un monastero (vihara in tamil),
idea adottata seguendo le usanze dei precedenti abitanti della regione,
di fede buddhista. Egli suggerisce, sulla base
della loro suddivisione in piccole stanze, che le abitazioni dei monaci
fossero divise fra i vari rathas della città. L'influenza buddhista è visibile chiaramente nella forma del tempio della
spiaggia e nell'architettura di altre costruzioni limitrofe.
Fyson
dedicò pochissimo spazio
del
suo breve libro al racconto
del
mito
delle Sette pagode. Egli narra
come il dio Indra divenne geloso di questa città terrena e la sprofondò
durante una tempesta, lasciando fuori dall'acqua il solo tempio della
spiaggia. Egli accenna poi al fatto, riportato dagli abitanti locali,
secondo cui alcuni degli altri templi sono visibili fra le onde quando
essi si spostano al largo a bordo delle loro barche da pesca.

Gli
esploratori europei
- Secondo lo storico indiano Ramaswami uno dei primi esploratori europei che
giunse a Mahabalipuram è stato Marco Polo: egli lasciò pochissime
notizie del suo viaggio, ma registrò la posizione della città nella
sua mappa catalana del 1275. Successivamente molti altri europei
accennarono alle sette pagode durante i loro viaggi verso le colonie
indiane. Il primo a scriverne fu John Goldingham, un astronomo inglese
che visse a Madras fra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX. Nel
1798 egli scrisse un resoconto della sua visita e della leggenda,
narrazione raccolta nel
1869 in
un libro da Mark William Carr. Goldingham descrisse principalmente
l'arte, le statue e le iscrizioni trovate nel sito archeologico. Egli
ricopiò a mano molte delle iscrizioni, includendole nel suo scritto. Egli
interpreta la maggior parte delle figure come frutto di simbolismo,
discutendo quale significato potessero avere. Va notato che Benjamin Guy
Babington, autore di un altro lavoro raccolto nello stesso volume,
identifica un gran numero di quelle figure come lettere della lingua
telugu.
Nel 1914 J.W. Coombes sostenne
che le costruzioni un tempo si trovassero sulle sponde dell'oceano e che
le loro cupole di rame servissero come indicazione per i naviganti,
grazie alla riflessione della luce solare. Egli sostiene inoltre che i
moderni abitanti non sappiano più quante pagode si trovassero lì in
origine ma secondo la sua opinione il numero doveva essere circa sette.
Secondo Ramaswami gran parte del merito della diffusione del mito presso gli
europei è da ascrivere al poeta Robert Southey, che lo menzionò nel
suo poema The Curse of Kehama (La maledizione di Kehama),
pubblicato nel 1810. Nel suo poema,
riferendosi alla città con un altro dei suoi nomi (Bali, in
onore
del
suo mitico fondatore), Southey dice chiaramente che è visibile più di
una pagoda. Egli comunque
scrisse numerose storie di impronta romantica aventi come soggetto
svariate culture del mondo, come quelle indiane, di Roma antica, del
Portogallo, del Paraguay e perfino degli indiani d'America, tutti basati
sui resoconti di altri viaggiatori e sulla sua stessa immaginazione.
Ramaswami nota poi che gli
europei giocarono un ruolo importante nella riscoperta di Mahabalipuram
poiché, prima del loro arrivo agli inizi del periodo coloniale, quasi
tutti i monumenti minori della città si trovavano sepolti sotto la
sabbia, parzialmente o interamente. I coloni e i loro familiari
liberarono dalla sabbia le strutture e, una volta che gli archeologi
inglesi ebbero realizzato la vastità e la bellezza delle rovine verso
la fine del XVIII secolo, mandarono a studiarle famosi ed esperti
studiosi dell'antichità, come Colin Mackenzie.
Le
prove mancanti
- Prima dello tsunami del 26
dicembre 2004 ogni prova addotta a sostegno dell'esistenza delle sette
pagode di Mahabalipuram era basata su ben pochi fatti concreti e più su
racconti tramandati nel tempo che su fatti verificati. L'esistenza del
Tempio della spiaggia, dei templi più piccoli e delle rathas suggeriva
l'idea che quest'area avesse una significativa importanza religiosa, ma
l'unica prova sopravvissuta fino a noi era una rappresentazione dei
sette templi risalente alla dinastia Pallava. Nel suo libro del 1993
Ramaswami scrive che una civiltà di 2.000 anni, 40 monumenti
sopravvissuti fino a noi (fra cui due bassorilievi di dimensioni
gigantesche) e le leggende che affondano le loro radici nell'antichità
e che si sono sparse per l'Europa e l'Asia meridionale, tutto ciò ha
fatto sì che le persone si costruissero il mistero di Mahabalipuram.
Egli scrive esplicitamente che non c'è nessuna città nascosta sotto le
onde al largo di Mahabalipuram e che il soprannome europeo dato alla
città, Sette Pagode, è assolutamente irrazionale e privo di
fondamento.
Tuttavia nel 2002 alcuni archeologi decisero di esplorare le zone al largo
della costa di Mahabalipuram, poiché numerosi pescatori sostenevano di
aver intravisto delle rovine in fondo al mare durante la loro attività.
Questo progetto fu una cooperazione fra un gruppo indiano ed uno
britannico e, semisepolti sotto la sabbia, trovò i resti di mura ad una
profondità compresa fra i 5 e gli
8 metri
, ad una distanza dalla costa compresa fra i 500 e i
700 metri
. L'aspetto dei resti suggerisce che essi
appartengano non ad una sola struttura, ma a numerosi templi. Gli
archeologi li hanno datati alla dinastia Pallava, più o meno nel
periodo dei due sovrani Mahendravarman I e Narasimharavarman I. Il
gruppo, dopo gli studi del 2002, decise che il sito meritava un
ulteriore approfondimento poiché probabilmente sotto la sabbia si
celavano altre strutture.
Lo
tsunami - Subito prima del disastroso
tsunami che il 26 dicembre 2004 spazzò tutto l'Oceano Indiano l'acqua
nei pressi di Mahabalipuram si ritrasse di circa
500 metri
, un effetto ben noto che si verifica immediatamente prima che un tale
evento si abbatta sulla costa. I turisti e i residenti che videro di
persona il fatto dalla spiaggia sostennero successivamente di aver visto
emergere dall'acqua una lunga e dritta fila di grandi rocce. Ovviamente
lo tsunami si abbatté sulla costa e l'acqua dell'oceano ricoprì
immediatamente tutto, ma secoli di sedimenti che avevano ricoperto le
strutture erano stati spazzati via. Addirittura alcune statue e piccoli
edifici, precedentemente ricoperti di sabbia, a causa della
modificazione della linea costiera avvenuta per la violenza dello
tsunami sono state riportate alla luce improvvisamente.


Queste inattese scoperte destarono l'interesse quasi immediato sia degli
studiosi che della popolazione locale. Probabilmente
il più famoso ritrovamento archeologico dovuto allo tsunami è quello
della grande statua di un leone in posizione seduta: il cambiamento
della linea costiera lo ha lasciato allo scoperto, dissepolto dalla
sabbia, sulla spiaggia di Mahabalipuram. Gli
archeologi lo hanno datato al VII secolo ed è subito diventato una meta
obbligata per il turismo della regione.
Nell'aprile del 2005 un team di archeologi indiani, con l'aiuto dei mezzi
della Marina militare indiana, iniziò una ricerca ad ampio raggio al
largo della costa di Mahabalipuram, utilizzando anche la tecnologia
sonar. Essi scoprirono che le pietre che la gente disse di aver visto
subito prima dello tsunami erano parte di un muro alto poco meno di due
metri e lungo circa
70 metri
. Durante queste ricerche
vennero ritrovati anche due templi sommersi ed un tempio scavato nella
roccia, tutti entro
500 metri
di distanza dalla linea costiera. Benchè ciò
non sia assolutamente sufficiente a suffragare il
mito
delle sette pagode, è comunque possibile affermare che il sito
religioso di Mahabalipuram era decisamente più ampio di quello che si
pensava fino a pochissimi anni prima.
Gli studiosi coinvolti in
questa ricerca dissero in un'intervista ad un giornale indiano che le
esplorazioni sonar avevano permesso di realizzare una mappa abbastanza
precisa delle mura interne ed esterne dei due templi sommersi, ma che
era ancora troppo presto per poter speculare sulla loro possibile
funzione o utilizzo. Dissero inoltre che, mettendo in relazione queste
due strutture sommerse con il Tempio della spiaggia ed altre strutture
minori, si ottiene un quadro molto somigliante all'unico dipinto di
epoca Pallava che riporta l'antica disposizione del complesso delle
Sette Pagode.
Lo tsunami ha lasciato allo scoperto anche una grande pietra con numerose
iscrizioni, secondo le quali il sovrano Krishna III aveva pagato una
forte somma per poter mantenere una fiamma eterna davanti ad un tempio. Gli
archeologi hanno scavato nai pressi della pietra e ben presto si sono
trovati davanti alla struttura di un ulteriore tempio di epoca Pallava. Nello
stesso posto sono stati trovate anche numerose monete ed oggetti usati
nelle antiche cerimonie indù.
Durante
gli scavi di questa struttura sono venute alla luce le fondamenta di un
tempio tamil, risalente a circa 2.000 anni fa. La maggior parte degli
studiosi che lavorano sul sito ritengono che in qualche momento compreso
fra il periodo Sangam e il periodo Pallava uno tsunami abbia colpito
duramente la regione, distruggendo il tempio più antico. Numerosi
strati di conchiglie e di altri detriti sparsi su una vasta area
supportano questa teoria. Un altro tsunami, avvenuto nel XIII secolo, può
poi essere la causa della distruzione dei templi di epoca Pallava. Prove
a sostegno di questo evento catastrofico possono essere trovate lungo
l'intera costa orientale dell'India.
