Complesso monumentale di Mahabalipuram
India

PATRIMONIO DELL'UMANITÀ DAL 1984

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Mahabalipuram, conosciuta anche col nome di Mamallapuram, è una città costiera dello stato del Tamil Nadu, situata circa 60 chilometri a sud di Chennai, in India. L’odierno sito di Mahabalapuram era già noto ai Greci e frequentato dai Romani. Fra il VII e l’VIII secolo d.C. divenne il porto principale della dinastia dei Pallava, Mamallapuram ovvero la “Città di Malla”, titolo di Narasimhavarman I, uno dei principali sovrani pallava che regnò fra il 630 e il 670. La città più vicina è Madras, capitale dello stato del Tamilnadu, a 54 chilometri. La città più vicina è Madras, capitale dello stato del Tamilnadu, a 54 chilometri.

Fin dalle prime ore del mattino, nel villaggio di Mahabalipuram risuona il ticchettio prodotto da centinaia di scalpellini impegnati nella realizzazione di statue a soggetto religioso. L'artigianato scultoreo è la principale attività di questa zona costiera del Tamil Nadu, un angolo di antica India ad appena 50 chilometri da Chennai (vale a dire Madras). E quello dello scalpellino, qui, è un mestiere tramandato di padre in figlio, da generazioni. Del resto, una scuola di scultura venne istituita a Mahabalipuram nel VII secolo da re Narasimha Varman I. La dinastia cui apparteneva, i Pallava, governò su buona parte dell'India del Sud dal I all'VIII secolo. 

La capitale dei Pallava era Kanchipuram, mentre a Mahabalipuram era situato il porto, che Narasimha Varman I volle abbellire in modo che coloro che prendevano il mare potessero serbare un magnifico ricordo della patria. Al punto che oggi i monumenti del villaggio sono considerati tra i più alti esempi di arte scultorea dell'India. 

I complessi archeologici si articolano in tre gruppi: il monumentale rilievo della “Discesa del Gange” (metà del VII secolo), con una serie di mandapa scavati in un enorme sperone di diorite; il complesso dei cinque ratha, a circa 500 metri a sud; il cosiddetto “Tempio della riva”. L'affresco petroso che racconta la mitica discesa del fiume Gange sulla terra, è volto a est e misura circa 26 metri per 7.

Benché alcuni studiosi abbiano voluto vedervi invece la penitenza compiuta da Arjuna – uno dei cinque protagonisti del grande poema epico Mahabharata - per ottenere dal dio Shiva armi invincibili, la maggior parte dei critici legge il grande bassorilievo come celebrazione del fiume più sacro di tutta l’India. La rocca, infatti, è fessurata al centro e una cisterna anticamente situata alla sommità dello sperone permetteva a un fiotto d’acqua di colare lungo il pannello e di raccogliersi nel piccolo bacino antistante: l’espediente rimanda evidentemente a un contesto fluviale.  

Racconta il mito, riportato in numerosi testi classici, che la divina fiumana Ganga fu indotta a discendere fra gli uomini dall’ascesi durissima di un sant’uomo, Bhagiratha, che vi si era impegnato per liberare da una maledizione i suoi antenati. Affollata di personaggi, la “Discesa del Gange” presenta un idillico spaccato di vita silvestre: cacciatori, eremiti, abitanti locali, animali selvaggi si distribuiscono su diversi registri, a cui fa da corona il corteggio degli dèi con le apsaras, ninfe bellissime, i gandharva, geni dell’aria, i kinnara, musicanti celesti in parte animali e tanti altri esseri mitici colti in volo mentre vengono ad assistere al sacro evento.

Bhagiratha, l’asceta, vi è rappresentato nella posizione yoga dell’albero, ritto su un piede con le braccia levate al cielo. Nella fessura da cui scendeva il rivolo si muovono sinuosi i naga con le loro spose, le nagini, esseri in parte umani e in parte serpentini, connessi con le acque, la fertilità e la conoscenza.  

Fra i tanti monumenti disseminati attorno alla “Discesa del Gange” meritano menzione i mandapa, santuari rupestri scavati in grotte o sotto spioventi di roccia che albergano splendidi rilievi, preceduti da verande a colonne spesso rette da leoni, simbolo della guerriera Dinastia dei Pallava. I templi-grotta hanno un portico ipostilo e altorilievi con scene mitologiche all'interno. Tra i più belli vi è quello dedicato a Krishna, una delle incarnazioni di Visnu, che è rappresentato mentre solleva sulle spalle la montagna Govardhan. 

Il più notevole dei rilievi scolpiti sulle rocce occupa la facciata orientale di un'enorme rupe e rappresenta la discesa della Ganga, la dea del Gange che, volendo liberare gli uomini da una terribile siccità, si offre di scendere sulla terra e, per evitare gli effetti devastanti della forza delle sue acque, chiede aiuto a Shiva, che le consente di scivolare dolcemente lungo la sua chioma, andando così a formare il letto del Gange.

L'asse centrale della scena, cioè il fiume, in origine era un ruscello naturale, oggi asciutto, che alimentava uno stagno per le abluzioni situato sotto la roccia. Questo rilievo, ornato tutt'intorno da figure umane e animali finemente lavorate, è considerato un capolavoro dell'arte dravidica. Il tempio-grotta di Adivaraha racchiude vari pannelli: in uno Vishnu è incarnato nel verro Varaha, in quello accanto lo stesso dio riposa su un letto di serpenti; più in là vi sono figure umane, attribuite al re Pallava Simhavishnu (574-600) e a suo figlio Mahendra I (600-630). 

Nel Mahishamardhani mandapa si trova la scultura più raffinata di Mahabalipuram, raffigurante la terribile dea Durga che sconfigge un demone con la testa di toro. In un altro mandapa, cui venne aggiunto un ingresso a colonne in epoca successiva, si narrano invece le gesta di Krishna. 

Più a sud sorge il famoso gruppo dei ratha, un insieme di cinque templi monolitici concepiti appunto come ratha, “carri professionali” lignei che ancora oggi ospitano le immagini degli dèi quando queste vengono portate fuori dai templi. Scolpiti verso la metà del VII secolo nei blocchi di diorite che emergono dalla spiaggia, i tempietti presentano tutte le caratteristiche di modelli e qualcuno ipotizza che costituissero le prove di una scuola locale di architettura, mentre altri lì interpretano come offerte votive.

Caso unico nella storia dell’arte indiana, non completamente terminati, i tempietti hanno ricevuto i nomi suggestivi degli eroi del Mahabharata, la grande epopea che vede incarnate sulla terra e antagoniste le forze positive dei deva, gli “dèi”, a quelle negative degli asura, i “demoni”.  

Drapaudi è la sposa comune dei cinque Pandava, i campioni del bene, e denomina il ratha più piccolo, probabilmente consacrato alla dea Durga, che riproduce nella pietra la capanna degli asceti, semplice ambiente quadrato sormontato da un tetto in paglia con decorazioni lignee agli spigoli. Una scala di accesso conduce all’ingresso fiancheggiato da due guardiane e sormontato da un architrave con motivi a makara, mitici animali acquatici che sovrastano con grazia anche sulle altre pareti le nicchie ospitanti statue della dea. Il toro Nandi, cavalcatura del dio Shiva consorte di Durga, e il leone veicolo della dea sono scolpiti lì accanto. Il ratha seguente è quello di Arjuna, il cavaliere per eccellenza, ed è probabilmente dedicato all’antico dio Indra che vi compare sul suo elefante Airavata.  

Collocato su un basamento retto da leoni e da elefanti, presenta un portico d’ingresso con due colonne leonine. Le altre tre pareti sono divise ciascuna in cinque riquadri che includono splendide statue, tra cui coppie di amanti. Su uno spiovente ornato da kudu, piccoli archi a ferro di cavallo che inquadrano volti ridenti, si inserisce la parte superiore in forma piramidale: costituita da due piani bordati di padiglioni in miniatura, è terminata da una cupola ottagonale.  

Da Bhima, guerriero erculeo, prende il nome il terzo ratha, base rettangolare, circondato da una veranda in parte a colonne sorrette da leoni, con lo spiovente a kudu, una fila di padiglioni che riproducono in miniatura l’intera struttura del ratha e una costruzione terminale coperta da tetto a botte.  

Il Dharmaraja ratha, collegato a Yudhishthira, modello del re pio e giusto, reca un’iscrizione che permette di datarlo con sicurezza al regno di Narasimhavarman I (630 – 670), rappresentato fra due statue, che lo consacrò a Shiva. È il più alto di tutti: sorge su un basamento di particolare rilievo, ha pianta quadrata ed è preceduto da un portico a colonne leonine. Articolato su tre piani, amplia il modello dell’Arjuna ratha, presentando la medesima struttura piramidale con spioventi a kudu che separano i vari livelli e fanno da base alle file di padiglioni miniaturizzati. Una cupola ottagonale conclude armoniosamente la costruzione. Numerose statue pregevoli ornano le pareti.  

L’ultimo ratha è quello dei guerrieri gemelli Nahula e Sahadeva; di dimensioni ridotte, l’ingresso ombreggiato da un portichetto con le solite colonne rette da leoni, è absidato e riprende quella struttura a “schiena di elefante” sottolineata da una realistica riproduzione dell’animale lì accanto.  

L’ultimo grande capolavoro di Mamallapuram, il “Tempio della riva” fatto erigere da Narasimhavarman II Rajasimha che regnò dal 690 al 728, svetta solitario sulla spiaggia, dedicato a Shiva. Noto ai naviganti come faro, il primo a segnalare la presenza fu l’italiano Gasparo Balbi che nel 1582 definisce la zona “quella delle sette pagode”, includendo oltre ai cinque ratha e al “Tempio della riva” anche il Ganesha ratha, simile al Bhima e collocato nella zona della “Discesa del Gange”.

Nel XVII secolo Nicolò Mannucci ne arla di nuovo, ma è nel 1788 che Chambers ne dà la prima dettagliata descrizione in “Asiatic Researches”. Il tempio, preceduto da un piccolo gopuram, cioè un ingresso segnato da una sovrastruttura, è articolato in due costruzioni a pianta quadrata, entrambe sovrastate dal vimana, la torre piramidale di protezione della cella che tanta fortuna avrà nell’architettura gravida, cioè quella dell’India del sud. Il vimana presenta un profilo decisamente triangolare e ripropone le svettare della montagna cosmica, il mitico monte Meru, l’axis mundi, il perno centrale attorno al quale ruota ordinariamente l’universo.

I vimana del “Tempio della riva” sono l’uno a quattro e l’altro a tre piani, molto aperti, di cui il primo e l’ultimo sono decorati con animali araldici e privi dei parapetti costituiti dalla fila di padiglioni in miniatura, che invece sono presenti nei piani intermedi. Le celle sono tre, benché una sia attualmente senza copertura: il gruppo di Shiva, la consorte Uma e il figlio Skada, occupa la prima, mentre nella seconda è visibile Vishnu che riposa sull’oceano primordiale. Uno stretto passaggio fra le pareti della cinta interna permette la deambulazione. Il tempio è inserito in un recinto più ampio, con un muretto sovrastato da Nandin a guisa di merli.

LA CITTÁ SOTTOMARINA

Secondo un mito che dura da circa undici secoli, Mahabalipuram aveva sette pagode presso il mare. Le prime tracce nella letteratura occidentale di questa narrazione si hanno grazie a John Goldingham, un viaggiatore britannico che raggiunse la città nel 1798 e cui venne narrato questo fatto, anche se delle pagode non restava all'epoca traccia tranne che per quanto riguarda il Tempio della spiaggia, che dovrebbe essere una delle pagode.

In seguito al catastrofico Maremoto dell'Oceano Indiano del 26 dicembre 2004 e al conseguente tsunami è stata riportata alla luce un'antica città portuale con alcune rovine risalenti al VII secolo. Man mano che le acque si ritirarono, infatti, la loro forza si portò dietro una gran quantità di sabbia che da secoli ricopriva strutture rocciose e sculture rappresentanti animali, fra cui un'elaborata testa di elefante ed un cavallo alato. Sopra la testa dell'elefante si trova una piccola nicchia quadrata con una statua di una divinità. In un'altra struttura adiacente si può vedere una scultura rappresentante un leone. L'uso e lo stile di queste sculture di animali è consistente con altri templi e decorazioni del periodo Pallava compreso fra il VII e l'VIII secolo.

Alla luce di queste scoperte, il 17 febbraio 2005 la Soprintendenza archeologica indiana ha dato inizio alle esplorazioni subacquee al largo della costa per cercare di scoprire quanto queste rovine si estendano.  

Sette pagode di Mahabalipuram - Con sette pagode di Mahabalipuram ci si riferisce ad un mito che circola in India ed in Europa da oltre 11 secoli. Sette Pagode era anche il soprannome con cui era nota la città indiana di Mahabalipuram (chiamata anche Mamallapuram) dopo che questa venne raggiunta dai primi esploratori europei. Secondo la leggenda in questa zona sorgevano un tempo sette templi dello stesso tipo del Tempio della spiaggia, l'unico sopravvissuto fino ai giorni nostri ed eretto nell'VIII secolo sull rive del golfo del Bengala.

Il mito - Un antico mito del brahmanesimo spiega l'origine delle pagode in termini soprannaturali. Il principe Hiranyakasipu si rifiutava di adorare Vishnu. Al contrario suo figlio, Prahlada, venerava grandemente Vishnu e criticava aspramente il padre per la sua mancanza di fede. Hiranyakasipu bandì Prahlada dal regno, ma in seguito la sua collera si placò e permise al figlio di tornare. I due cominciarono ben presto a disputare sulla natura di Vishnu e, quando Prahlada affermò che il dio era presente in ogni luogo, compresi i muri della loro casa, il padre diede un calcio ad un pilastro. Subito dal pilastro emerse Vishnu in forma di uomo con testa di leone, e uccise Hiranyakasipu. Prahlada divenne re ed ebbe un figlio chiamato Bali, che fondò Mahabalipuram su questo sito.

I primi accenni scritti - Le origini del tempio sono state oscurate dal passare del tempo, dalla totale mancanza di fonti documentali scritte e dal tramandarsi di generazione in generazione della tradizione orale. L'inglese D. R. Fyson, dopo aver soggiornato per numerosi anni a Madras (l'odierna Chennai), scrisse un conciso libello sulla città di Mahabalipuram intitolato Mahabalipuram or Seven Pagodas (Mahabalipuram o Sette Pagode), che nelle sue intenzioni doveva essere un souvenir per i turisti occidentali. In esso egli sosteneva che il sovrano Narasimharavarman I, della dinastia Pallava, fondò oppure allargò di molto la città di Mahabalipuram, più o meno nel 630. Ad oggi tuttavia non ci sono chiare testimonianze archeologiche che attestino se la città sia stata o meno la prima ad essere stata costruita in questa zona.

Circa 30 anni prima della fondazione della città di Narasimharavarman I, il sovrano Mahendravarman I (sempre della dinastia Pallava) aveva dato inizio alla costruzione di una serie di templi scavati nella roccia, seguiti negli anni successivi dalla costruzione di strutture a sé stanti, chiamate rathas in lingua tamil. Oggi nel sito esistono ancora nove rathas. La costruzione di questi due tipi di strutture pare si sia fermata a Mahabalipuram nel 640. Fyson sostiene che le rovine provino che un tempo qui vi fosse un monastero (vihara in tamil), idea adottata seguendo le usanze dei precedenti abitanti della regione, di fede buddhista. Egli suggerisce, sulla base della loro suddivisione in piccole stanze, che le abitazioni dei monaci fossero divise fra i vari rathas della città. L'influenza buddhista è visibile chiaramente nella forma del tempio della spiaggia e nell'architettura di altre costruzioni limitrofe.

Fyson dedicò pochissimo spazio del suo breve libro al racconto del mito delle Sette pagode. Egli narra come il dio Indra divenne geloso di questa città terrena e la sprofondò durante una tempesta, lasciando fuori dall'acqua il solo tempio della spiaggia. Egli accenna poi al fatto, riportato dagli abitanti locali, secondo cui alcuni degli altri templi sono visibili fra le onde quando essi si spostano al largo a bordo delle loro barche da pesca.

Gli esploratori europei - Secondo lo storico indiano Ramaswami uno dei primi esploratori europei che giunse a Mahabalipuram è stato Marco Polo: egli lasciò pochissime notizie del suo viaggio, ma registrò la posizione della città nella sua mappa catalana del 1275. Successivamente molti altri europei accennarono alle sette pagode durante i loro viaggi verso le colonie indiane. Il primo a scriverne fu John Goldingham, un astronomo inglese che visse a Madras fra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX. Nel 1798 egli scrisse un resoconto della sua visita e della leggenda, narrazione raccolta nel 1869 in un libro da Mark William Carr. Goldingham descrisse principalmente l'arte, le statue e le iscrizioni trovate nel sito archeologico. Egli ricopiò a mano molte delle iscrizioni, includendole nel suo scritto. Egli interpreta la maggior parte delle figure come frutto di simbolismo, discutendo quale significato potessero avere. Va notato che Benjamin Guy Babington, autore di un altro lavoro raccolto nello stesso volume, identifica un gran numero di quelle figure come lettere della lingua telugu.

Nel 1914 J.W. Coombes sostenne che le costruzioni un tempo si trovassero sulle sponde dell'oceano e che le loro cupole di rame servissero come indicazione per i naviganti, grazie alla riflessione della luce solare. Egli sostiene inoltre che i moderni abitanti non sappiano più quante pagode si trovassero lì in origine ma secondo la sua opinione il numero doveva essere circa sette.

Secondo Ramaswami gran parte del merito della diffusione del mito presso gli europei è da ascrivere al poeta Robert Southey, che lo menzionò nel suo poema The Curse of Kehama (La maledizione di Kehama), pubblicato nel 1810. Nel suo poema, riferendosi alla città con un altro dei suoi nomi (Bali, in onore del suo mitico fondatore), Southey dice chiaramente che è visibile più di una pagoda. Egli comunque scrisse numerose storie di impronta romantica aventi come soggetto svariate culture del mondo, come quelle indiane, di Roma antica, del Portogallo, del Paraguay e perfino degli indiani d'America, tutti basati sui resoconti di altri viaggiatori e sulla sua stessa immaginazione.  

Ramaswami nota poi che gli europei giocarono un ruolo importante nella riscoperta di Mahabalipuram poiché, prima del loro arrivo agli inizi del periodo coloniale, quasi tutti i monumenti minori della città si trovavano sepolti sotto la sabbia, parzialmente o interamente. I coloni e i loro familiari liberarono dalla sabbia le strutture e, una volta che gli archeologi inglesi ebbero realizzato la vastità e la bellezza delle rovine verso la fine del XVIII secolo, mandarono a studiarle famosi ed esperti studiosi dell'antichità, come Colin Mackenzie.

Le prove mancanti - Prima dello tsunami del 26 dicembre 2004 ogni prova addotta a sostegno dell'esistenza delle sette pagode di Mahabalipuram era basata su ben pochi fatti concreti e più su racconti tramandati nel tempo che su fatti verificati. L'esistenza del Tempio della spiaggia, dei templi più piccoli e delle rathas suggeriva l'idea che quest'area avesse una significativa importanza religiosa, ma l'unica prova sopravvissuta fino a noi era una rappresentazione dei sette templi risalente alla dinastia Pallava. Nel suo libro del 1993 Ramaswami scrive che una civiltà di 2.000 anni, 40 monumenti sopravvissuti fino a noi (fra cui due bassorilievi di dimensioni gigantesche) e le leggende che affondano le loro radici nell'antichità e che si sono sparse per l'Europa e l'Asia meridionale, tutto ciò ha fatto sì che le persone si costruissero il mistero di Mahabalipuram. Egli scrive esplicitamente che non c'è nessuna città nascosta sotto le onde al largo di Mahabalipuram e che il soprannome europeo dato alla città, Sette Pagode, è assolutamente irrazionale e privo di fondamento.

Tuttavia nel 2002 alcuni archeologi decisero di esplorare le zone al largo della costa di Mahabalipuram, poiché numerosi pescatori sostenevano di aver intravisto delle rovine in fondo al mare durante la loro attività. Questo progetto fu una cooperazione fra un gruppo indiano ed uno britannico e, semisepolti sotto la sabbia, trovò i resti di mura ad una profondità compresa fra i 5 e gli 8 metri , ad una distanza dalla costa compresa fra i 500 e i 700 metri . L'aspetto dei resti suggerisce che essi appartengano non ad una sola struttura, ma a numerosi templi. Gli archeologi li hanno datati alla dinastia Pallava, più o meno nel periodo dei due sovrani Mahendravarman I e Narasimharavarman I. Il gruppo, dopo gli studi del 2002, decise che il sito meritava un ulteriore approfondimento poiché probabilmente sotto la sabbia si celavano altre strutture.

Lo tsunami - Subito prima del disastroso tsunami che il 26 dicembre 2004 spazzò tutto l'Oceano Indiano l'acqua nei pressi di Mahabalipuram si ritrasse di circa 500 metri , un effetto ben noto che si verifica immediatamente prima che un tale evento si abbatta sulla costa. I turisti e i residenti che videro di persona il fatto dalla spiaggia sostennero successivamente di aver visto emergere dall'acqua una lunga e dritta fila di grandi rocce. Ovviamente lo tsunami si abbatté sulla costa e l'acqua dell'oceano ricoprì immediatamente tutto, ma secoli di sedimenti che avevano ricoperto le strutture erano stati spazzati via. Addirittura alcune statue e piccoli edifici, precedentemente ricoperti di sabbia, a causa della modificazione della linea costiera avvenuta per la violenza dello tsunami sono state riportate alla luce improvvisamente.

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Queste inattese scoperte destarono l'interesse quasi immediato sia degli studiosi che della popolazione locale. Probabilmente il più famoso ritrovamento archeologico dovuto allo tsunami è quello della grande statua di un leone in posizione seduta: il cambiamento della linea costiera lo ha lasciato allo scoperto, dissepolto dalla sabbia, sulla spiaggia di Mahabalipuram. Gli archeologi lo hanno datato al VII secolo ed è subito diventato una meta obbligata per il turismo della regione.

Nell'aprile del 2005 un team di archeologi indiani, con l'aiuto dei mezzi della Marina militare indiana, iniziò una ricerca ad ampio raggio al largo della costa di Mahabalipuram, utilizzando anche la tecnologia sonar. Essi scoprirono che le pietre che la gente disse di aver visto subito prima dello tsunami erano parte di un muro alto poco meno di due metri e lungo circa 70 metri . Durante queste ricerche vennero ritrovati anche due templi sommersi ed un tempio scavato nella roccia, tutti entro 500 metri di distanza dalla linea costiera. Benchè ciò non sia assolutamente sufficiente a suffragare il mito delle sette pagode, è comunque possibile affermare che il sito religioso di Mahabalipuram era decisamente più ampio di quello che si pensava fino a pochissimi anni prima.

Gli studiosi coinvolti in questa ricerca dissero in un'intervista ad un giornale indiano che le esplorazioni sonar avevano permesso di realizzare una mappa abbastanza precisa delle mura interne ed esterne dei due templi sommersi, ma che era ancora troppo presto per poter speculare sulla loro possibile funzione o utilizzo. Dissero inoltre che, mettendo in relazione queste due strutture sommerse con il Tempio della spiaggia ed altre strutture minori, si ottiene un quadro molto somigliante all'unico dipinto di epoca Pallava che riporta l'antica disposizione del complesso delle Sette Pagode.

Lo tsunami ha lasciato allo scoperto anche una grande pietra con numerose iscrizioni, secondo le quali il sovrano Krishna III aveva pagato una forte somma per poter mantenere una fiamma eterna davanti ad un tempio. Gli archeologi hanno scavato nai pressi della pietra e ben presto si sono trovati davanti alla struttura di un ulteriore tempio di epoca Pallava. Nello stesso posto sono stati trovate anche numerose monete ed oggetti usati nelle antiche cerimonie indù. 

Durante gli scavi di questa struttura sono venute alla luce le fondamenta di un tempio tamil, risalente a circa 2.000 anni fa. La maggior parte degli studiosi che lavorano sul sito ritengono che in qualche momento compreso fra il periodo Sangam e il periodo Pallava uno tsunami abbia colpito duramente la regione, distruggendo il tempio più antico. Numerosi strati di conchiglie e di altri detriti sparsi su una vasta area supportano questa teoria. Un altro tsunami, avvenuto nel XIII secolo, può poi essere la causa della distruzione dei templi di epoca Pallava. Prove a sostegno di questo evento catastrofico possono essere trovate lungo l'intera costa orientale dell'India.