A
231 km
. da Santa Cruz si trova uno dei maggiori tesori culturali della Bolivia:
la Chiquitanía
, zona tropicale al nord-est della città che ospita le antiche missioni
gesuitiche. Questa zona è abitata dai chiquitanos, indigeni che furono
colonizzati dagli spagnoli e organizzati in comunità dai missionari gesuiti
venuti dall'Europa tra il 1720 ed il 1760.
Con
1 milione 200 mila abitanti, con la sua originale struttura urbanistica ad
anelli concentrici Santa Cruz è, oggi, la seconda città per importanza della
Bolivia. Qui, negli alti edifici e nelle sontuose ville di periferia, vivono i
magnati dell’agricoltura tropicale e dell’industria petrolifera della vicina
zona di Camiri. E il “Circuito delle missioni gesuite” costituisce il suo
gioiello architettonico, storico e religioso, dichiarato Monumento nazionale
negli Anni 50 e Patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 1990. Dislocate a
raggiera lungo un arco di alcune centinaia
di chilometri le "magnifiche sette" chiese barocche delle Missioni:
San Javier, Concepcion, San Ignacio de Velasco, San Miguel de Velasco, San
Rafael de Velasco, Santa Ana de Velasco e San José de Chiquitos.
La
città è collegata per ferrovia con la più imponente e originale delle sette
chiese, quella di San José de Chiquitos. Il circuito va percorso seguendo la
strada statale che per un primo lungo tratto conduce, a nord, verso la regione
amazzonica di Trinidad e del Beni.

Poi
si stacca, sulla destra, puntando verso la cittadina di San Ramon e quindi verso
San Javier che fu la prima missione gesuita sorta nel 1691 in territorio
boliviano e ha il privilegio di possedere la più bella delle sette chiese
barocche "inventate"dai gesuiti, tre secoli fa, nelle pianure e sulle
colline dove un tempo scorrazzavano gli indios Guarayos e Chiquitos.
Per
poterla ammirare in tutto il suo splendore, la chiesa di San Javier va vista in
due momenti diversi: all'imbrunire, quando la grande facciata centrale e i
portici di legno che la fiancheggiano sono in penombra e invitano al silenzio e
al raccoglimento; e poi alle prime luci dell'alba, quando la sagoma imponente
dell'edificio si staglia sulla piazza alberata e sulle casupole circostanti. In
quel momento, i primissimi raggi del sole fanno esplodere di vivacità e
bellezza le tinte scure del portale centrale e delle alte colonne a tortiglione
e i toni più delicati della parete esterna ricca di rosoni, ogive, disegni
geometrici e floreali.
Nel
momento in cui la struttura massiccia del tempio, concepito e realizzato
dall'architetto gesuita svizzero Martin Schmid tra il 1749 e il 1752, viene
investita dal forte sole tropicale non si può non provare una forte sensazione
di stupore: la chiesa sembra troppo grande, troppo ricca e troppo bella per un
paesino agricolo di poche centinaia di anime com'è oggi San Javier. E i
ragazzini vestiti di bianco e le piccole figure di donne che attraversano, con
passo veloce, il piazzale davanti all'edificio per recarsi a scuola o al
mercato, sembrano come smarriti di fronte a qualcosa che li sovrasta.
La
sensazione di stupore si rafforza quando si varca la soglia della chiesa e ci si
trova di fronte alla grandiosità delle tre navate, allo sfolgorio dei dipinti e
delle statue, allo splendore dei bassorilievi dorati o dai riflessi argentei
dell'altare centrale, del pulpito, delle cappelle laterali e dei confessionali.

La
preziosità del pavimento di mattoni rossi e la forza rassicurante che emana dal
soffitto di legno intagliato completano il quadro. Non c'è dubbio: la chiesa di
San Javier fu concepita dai missionari gesuiti con l'evidente intenzione di
suscitare negli indios Chiquitos sentimenti di ammirazione e di stupore. E per
alimentare la devozione verso un mondo religioso fatto di angeli, santi,
martiri, Cristi e Madonne potenti ma misericordiosi, un ordine cosmico nel quale
gli arcangeli trionfano su Satana e sul male.
Quando,
poi, ci si arrampica sull'alto ed elegante campanile di legno, situato di fianco
alla chiesa, e si osserva il paesaggio circostante, fatto di foreste, pascoli,
acquitrini e basse corline sovrastate da palme, la sensazione che
nell'intenzione dei missionari gesuiti la chiesa e le strutture religiose
dovessero incutere rispetto e ammirazione in chi le contemplava, diventa
palpabilissima.

Il
distacco tra l'imponenza, la ricchezza e la bellezza raffinata di San Javier e
il mondo della piccola comunità agricola che attorno alla chiesa barocca vive e
si muove è netto. Ma si attenua di molto quando si parla con la gente e
soprattutto quando la si osserva mentre partecipa in silenzio e con estrema
attenzione alle cerimonie religiose. Gli indios sembrano stare a loro agio tra
le navate imponenti, davanti all'altare sfolgorante di luci e riflessi e a
fianco del pulpito e dei confessionali ricoperti di raffinati bassorilievi in
legno. Come se fossero a casa loro. Come se quel tempio apparentemente troppo
grande, troppo ricco e troppo bello, appartenesse a loro, tanto da sentirsene
orgogliosi.
Tutto
questo farebbe pensare che i missionari gesuiti in quei decenni del Settecento
in cui poterono lavorare liberamente compirono un miracolo nel miracolo:
costruirono edifici religiosi mirabili per solidità, pregiatezza di materiali
impiegati e raffinatezza artistica nel lavorarlo per farne colonne, statue,
bassorilievi, soffitti e pavimenti. Ma chiesero e ottennero la collaborazione
degli indigeni e riuscirono a inculcare loro la convinzione che si trattasse di
opere a essi destinate e di cui si potevano considerare artefici e proprietari.
Non si potrebbe spiegare diversamente il fatto che San Javier sia stata
costruita in pochi anni e che oltre un secolo dopo, all'inizio degli Anni 80,
sia stata restituita alla sua primitiva bellezza dopo decenni di abbandono.

Concepciòn,
la seconda grande chiesa barocca che si incontra nel circuito, si trova a poche
decine di chilometri da San Javier e s'impone anch'essa all'attenzione per la
sua struttura imponente (il campanile sfoggia anche un sofisticato e gigantesco
orologio ad acqua) e soprattutto per la grandiosità del suo interno; su tutto
domina un altare che svetta per oltre 15 metri e che ha la forma di un immenso
polittico diviso in tre parti da due ordini di colonne tortili sovrapposte e
sormontato da una grande raggiera.
All'interno
si legge la sigla JHS (Jesus Hominum Salvator): la "firma" delle opere
dei membri della Compagnia di Gesù, l'ordine dei gesuiti. In sei grandi
riquadri compaiono figure di santi e di martiri e le due classiche
rappresentazioni della Vergine Immacolata e dell'Assunzione.

A
colpire l'occhio e l'immaginazione non sono però le singole figure dai colon e
dalle forme volutamente "gridate", ma il quadro d'insieme a forti
tinte dorate. Quando il sole, nelle ore calde del giorno, attraversa la grande
navata centrale e colpisce l'altare, la luce diventa abbagliante. Per gli indios
del Settecento dovette essere una visione fantasmagorica: la potenza del signore
dei cristiani.
Che
quasi sicuramente trovano ancora gli indios di oggi che la domenica mattina
lasciano le casupole e le strade fangose del villaggio per rifugiarsi nella
"loro" cattedrale. "Loro" perché costruita con il legno
duro delle loro foreste, con l'abilità e la dedizione dei loro artigiani e con
il lavoro umile ma prezioso dei loro manovali.

Concepciòn
ha un'importanza particolare perché possiede i laboratori di restauro che
lavorano a pieno ritmo per rimettere a nuovo, mantenendone le caratteristiche
originali del XIX secolo, le statue di Cristo, della Madonna e dei santi, le
prorompenti figure in legno di angeli e arcangeli, le croci e i crocefissi e gli
oggetti in metallo (tabernacoli, ostensori, turiboli, aspersori, pissidi) in
vetro, come le ampolle dell'acqua e del vino e degli oli santi, o in altro
materiale.
Dopo
San Javier e Concepciòn, situate in un'area agricola, ci si imbatte in una zona
prevalentemente coperta di paludi e foreste in cui sorgono le quattro chiese
della provincia di Velasco: San lgnacio, Santa Ana, San Gabriel e San Rafael.

San
Ignacio fu fondata nel 1748 ed era la chiesa più grande e a struttura più
elaborata delle altre. Demolita negli Anni 50 e sostituita con un mastodontico e
orribile edificio moderno, sta lentamente tornando al suo primitivo splendore
grazie agli sforzi e alla dedizione dell'architetto francescano svizzero Hans
Roth. È da poco scomparso, ma è stato sostituito da un eccezionale capomastro
indigeno.

Costruita
nel 1721, San Miguel ha magnifiche colonne a tortiglione, un altare in legno
scolpito con un San Michele arcangelo in volo, uno sfavillante pulpito dorato,
un prezioso campanile in muratura, dalla struttura semplice e austera che
contrasta con la ricchezza cromatica e decorativa della grande facciata lignea.

San
Rafael, costruita tra il 1740 e il 1748, conserva nel suo interno suggestivi
dipinti originali a soggetto musicale, ha un pulpito rivestito da uno strato di
mica lucente (è un minerale) ed è l'unica delle sette chiese che ha mantenuto
la struttura originale delle navate con rivestimento di canne.


La
chiesa di Santa Ana, infine, è quella che per il suo pavimento in terra
battuta, il tetto di fronde di palma e la struttura semplice e quasi disadorna
delle sue colonne di legno, ricorda meglio le primissime chiese costruite dai
gesuiti nella zona. In realtà a costruire la chiesa sono stati gli indigeni,
dopo la cacciata dei religiosi della Compagnia di Gesù. E il loro fu un
commovente atto di omaggio ai maestri così brutalmente allontanati.
Nell'immenso
piazzale antistante pascolano pecore, mucche, asinelli; e sull'erba del prato i
ragazzi giocano a pallone o a rincorrersi, all'ombra delle palme o dei magnifici
esemplari di toborochi, gli alberi-bottiglia dal tronco rigonfio che gli
indigeni utilizzavano come cisterna d'acqua. Ma la struttura semplice della
chiesa e il primitivismo dell'ambiente in cui essa sorge non devono trarre in
inganno. Il messaggio culturale dei gesuiti ha lasciato il segno. A Santa Ana
esiste una scuola di musica: decine di ragazzi, figli di contadini, la
frequentano. E la domenica mattina si esibiscono, durante la cerimonia
religiosa, suonando violini, clavicembali, arpe, cornette e altri strumenti che
i gesuiti introdussero ai loro tempi.

Dal
quadrilatero delle chiese della provincia di Velasco bisogna spingersi per circa
200 chilometri a sud per giungere a San José de Chiquitos, l'unica delle sette
chiese barocche gesuite costruita in pietra che colpisce per la complessità
della sua struttura, per l'essenzialità dei suoi elementi decorativi e per la
naturalezza con cui la sagoma imponente si inserisce nell'ambiente circostante e
lo sovrasta.

La
chiesa di San José si trasforma la domenica mattina e in occasione delle
feste religiose nel punto di riferimento per la vita dell'intera comunità.
-
- E
quando le navate della chiesa si riempiono di gente di ogni età e ceto
sociale e i canti riecheggiano all'interno della basilica o nella grande
piazza antistante, non si può non cogliere e toccare con mano la
differenza tra i superbi resti delle chiese barocche delle Riduzioni dei
gesuiti in Paraguay - o ancora nella zona di confine con l'Argentina e il
Brasile e le sette chiese delle Pianure Orientali della Bolivia:
ancora oggi, come nel lontano Settecento, queste ultime sono centri vivi e
pulsanti di religiosità e di umanità.
