Abbazia di Morimondo 
(Milano)

   

Al rosso dei mattoni si assomma il verde dei campi e l'azzurro del cielo. Morimondo dista meno di 30 chilometri da Milano, ma qui le luci e i rumori della metropoli si spengono, per lasciare spazio al silenzio e ai colori dell'arte e della natura. Per arrivarci si sfiorano corsi d'acqua (il Naviglio Grande e il Naviglio di Bereguardo, sua diramazione), si attraversano risaie e pioppeti. E quando, come per incanto, ci si trova davanti alla facciata a capanna dell'abbazia cistercense, non si può che distendere lo sguardo, elevare i pensieri. Proprio quello che volevano i monaci che nel 1134 intrapresero la costruzione del monastero, cui seguì, nel secolo seguente, quello della chiesa abbaziale, che ancora oggi accoglie, intatta, i visitatori.

La Morimondo milanese è figlia di Morimond, l'abbazia francese a sua volta generata da Citeaux, casa madre di tutti i cistercensi. Il padre spirituale dell'ordine è Bernardo di Clairvaux, monaco che sebbene non fosse il fondatore di Citeaux, seppe però imprimere il colpo d'ali all'ordine con il suo carisma, i trattati, le indicazioni per vivere la Regola di San Benedetto (Ora et labora) e la sequela del Vangelo. Bernardo aveva teorizzato con precisione anche le regole costruttive di chiese e conventi, intesi come luoghi di elevazione dello spirito, spazi ideali per una vita di contemplazione, preghiera, operosità. E Morimondo risponde appieno a questi dettami, tanto da essere considerata una delle abbazie "bernardine" per l'aderenza ai canoni del santo cistercense. 

Innanzitutto nessuna concessione alle decorazioni superflue: gli ambienti sono essenziali, spogli, e parlano il linguaggio dei simboli, che il monaco conosce e intende. La facciata a capanna dell'abbazia di Morimondo, come tutta la chiesa, è in mattoni d'argilla, poiché in zona era difficile reperire pietre, ma anche per una scelta di semplicità. Le due finestre alte della facciata sono aperte verso il cielo per ricordare al monaco la tensione verso Dio; unica concessione sono gli archetti romanici a bordare il perimetro del tetto, simbolo della comunione dei santi e tipico elemento del romanico comacino.

Una volta entrati nella chiesa, si è avvolti da silenzio e solennità: dai rosoni e dalle strette monofore la luce entra a fasci (anche questa era una prescrizione di Bernardo) per consentire al monaco di riflettere sulla luce, simbolo divino, e non su ciò che essa illumina. Le tre navate sono divise da colonne diverse tra loro, che supportano volte a tutto sesto e a sesto acuto: la commistione di elementi romanici e gotici si spiega con il lungo periodo di costruzione della chiesa (1182-1296) dovuto a saccheggi e invasioni. Ma non solo: è curioso riscontrare come in tutto l'edificio sacro sono numerose le asimmetrie, le imprecisioni, le differenze tra elementi che dovrebbero essere uguali. Per esempio, i capitelli della navata centrale sono tutti diversi, e così pure i costoloni delle volte, le colonne della navata destra hanno il basamento più alto di quelle a sinistra, la navata sinistra si restringe quasi in un metro. Ma anche queste imperfezioni fanno parte del linguaggio dei segni: i monaci costruttori ricercavano gli "errori", affinché la loro opera non fosse perfetta, poiché solo Dio lo era. 

A Morimondo, poco dopo la fondazione, esplosero le vocazioni: 50 coristi (monaci letterati, che lavoravo nello scriptorium e potevano recitare messa) e 200 conversi (illetterati, che si dedicavano alle opere di coltivazione, bonifica, assistenza ai pellegrini), mentre l'area di pertinenza dell'abbazia si allargò a 30 chilometri quadrati fino a raggiungere il Po. E se il lavoro manuale dei monaci era intenso, quello intellettuale non era da meno: lo scriptorium già nel primo secolo di vita contava un centinaio di codici, in gran parte sopravvissuti ai secoli, e oggi conservati nelle principali biblioteche del mondo. 

Dalla chiesa si passa al chiostro, su cui affacciano la sala capitolare e le sale di lavoro, recuperate durante i restauri iniziati nel 1982 e terminati lo scorso anno. Le pareti sono decorate con motivi geometrici, e sui muri nello scriptorium sono dipinte delle lettere, come su una lavagna, affinché i copisti avessero sempre davanti il modello. Al piano superiore c'è il dormitorio, in origine uno stanzone unico (i monaci dormivano tutti insieme e sul pagliericcio). Ma, a differenza degli altri monasteri cistercensi, tutti a due piani, quello di Morimondo, a causa dell'irregolarità del terreno, sul lato est possiede anche due piani inferiori rispetto al chiostro, adibiti a stanze di lavoro e cantine. È qui che si trova il punto di origine di tutto il complesso: un pilastro ottagonale (simbolo della Resurrezione), l'unico nel monastero realizzato in pietra, il primo a essere costruito.

Altre opere pregevoli si scoprono nella visita dell'abbazia, e sono legate a un secondo momento di fioritura del monastero quando, tra '400 e '500, vi si trasferì da Settimo Fiorentino un gruppo di monaci inviati da Giovanni de Medici, futuro papa Leone X, per riportare alla regolarità la vita monastica. Essi commissionarono a Bernardino Luini, o alla sua bottega, l'affresco della Madonna col Bambino, ora esposto nella chiesa; fecero modificare il chiostro e realizzare in chiesa il coro ligneo di 70 stalli, intarsiato e inciso a ferro rovente, opera di Francesco Giramo, nella scia della scuola bramantesca. 

Al giorno d'oggi nessun monaco abita più nell'abbazia di Morimondo. Ma nel 1993 è nata la Fondazione Abbatia Sancte Marie de Morimundo per tutelare e far vivere questo straordinario monumento cistercense. 

(Tratto da Bell’Italia – Antonella Galli

Storia e architettura

Il Monastero di Morimondo, nome che significa “morire al mondo”, cioè "vivere da risorti", inizia la sua storia il 4 ottobre 1134 con l'arrivo di un gruppo di monaci provenienti dal monastero francese considerato la sua casa madre in Borgogna: Morimond. L'11 novembre 1136 iniziano i lavori di edificazione e da allora tale luogo é divenuto centro di cultura e di spiritualità in quel lembo di terra lombarda, lambita dal Ticino, che si pone a confine tra Pavia e Milano. Già nei primi anni si ha una progressiva espansione nel numero di vocazioni, tanto che nel 1153 viene fondata l'abbazia di Acquafredda, presso Como e nel 1169 l'abbazia di Casalvolone, presso Novara. 

Un segno notevole ed eloquente della ricchezza di vocazioni é testimoniato dalla fiorentissima attività dello scriptorium. Anche dal punto di vista agricolo c'è una notevole espansione con gran numero di grange e mulini comprendenti un territorio di circa 3.200 ettari (XIII secolo), di cui due terzi sono coltivati e un terzo boschi.

Purtroppo la laboriosità e la pax monastica furono disturbate dagli eventi bellici del tempo. L'abbazia, infatti, era stata fondata al confine tra Pavia e Milano, città che continuamente si contendevano il dominio politico e militare con saccheggi e sconfinamenti al di qua e al di là del Ticino. Con la venuta di Federico Barbarossa in Italia, Morimondo venne sconvolta con un primo saccheggio da parte delle truppe tedesche nel 1161. La costruzione della chiesa abbaziale, ostacolata anche da una disputa di giurisdizione ecclesiastica con la vicina pieve di Casorate Primo, potè iniziare solo nel 1182.

Nel 1237 i lavori furono interrotti da un terribile saccheggio avvenuto nella notte del 3 dicembre a opera delle truppe pavesi, che devastarono il cenobio e uccisero molti monaci. Il monastero contava 50 monaci coristi (monaci sacerdoti che lavoravano nello scriptoriumi) e 200 conversi (monaci dediti alla gestione delle attività produttive del monastero e ai rapporti con l'esterno). Da allora la comunità non si rialzò più e il termine dei lavori dell'abbazia si ebbe solo nel 1296.

Il tredicesimo secolo, col sorgere dei nuovi ordini mendicanti, portò a Morimondo, come in tutto l'ordine dei Cistercensi, un calo delle vocazioni monastiche.

Nel 1450 Morimondo divenne commenda e il suo primo abate commendatario fu il cardinale Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano, seguito dal cardinale Branda Castiglioni, noto umanista; ma provvidenzialmente Morimondo ebbe la sua rinascita spirituale grazie al figlio di Lorenzo il Magnifico, il cardinale Giovanni de' Medici, futuro papa Leone X. Egli si adoperò a inviare a Morimondo sei monaci cistercensi provenienti dall'abbazia di Settimo Fiorentino per riportare la regolarità della vita monastica.

Segno di questa ripresa sono le opere di arte e di devozione, come la ricostruzione del chiostro intorno all’anno 1500, il rifacimento del portale della sacrestia, l'affresco della "Madonna col Bambino" attribuito al Luini del 1515, e infine il coro ligneo del 1522.

Nel 1564 San Carlo Borromeo, per aiutare economicamente l'Ospedale Maggiore di Milano, spogliò l’abbazia di Morimondo dei propri terreni; contemporaneamente la eresse a parrocchia, dandole il titolo di Santa Maria Nascente.

Il Seicento vide nell'abate Antonio Libanorio (1648-1652) l'apice di una nuova ripresa della comunità monastica.

Nel Settecento vennero edificati i palazzi che s’innalzano sopra i lati ovest e nord del chiostro. Il 31 maggio 1798, a seguito della rivoluzione francese, fu decretata la soppressione di tutti gli ordini monastici e quindi anche della comunità cistercense di Morimondo.

Dal 1805 al 1950 la vita religiosa venne animata da sacerdoti ambrosiani. Nel 1941 l’arcivescovo di Milano, il beato cardinale Ildefonso Schuster, in visita pastorale all'abbazia, constatatone lo stato di abbandono, volle riportare nel cenobio la vita religiosa. Prima vennero contattati i Trappisti delle Tre Fontane a Roma e in seguito, nel 1950, la Congregazione degli Oblati di Maria Vergine si stabilì nel monastero.

Nel 1991 il Cardinal Martini affida alla Congregazione dei Servi del Cuore Immacolato di Maria la cura pastorale della parrocchia con un nuovo invito a rilanciare l'abbazia di Morimondo come centro di spiritualità e di iniziative pastorali.

Con la costituzione della Fondazione Abbatia Sancte Marie de Morimundo, nel 1993 si assiste a un rilancio di Morimondo con la valorizzazione del patrimonio spirituale e culturale dell'abbazia e del monachesimo di Cîteaux in generale.

Dal 2006 è il clero diocesano che nella figura di Padre Mauro Loi assicura la continuità nel mantenere vivo lo scopo di questo luogo fondato da un piccolo gruppo di monaci francesi nel 1134: realizzare un posto di incontro tra Dio e l'uomo.

1. Chiesa - A croce latina e con facciata a capanna, è molto slanciata grazie alle arcate gotiche che sostengono le coperture delle tre navate.

2. Torre campanaria - Si innalza all'incrocio tra il transetto e la navata centrale. Ha forma ottagonale e, secondo la regola cistercense, conteneva una sola campana suonata attraverso la corda che pendeva nel sottostante coro dei monaci.

3. Capitolo e dormitorio - Il lato est del chiostro ospitava la sala capitolare (livello terreno), dove si leggevano i capitoli della Regola, e il soprastante dormitorio dei monaci.

4. Sala dei monaci - Era un vasto ambiente di lavoro dove si trovavano anche la biblioteca e lo scriptorium per la copia degli antichi codici.

5. Cucina e refettorio - Occupavano il lato sud del chiostro insieme al calefactorium, il locale dove si custodiva il fuoco per tutti gli usi dell'abbazia. È una delle aree che hanno subito le maggiori trasformazioni tra '600 e 700.

6. Loggiato - È collegato al refettorio e offre una vista panoramica sulla campagna circostante. La decorazione di pareti e colonne data alla fine del '400.

7. Zona dei Conversi - L'ala occidentale del chiostro, molto mutata dagli interventi sei e settecenteschi, era dedicata ai monaci conversi, quelli che si occupavano delle attività produttive e dei servizi per la comunità. Qui si trovavano anche la foresteria per l'accoglienza dei pellegrini e l'infermeria.

8. Sedile della Lectio - Ancora visibile, addossato al lato nord del chiostro. Qui i monaci leggevano e meditavano sulle Sacre Scritture. Era il settore più luminoso, rivolto a sud.

9. Ghiacciaia - Esiste ancora, sul retro dell'abside. È una costruzione a pianta circolare dove si conservavano la neve e il ghiaccio preso dalle vicine rogge.

10. Campi e canali - Nel XIII secolo il territorio di pertinenza dell'abbazia misurava 3.200 ettari: un terzo erano boschi, due terzi coltivati, caratterizzati da strutture rurali e da una rete di canali e rogge. A poche centinaia di metri, verso est, scorre il Naviglio di Bereguardo, il fiume Ticino passa un paio di chilometri a sud.  

Quarta fondazione italiana e prima in Lombardia, la chiesa abbaziale di Morimondo si scosta da tutte le altre edificazioni cistercensi del XII secolo. 

L’aver dovuto posticipare fino al 1182 gli inizi dei lavori di edificazione della chiesa ha fatto sì che si fruisse delle esperienze delle abbazie iniziate prima e terminate in poco tempo. La grande differenza con le altre abbazie cistercensi consiste essenzialmente in un maggior slancio dato dalle navate con volte a ogiva secondo il nascente stile gotico.

Già dall’esterno la chiesa di Morimondo si caratterizza per il suo stile tipicamente cistercense con contorni netti e geometrici, particolarmente accentuati nella forma rettangolare dell’abside, che permettono di individuare la distribuzione delle navate, la pianta a croce latina e nel trasetto la presenza di due cappelle per braccio.

All'incrocio del transetto con la navata centrale s'innalza un tiburio ottagonale. Questa piccola torre campanaria, secondo la regola cistercense, conteneva una sola campana, la cui corda pendeva attraverso un foro della volta nell'antico coro dei monaci, al centro della chiesa.

La facciata “a capanna” è sporgente nella parte alta al di sopra del tetto con caratteristiche finestre aperte verso il cielo che danno un senso di leggerezza ed eleganza, per l’accostamento del colore del cielo, sempre diverso, con il rosso dei mattoni.

Nella parte alta la facciata è decorata da bacini ceramici policromi con scritte in arabo, disposti a croce: elemento decorativo tipico dell’arte romanica in Pianura Padana, probabilmente essi testimoniano le attività benefiche dei monaci a favore di mendicanti e pellegrini ai quali offrivano cibo e ospitalità.

Intorno al perimetro esterno gira una fascia di archetti pensili, motivo tra i più caratteristici dell’architettura lombarda del tempo, forse simbolo della comunione dei santi.

Entrando nella chiesa, la luce e lo slancio delle arcate portano lo sguardo verso l’alto e il colore dei mattoni dà un senso di calore e di accoglienza.

Colpisce nelle giornate di sole la presenza della luce sotto forma di fasci e non in forma diffusa: in questo modo, centro dell'attenzione diviene la luce stessa e non ciò che essa illumina, così da portare il pensiero alla luce soprannaturale di Dio che illumina l'anima.

Nella sua struttura muraria si possono notare molte imperfezioni e asimmetrie, che, se comprese, trasformano l’architettura in un vero e proprio linguaggio spirituale.
Elenchiamone alcune:

- i capitelli delle colonne della navata centrale sono tutti diversi

- i costoloni delle volte a crociera sono realizzati in diversi modi

- gli archi della navata di sinistra sono gotici, hanno solo due volte con i costoloni in mattone, mentre quelli della navata destra sono romanici e hanno tutte le volte costolonate

- le colonne del lato destro hanno basamento più basso di quelle del lato sinistro, quindi sono più alte

- nella navata destra la distanza tra le colonne e il muro perimetrale è costante, mentre in quella sinistra aumenta di un metro dall’ingresso all’altare

Questo non per incapacità costruttiva ma per richiamare sempre al monaco che solo Dio è perfetto e per far memoria della molteplicità del creato e della fantasia del Creatore.

Riguardiamo con questo spirito alcuni elementi della chiesa:

- come tutte le chiese antiche, è orientata, cioè ha l'abside rivolta verso est: la luce entrando la mattina dalle finestre dell'abside ricorda al monaco, già dalle prime ore del giorno, che Cristo è la vera luce del mondo

- dai basamenti delle semicolonne della navata di destra si vede chiaramente che il pavimento sale: più ci si avvicina verso l'altare, più ci si eleva a Dio

- anche le colonne hanno un loro significato: sono forti per sostenere il peso dell’edificio, così come forte deve essere la fede; pur essendo forti sono fatte di materiale umile, così come la fede deve essere arricchita dall'umiltà; ogni mattone occupa ordinatamente il suo posto, così come il monaco deve vivere nell'obbedienza alla Regola

- le colonne ottagonali, a forma dei primi fonti battesimali, ricordano "l'ottavo giorno", cioè il giorno della Risurrezione. Il coro originariamente partiva da queste colonne, terminava al transetto e occupava, nella pianta a croce latina della chiesa che riproduce l'immagine di Gesù in croce, il posto della cassa toracica, perché la preghiera del monaco è il respiro di Cristo e l'ossigeno per l'umanità.

Come opere d’arte degne di nota, oltre al coro ligneo e ai dipinti, troviamo, entrando in chiesa sulla destra, l'acquasantiera formata dall‘originario lavabo del chiostro del XIII-XIV secolo, e il crocifisso ligneo, in una nicchia sempre alla destra, da datarsi alla seconda metà del secolo quindicesimo, attribuibile forse a un maestro toscano.

La porta che immette alla sacrestia presenta tutto attorno una pregevole decorazione in terracotta con motivi rinascimentali da ricondurre ai modelli eseguiti dal Bramante durante il suo soggiorno milanese alla fine del Quattrocento.

In linea di massima tutte le opere decorative e strutturali eseguite tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento sono state commissionate dai monaci fiorentini della Badia di Settimo, inviati da Giovanni de’ Medici, abate commendatario, nell'ambito di un grande progetto di riforma. Tra essi vi sono il monumentale coro alle spalle dell'altare maggiore (nella navata centrale) eseguito in forme rinascimentali da Francesco Giramo di Abbiategrasso nel 1522 (che presenta una rara lavorazione a intarsio sugli schienali), la decorazione rinascimentale in terracotta della porta della sacrestia e, nel transetto destro, l'affresco strappato attribuito a Bernardino Luini, rappresentante la Madonna col Bambino (1515) tra San Benedetto e Bernardo, che rispecchia la devozione a Maria da parte dei cistercensi come intermediaria tra la vita di preghiera quella quotidiana.

Il Coro ligneo - L'attuale coro ligneo, eseguito nel 1522 da Francesco Giramo, un artista di Abbiategrasso, in sostituzione degli stalli originari, costituisce un'interessante esempio di arredo ligneo rinascimentale sia per la struttura compatta e architettonica, modellata secondo gli schemi diffusi dal Bramante in Lombardia, sia per la tecnica delle figurazioni, disegnate con incisioni eseguite con ferro rovente e riempite con una pastiglia scura. Fu luogo di preghiera come evocato dai simboli rappresentati. Sebbene derivati dall'antichità classica secondo il gusto rinascimentale, essi rappresentavano valori spirituali come la generosità dei doni di Dio (il cesto di frutta) o l'azione salvifica di Cristo (i pesci).

Il chiostro - Il chiostro di Morimondo si presenta nella sua pianta essenzialmente medievale. I tre porticati sono del primissimo '500 e i due palazzi (lato nord e ovest) della metà del '700. Nonostante siano mutati nel tempo i criteri di costruzione, anche nell'architettura traspare la semplicità propria dell'ordine. A est si trova la sala capitolare, preceduta dalla nicchia dell'armarium; seguono poi l'androne dove era la scala al dormitorio, il locutorium e l'entrata al monastero. A sud sono rimaste le tracce del calefactorium e gli ambienti della cucina con il refettorio dei conversi.

Il lato est rappresenta il disprezzo di sé: l'ambiente rammenta al monaco di non confidare solo sulle proprie forze chiudendosi in sé. Il lato sud che guarda alla notte ricorda al monaco il disprezzo del mondo. Qui, dove il sole batte per molte ore al giorno, si trova ancora il sedile sul quale i monaci sostavano per ascoltare la lettura spirituale prima dell'ultima preghiera della sera. Il fianco ovest, dove sono situati i locali dei fratelli conversi, è rivolto al sole che sorge e ispira l'amore verso il prossimo. Qui si opera la carità verso i pellegrini, i malati e i poveri. Il lato nord è quello dove i monaci si attardavano nella preghiera fino all'ultimo raggio di sole: ricorda al monaco l'amore di Dio.

La sala capitolare - Lo stile architettonico di questo ambiente differisce dalle caratteristiche generali del monastero. Ciò risulta evidente dalla presenza di colonne slanciate in pietra (non in mattoni), e da una sensibilità che sembra anticipare il primo gotico; ma anche qui, come in tutti i locali dell'edificio, si riscontra una struttura semplice e lineare ma al tempo stesso elegante: per il monaco ogni attività, non solo la preghiera, rappresenta una lode a Dio.

Per accedere alla sala Capitolare i monaci scendevano alcuni gradini in segno di umiltà; qui, infatti, i religiosi si autoaccusavano davanti ai confratelli delle proprie mancanze nei confronti della Regola e l'abate assegnava le punizioni.

Sulla parete occidentale si aprono, ai lati della porta, due trifore: a queste si affacciavano i conversi per assistere alle riunioni, poiché non avevano diritto di accesso alla sala e non potevano prendere parte alle decisioni; proprio da questa consuetudine deriva il modo di dire: "Non avere voce in Capitolo".

Monastero del piano del chiostro - Costruito a partire dal 1135, fu trasformato in più riprese per adattarlo alle diverse esigenze dei monaci (soprattutto nel primo Duecento e nel Seicento), senza che si perdessero la struttura e la pianta del complesso. A differenza degli edifici cistercensi tradizionali (costruiti in piano), presenta complessivamente quattro piani.

Oltrepassando la porta si incontrano il locutorium (dove l'abate impartiva gli ordini per i lavori della campagna), il corridoio, dove si collegava l'antica scala (ora coperta da un cristallo trasparente), e la sala dei monaci, dove lavoravano i coristi: originariamente questa era divisa in due navate da otto archi a tutto sesto, ma nel XII-XIII secolo fu ripartita in vari ambienti e a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo fu trasformata nella residenza dell'abate commendatario con la costruzione di un corridoio lungo il lato ovest e di una grande sala. Procedendo ci si trova nello Scriptorium, il laboratorio dove venivano trascritti e decorati i codici. Qui in un sott'arco si individuano varie scritte e simboli databili intorno al 1160-70.

Piano inferiore al chiostro - Vi si accede tramite lo scalone costruito nel XVIII secolo dove aveva sede il Calefactorium, che raccorda, in maniera diversa rispetto al Medioevo, i vari livelli del monastero e il Loggiato chiamato anche Balconata (ambiente aperto, edificato tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo secondo il modello dei palazzi signorili rinascimentali).

Scendendo sotto il chiostro del corpo orientale, si trova la prima sala dei monaci, risalente al 1150, uno degli ambienti tra i più suggestivi e completi oltre alla Chiesa abbaziale: è suddiviso da otto campate con volte a crociera e ripartito in due navate da colonne simili a quelle della chiesa. Questo ambiente nel XIII secolo ebbe la funzione di officina per la tessitura. Procedendo, si scende nelle cantine del corpo orientale, che costituiscono il nucleo più antico del monastero, attualmente in restauro.

Le grange: la forza del monastero

Con il termine di "grangia" (da granica, ovvero deposito di grano) veniva indicato un insediamento rurale produttivo. Poteva nascere sulle basi di strutture agricole già esistenti, oppure essere costruita ex-novo. La grangia aveva grande autonomia rispetto alla sede abbaziale che l'aveva costituita, nonostante capo era stato messo un converso, un laico che, dopo aver fatto voto di povertà e dopo aver donato i propri beni al monastero, diventava membro della comunità monastica. Col crescere della struttura e del numero dei monaci, aumentarono le esigenze. La fonte principale di sostegno materiale fu il lavoro agricolo che veniva realizzato attraverso le grange, che fungevano sia da deposito di granaglie e attrezzature sia da ricovero dei conversi.

Per aiutare i monaci sacerdoti nelle attività manuali, nacque la vocazione del monaco (o meglio del fratello) converso: uomini adulti che pur non avendo seguito gli studi per essere ordinati sacerdoti, condividevano l'ideale monastico vivendo nella comunità. Portando le loro competenze professionali nel monastero, essi contribuirono alla rapida espansione dell'Ordine. Il lavoro non serviva solo per il cibo e per il commercio, ma anche per esprimere la carità a favore dei viandanti e dei pellegrini che bussavano per ottenere aiuto e cibo.

Al di là di qualche compito specifico, tutti i membri della comunità avevano un ruolo attivo nella giornata, scambiandosi i turni settimanalmente. In cucina vi era bisogno ogni giorno di chi aiutasse il cuoco. La dieta era rigorosamente povera. Occorreva sfornare il pane, preparare i pasti a base di verdure e legumi, oltre che curare i formaggi che venivano dai caseifici delle grange. A fianco della cucina vi era il refettorio: la collocazione dei tavoli e la presenza di un pulpito richiamavano lo spazio della chiesa. I monaci mangiavano due volte d'inverno (le giornate erano più corte) e tre volte d'estate (le giornate erano più lunghe e il lavoro dei campi richiedeva più energie).

Ma altre erano le mansioni al servizio della comunità: il cellario era colui che con l'amorevolezza di un padre, doveva sovrintendere alla prosperità della comunità: curava i conti, inventariava i beni, teneva i rapporti con le grange, provvedeva a ciò che serviva nel monastero: dal cibo per i pasti all'acquisto degli attrezzi agricoli, alle manutenzioni e alle riparazioni nel monastero e nelle grange, e curare le spese di costruzione (notevoli nel primo periodo).

Anche all'interno della comunità vi erano varie mansioni e ruoli che venivano svolti in luoghi specifici: primo fra tutti la sala dei monaci ove aveva sede lo Scriptorium. Qui monaci esperti preparavano le pergamene dalle pelli di pecora e altri invece si occupavano della trascrizione. I codici cistercensi sono caratterizzati da una redazione severa, leggibile, con chiari segni di interpunzione e decorata da iniziali sobrie e per lo più senza dorature. Scrittura e miniature seguono per più di un secolo uno stile unitario e costante in tutta Europa, distinto dalle mode correnti.

Come in ogni abbazia anche a Morimondo vi era una intensa vita di studio. Ciò è confermato dalla produzione effettuata nel corso dei primi secoli: il primo catalogo di codici fu iniziato nel 1170/1172 con una cinquantina di testi e fu poi continuato fino ali 'inizio del XIII secolo, arrivando a circa 90 volumi. Nell' armarium della comunità (cioè nella biblioteca) vi erano diverse categorie di libri: da quelli liturgici ai testi sacri alla Regola di San Benedetto. Tutti costituivano l'alimento per la preghiera comune. La maggiore quantità riguardava i commenti alla Sacra Scrittura dei Padri della Chiesa, che formavano la colonna portante dello studio del monaco.